giovedì 28 agosto 2008

Solo le quote possono evitare nuovi ghetti. Ferdinando Camon

Le domande che nascono vedendo tanti figli di immigrati nelle nostre scuole sono tre: se la loro presenza rallenti lo svolgimento delle lezioni; se si possano iscrivere alle nostre scuole così come arrivano o se debbano prima imparare l'italiano; se possano iscriversi dove vogliono, e cioè alla scuola più vicina, o se sia meglio distribuirli per quote, in modo che non ci siano più classi che hanno il 20 o il 30 o perfino il 40 per cento di studenti d’origine straniera. A Torino c'è addirittura una classe in cui gli studenti sono tutti stranieri. Questi sono problemi, per così dire, normali: nel mondo scolastico non c’è più l’asprezza che c’era quando si discuteva se fosse opportuno che i figli degli islamici, nelle nostre medie superiori, formassero classi separate per non essere mischiati con i figli, e soprattutto le figlie, dei cristiani. In quest’ultimo caso le conseguenze erano disastrose: se si accoglieva quella richiesta, si permetteva che nella nostra repubblica si formassero nuclei di civiltà separata e ostile. Noi cerchiamo l’integrazione con chi arriva, non possiamo accettare che chi arriva cerchi la separazione da noi.

C’è a Mestre una scuola media che si chiama «Giulio Cesare», dove i genitori degli scolari italiani han deciso di boicottare la classe prima sezione G, perché ha un numero esorbitante di stranieri. Dunque sono i genitori ad accorgersi che i figli, nelle classi con tanti immigrati, non imparano niente. La settimana prossima l’assessore all’Istruzione della regione Veneto, Elena Donazzan, avrà un incontro su questi temi col ministro Gelmini. Speriamo che il ministro si convinca. Perché in ogni classe, dalle elementari alle medie superiori (l’università è un’altra cosa), l'insegnante regola l’avanzamento del programma sulla capacità di apprendimento dei più indietro. Se prima un argomento non è ben appreso dagli ultimi, l’insegnante non va avanti. Svolgere un programma è come costruire una casa: non puoi collocare i mattoni del primo piano se prima non hai piantato le fondamenta.

Questo comporta che, dov’è forte la presenza di stranieri, lo svolgimento del programma va a rilento. Non perché i bambini stranieri siano meno dotati: non si tratta di doti, ma di basi. Anzitutto, basi linguistiche, e cioè possesso dell’italiano. Nelle superiori, ci sono ragazzi dell’est-europeo che rendono moltissimo, i romeni specialmente, perché per loro è facile superare il gap linguistico, che è ridotto, e superato quello vanno di corsa, spinti dalla poderosa «vis a tergo» che è la condizione di immigrati.

I piccoli islamici, invece, sono bloccati dalla cattiva conoscenza dell’italiano, lingua per loro difficilissima. La lingua s’impara a scuola, tra gli amici e a casa. Se tra gli amici e a casa parla un’altra lingua, il ragazzo non imparerà mai bene l’italiano. Ci sono politici che rifiutano questo ragionamento, perché dicono che così si rallenta l’integrazione, in quanto si ritiene che quei bambini abbiano bisogno di una pre-scuola, da separati, prima della vera scuola, con i coetanei italiani. Come se quelli che arrivano da fuori fossero scolari di serie B.

Questi politici sbagliano: prevedere che i figli degli immigrati, prima d’iscriversi alle nostre scuole, imparino l’italiano, non vuol dire ostacolare l’integrazione, ma favorirla. Non c’è integrazione con una civiltà senza la conoscenza della lingua in cui quella civiltà si esprime. Alle elementari c’è il problema dell’età: arrivano a iscriversi bambini di 8, 9, 10 anni. Non è opportuno iscriverli alla classe che gli spetta per età, è meglio iscriverli alla classe che gli spetta in base alla loro conoscenza dell’italiano. Ci sono quartieri dove l’immigrazione è così intensa che nelle scuole si arriva al 30 % di scolari immigrati, e anche di più. Succede nelle periferie. Nei centri, gli scolari sono italiani al 95%, o nella totalità. E’ così che si formano scuole di serie A e scuole di serie B. Non è una buona cosa. Meglio distribuire per quote gli immigrati, e non si dica che questo vuol dire peggiorare tutte le scuole: la presenza di immigrati è anche un arricchimento culturale, basta saperlo cogliere. (la Stampa)

