Quando, qualche giorno fa, il governatore del New Jersey, Jon Corzine, ha firmato la legge che abolisce definitivamente la pena di morte, alcuni parenti delle vittime dei delitti più gravi hanno giurato di fargliela pagare alle prossime elezioni. E i sondaggi dicono che il 53 per cento degli abitanti dello Stato è ancora a favore delle sentenze capitali.
Storie come questa possono spingere a catalogare la moratoria approvata ieri dall'Assemblea generale dell'Onu come una vittoria morale, una bella pagina della battaglia per i diritti umani scritta col contributo determinante dell'Italia, che, però, non è destinata a produrre cambiamenti reali. Abbiamo risvegliato molte coscienze, ma non sarà questo a cambiare il comportamento dei regimi autoritari e, forse, nemmeno quello di un Paese democratico come gli Usa.
Tutto ciò è vero solo per chi pensava che bastasse un voto per sovvertire regole antiche, per cambiare lo stato d'animo di un'opinione pubblica. Chi, invece, è consapevole che questa sarà, comunque, una battaglia lunga e difficile, non può non considerare un successo che l'anno apertosi con l'esecuzione di Saddam Hussein si chiuda con l'approvazione della moratoria. E, mese dopo mese, le cose hanno cominciato a muoversi in Asia — dove la Cina continua a fare largo uso della pena capitale, ma nella quale la Corte Suprema ora cerca di frenare i tribunali — come negli Usa. Qui è vero che i più restano favorevoli alla pena di morte (che nessuno dei principali candidati alla Casa Bianca pensa di abolire), ma la maggioranza non è più lo schiacciante 80 per cento di 12 anni fa. La decisione votata ieri può rappresentare una metà — quella etica — di una tenaglia capace di trascinare avanti, accelerare questo processo.
L'altra metà è composta da tre evidenze pragmatiche: la condanna a morte rende irreparabile il danno in caso di errori giudiziari (scoperti sempre più spesso con le verifiche sul Dna), non funziona come deterrente (gli Stati Usa con la pena di morte sono anche quelli nei quali si commettono più delitti gravi) e, addirittura, costa di più rispetto a un sistema che prevede al massimo l'ergastolo.
Nel '92, pochi mesi prima del voto che lo avrebbe portato alla Casa Bianca, Bill Clinton interruppe la campagna elettorale per presenziare nel suo Stato, l'Arkansas, all'esecuzione di un minorato mentale condannato a morte. Oggi non lo rifarebbe. E quell'uomo non sarebbe più mandato a morire. Oggi vediamo, invece, Barack Obama che, pur non respingendo le sentenze capitali, dice apertamente che uccidere il condannato non rappresenta un deterrente contro il crimine. (Corriere della Sera)
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