lunedì 31 maggio 2010

Il peggio dell'Italia. Christian Rocca

C'è una personalità che incarna più di ogni altra lo sfascio di questo paese? Sì, c'è. E' Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, che da mesi imperversa per le procure della repubblica, della televisione e della carta stampata a spararle sempre più grosse. Un personaggio, questo, già definito inattendibile da un tribunale, eppure ogni giorno all'origine di una nuova rivelazione, di un nuovo mistero, di un nuovo scandalo su cose di venti o trenta anni fa. Un giorno svela memoriali segreti, il giorno dopo si scopre che sono falsi. Un giorno parla di una cosa, il giorno successivo tace. Un giorno Berlusconi è mafioso, il giorno dopo è una vittima. Un giorno riconosce un tal "signor Franco", cioè un pericoloso agente segreto, in una foto pubblicata su un mensile dei Parioli, il giorno dopo si scopre che il tizio della foto non c'entra niente. Sospetti, insinuazioni, suggestioni maliziose. Sputtanamento, oltre ogni soglia della decenza e del ridicolo, naturalmente sempre in prima pagina, come se si trattasse di cose serie. Il peggio dell'Italia non è lui, il peggio di questo paese è chi continua a dargli retta nelle procure, nelle televisioni, nei giornali. (Camilloblog)

venerdì 28 maggio 2010

La crescita di Telese. Orso Di Pietra

Quando faceva il portavoce di Rifondazione Comunista spianava la strada con grande gentilezza alle dichiarazioni dell’allora segretario Fausto Bertinotti. Quando lavorava a “Il Giornale” si dichiarava “un comunista impegnato in un giornale di destra” e si ingraziava con grande cortesia gli esponenti politici dell’allora Alleanza Nazionale. Ora che si trova a “Il Fatto” e che, soprattutto, conduce programmi televisivi con piglio santoriano, non perde occasione per accapigliarsi con grande animosità con chi gli capita a tiro dei personaggi di spicco del centro destra. L’obbiettivo perenne di Luca Telese è di diventare un grande. Peccato che a dispetto degli sforzi non riesca a crescere neppure di un centimetro! (l'Opinione)

giovedì 27 maggio 2010

"Lì le intercettazioni non vengono pubblicate". Christian Rocca

Ho scritto più volte del paradosso dell’Economist: il miglior giornale del mondo con la peggiore copertura dei fatti italiani dell’universo (dopo quella dei giornali italiani stessi). Del resto l’Economist è il settimanale che dopo aver avuto come corrispondente dall’Italia Luigi Einaudi si è ridotto a pubblicare le analisi di Beppe Severgnini e Tana de Zulueta. L’attuale uomo dell’Economist in Italia si chiama David Lane, un subprodotto del travaglismo d’Oltremanica, capace di esprimere per iscritto tutta la puzza sotto il naso verso i popoli mediterranei che solo gli anglosassoni sanno avere. Oggi, intervistato da Repubblica, dice una serie di cose insensate sul pessimo ddl sulle intercettazioni (cose tipo: il ddl non riguarda i reati mafiosi, ma spesso alla mafia si arriva da altri reati) ma poi, alla domanda del giornalista di Repubblica che gli chiede "In Inghilterra le cose sono diverse?", risponde: «Lì le intercettazioni non vengono pubblicate». (Camilloblog)

martedì 25 maggio 2010

Sputtanopoli e il fantasma di Google. Il Foglio

Il fantasma di Google si aggira per l’Europa. I garanti della privacy di Italia, Francia, Germania, Spagna e altri paesi membri dell’Ue hanno messo nel mirino le immagini disponibili in “Street view”. “Non è accettabile che una compagnia che opera nell’Ue non rispetti le regole Ue”, ha detto la Commissaria alla Giustizia Viviane Reding. Tutto bene, anche se il bambino della privacy rischia di affogare nell’acqua sporca dell’isterismo. Ci chiediamo però: perché tanto rumore per Google, e tanto poco, per esempio, per le intercettazioni? Sono cose molto diverse, ma insieme non si tengono. Google almeno fa qualcosa per la privacy, come l’oscuramento dei volti e delle targhe degli autoveicoli su Street View. Molti dei dati che circolano sono stati immessi direttamente dai loro titolari: fino a che punto possiamo chiedere a Google di difenderci dalla nostra irresponsabilità? Altri dati ancora sono inseriti nella rete da utenti terzi: fino a che punto possiamo prendercela con Google?