martedì 26 agosto 2008

La scuola, lo Stato, il sud. Davide Giacalone

Sostenere che vi sia una deficienza culturale e professionale di alcuni insegnanti, riconducibile al loro essere meridionali, non è solo privo di senso, ma dimostrerebbe l’ignoranza circa la storia dell’istruzione pubblica, regia ancor prima che repubblicana, arricchitasi di scambi continui fra docenti provenienti dalle diverse aree del Paese. Si può, anzi, sostenere che siano stati la scuola ed il servizio militare obbligatorio ad aver fatto gli italiani, avendo poi provveduto la televisione a fare l’italiano, inteso come lingua. Al tempo stesso, però, occorre essere accecati dal pregiudizio per non vedere il micidiale dislivello culturale che la scuola produce, a tutto danno dei ragazzi meridionali e periferici. Ci sono dati, non smentibili, che lo dimostrano.
Non credo, però, che il problema siano (solo) i docenti. Altrimenti spiegatemi perché più si scende verso il tacco e la punta dello stivale, più si scassano anche la giustizia e la sanità. Non è bello, ma più si va verso sud più è lo Stato nel suo insieme a funzionare meno, giungendo, in alcune zone, anche a perdere sovranità territoriale. I corsi di recupero devono farli non (solo) gli insegnanti, ma legislatori e politici che si ostinano a non guardare in faccia la realtà.Le ragioni di questo disastro sono molteplici, troppe per parlarne in sintesi. La costante è lo sfilacciarsi del tessuto sociale, talché ogni attività pubblica serve a finanziare una famiglia od un gruppo, ma non a servire la conoscenza, la giustizia, la produzione o la salute. La via d’uscita non è la separazione dei mali e delle insufficienze, in un tripudio di federalismo divisorio anziché moltiplicativo, ma serve una rivoluzione meritocratica che dissolva incrostazioni intollerabili. Serve rendere individuabili le responsabilità, punendole, che siano in corsia, in aula od in tribunale. Serve rompere lo schema dei soldi e la carriera uguali per tutti, talché si conservino intatte le peggiori diseguaglianze. Non è una ricetta diversa da quella che serve anche al nord, ma più urgente e più intensa.
Lo Stato, al sud, fece miracoli negli anni cinquanta. Negarne l’odierno fallimento serve solo a prolungarlo, estendendolo inevitabilmente ad ogni angolo d’Italia. Lo Stato non può e non deve essere cancellato, per questo occorre riformarlo.

lunedì 11 agosto 2008

Pedaggio urbano: istruzioni per l'uso. Francesco Ramella

Mentre a Roma ed a Torino si discute se imitare Milano ed introdurre politiche di pedaggio del traffico urbano, da Londra giungono nuovi elementi di valutazione della congestion charge voluta da Ken Livingstone.
Secondo quanto riportato nell'utlimo rapporto di London Transport, la tariffazione ha sì ridotto il numero di veicoli circolanti ma non ha avuto effetti sulla congestione. I tempi di percorrenza nel centro di Londra sono sostanzialmente invariati rispetto al periodo antecedente l'adozione della misura. L'apparente contraddizione è spiegata dal fatto che, in parallelo alla diminuzione del traffico si è avuta, a causa di lavori di manutenzione delle reti di elettricità, gas e acqua, una riduzione dello spazio stradale.Irrilevanti sono poi gli effetti in termini di riduzione dell'inquinamento atmosferico. Lo stesso Livingstone, d'altra parte, non ha mai considerato la charge come un'iniziativa ambientale.Analoghe conclusioni sembrano potersi trarre dopo i primi sei mesi di sperimentazione dell'Ecopass milanese che hanno avuto (come previsto) un modestissimo impatto sulla riduzione della concentrazione di sostanze inquinanti in atmosfera.La lezione che si può trarre dal bilancio di Transport for London è che, come ovvio ma come si tende spesso a dimenticare nell'attuazione delle politiche di regolazione del traffico, a parità di altre condizioni, ridurre l'offerta di spazio stradale comporta un incremento della congestione (e dell'inquinamneto). E che, dunque, l'utilizzo migliore per le risorse raccolte con il pedaggio consiste nel realiizzare nuove infrastrutture, in particolare strade sotterranee, oppure nel ridurre ia tassazione che grava sul settore automobilistico. Un'ultima annotazione: viene spesso utilizzata come misura del successo dell'introduzione di politiche di pedaggio, l'entità degli introiti per le casse comunali. In realtà, tali risorse non rappresentano un beneficio ma un trasferimento di denaro dagli automobilisti all'amministrazione comunale. E non è affatto sicuro che l'utilizzo delle stesse da parte del soggetto pubblico porti a benefici maggiori di quelli che si sarebbero avuti lasciando quei soldi nelle tasche dei privati. (Realismo energetico)

