Il ritorno in cella di Bruno Contrada - che di sua volontà ha voluto lasciare l’ospedale Cardarelli, dove era stato ricoverato - non chiude questo «caso» che è insieme giudiziario, umano e politico. Semmai lo rende ancor più controverso. Una pronuncia del Tribunale di sorveglianza aveva stabilito alcuni giorni or sono che l’ex dirigente del Sisde - su cui pesa una condanna definitiva a 10 anni di carcere per associazione mafiosa - poteva essere ben curato in carcere e che le sue condizioni non erano tali da richiedere il ricovero. Diagnosi, questa, che aveva ottenuto ampia approvazione negli ambienti della sinistra, dove l’ex poliziotto è inviso. Invece è avvenuto un ripensamento.
Contrada è stato trasferito nel Cardarelli per una verifica delle sue condizioni di salute. Ma nel tardo pomeriggio di ieri lo stesso Contrada ha firmato le sue dimissioni dall’ospedale dov’era piantonato. Nonostante il parere contrario dei medici, preferisce attendere nel penitenziario militare di Santa Maria Capua Vetere gli sviluppi delle procedure avviate per accertare se debba o no godere di agevolazioni quali il differimento della pena o gli arresti domiciliari.Questi garbugli cavillosi s’intrecciano con le proteste d’innocenza che Contrada ribadisce - proprio perché si ritiene innocente non ha chiesto la grazia - e con l’opposizione delle associazioni antimafia a ogni misura di clemenza nei suoi confronti. Contrada ha in sostanza rifiutato la benevolenza dello Stato così come ne rifiuta le sanzioni. «Non vuole la libertà, ma il suo onore», spiegano i familiari.
La polemica coinvolge - non poteva essere diversamente - Adriano Sofri: altro condannato in via definitiva che si proclama vittima d’un errore giudiziario, ma che a differenza di Contrada gode di un sostegno politico e mediatico formidabile. Cosicchè la sua detenzione, finché è durata, ha avuto le caratteristiche d’una passerella da star, con interviste e articoli a profusione.
Un dibattito sulla innocenza e sulla colpevolezza di Sofri e di Contrada porterebbe solo alla ripetizione di elementi d’accusa e di difesa già detti e ripetuti fino alla nausea. Ma nell’alluvione di parole spiccano, sulla barricata «progressista», alcuni concetti di stupefacente arroganza. Sofri è stato punito, si dice o si sottintende, per un crimine non esecrabile, l’uccisione d’un commissario di polizia. E poi c’era stata la morte dell’anarchico Pinelli, e poi sono trascorsi da quell’ammazzamento 35 anni, non stiamo a sottilizzare. Contrada è stata ritenuto responsabile d’un qualcosa di odioso e di inescusabile, la vicinanza alla mafia. Niente indulgenza...
La mia personale opinione è che il fenomeno mafioso e i reati dalla mafia compiuti siano ripugnanti, da punire con spietata severità. A patto tuttavia che ci si muova nell’ambito dei fatti, e non di quel «concorso esterno in associazione mafiosa» che è stato senza dubbio uno strumento utile per colpire certi legami pericolosi, ma che si presta a una utilizzazione giudiziaria smisurata (vedi Andreotti). La mia personale opinione è inoltre che il poliziotto siciliano in Sicilia si muova professionalmente tra contaminazioni, compromessi, frequentazioni facilmente trasformabili in collusione con la mafia. Ma altra cosa è spargere sangue - di Calabresi o di vittime delle cosche - e altra cosa è l’intrattenere contatti equivoci e subire pesanti condizionamenti ambientali.
L’altalena di assoluzioni e condanne che ha contrassegnato il percorso giudiziario di Contrada - nell’ambito, ripeto, di quel reato a volte gassoso che è l’associazione mafiosa - non placa le perplessità, anzi. Ma questo concerne la sostanza delle accuse, sulla quale la giustizia ha posto il suo sigillo irrevocabile. Tutt’altro discorso vale per la «qualità» dei crimini addebitati a Sofri e a Contrada. Deaglio e Fo la pensino come vogliono, io resto del parere che l’assassinio di Calabresi sia stato più feroce d’ogni concorso esterno mafioso. (il Giornale)
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