Sono domande complesse, a cui non pretendiamo di rispondere. Sono domande, però, che lasciano aperto un ampio spiraglio al dubbio. Al contrario di Google, le intercettazioni non sono mai effettuate per volontà degli intercettati. La loro diffusione – spesso illecita – può causare un danno enorme, e permanente, a chi ne viene colpito senza costrutto per le indagini. La proposta di legge per limitarne la circolazione può non essere perfetta, ma non può essere chiamata un bavaglio. E’ un tentativo, migliorabile, di proteggere la privacy di persone incolpevoli (fino a prova a contraria), colpevoli solo di aver chiacchierato, magari improvvidamente. Molte intercettazioni non dovrebbero essere neppure fatte; una volta fatte, dovrebbero essere distrutte perché non contengono notizie di reato; se conservate, dovrebbero essere trattate con cautela. Lo hanno ricordato i liberali e moderati Piero Ostellino, Luca Ricolfi e Pierluigi Battista su Corriere e Stampa. La sensibilità anglosassone per la privacy ci contagia quando vediamo su Internet una foto di gente alla fermata del tram: perché non ci lasciamo contagiare dalla stessa indignazione di fronte allo sputtanamento telefonico di massa?

Leggi Basta con Sputtanopoli, inchieste-portineria, giornalismi-origliatori di Giuliano Ferrara

domenica 23 maggio 2010

Nel "capitalismo relazionale" dell'Italia contano solo peones e superburocrati. Raffaele Iannuzzi

Mi basta e mi avanza. Flores d’Arcais sul Fatto Quotidiano, organo dell’Idv e di Travaglio, fa l’apologia dell’“antipolitica democratica” e chiede che si faccia avanti. Se ci sei, antipolitica, batti un colpo. E liberaci dai farabutti ladri e dalla mediocrità fuori stagione e per ciò fin troppo stagionata del Pd. Penoso. Quando Flores vedeva come il fumo negli occhi Berlusconi, fino al punto di scrivere su Micromega, l’organo dei giacobini forcaioli italioti, dell’esistenza di “due Italie”, quella della gente onesta e quella dei manigoldi berlusconiani, l’antipolitica era sterco del demonio. Oggi, è la panacea di tutti i mali. Contro la Casta e avanti tutta. Verso dove? Chi lo sa? Nel frattempo, vieni avanti cretino. Il punto è che Flores è quello che è, ma, anche nel Pdl, ci vorrebbe un po’ più di raziocinio politico.

La politica oggi è culo e camicia con l’economia perché questo Paese non cresce e non ha un capitalismo decente. Forse non ha neanche un capitalismo vero e proprio. In queste operazioni di scambio, conta solo il capitale relazionale, quanta gente importante conosci e come puoi usarla e farti usare. Si capisce allora che il burocrate scafato e pronto a tutto, che solleva la cornetta e mette a posto le cose, sia un valore aggiunto decisivo. Le cose funzionano così. La “cricca” è fatta di questa gente. E non potrebbe che essere fatta da altri. Perché, con le Bassanini, il Funzionario è il Re Sole – lo Stato sono io! – e il Politico è il manutengolo di risulta. Questa è la verità. Con le Bassanini, lo stato è morto. L’antipolitica fa il gioco di questa supercasta di burocrati perché arpiona il moloch sfibrato della Casta e trascura la Balena Bianca di nuova fattura: i superburocrati. Leggere, prego, Bechis su Libero. Una bella tabellina con gli emolumenti di questi civil servant, come vengono pomposamente chiamati anche sulle rive del Mediterraneo. Basta leggere. Vogliamo allora ridurre gli stipendi dei parlamentari? Benissimo.

