Tra Villa Certosa e la Certosa benedettina dove voleva rifugiarsi Piero Marrazzo c’è l’abisso che separa l’Italia libertaria da quella cattocomunista. La prima simbolo di un forse eccessivo ma energetico amore per la vita. La seconda memento penitenziale e colpevolizzante delle impervie vie che talvolta imbocca l’eros.Eppure, non lo si dirà mai abbastanza, non per storie d’amore o di sesso devono cadere i potenti. Caso mai per manifesta ipocrisia o debolezza e menzogna di fronte al ricatto. Allora perché la fuga in convento di Marrazzo?
Se Berlusconi non è corso in un pubblico confessionale a fare ammenda è perché può ammettere di essere stato forse troppo umano ma mai diabolico, cioè dannoso per la collettività.
La libertà di sensi e di costumi non equivale al tradimento delle idee o dei programmi concordati col popolo elettore. Dunque niente cenere sul capo. Ma nel campo cattocomunista non si può.
A mandare in convento il povero Marrazzo non è un Amleto che scaccia Ofelia come nell’omonimo dramma shakespeariano, ma un cipiglioso inquisitore senza pietà che si chiama moralismo. Che gli ha fatto scrivere al momento delle dimissioni che sono state provocate dalle debolezze della sua «vita privata». Non è così, o meglio non dovrebbe essere così.
Ha sbagliato solo a non denunciare subito i suoi torturatori, a mettersi nelle loro mani. Del resto non ci importa. A noi liberali, libertari e libertini dichiarati. Il suo problema sono i suoi compagni, cupi custodi della peggiore tradizione sessuofobica cattocomunista, fustigatori di peccati scambiati per reati.
È stata la loro cultura e la loro mentalità a spingerlo fra i monaci invece che fra i medici o gli amici, a seconda che ora prevalga in lui il male del corpo o quello dello spirito. Pensano così di salvargli l’anima, ma vogliono in realtà solo salvare le apparenze. Del loro mondo dominato da uomini come Gad Lerner che strepitano sulla presunta lesa dignità delle donne, senza che queste ultime abbiano mai protestato in proprio. Di psicanalisti marxisti come Umberto Galimberti per i quali i trans, più che il decoro delle strade, minacciano addirittura la stabilità sociale.
Di gay castristi come Gianni Vattimo che affidano il riconoscimento dei loro diritti alla caduta del capitalismo. Campa cavallo, e per fortuna!
Al «pèntiti finché sei tempo» del Commendatore, risponde fieramente «no, giammai» don Giovanni, per rispetto di sé e della vita. Non è al priore che dovrà invece rispondere il povero governatore, ma a una terribile divinità bacchettona divoratrice dell’unica libertà apolitica che ci resta davanti alla morte: quella di tentare di essere, anche per una sola volta, liberi e felici. E non importa come. (il Giornale)
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