giovedì 29 maggio 2008

La puzza che arriva da Napoli. Davide Giacalone

L’inchiesta napoletana puzza, e non solo perché s’occupa di rifiuti. Emana tanfo di decomposizione statale. Prepotentemente ribadisce che il problema non è trovare un’intesa con la magistratura associata e le sue tentacolari diramazioni, ma dare un senso al termine “giustizia”. Mentre Napoli affoga nella spazzatura e nella camorra, dunque, si mandano in galera i funzionari dello Stato e si contesta loro l’associazione a delinquere. Naturalmente, è possibile che le accuse siano fondate e che non siano l’ingigantimento di qualche intrallazzo minore. In questo caso si chieda scusa ai manifestanti e li si faccia costituire parte civile, assieme alla camorra, evidentemente l’unica entità in grado di garantire l’ordine e mantenere la parola.
Lo vedremo, ma quando? Per esempio: quand’è che sapremo se Bassolino e l’Impregilo sono colpevoli di qualche cosa? Magari c’è anche qualcuno interessato a conoscere chi sono i proprietari dei terreni sui quali le ecoballe venivano impilate, ed a conoscere con quale tempismo straordinario gli uomini della camorra provvedevano ad impadronirsene. Altri, curiosoni, vorranno sapere se si sta contestando un qualche reato ai camorristi, per avere commerciato i rifiuti tossici ed averli versati nelle discariche con un via vai di camion che si poteva non vederli, ma era impossibile non sentirli. Taluni, sofisticati, vorrebbero scandagliare l’intero mondo delle aziende addette a questo miracoloso business della mondezza, magari supponendo qualche legame con amministratori fin qui mai sospettati. Nisba, il convento, pardon, la procura, oggi passa l’arresto degli statali.
Alcuni fatti, però, intensificano l’olezzo. Gli arresti sono stati chiesti all’inizio di gennaio, e, per come la vedo io, dopo cinque mesi la custodia cautelare è già di suo un obbrobrio. L’ordinanza d’arresto è di 643 pagine, dovranno tenerli un mese per consentirgli di leggerla. I gip sono la copisteria delle procure e questi romanzi criminali servono solo a far uscire quel che dovrebbe essere riservato. Cosa? Hanno poca fantasia: le intercettazioni telefoniche che non configurano reati ma sputtanano gli interessati.
Morale: se le accuse sono fondate, lo Stato è occupato da bande. Se non lo sono, c’è una banda, alleata della camorra, che lo colpisce. Puzza, di putrefazione.

mercoledì 28 maggio 2008

La Sapienza, le mazzate e la storia. Davide Giacalone

E’ grave, quel che è successo alla Sapienza. Non solo, e neanche tanto, perché gruppi d’estremisti si sono presi a mazzate, piuttosto perché le loro mani si muovono non coadiuvate dal cervello, in un’università che il rettorato non governa. Cominciamo dalla testa, quella universitaria: non è un errore, è una tragica dimostrazione d’insipienza l’autorizzare prima un convegno sulle Foibe ed il proibirlo poi “per ragioni di ordine pubblico”. Per quelle ragioni si chiama la polizia, non si cancellano gli appuntamenti. Alla Sapienza dovrebbero saperlo, dopo la figura meschina di un rettore che prima invita Ratzingher e poi si rimangia l’invito perché dei colleghi avevano da ridire sul processo a Galileo Galilei (1632!). La demenza si trovava in cattedra, perché nessun processo come quello consegna la certezza che il torto stesse dalla parte degli accusatori e del tribunale pontificio.