Vogliamo costringere i parlamentari, come scrive Giacalone, a fare una tabella di marcia con i tagli e la tempistica’ Meraviglioso. Sappiate che quest’operazione – di per sé ottima sul piano della comunicazione istituzionale con quel tanto di strategia della rassicurazione che le è connaturata – sarà come pettinare le bambole, come si dice a Roma. In Toscana si dice in un altro modo, più pittoresco, ma lo risparmio ai miei venticinque lettori (antipolitici per lo più, mi auguro…). Allora, qual è il nodo? Uno soltanto: la politica deve ritrovare la forza di un progetto storico. Con il tigre nel motore: idee, ideali, classe dirigente. La classe dirigente del Pdl è mediocre. Al pari di quella del Pd, che fa ridere i polli. La selezione della classe dirigente appartiene al medesimo mercato che i politologi chiamerebbero trade-off, scambio, mercimonio, diciamo pure: io ho questo ragazzo bravo, sì, dài mettimelo in lista, ma che passi, poi ci penso io per quella cosa che sai…

Funziona più o meno così, salvo i dettagli che variano da contesto a contesto. Entrano in Parlamento personaggi che non saprebbero allacciarsi le scarpe senza l’aiuto di un valido consulente e cosa dobbiamo aspettarci? Alla prima occasione, egli si sentirà gratificato di una certa attenzione quando si dovrà far passare, con l’aiuto del tal ministro, il tal funzionario di seconda fascia al rango di commissario dei lavori pubblici sul tal territorio. Una nullità che non saprebbe come mettere insieme il pranzo con la cena si ritrova a sminestrare in ambiti così grossi, dove girano i soldi e si fanno le operazioni, come si dice nel gergaccio dei mammasantissima delle cricche di varia estrazione, anche sinistrorsa, vedi la Puglia.

Ma, accanto al peone santificato, c’è il burocrate scafato e cinico. Questo vuole arrivare, l’ha messo in prima fila il personaggio grosso, deve fare, brigare, usare le carte come leve militari. Da solo vale come il politicante di nona fila, non saprebbe neanche trovare il posto per fare il commesso, i concorsi per dirigenti di primo livello non si fanno più, la Costituzione è abrogata, conta solo quando c’è Dossetti come santo e Berlusconi come diavolo, dunque adelante: faso tuto mi. Altro che il Berlusca! Nomi così li ritroviamo in quella lista di Bechis. Gente intercettata e ben pasciuta alla greppia dello stato, senza talenti ma con molto talento familiare o relazionale. Questa è l’Italia dei cachi, per dirla con Elio e le Storie Tese. E voi pensate che, con questo pesante aquilone, si voli? (l'Occidentale)

giovedì 20 maggio 2010

Ma che volete da Michele? E' solo Sant'Oro. Antonio Polito

Ma che volete da Michele Santoro, o voi popolo del blog, o voi straffatti del Fatto, o voi professionisti dell'antiberlusconismo, o voi moralisti di ogni colore e risma? Ma che, credevate davvero che fosse Robin Hood, Emiliano Zapata, il sub-comandante Marcos?

L'ex Michele-chi è solo - e scusate se è poco - un notevole professionista dello spettacolo televisivo, nel suo caso sotto forma di informazione, che ha fatto un formidabile accordo con la sua azienda mettendo a frutto il suo valore di mercato. Ha fatto lo scivolo, come in tante aziende editoriali, una specie di pre-pensionamento: tre anni di buonuscita a sei anni dalla pensione. È un giornalista che si trasforma in editore - non il primo, a dire il vero - e in quanto tale fornirà alla Rai 14 docu-fiction di 130 minuti l'una al prezzo di un milione ciascuna, per complessivi 14 milioni in due anni. Che c'entra la morale, che c'entra la politica? Business is business, perché proprio Santoro avrebbe dovuto fare il francescano? E, per favore, lasciate stare il pianto greco sulla crisi: nessuna crisi sospende il mercato.