sabato 9 agosto 2008

2 agosto. Porre fine alla criminalizzazione dei governi. Salvatore Sechi

Non è più ammissibile che si possa prolungare nel tempo quanto avviene ogni anno il 2 agosto a Bologna. Questa data ha cessato di essere l'anniversario della strage più spaventosa avvenuta nell'Italia repubblicana e il simbolo della ripulsa nazionale, collettiva, ad ogni tentativo delle forze eversive, di destra o di sinistra, di delegittimare, o peggio smantellare, le istituzioni. In realtà, ogni volta si assiste ad uno spettacolo rivoltante. Dal palco della stazione centrale i rappresentanti della città e soprattutto quello delle vittime, insieme ad un gruppetto di contestatori della cosiddetta «sinistra radicale», muovono le critiche più severe e anche più infondate nei confronti del governo in carica.

Si chiede una cosa ridicola, cioè di abolire il segreto di Stato sulla strage di Bologna. Come sanno tutti, tale segreto non è stato mai opposto perché sulla vicenda dell'attentato criminale a Bologna non è mai esistito. Questa favola è un cavallo di battaglia inventato e propagandato, a puri fini agitatori, da esponenti dell'estrema sinistra «comunista» e dal sindaco che, con la delicatezza di un metalmeccanico, discetta su un problema delicato come quello del revisionismo storico. In secondo luogo si chiede che vengano individuati e puniti i mandanti della strage. Si tratta di una richiesta ragionevole, ma essa è una competenza della magistratura, e non del governo. In terzo luogo, viene celebrata una sorta di processo pubblico, popolare, nei confronti dell'ex presidente della Repubblica Cossiga, dei dirigenti di Alleanza Nazionale e di Forza Italia, al pari dei giornalisti e degli storici che si sono permessi di criticare la sentenza emessa dai tribunali sugli esecutori della strage.

Esprimere un dissenso in questi ultimi 25 anni ha significato essere esposti al maltrattamento di una parte della piazza e di chi, da anni, la manovra e scatena. L'obiettivo non è più il sentimento di pietà e il desiderio di stringersi attorno a chi è stato colpito negli affetti, combattendo ogni velleità revanscista sul nostro regime repubblicano e democratico. Si vuole, infatti, mettere sotto accusa i ministri del governo in carica quasi fossero essi i responsabili della miscela mortale fatta esplodere in una valigia nella sala d'aspetto della stazione bolognese. Questa infamia deve avere fine. Il governo, qualunque sia la sua estrazione politica, ha il dovere di sottrarsi a questo rito in cui si diventa bersaglio di ogni squallida e falsa imputazione.

In realtà, chi manovra il segmento rissoso della piazza lo fa sapendo che la posta in gioco è un'altra, cioè la sentenza di condanna dei terroristi neri Fioravanti e Mambro. Qualche ora dopo l'esplosione della stazione centrale, da parte del Pci, del sindaco dell'epoca e dello stesso presidente del Consiglio (Cossiga poi ha fatto ammenda di quell'errore) si proclamò che la strage era «nera», cioè era un atto dell'eversione neo-fascista. Tutte le inchieste, le accuse, i sospetti vennero indirizzati da questa parte. Era comprensibile e giustificato che si cominciasse cercando l'«infame» nei gruppi di estrema destra. Tutte le inchieste della Digos, del ministero dell'Interno e dei Servizi avevano da anni consentito di acquisire un imponente materiale (come dimostra il bel libro di Mimmo Franzinelli edito da Rizzoli, La sottile linea nera) su progetti, tentativi, attentati di questi terroristi (alleati non di rado a funzionari dei nostri servizi di intelligence) contro uomini e istituzioni della democrazia repubblicana.