I giovani della destra vogliono parlare delle Foibe? Benissimo, l’università ne parli. Furono un crimine contro l’umanità e contro degli innocenti, gettati vivi in fosse naturali dalle milizie rosse di Tito. Ma anziché contribuire a che le ossa di quei poveri morti siano ancora utilizzate come oggetti contundenti, il compito dell’università dovrebbe essere quello di aiutare a capire. Che non è mai giustificare, ma capire. Gli italiani, fascisti, si comportarono da sterminatori della popolazione slava (il libro di Alessandra Kersevan potrebbe anche essere letto, commentato, criticato, come se fosse un’università, insomma), ed i partigiani titini approfittarono del clima bellico per una vendetta altrettanto etnica. Se ne parli, affinché la storia sia diversa dalla mitologia e la cultura aiuti a conoscere la realtà senza trasfigurarla secondo le tifoserie troglodite.
I giovani della destra vogliono parlarne solo per dire che i comunisti di Tito furono dei carnefici proprio in quanto comunisti? Si dia loro l’aula, si garantisca la loro sicurezza, ma s’insegni la storia per quella che è, senza dare la sensazione che quella pagina debba solo essere nascosta e taciuta. Se i professori della Sapienza non sono in grado di reggere questo confronto culturale vuol dire che la cattedra è l’ultimo posto dove dovrebbero stare.Vale per le Foibe e vale per tutto, anche per il lavoro condotto da Giampaolo Pansa sulle vendette personali e gli eccidi perpetrati dai partigiani nel corso della guerra civile italiana. Non si tratta di sminuire il contributo che i partigiani diedero alla Liberazione ed alla cacciata tanto del regime fascista quanto dell’occupazione nazista, ma di chiarire che quella fu una guerra civile, appunto, e che la vittoria della democrazia e della libertà fu assicurato dalle truppe anglo americane, il che, dopo Yalta, ci consentì di trovarci dalla parte buona del mondo. La stessa fortuna non ebbero a Praga o a Budapest, e pagarono con il sangue. (A proposito, da uno dei libri di Pansa, “Il sangue dei vinti”, è stato tratto un film. Pare ci siano molti problemi a distribuirlo nelle sale, segno che quel che è accaduto alla Sapienza ha un’eco profonda in un Paese ancora incapace di guardare se stesso e la propria storia).
Sta di fatto che, dopo essersi sentiti negare la possibilità di tenere il convegno, i giovani di destra abbiano affisso dei manifesti di protesta. E qui la demenza si eleva al quadrato, perché entrano in scena quelli della sinistra, che avevano protestato ed ottenuto il diniego, e vanno a strappare e coprire quei manifesti. Tali antifascisti immaginari forse non lo sanno, ma il negare la parola a chi la pensa diversamente fu uno dei tratti caratterizzanti del fascismo, come di ogni dittatura. Si sono comportati da fasciti, insomma.
E mentre le loro mani s’affannavano a far scomparire la manifestazione di un pensiero, la loro mente neanche prevedeva l’ipotesi di potere pensare. Perché se lo avessero fatto si sarebbero accorti che il capo politico della destra, un signore che militò nel Movimento Sociale Italiano e fu seguace di Almirante, Fini, non solo è andato davanti alla fiamma che ricorda le vittime dell’Olocausto, ma si è spinto a dire una cosa incontrovertibilmente giusta: le leggi razziali, fasciste, furono il male assoluto. Ed ancora in queste ore definisce “vergognose” le parole di quello che fu il suo maestro. Se avessero pensato avrebbero tenuto in conto che il nuovo sindaco di Roma, Alemanno, anche lui con un passato da fascista, è andato subito a rendere omaggio alle Fosse Ardeatine, dove giacciono eroi dell’antifascismo e poveri disgraziati decimati per rappresaglia, il tutto con l’allora entusiastico consenso del fascismo ridotto a Salò, dove si trovava il futuro capo di Fini ed Alemanno. Se avessero pensato, insomma, si sarebbero accorti che non hanno vinto loro, incapaci di capire, ma ha vinto la Repubblica, la Costituzione, le scuole di libertà. Vinsero allora, grazie all’aiuto delle truppe alleate, ed hanno continuato a vincere, facendo tornare nell’ambito della libertà quegli avversari che per tanto tempo furono nostalgici degli sconfitti.
Quelle teste di rapa, insomma, si sono mostrati identici ai loro docenti: fermamente determinati a danneggiare la parte migliore del nostro mondo. Il fatto che s’incontrino alla Sapienza è più che sufficiente per chiedere che l’insegnamento universitario ritrovi la via della qualità, della competizione e della meritocrazia, in modo che tali docenti e tali discenti occupino permanentemente le aule di un’istituzione che non vale una cicca.
Da qui il discorso ci porterebbe altrove e lontano. Per adesso serve esprimere il più vivo rammarico. Non per le mazzate che si sono date, ma per il fatto che tutti gli altri studenti siano costretti a frequentare quegli stessi corsi.