Fessi voi, che vi eravate convinti che Michele fosse un santo: è solo Sant'Oro. Voi che avete sperato che un giornalista tv potesse guidare un partito extraparlamentare, vendicare i torti, proteggere i deboli, giustiziare i potenti. Santoro è andato e venuto, dal Pci alla Rai a Mediaset, poi di nuovo alla Rai via giudice del lavoro e ora fuori della Rai a farsi le cose sue, le cose che sa fare e vendere bene.

Ma come, direte voi, ha fatto pure l'europarlamentare dell'Ulivo. Sì, ma solo il tempo necessario per tornare a fare il giornalista, che è il suo mestiere e la sua vocazione. Ma come, direte voi, ci ha chiamato alle mobilitazioni di piazza, anzi di PalaDozza, per difenderlo dalla censura berlusconiana. E che doveva fare? Aveva un mercato e l'ha fatto pesare. Si è coltivato il suo pubblico, e se il suo pubblico vive di grandi passioni politiche lui le ha giustamente allevate e interpretate. E, al momento del bisogno, le ha evocate.

Tornate nel mondo reale, o voi in cerca di un taumaturgo che vi liberi dal Male. Michael Moore fa i soldi, Sabina Guzzanti fa i soldi, Marco Travaglio fa i soldi, Michele Santoro fa i soldi. Fanno il loro mestiere, lo fanno bene, e vendono i loro prodotti. Sono prodotti carichi di moralismo e demagogia? Embè? Si vede che è quello che a voi piace, che li consumate avidamente, che siete il loro mercato. Non chiedete loro più di quanto possano darvi. Non conducono una lotta tra il Bene e Berlusconi, conducono le loro aziende. Se proprio volete liberarvi del Caimano, dovrete procedere altrimenti.

L'unico modo è mandare in Parlamento il numero di deputati sufficienti a disarcionarlo. Santoro fa ascolti, l'opposizione ha bisogno di voti, e non sono proprio la stessa cosa. Meglio così. La Rai berlusconiana ha fatto un affare: si è liberata di Annozero. Michele Santoro ha fatto un affare, e non c'è bisogno di spiegare perché. E la sinistra italiana pure ha fatto un affare, se la lezione le serve a capire che la politica non è un talk show. (il Riformista)

domenica 16 maggio 2010

Pesi e misure. Orso Di Pietra

Pare che inesausto Anemone abbia fatto svolgere dai propri operai lavori di restauro e di falegnameria nelle case di molti pezzi grossi. Ognuno di questi ha assicurato che non si è trattato di favori ma di operazioni legittime regolarmente fatturate e pagate. Ma, come è emerso da un servizio di Fiorenza Sarzanini sul “Corriere della Sera”, mentre le spiegazioni con relative pezze d’appoggio date da Guido Bertolaso sono state considerate pretestuose e poco credibili, quelle dell’ex Capo della Polizia Gianni De Gennaro e del suo successore Antonio Manganelli sono state giudicate assolutamente convincenti ed esaurienti. Bertolaso, naturalmente, si è seccato della faccenda. Ed ha protestato contro la pratica dei due pesi e delle due misure usata dal quotidiano di via Solferino. Ma la sua è stata una fatica inutile. Se fosse esperto della carta stampata così come lo è della Protezione Civile saprebbe che anche al Corriere vige la regola dei vecchi cronisti del “ che se deve fa pe’ campa!” (l'Opinione)

sabato 8 maggio 2010

Dare fiducia subito. Daniele Manca

Le fiamme sono state lasciate correre. E improvvisamente ieri notte a Bruxelles i capi di Stato e di governo dell’Eurozona, con un Obama più che preoccupato in collegamento dall’altra parte dell’Atlantico, si sono resi conto che per spegnere l’incendio finanziario era necessario dispiegare l’intera forza politica dei due Continenti. In gioco c’è il possibile crollo dell’euro. Con esso una seconda pesante recessione nel Vecchio Continente con conseguenze difficili da immaginare.