Purtroppo le sentenze sul 2 agosto non sono riuscite a diradare ogni ombra (ha ragione Gianfranco Fini) e ad essere convincenti. Praticamente tutti i libri pubblicati (anche da studiosi di sinistra), le inchieste e le ricostruzioni televisive sono concordi nell'indicare che le motivazioni della condanna sono fragili, contradddittorie, poco o nulla fondate su prove. Com'è noto esse si basano sulle testimonianze di un criminale affetto da gravi turbe neuro-psichiche (e quindi per nulla attendibile) come Angelo Izzo, di un leader della malavita romana (Massimo Sparti), smentito dall'intera cerchia familiare, di una telefonata del giovane Ciavardini alla fidanzata perché non prendesse posto nel treno che poi salterà in aria. Tutto qui.

La verità giudiziaria non corrisponde alla verità storica e allo stesso senso comune. La requisitoria, pubblicata sul quotidiano del Pci, l'Unità, del pm Libero Mancuso, come le sentenze che ne sono seguite, non si fonda su un'ampia filiera di fatti, ma su un pregiudizio ideologico. La magistratura ha dato al Pci ciò che chiedeva, cioè dei colpevoli di una strage che si è immediatamente, cioè senza disporre di prove, bollata come di fattura «nera», cioè di criminali dell'estrema destra. Dunque, una classica sentenza sovietica, perché anzitutto ideologica. Appena nelle indagini giudiziarie si sono profilati un interesse e una responsabilità della sinistra (cioè del terrorismo arabo-palestinese alleato della Primula Rossa degli attentati ai treni, Carlos), nessuno ha esaminato il possibile ruolo di Thomas Kram e di Abu Saleh Anzeh. Non ha senso dire che essi abbiano sistemato la valigia che è esplosa nella sala d'aspetto della stazione di Bologna. Bisogna, però, non desistere dal chiedere come mai la magistratura non abbia compiuto i passi necessari per accertare le loro responsabilità.

Nel caso del terrorista tedesco Thomas Kram è stupefacente quanto ha dichiarato un magistrato noto per la sua indipendenza di giudizio dai partiti, Luigi Persico. Oggi sostituto procuratore aggiunto del Tribunale di Bologna, fu incaricato delle indagini il 2 agosto 1980 insieme ad altri tre più giovani colleghi. Persico ha, senza mezzi termini né equivoci, sostenuto che nessun organo di polizia segnalò a lui e agli altri tre sostituti le informazioni sul terrorista tedesco Thomas Kram di cui sia la Questura di Bologna sia il ministero dell'Interno disponevano sin da primi anni Settanta. Tutto ciò contrasta con quanto sia io sia i colleghi Giampaolo Pelizzaro e Lorenzo Matassa, consulenti della Commissione parlamentare sul dossier Mitrokhin, sin dal 2005, abbiamo potuto accertare. Dalla consultazione delle carte, a Bologna e a Roma, emerse che nei giorni immediatamente successivi all'attentato la polizia giudiziaria bolognese trasmise alla Procura un fascicolo su Kram, in cui la polizia tedesca ne confermava la pericolosità. Come mai nessuno si è preoccupato di esaminarlo e avviare delle indagini? Esse portavano, come ho potuto constatare, alla Primula Rossa del terrorismo, Carlos, e ai suoi legami col terrorismo arabo-palestinese. Quest'ultimo ebbe nel giordano Abu Saleh Anzeh, stabilitosi a Bologna, legato sia a G. Hababsh (il leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina) sia all'esponente del servizio di intelligence italiano a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone, un proprio rappresentante.

Poiché questa pista è stata sottovalutata o ignorata, è auspicabile che la Procura della Repubblica di Bologna, nelle persone di S. Piro e L. Persico, la perlustrino con indipendenza e rigore. Malgrado i gravi limiti dell'inchiesta e delle sentenze di condanna, ogni 2 agosto si coglie il pretesto per accreditare una sentenza di tipo sovietico e non per cercare la verità. Il governo deve cessare di offrirsi come imputato, cioè come vittima consenziente di una gazzarra che copre un verdetto giudiziario che non ha la forza di convincere più nessuno. C'è un limite a lasciarsi ogni anno lapidare da un gruppo di comunisti per nulla pentiti. (Ragionpolitica)

