Nessuno creda che gli 8.5 miliardi di dollari che Microsoft scuce per avere Skype siano un affare per borsaioli o appassionati di nuove tecnologie, perché puntano dritto alle tasche di tutti e la dicono lunga su com’è cambiato e cambia il mondo della comunicazione. Nessuno è fuori da questo mercato, perché nessuno è privo di strumenti che usiamo per telefonare e comunicare, ma a loro volta generano informazioni su quel che facciamo, ci piace e saremmo disposti ad acquistare. Ciascuno di noi si lascia alle spalle, in continuazione, una bava digitale che ne descrive il profilo. La partita economica si gioca sulla proprietà e l’utilizzabilità delle banche dati e della clientela, con effetti niente affatto scontati.
Skype è un sistema conosciuto da molti utilizzatori di computer, che consente di scambiare messaggi e videochiamare gratis. La domanda che molti di questi cittadini si pongono, oggi, è: come fa a valere tanto quel che io uso senza pagare? Risposta: non è il fatturato a segnare il valore del sistema, ma la quantità di persone che lo usano e la sua semplicità. Già, ma da dove arrivano i soldi?
Nel 2005 Skype era stato venduto dai fondatori (uno svedese e un danese) a eBay, per 2.6 miliardi di dollari. Soldi benedetti, per chi vendette, ma buttati, per chi comperò e non riuscì a valorizzare il giocattolo. Quindi se ne disfece, a prezzi di saldo, tanto che finì nuovamente nelle mani dei creatori (nel frattempo divenuti assai più ricchi). Ora Microsoft paga 3 volte il valore di due anni fa, 10 volte il fatturato e 32 volte gli utili una società in perdita. E’ vero che una parte del traffico è a pagamento (quando si chiamano telefoni fissi o mobili non connessi a internet), ma si tratta di una percentuale minima. Sono impazziti? No, affrontano una scommessa ragionata: non solo la banca dati che Skype si porta dietro, e quotidianamente genera, è preziosa, ma il servizio è così accattivante e semplice da potere essere un’ottima attrattiva per piazzare terminali. E se una volta la polpa delle telecomunicazioni stava nella vendita del traffico (la bolletta, per intendersi), ora è nei terminali e nei servizi. Attenti alle conseguenze.
Quando un ragazzo chiede di avere una piattaforma per i giochi non si comporta come quando noi chiedevamo la bicicletta, aspirando a due ruote, i pedali e la catena, ma indica una marca. Lo fa perché a quella sono legati determinati giochi e una determinata comunità di amici. Se prendi i giochi di una piattaforma non li puoi usare nell’altra, che è come dire che se compre i dischi di una marca non li puoi sentire sullo stereo di un’altra. Lui lo sa. Skype, ad esempio, sarà montato su Xbox, consentendo la comunicazione gratis (in realtà si paga la connessione, ma la si paga comunque, anche se si fa l’eremita).
Fra i più cresciuti c’è chi sceglie il proprio telefono perché è bello esteticamente, chi per moda, chi per i servizi che offre. Questi ultimi sono i più comici, dato che la gran parte di loro si limita a funzioni rudimentali (come i tanti che s’aggirano con i tablet, non sapendo cosa farne e, soprattutto, non sapendo dove ficcarseli). Conoscendo il mercato i produttori mettono il turbo alle innovazioni, in modo che il tuo vanto di ieri sia il rudere di domani. Tutti i fabbricanti di terminali tendono a pensare che sia proprio il cliente che ha in mano un loro prodotto. Siccome telefona, e per farlo ha bisogno di un abbonamento, anche la compagnia telefonica lo considera un proprio cliente. Se opera con la propria banca, per via telematica, anche la banca lo considera un proprio cliente. Sicché, nel fare certe operazioni, ciascuno di noi è, contemporaneamente, cliente di troppi. Chi comanda, allora? I produttori dei terminali. Sono loro che dicono alle banche: se vuoi che i tuoi clienti operino devi adeguarti alle nostre condizioni. E vale la stessa cosa per chi vende musica, giochi, informazione e via elencando. Se esistesse l’antitrust mondiale, dovrebbe occuparsene.
Gli operatori telefonici si salvano? No. Skype ne è l’esempio, in generale lo è il wifi: grazie a questi sistemi pago la connessione, ma non pago più le telefonate. Le Telecom erano padrone, ora sono facchini che portano in giro la merce altrui.
Riassumendo: i soldi sono i nostri, non spesi in telefonate ma in telefoni, sistemi operativi, tablet e computer; l’affare consiste nell’appropriarsi del cliente, fregando gli altri che lo ritengono proprio; la ricchezza non va verso chi allarga la rete, ma verso chi blinda gli ingressi, in modo da non farsi scappare clienti cui, per altro verso, vende meraviglie in continuo aggiornamento. Rimane un problema (a parte quelli di privacy e libertà di mercato): nel mentre Bill e Steve diventano sempre più ricchi, chi remunera l’evoluzione della rete? Questo è il punto debole del modello. Mentre noi italiani, inventori del telefono, detentori di quella che fu una grande multinazionale delle telecomunicazioni, nonché pionieri della telefonia mobile di massa, siamo riusciti ad essere solo consumatori. Felici di privatizzazioni dissennate e senza mercato, utili solo a strangolarci con le nostre stesse mani.
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