La situazione ricorda quella dell’autunno del 2008. Vale a dire quando fallì la banca d’affari Lehman. Con una differenza, oggi a fare da miccia è uno stato: la Grecia. La cui crisi si è manifestata già nei primi mesi del 2010 ma che con inspiegabile leggerezza non è stata affrontata dall’Unione europea e dai Paesi membri con la forza necessaria e nei tempi giusti. Solo ieri notte i leader mondiali hanno preso misure eccezionali, la cui efficacia si vedrà lunedì alla riapertura dei mercati.

La situazione è precipitata nelle ultime 48 ore. I segnali preoccupanti sono arrivati inizialmente dalle Borse che hanno registrato non solo forti ribassi, ma anche errori tecnici e incursioni della speculazione pronta a vendere titoli convinta di poter ricomprare a prezzi inferiori, scommessa che si è rivelata vincente. Ma a rendere evidente a banchieri centrali prima e a governi poi che la situazione rischiava di precipitare è stata ancora una volta una crisi di fiducia.

Le banche sui mercati interbancari hanno iniziato a registrare difficoltà nel trovare altri istituti che prestassero loro denaro se non a tassi di interesse maggiorati. Hanno poi iniziato a impennarsi i prezzi dei famigerati Credit default swaps (quella sorta di polizza che gli operatori di mercato usano per assicurarsi contro il possibile non rimborso dei titoli di Stato e quindi il fallimento dello Stato stesso). E se fino a qualche giorno fa questo era accaduto per i Paesi deboli della zona euro come Grecia, Portogallo, Spagna, di colpo anche l’Italia ha iniziato a soffrire. Questo nonostante una situazione di conti pubblici da tutti riconosciuta come solida pur a fronte di un debito pubblico elevato. Mettendo in discussione la solidità della settima potenza industriale al mondo è stato chiaro che a venir meno era la fiducia sulla intera area dell’euro.

Per troppi mesi l’Unione europea e anche la stessa Banca centrale, hanno pensato che la moneta unica potesse garantire di per sé senza alcun tipo di azione, uno schermo eterno e impenetrabile. Ma se l’euro è uno non tutti i Paesi sono uguali: ecco dove è stato l’errore. L’Europa deve essere unita nel reagire e a maggior ragione deve esserlo il governo italiano. Governo, e va a suo merito, che a Bruxelles ha avuto un ruolo decisivo. Ora la politica dia una risposta forte. Si evitino liti su temi marginali, senza falsi ottimismi si dica che anche l’Italia non è immune dalla crisi. Averne consapevolezza ci aiuterà a superare prove che in futuro potranno rivelarsi difficili. (Corriere della Sera)