giovedì 7 agosto 2008

Arriva il vigile urbano armato. TG5

Sono seimilacinquecento i vigili urbani a Roma e molti di loro potranno ora girare durante le ore di servizio armati di manganelli di gomma, spray urticanti antiaggressione e di una pistola calibro nove, semiautomatica. Lo stabilisce la nuova delibera approvata in giunta del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, e pronta per essere votata in consiglio comunale. Cambia dunque, la figura del poliziotto municipale nella capitale, non più un vigile urbano ma un vero agente di pubblica sicurezza pronto a difendersi e a combattere il degrado e la criminalità. Misure di sicurezza che sembrano straordinarie ma sono già adottate in numerose e importanti città italiane. Sono armati i 1.400 vigili urbani di Palermo che girano con una calibro nove, sia a canna lunga che corta. A Napoli i più anziani girano con una beretta calibro 7.65 a canna corta, a Salerno è stato deciso di dare in dotazione alla polizia municipale i manganelli. Ma sono armati anche i vigili urbani di Bari, che hanno in uso - come stabilito due giorni fa - anche il casco protettivo, il giubbotto antiproiettile, lo spray irritante e il bastone estensibile. Pistole d'ordinanza a Torino, a Milano, Genova, Bologna e Firenze, utilizzabili solo per legittima difesa.

martedì 5 agosto 2008

Martino sullo scenario economico internazionale. IBL

La globalizzazione ci ha reso tutti più ricchi. Nell'ultimo Occasional Paper dell'Istituto Bruno Leoni, intitolato "Lo scenario economico internazionale" (PDF), Antonio Martino riflette sugli enormi benefici che la globalizzazione ha portato all'Europa e a tutto il mondo, compresi i paesi più svantaggiati."

Le tesi dei protezionisti - scrive Martino - sono diventate in apparenza più raffinate, restando tuttavia grossolanamente false nella sostanza. E’ di moda oggi sostenere che il protezionismo è reso necessario per contrastare la concorrenza ‘sleale’ di Paesi che, come la Cina e l’India (immaginosamente accomunate col termine ‘Cindia’), praticano il ‘dumping sociale’ e quello ambientale perché i loro standard di protezione sono più bassi dei nostri. Si tratta di una crudele sciocchezza: i salari e le condizioni di lavoro nei Paesi poveri sono meno elevati dei nostri per la semplice ragione che quei Paesi sono più poveri di noi e lo stesso vale per gli standard di protezione ambientale. Sostenere che dobbiamo gravare i loro prodotti di oneri tariffari equivale a dire che i Paesi poveri devono essere puniti per la loro povertà".

Commenta Alberto Mingardi, direttore generale dell'IBL: "Questo Occasional Paper di Martino è un utile strumento di lavoro per chi voglia testare le idee liberiste in un momento di crisi. Martino dimostra efficacemente come le attuali difficoltà economiche non possano e non debbano essere ostacolo all'adozione di misure pro-mercato. Anzi, è semmai ancora più urgente liberare l'economia europea e renderla più compatibile con la globalizzazione: il maggiore impulso dai mercati internazionali e la maggiore concorrenzialità sono la più efficace delle ricette per tornare a crescere".

L'Occasional Paper di Antonio Martino, "Lo scenario economico internazionale", è liberamente scaricabile qui (PDF).

