La pazienza di Prodi a segno nel risiko dei poteri, grazie alla Delta force dell’Iri. Incassata la vittoria in Telecom, tocca ad Alitalia. Prima del grande valzer delle nomine primaverili. Tra Enel, Eni e manovre Generali.
Pazienza, “la più eroica delle virtù”, la chiama Giacomo Leopardi nello Zibaldone. Ma anche patimento dice Dante nel canto X del Purgatorio (quello dei superbi). Per Romano Prodi è l’una e l’altra, soprattutto è la chiave dell’arte di governo, come ha spiegato alla Stampa. Ha pagato finora in politica, paga ancor più nel risiko economico che il presidente del Consiglio sa giocare con astuto realismo. Incassato il successo Telecom, il più grande dopo la fusione Intesa Sanpaolo, la prossima partita da chiudere è Alitalia. Prodi si prepara a esserne sicuro vincitore, perché è riuscito nel capolavoro di giocare su ogni tavolo grazie a una formidabile rete manageriale costruita vent’anni fa ai tempi dell’Iri. Ne fanno parte gli eredi dei boiardi, che occupano i piani alti di banche o grandi gruppi, e i fedelissimi tecnocrati che occupano gli uffici di Palazzo Chigi. Per capire la sostanza del prodismo e la sua forza d’urto, bisogna guardare ad alcuni importanti consigli di amministrazione. La prima banca italiana è presieduta da Giovanni Bazoli, l’uomo che, assieme a Beniamino Andreatta, convinse Prodi a scendere in campo nel 1996 contro Silvio Berlusconi. In Telecom è uscito di scena Marco Tronchetti Provera, contro il quale un anno fa era stato lanciato Angelo Rovati, centravanti di sfondamento più che pivot. Franco Bernabè non può definirsi in senso stretto seguace del professore, ma è il frutto di una tipica mediazione prodiana, grazie a Bazoli che ha convinto prima Cesare Geronzi poi il pacchetto di mischia francese in Mediobanca (con i tallonatori Bolloré e Ben Ammar). Alla presidenza dell’Enel c’è Piero Gnudi, già responsabile della privatizzazione e della liquidazione dell’Iri assieme a Pietro Ciucci che fu l’ultimo direttore generale del mastodonte pubblico e ora è al vertice dell’Anas, dopo essere passato per la Società Stretto di Messina. All’Eni, invece, il presidente Roberto Poli e l’ad Paolo Scaroni non hanno il distintivo del professore: vengono dall’industria privata e sono stati nominati da Giulio Tremonti. Ma il cda è presidiato da Renzo Costi, giurista reggiano, membro del Mulino, docente a Bologna, e soprattutto da Alberto Clo, grande esperto di energia, amico personale di Prodi (è l’uomo che durante il rapimento Moro ospitò la fatidica seduta in cui lo spirito evocato pronunciò la parola “Gradoli”). Clo siede in molti consigli, tra cui Luxottica, De Longhi, Italcementi, Asm Brescia e Atlantia, la holding di Autostrade, il cui presidente è Gian Maria Gros Pietro. Come accademico, Gros Pietro ha incrociato spesso la strada di Prodi, visto che entrambi coltivano la politica industriale; come manager si è scontrato sulla fusione con gli spagnoli di Abertis. L’operazione, annunciata dall’azionista di riferimento, Gilberto Benetton, è apparsa al professore, ancora alle prese con l’insediamento del governo, come una provocazione. Tempestivo, e non certo per caso, Antonio Di Pietro si è messo di traverso. Dopo un estenuante braccio di ferro, gli spagnoli hanno gettato la spugna e all’inizio del 2008 usciranno dalla finanziaria di comando convertendo le loro azioni in una quota di Autostrade. Evidentemente non conoscono la virtù della pazienza.
I Benetton, adesso, debbono cercare nuovi partner. Dopo la legnata Telecom, restano a bagnomaria nelle infrastrutture, mentre Di Pietro continua a far fuoco e fiamme sulla convenzione Anas. La famiglia Benetton ha profondamente deluso Prodi. Intanto perché non ha alcun senso di riconoscenza. Lui ha offerto una rendita tariffaria sicura e un futuro luminoso ben oltre i maglioncini colorati. E loro non hanno rispettato i patti, invece di investire hanno dato una mano a Tronchetti, flirtando addirittura con l’arcinemico Berlusconi.
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