giovedì 6 maggio 2010

Lo scorpione e la rana. Marco Bombagi

Le cronache dal mondo in crisi economica ci descrivono una realtà surreale, sospesa tra dramma e farsa. La Grecia, travolta da un debito gigantesco, sta rischiando la bancarotta e necessita di aiuti da parte del Fmi e dell’Europa, che, tradotto, vuol dire Francia e Germania. Tre deputati tedeschi a suo tempo già lanciarono la proposta risolutrice: “vendetevi le isole, almeno quelle disabitate”. Magnanimi. La ferma risposta di Atene: “Non ci sembra un suggerimento appropriato”.
La situazione è grave ma non è seria, avrebbe detto Flaiano a proposito della questione greca, ma altrove è soprattutto grave. Nel Regno Unito, dove un’ampia fetta del Pil nazionale viene prodotta in un chilometro quadrato nella City di Londra, lo tsunami scatenato dal terremoto subprime ha trasformato, in tre anni, quella che sembrava un’isola felice (per loro) in un “esempio delle conseguenze del liberismo sfrenato”, come scrive l’Economist. Negli Usa, dopo gli oltre 700 miliardi di dollari del piano-Paulson, la disoccupazione dilaga mentre le banche, dopo aver usufruito degli aiuti, proseguono nella politica di stretta creditizia, ignorando i problemi di milioni di persone destinate a finire sulla strada.
Non è un caso che, tra i Paesi occidentali, proprio gli Stati Uniti e la Gran Bretagna siano i più colpiti, dato che entrambi, già da due decadi, dipendono dalle banche. Un anno fa il Telegraph infatti scriveva che "il Paese guarda il precipizio. Siamo a rischio della peggiore umiliazione, con Londra che diventa una Reykjavik sul Tamigi e l'Inghilterra che finisce sott'acqua. Grazie all'arroganza alla presuntuosa incompetenza seriale del governo e di un gruppo di banchieri, la possibilità di una bancarotta nazionale non è irrealistica". Dopo un anno pare che le cose non siano cambiate granchè. L'Independent rincara: "Uno dei principali investitori mondiali dà voce alle preoccupazioni del mercato. Jim Rogers, cofondatore della Quantum con George Soros, dichiara a Bloomberg: 'Vi consiglio urgentemente di vendere tutte le sterline che avete. È finita. Odio dirlo, ma non metterei più denaro nel Regno Unito'". E per concludere degnamente, il Guardian: "In privato qualcosa di molto somigliante alla disperazione sta cominciando a serpeggiare nel governo. Dopo aver visto lo scivolone delle banche, un Ministro del Gabinetto inglese non scherzava quando ha detto: 'Le banche sono fottute, noi siamo fottuti, il Paese è fottuto'". Quando si dice aplomb britannico...
Una scelta dunque tra realtà e finzione finanziaria a vantaggio della seconda. "Oggi la speculazione monetaria" sostiene Internazionale di cinque mesi fa che riportava un'inchiesta di Der Spiegel "è venti volte il volume degli scambi commerciali. [...] L'attività finanziaria è scollegata dalla realtà e ha la forza di distruggere la ricchezza di interi settori industriali, anzi, di interi Paesi". Su questa linea si pone la lucida analisi di Massimo Fini nel suo "Il denaro, sterco del demonio": "Al fenomeno della finanziarizzazione del denaro" scrive "si accompagna quello della sua progressiva smaterializzazione. Il denaro perde i residui contatti con la materia in cui si era via via incarnato".
Lo sforzo salvifico profuso dai governi, negli ultimi due anni, per rivitalizzare le banche che avevano causato la crisi rovinando milioni di persone, non è stato del tutto vano. Il sistema finanziario, in effetti, ha tirato un bel sospiro di sollievo e ora la giostra è ripartita di gran lena. Peccato però che per applicare il massaggio cardiaco agli istituti di credito tutti i governi occidentali abbiano dilapidato un oceano di denaro, soldi di quei cittadini vittime due volte del sistema: prima raggirati dalle alchimie dei cosiddetti maghi della finanza, poi ulteriormente spremuti dagli Stati corsi al capezzale degli apprendisti stregoni in difficoltà.
Cifre enormi, quelle stanziate dai governi occidentali, a esclusivo beneficio degli artefici del disastro. Denaro che causa oggi gravi problemi di indebitamento per gli Stati, mentre le banche d’investimento hanno ripreso a fare esattamente ciò che ha portato il mondo sull’orlo del baratro: il gioco d’azzardo. Per di più, sulla pelle di chi le aveva salvate. “Si torna a scommettere, si torna a far festa, si torna a guadagnare un sacco di soldi" proseguiva l’inchiesta di Der Spiegel, "e tutto grazie ai miliardi immessi nei mercati dalle banche centrali e dai governi per arginare le conseguenze della crisi”. "Quando va tutto bene - proseguiva l’articolo- lo Stato non deve intervenire e i guadagni vanno ai banchieri. Ma se qualcosa va storto, tocca al contribuente pagare il conto". È il capitalismo, bellezza.
Un atteggiamento deprecabile, ma soprattutto autolesionista, dato che, in caso di fallimento degli Stati e conseguente crisi strutturale del sistema liberal-capitalista, alchimisti dell’economia finanziaria e comuni cittadini, a bordo di uno stesso Titanic, affonderebbero insieme. E qui più di tante analisi tecniche ci viene in aiuto Esopo, nella sua antica saggezza, con la favola dello scorpione e la rana. Uno scorpione vuole attraversare un fiume, ma non sa nuotare. Chiede a una rana di traghettarlo. La rana non si fida, perchè teme di essere punta, ma lo scorpione la rassicura: “se ti pungessi annegherei anch'io”. La rana generosamente accetta, ma a metà percorso lo scorpione la colpisce con il suo aculeo velenoso. La rana, disperata e morente, gli chiede “Perché?”. Lo scorpione, prima di morire annegato a sua volta, risponde “È la mia natura”. Lo scorpione potrebbe essere un qualunque stratega di Wall Street o supermanager di banca con superbonus, indovinate un po’ chi è la rana? (movimentozero)

