Da più parti si auspica una grande coalizione: un governo fra Forza Italia e Pd, o almeno un accordo bipartisan per realizzare riforme che, si ritiene, né il centrodestra, né il centrosinistra da soli sarebbero in grado di varare. Mario Monti ( Corriere, 3 febbraio) propone che un simile accordo venga stipulato prima delle elezioni, in modo che diventi vincolante qualunque sia la coalizione che le vincerà. Persino Silvio Berlusconi fa capire di non essere pregiudizialmente contrario.
Dopo quindici anni in cui la politica ha navigato a vista, forse è venuto anche il momento delle grandi coalizioni. Ma la domanda da porsi è se una coalizione fra Forza Italia e Pd renda più probabili le riforme. Non è detto. Un esempio: un'alleanza fra avvocati e notai — categorie ben rappresentate da Forza Italia — e i sindacati, rappresentati dal Pd, probabilmente garantirebbe stabilità al governo, ma certo non consentirebbe né la riforma delle professioni né quella del mercato del lavoro.
Romano Prodi ha fallito, ma la sua strategia era sottile. Partiva dall'osservazione che in Italia non esiste una maggioranza in grado di fare le riforme da sola. I riformisti devono quindi trovare degli alleati. Prodi li aveva identificati nella sinistra radicale, alla quale aveva offerto un patto chiaro: riforme in cambio di redistribuzione. La sinistra accettava i provvedimenti Bersani, non chiedeva che venisse abolita la legge Biagi; in cambio avrebbe ottenuto una forte redistribuzione del reddito a favore del lavoro dipendente e delle famiglie più in difficoltà.
All'inizio l'accordo ha retto: non è certo la sinistra che ha ostacolato Bersani, né ha strillato quando il governo ha confermato la legge Biagi. Chi non è stato ai patti sono piuttosto i riformisti: di redistribuzione in questi due anni se ne è vista molto poca. È interessante chiedersi perché.Prodi si è illuso che per mantenere l'impegno alla redistribuzione fosse sufficiente negoziare ogni legge con i sindacati, che certo non rappresentano i ricchi, ma neppure i poveri. (Errore tipico di una sinistra che ancora pensa che non si possa far nulla senza l'accordo dei sindacati). Un caso emblematico è il modo in cui nell'estate scorsa sono stati distribuiti i fondi stanziati per aumentare le pensioni minime. La quota maggiore non è andata alle famiglie più povere, bensì alle fasce di reddito più presenti fra gli iscritti ai sindacati. Lo stesso è accaduto quando il governo ha deciso di abbassare l'età minima della pensione, un provvedimento che ha favorito i lavoratori anziani, spesso iscritti ai sindacati, e che è stato pagato per una metà tassando i giovani precari, raramente iscritti a un sindacato.
Per la verità accade anche in Francia. Sarkozy ha delegato la riforma del mercato del lavoro a sindacati e imprenditori. Non sorprendentemente l'accordo che hanno siglato (si legga Francis Kramarz, sul sito telos-eu.com) non cambia sostanzialmente nulla, in particolare non fa nulla per aiutare i giovani.
Per giudicare se un accordo politico sia auspicabile occorre innanzitutto chiedersi se esso renda più facile attuare alcune riforme. Anziché dagli schieramenti meglio quindi partire dai contenuti, da un'analisi dei problemi che il governo, qualunque esso sia, dovrà affrontare dopo le elezioni. (Corriere della Sera)
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