Perché Veltroni, dopo aver eletto la semplificazione del sistema politico a suo vessillo e principale atout elettorale, dopo aver sfidato Berlusconi a correre da solo come avrebbe fatto lui, dopo aver predicato la fine delle alleanze tra soggetti non omogenei e dopo aver incassato per tutto questo consensi quasi unanimi, al pronti-via fornisce una sbalorditiva dimostrazione di incoerenza e forma un cartello elettorale con Di Pietro? Perché rischia di perdere tutto lo slancio di novità sul quale aveva fondato i presupposti della sua corsa per abbracciare uno che sta alla sinistra come il diavolo all’acqua santa? Un uomo law and order (con qualche licenza «poetica» personale, per la verità), che nella sua vita precedente ha arrestato o indagato un bel numero di persone poi finite nel Pd? Perché sfida l’ostilità di stretti collaboratori, di compagni d’avventura e di parecchi giornali della sua area politica pur di imbarcare l’ex magistrato, la contraddizione vivente dell’auspicio veltroniano di una campagna elettorale non urlata, uno che quando indossava la toga a proposito di Berlusconi diceva: «Io quello lo sfascio»?
Perché Veltroni concede a Di Pietro, dietro vaghissime promesse di un futuro scioglimento nel Pd, di correre col proprio simbolo, mentre nega la stessa possibilità a formazioni politicamente e ideologicamente assai più affini alla sua storia? L’altra sera in tv l’ex sindaco di Roma pontificava: quello di Prodi è stato un ottimo governo tradito da una maggioranza raccogliticcia che ha cominciato a sparargli addosso dal primo giorno. Bene, uno dei cecchini più solerti era Tonino il giustiziere, che si è accapigliato con mezzo Consiglio dei ministri prima di concentrarsi nel duello all’ultimo sangue con Mastella, prodromo del patatrac politico-grottesco-giudiziario sul quale è poi rovinato Prodi. Basterebbe per tenerlo lontano come la peste, invece lo si arruola senza un tentennamento.
E allora che cosa si nasconde dietro queste nozze frettolosamente consumate nel loft? Perché, a domanda, il leader del Pd svicola, non trovando neppure il coraggio di confessare d’aver semplicemente ceduto all’attrazione per il pugno di voti portati in dote dall’ex pm? Perché c’è ben altro? Mistero.
Di certo, come ha ricordato ieri anche il capo dello Stato, il rapporto tra politica e giustizia è uno dei veri, grandi problemi dell’Italia. Ed è uno dei primi nodi che, chiunque vinca, il prossimo governo dovrà sciogliere. La lobby in toga è potente e ormai dovrebbe essere chiaro che solo un accordo bipartisan può produrre risultati. Grazie a Veltroni, possiamo dire sin da ora che sarà l’ennesima occasione persa: con al suo fianco Di Pietro, la quinta colonna della magistratura, il segretario del Pd al tavolo della riforma della giustizia non potrà neppure sedersi. E forse non è solo un caso. (il Giornale)
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