domenica 2 maggio 2010

Wall Street, la regola dell'immoralità. Francesco Guerrera

Memorizzate questa data: il ventidue giugno dell’anno 2007 – il giorno in cui Wall Street fece cadere il velo e mostrò il suo aspetto più becero e meschino.
Alle 16,32 di quel fatidico pomeriggio, Tom Montag, all’epoca uno dei dirigenti della Goldman Sachs, mandò un’email ad un collega nella prestigiosissima banca d’affari.
Montag, come tutti i grandi banchieri, era presissimo e la sua missiva consisteva di una sola riga: «Ragazzi, l’Obbligazione Lupo è stata proprio merdosa». Quelle sette parole inglesi potrebbero diventare il motto di un modo di interpretare l’alta finanza che è stato una delle cause dell’implosione dell’economia mondiale e dell’enorme crisi di fiducia nel settore bancario.

Vi risparmio la descrizione della complicatissima Obbligazione Lupo: vi basti sapere che si trattava di un titolo pieno di mutui «subprime» che crollò in valore dopo pochi mesi quando gli indigenti debitori smisero di pagare. Il dettaglio fondamentale, però, è che la Goldman vendette un miliardo di dollari di queste obbligazioni a investitori - intascando milioni in commissioni - nonostante l’opinione scatologica del Signor Montag.

Ma non è finita. Grazie alle investigazioni di un gruppo di agguerritissimi senatori americani, sappiamo che la Goldman non solo creò e smistò un prodotto «sospetto», ma ci scommise pure contro, comprando dei contratti che le garantivano dei pagamenti ogni volta che il titolo perdeva valore.

Per ricapitolare: mentre gli investitori in Timberwolf stavano rimettendoci centinaia di milioni di dollari (uno dei fondi d’investimento andò persino in bancarotta), la Goldman ci guadagnava di suo. Altro che Lupo: i cervelloni della banca d’affari quell’obbligazione l’avrebbero dovuta chiamare Squalo.

Bisogna dire che la condotta della Goldman non è illegale – anche se la società è stata accusata di frode dall’authority americana per un’altra obbligazione molto simile a Lupo (Goldman nega quelle accuse). Anzi, i banchieri della Goldman non si stancano mai di ripetere che non hanno mai avuto nessun dovere di dire ai clienti quello che pensano dei titoli che gli vendono.

In questo hanno ragione: nel mondo della finanza americana «caveat emptor» è una delle regole immutabili. I fondi d’investimento che si sono fatti azzannare dall’Obbligazione Lupo sarebbero dovuti stare più attenti a quello che compravano. Ma alla luce degli eventi epocali del 2007-2009, una spiegazione strettamente legale non basta più. Dopo aver partecipato a follie finanziarie che sono costate miliardi di dollari e milioni di posti di lavoro, la domanda da porre a Wall Street è di natura morale, non legale. È etico per una banca mettere i propri interessi al di sopra di quelli dei suoi clienti? È giusto per un venditore mettere in vetrina prodotti che sa che sono marci? Per Goldman - e molte altre banche - la risposta è sì. Se i clienti vogliono un prodotto, loro glielo vendono - per una bella commissione - senza tante remore e crisi di coscienza, salvo riservarsi il diritto di fare dei soldi scommettendoci contro.

