L’inflazione italiana schizza verso l’alto, è vero, ma è pur sempre inferiore alla media europea, a sua volta inferiore a quella statunitense. Con questo non voglio dire che non ci si deve allarmare, ma solo che il termometro dell’inflazione non è in grado, da solo, di dire molto sulla malattia che ci affligge. Oltre tutto non è neanche in grado di descrivere l’impoverimento.
L’inflazione è un indice che misura il rapporto, in momenti diversi, fra i prezzi di un determinato paniere di merci. Il dato che oggi si strilla si riferisce all’aumento registrato nel gennaio 2008 rispetto al gennaio 2007, il più alto a partire dal 2001. Ma oltre ai prezzi che aumentano si devono tenere presenti anche altri dati. Per esempio il reddito disponibile, ovvero la quantità di denaro che le famiglie possono effettivamente spendere. E qui sono dolori, perché se le tasse locali crescono del sessanta per cento è evidente che dal portafoglio dei cittadini si devono togliere quei soldi, così che il senso d’impoverimento non è dato solo dal tasso d’inflazione, quindi dal crescere dei prezzi, ma anche dall’avere meno denaro a disposizione per pagarli.
L’inflazione in sé, poi, non ha alcun significato esplicativo: se i prezzi crescono del cinque per cento ed i redditi del dieci siamo tutti più ricchi, non più poveri. Ed è proprio questo il problema italiano: la nostra inflazione, che oggi accelera, cresce meno che altrove, ma il nostro prodotto cresce molto meno che altrove, e comunque meno della metà dell’inflazione. Quindi siamo più poveri.
Per affrontare il problema, pertanto, non serve istituire figure ridicole, del tipo “mister prezzi” (a proposito, ha detto che i consumatori dovrebbero ribellarsi, e adesso che lo ha detto lui è tutto più chiaro), ma rilanciare fortemente la produttività, quindi la crescita. A frenarci ci sono due vincoli. Uno è esterno, ed oltre ai francesi sarà il caso che qualche altro governo europeo cominci a porre il problema della Banca Centrale Europea, impegnata a combattere una battaglia del secolo scorso, nel mentre si fanno sentire i sintomi del rallentamento della crescita. Il secondo è tutto interno, con un fisco che non solo pesa insopportabilmente, ma punisce proprio chi dovrebbe essere premiato, ovvero chi lavora di più e meglio.
Il ritardo economico dell’Europa ha anche radici istituzionali, e tale ritardo si amplifica in Italia, dove le istituzioni (e la spesa) hanno smesso da tempo d’essere governate. Per quanto non sia simpatico, stiamo vivendo un esempio di quanto i mercati non siano indipendenti dalla politica, e di quanto le politiche sbagliate danneggiano tutti.
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