lunedì 4 agosto 2008

Se l'operaio non sciopera. Vittorio Macioce

No, grazie. L’autunno caldo proprio non interessa. Non è neppure una domanda da fare con le valigie già pronte, il bagagliaio dell’auto già aperto e uno straccio di vacanza da consumare. È il dialogo più chiaro di questa stagione di crisi. Il giornalista di Liberazione va davanti ai cancelli di Mirafiori. Qui un tempo c’era la classe operaia. Ora c’è gente che lavora, uomini, individui, che fanno i conti per arrivare a fine mese. Sono realisti. Sono solidi. Sono saggi. Dicono: «Lascia stare. È un momentaccio. E in autunno sarà ancora peggio. Con la cassa a rotazione avremo centocinquanta euro in meno in busta al mese. Se va bene. Fare sciopero? Siamo divisi, pronti a essere sostituiti. E poi, scusa, scioperare per cosa? Le macchine non si vendono proprio. Questa volta i padroni non sono cattivi. Dovremo mangiare molte cucchiaiate di merda, stringere i denti. In vacanza vado una settimana al mare. Lo faccio per i figli piccoli. Fosse per me starei qua».
È chiaro quello che sta accadendo. Non è solo la storia del metalmeccanico che ha cambiato il suo cielo, i suoi orizzonti, che magari vota Lega e ha paura degli immigrati. C’è qualcosa di più. Ed è tutto quello che questa sinistra non ha capito. C’è una parola che rimbalza senza troppe chiacchiere: consapevolezza. La classe politica parla con parole vecchie, si scamicia per questioni etiche e filosofiche che hanno il sapore, e la liturgia, dei culti bizantini. Dice che in autunno porterà in piazza le masse indignate. Brutte le masse, sono un’entità senza nome, ricordi di un secolo lontano. Ma le masse non pagano le bollette, non fanno la spesa, non devono crescere i figli. Le masse sono una fata morgana, una presa in giro. Le masse non hanno un’anima. La classe politica va in giro con un Tutto Città vecchio di almeno trent’anni e si stupisce perché non ci sta capendo più nulla, non sa orientarsi. Ma non dice: è sbagliata la mappa. Dice: è sbagliata la città. Nessuno si mette lì e traccia nuove linee. I migliori, i più pragmatici, hanno perlomeno il buon senso di fermarsi e chiedere a qualche passante: scusi, dove si va per il duomo? Gli altri continuano a segnare con il ditino percorsi inesistenti. Vecchi stregoni che pensano di risolvere tutto, di tutelare ciò che resta della classe operaia, con quella formula da fattucchieri che è lo sciopero generale. Roba da Novecento e da ferriere e manifatture che non esistono più.
La risposta a questo teatro dell’assurdo arriva dalla gente che lavora. Operai e non solo. È una risposta semplice semplice: qui la situazione è brutta, l’Italia si trova a un bivio, drammatizzare non serve, rimbocchiamoci le maniche. Questo Paese ha bisogno di coraggio e buon senso. Molti italiani lo hanno capito. La classe politica, soprattutto quella classe politica, si adegui. O vada via. (il Giornale)

venerdì 1 agosto 2008

Fossili di lottizzazione. Davide Giacalone

E’ buona regola parlamentare che le commissioni di vigilanza e controllo siano presiedute dall’opposizione, essendo evidente l’interesse di questa ad essere più occhiuta ed intransigente. E’ pessima cosa, però, che l’opposizione le consideri come una proprietà, da assegnare al capobastone che vinca la battaglia degli equilibri interni. In questo modo si esce dal buon costume democratico e si entra nel malcostume lottizzatorio. La sinistra ha voluto, all’unanimità, candidare Leoluca Orlando Cascio alla presidenza della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. E’ stato un atto politico legittimo, benché a mio avviso squalificante. La risposta della maggioranza è stata, giustamente, di diniego. Forte, pubblico e ripetuto. Tocca all’opposizione cambiare candidato, altrimenti la forza dei ricatti interni alla sinistra finirà con il distruggere le buone regole parlamentari.
Non è un caso che sia in stallo anche il consiglio d’amministrazione della Rai, composto seguendo una norma che assegna la guida della società a persone nominate con logica politica. Non importa che siano professori o calzolai, non escludendosi maggiore competenza dei secondi, giacché comunque nominati secondo l’unico possibile criterio, quello politico. Tutto questo è sempre stato brutto, ma aveva una logica quando esistevano i partiti e la lottizzazione era la versione italiana della cogestione jugoslava. Oggi non ha senso, e per questo non funziona.
La Rai è statale, ma non più un servizio pubblico. Si regge in piedi con i soldi che i cittadini sono obbligati a dare (talora subendo ingiuste e scandalose estorsioni), ma gli interessi che le girano attorno sono affari di produttori, mediatori, venditori di contenuti, tutta roba che non può essere amministrata con criteri politici, e se lo è, come oggi capita, degenera in greppia. La Rai è la Galapagos della prima Repubblica, ma non sufficientemente isolata da consentire ad un Darwin di trovarla incontaminata. Non vi si conservano animali antichi, ma miserie eterne.Non avviando la vera soluzione, non privatizzando ed aprendo il mercato, si protrae un caravanserraglio costoso ed insensato. Non c’è da stupirsi, dunque, se gli interessi contrapposti finiscono con il bloccare un meccanismo che è già inceppato. Si estingua l’animale, è meglio.