Per gran parte della gente e la classe politica la risposta è no. Come ha detto il senatore repubblicano John Ensign, che di scommesse se ne intende visto che viene dal Nevada, durante un’udienza parlamentare con dirigenti della Goldman questa settimana: «Las Vegas si dovrebbe offendere quando viene paragonata a Wall Street: a Las Vegas gli scommettitori conoscono le loro probabilità di vittoria, voi invece manipolate le probabilità a partita in corso».

Un casinò truccato dove il banco vince sempre. Se questa è l’immagine del sistema finanziario più grande e sofisticato del mondo, non bisogna essere uno dei geni matematici che hanno inventato Timberwolf per capire che Wall Street ha un problema serio.
Un problema che non scomparirà da solo e certo non viene risolto dallo spettacolo a cui ho assistito martedì: 11 ore di colloquio tra capi della Goldman e senatori e nemmeno una traccia di pentimento nelle facce o nelle parole dei banchieri.

Lloyd Blankfein, l’amministratore delegato della Goldman che nel 2007, l’anno di Timber-wolf, si portò a casa 68 milioni di dollari, l’ha detto chiaro e tondo ai senatori che protestavano che una banca che vende prodotti con una mano e scommette con i suoi soldi con l’altra è al centro di gravi conflitti d’interesse. «Non ci vedo nulla di male», ha detto martedì. Ogni crisi finanziaria ha le sue vittime e i suoi carnefici e la Grande Recessione degli anni 2007-2009 non fa eccezione. Le vittime le conosciamo bene: gli americani medi convinti che i prezzi delle case non sarebbero caduti mai, che avere sette carte di credito, quattro macchine e cinque televisori fosse normale e che il «sogno americano» di prosperità infinita non si sarebbe mai infranto.

I carnefici sono anch’essi molti e molto noti (una classe politica, spronata dal banchiere centrale Alan Greenspan, che s’innamorò della deregulation; agenzie di credito che chiusero gli occhi; e investitori accecati dalla chimera dei soldi facili). Ma se le banche continuano a negare l’evidenza saranno le uniche a pagare per colpe non tutte loro. L’ostinazione e l’arroganza di un banchiere milionario che dice: «Non c’è niente di male» non aiuta né la sua banca né un settore che, al momento, è meno rispettato dei venditori di auto usate (e perfino dei giornalisti...).

Le riforme stanno arrivando a grande velocità con un bel carico di populismo acchiappa-voti - non è un caso che le accuse di frode contro Goldman siano state annunciate proprio quando l’amministrazione Obama stava avendo difficoltà a convincere i repubblicani a passare la legge che ridisegnerà il sistema finanziario Usa.

La «regola Volcker» - che prende il nome dal vecchio capo della Federal Reserve e proibisce alle banche di usare fondi propri per comprare e vendere titoli e investire in società - sarà sicuramente approvata e banche come la Goldman (ma anche rivali come la Morgan Stanley e la JPMorgan) dovranno dire addio a miliardi di utili. E forse è questa la soluzione più giusta ai problemi di Wall Street: lasciare dei soldi sul tavolo - come dicono i banchieri quando non riescono ad estrarre la commissione più alta possibile da un cliente - e in cambio evitare misure draconiane e punitive che potrebbero mettere a rischio il futuro di uno dei settori più importanti dell’economia statunitense.

Abbandonare i mercati rischiosi ma redditizi di prodotti complessi ed esotici, dei titoli tipo Timberwolf e delle scommesse con i propri soldi non sarà facile per banchieri, banche e investitori che si sono abituati a utili altissimi e bonus principeschi.

Il «ritorno al futuro» - al ruolo di banche come intermediarie di flussi monetari tra compratori e venditori piuttosto che protagoniste di azioni finanziarie con capitale proprio - non sarà facile soprattutto perché questi tipi di servizi non sono molto remunerativi. L’alternativa però è essere al centro del tifone del dopo-crisi - identificati come colpevoli da una classe politica che è praticamente obbligata ad infierire sui banchieri e le loro società per soddisfare la sete di sangue di un pubblico arrabbiato. Dopo tanti anni di caveat emptor, sarebbe utile per Wall Street adottare la regola del «caveat venditor». (la Stampa)

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.Francesco.guerrera@ft.com