Sarà anche falsa, e quindi non vera, di certo però è verosimile. «Dalle fogne li ho fatti uscire e nelle fogne li faccio tornare». Testo e musica di Silvio Berlusconi. Per chi sta in via della Scrofa e dintorni, tutto il resto è noia e questo è quel che resta di una lunga marcia verso il nulla.Erano partiti che erano ancora brutti, sporchi e cattivi, la più «impresentabile» fra le forze politiche della cosiddetta Prima Repubblica, quella per la quale era stato addirittura inventato un arco costituzionale ad escludendum: i reprobi, i reietti, i ghettizzati, i neofascisti. Si ritrovarono nel ciclone di Tangentopoli senza più i capi storici d’un tempo, un segretario giovane, una schiera di rampanti colonnelli che per gran parte in Parlamento non c’era mai stata, precari della vita e professionisti di una politica di minoranza, abituati a discettare sui destini del mondo, perché tanto il mondo non li stava a sentire, e però mai che gli fosse toccato in sorte non dico un ministero, ma una grande città, un’azienda municipalizzata, un ente. Non contavano nulla, non sapevano nulla. Non era colpa loro, si dirà, ma è altrettanto certo che avevano le loro colpe.Svegliandosi un bel mattino, si accorsero che quelli della Prima Repubblica si erano dileguati come ladri nella notte, era tutto un fiorir di rovine, era tutto un tintinnar di manette. Non avendo mai avuto potere, gli era stata comunque risparmiata la tentazione di approfittarsene e di lucrare in proprio, ma va anche detto che c’era un’onestà di fondo che li cementava: a scegliere di stare con i vinti e non con i vincitori di solito sono gli idealisti, gli inadatti e gli stupidi. E questo erano, più o meno in parti eguali, più o meno mischiati, più o meno collegati a uno solo di quei termini. I nomi metteteceli voi, ma vedrete che il conto torna.Rimasero insomma in piedi fra le macerie (altrui), uno slogan che a loro piaceva e poiché l’accusa che in quella stagione feriva mortalmente era quella di ladro, e non più quella di fascista, la potevano gridare allegramente e a ragion veduta, perché nessuno poteva più tenerli chiusi nel ghetto degli appestati. Erano saltati i catenacci, non teneva più il politicamente corretto delle ideologie.
In quel clima e con quei chiari di luna lividi di regolamenti di conti, ci fu chi, come il principe delle fiabe, ebbe il coraggio di baciare il rospo che ancora non sapeva bene se, come e quando ce l’avrebbe fatta a trasformarsi in essere umano, politicamente parlando. Disse il principe-Cavaliere che, avesse votato a Roma per le elezioni di sindaco, avrebbe votato per Gianfranco Fini, il rospo-segretario di un Movimento sociale che di Fiuggi conosceva solo l’acqua minerale targata Ciarrapico. È così che cominciò la lunga marcia verso il nulla. Bisogna capirli e in fondo comprenderli. Se non sei mai stato al banchetto del potere, non hai uso di mondo e la prima cosa che fai è mettere i piedi sul tavolo e circondare il piatto per paura che te lo portino via. Sempre politicamente parlando, questo significa che eccedi in presenzialismo, dici la tua su tutto, straparli, smentisci e poi ricominci. C’era chi esternava, c’era chi epurava, c’era chi ballava. Non uno che studiasse, non uno che s’interrogasse. Si erano subito convinti che la Prima Repubblica fosse caduta per merito loro. Non ne beneficiavano per quello che, applicato al calcio di Arrigo Sacchi, era stato chiamato il fattore c, ovvero il fattore culo, no: era il frutto di una sapiente strategia, il risultato di una serie di tattiche rivelatesi vincenti. Su quali fossero, si sorvolava. L’ultima analisi politica di cui potessero fregiarsi parlava del «Fascismo del 2000». E abbiamo detto tutto.
Di questa eterogenea combriccola, Gianfranco Fini era il migliore, e questo aiuta a capire cosa fossero gli altri. Ne conosceva i protagonisti come le sue tasche, era in grado di valutarne appetiti e fedeltà, scatti di orgoglio e conformismi. Non capendo nulla di sistemi politici aveva inizialmente schierato il suo partito per il proporzionale, e infatti fu il maggioritario che nel vincere e nell’inserirlo di forza nel sistema di alleanze del centrodestra fece la sua salvezza.
È a questo punto che nella lunga marcia venne accelerato il passo. In una logica bipolare, bisognava tenersi stretti al grande Demiurgo che l’aveva resa possibile. Occorreva perciò rifondare il partito, liberarlo da ogni scoria e da ogni impurità, evitare che gli potesse essere rinfacciato il passato, che qualcuno potesse rimetterlo ancora una volta nel ghetto. Andava insomma tolta quella camicia nera che era stata in fondo la sua unica ragion d’essere. E pazienza se il sarto non ne aveva una nuova, e di un altro colore, pronta per la bisogna. Le avrebbero provate strada facendo, una con i disegni della coccinella, un’altra con l’emblema dell’elefantino, una di foggia liberale, un’altra di taglio liberista, una con le iniziali della Destra sociale, un’altra con quelle del Partito popolare... Tranne la nera, ossessivamente andava bene tutto. Anche nudi, ma alla meta (del potere). Più o meno recalcitrante, più o meno osannante, la classe dirigente di quella che ora si chiamava Destra nazionale seguiva, come l’intendenza di Napoleone. Partito cesaristico, l’idea che il segretario-presidente potesse avere torto non era contemplata. Ci fu «l’incidente della Caffettiera», quando alcuni colonnelli dissero che forse era uscito di testa. Lui li degradò sul campo e loro rientrarono nei ranghi.
Comunque, i cinque anni al governo furono magici. Ministri e sottosegretari valevano uno schierarsi sulla linea, spesso un vero e proprio sdraiarsi a tappetino sulla porta del principale-alleato. In fondo, era l’assunto, il Cavaliere è anziano e Fini è il suo delfino. Ne prenderà il posto, e noi con lui.
Quando arrivò la sconfitta apparve sempre più chiaro che qualcosa non quadrava. Il sistema bipolare premiava gli alleati di governo, ma lo stare all’opposizione ne faceva crescere l’insofferenza. Perché il Grande Demiurgo non si decideva ad andarsene ai giardinetti lasciando il posto ai veri professionisti della politica?
Il nuovo partito di Storace avrebbe dovuto far aprire gli occhi. Ma Storace venne subito derubricato da «ex ministro» a «ex autista di Michele Marchio», perché nel gioco della diffamazione interna quelli di Alleanza nazionale non avevano dimenticato nulla del loro essere stati missini. Dove poteva arrivare un partitino così, nella logica bipolare, nell’idea del partito unico, nell’approdo ai Popolari europei? Era solo un incidente di percorso. E infatti... Tredici anni dopo, Alleanza nazionale è un partito senza identità che nella corsa affannosa del suo presidente verso il centro e verso una successione all’insegna del centrismo moderato se lo ritrova ora occupato più di prima e in più con il suo fianco destro questa volta presidiato da altri. La nuova legge elettorale vedrà i grandi partiti scegliersi gli eventuali alleati di governo non prima delle elezioni, ma dopo. Il cerchio si chiude e c’è sempre una nemesi politica e anche una lezione. Chi con Berlusconi guarisce, di Berlusconi perisce. (il Giornale)
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