martedì 20 maggio 2008

Dopo 60 anni è ora di voltare pagina. Angelo Crespi

Vale la pena riscrivere la storia? La risposta più ovvia è sì. Meno ovvi i motivi che ci inducono a dare risposta positiva. Nessuno, sul principiare del nuovo governo di Centrodestra, è così sprovveduto da proporre che si debba forzosamente invertire il segno della storiografia italiana. Sarebbe illiberale pensare di sostituire una lunga e perniciosa egemonia culturale con un’altra seppur di verso opposto, ugualmente menzognera. Sarebbe inutile revanscismo tentarci, presi da sacro furore ideologico. Più giusto appare il perseguimento della verità, con tutti i limiti insiti in una tale affermazione. Ma dopo sessant’anni di mezze verità, vale la pena almeno provarci.

Lo spunto del ragionamento proviene dal nuovo libro di Giampaolo Pansa (I tre inverni della paura, Rizzoli) dedicato ancora una volta alle tristi vicende della guerra civile che vide scontrarsi sul suolo italiano con lo stesso odio e la medesima brutalità, fascisti, nazisti e comunisti. In questo caso però Pansa ha affinato il proprio armamentario di documenti, filtrandolo per mezzo della letteratura: una sorta di saga familiare, ambientata nel cosiddetto triangolo rosso emiliano, attraverso la quale l’autore ricostruisce il clima di orrore di quegli anni. Una scelta in apparenza meno stringente dal punto di vista storico, di certo più efficace in termini di divulgazione. Basti pensare che per vari lustri il ricordo di una tappa fondamentale seppur tragica della nostra storia patria fu demandato al romanzo dell’appena scomparso Marcello Venturi (Bandiera bianca a Cefalonia, Feltrinelli, 1963).

Il lato oscuro
La questione Resistenza ha superato il vaglio degli storici. Nessuno studioso onesto, se non per motivi di vile militanza, può esimersi dal mostrare il lato oscuro del periodo 1943-1948, specie il lato oscuro che riguarda le vendette partigiane a guerra conclusa. In questo senso Pansa, da attento storico e sapiente divulgatore, ha definitivamente abbattuto coi suoi precedenti volumi, a partire da Il sangue dei vinti, il muro di omertà eretto sul tema. Lo ha potuto fare anche in ragione della sua lunghissima carriera a l’Espresso e a Repubblica, vere fucine dell’intellighenzia di sinistra; per questo motivo è stato bollato come revisionista, come traditore della causa. In certi casi e in certe città gli è stato perfino impedito di presentare il proprio lavoro.
Nei decenni precedenti, la questione aveva avuto vari e controversi risvolti. La storiografia e la memorialistica di estrema destra avevano già raccolto ampia documentazione che metteva in crisi la liturgia della Resistenza. Ovviamente questi studi erano stati confinati ai margini dell’editoria. Nell’accademia, i precursori autorevoli come Renzo De Felice furono invece massacrati.

Bisognerà aspettare Ernesto Galli Della Loggia e poi Aga Rossi, e uno studioso straniero come Victor Zaslavsky, per fare luce su alcuni nodi del comunismo italiano, e più di recente rivolgersi agli editori minori per vedere pubblicati studi sistematici sulle strategie di potere della sinistra (vedi per esempio di Ugo Finetti, La Resistenza cancellata, Ares).
Non si può comunque disconoscere il grande impatto dei libri di Pansa, venduti in centinaia di migliaia di copie, che hanno riempito un vuoto di memoria collettiva che andava ingigantendosi e rendendo sempre più labile il concetto di appartenenza a una comune nazione. Il bisogno di fondare un nuovo patto tra i cittadini italiani, specie dopo la rivoluzione politica conseguita alla caduta del Muro di Berlino, prevedeva necessariamente la fondazione di una storia condivisa, o per lo meno lo sgombero dei falsi miti su cui si era retta la cosiddetta prima Repubblica. Cosa che con fatica sta avvenendo, un po’ per merito dell’irrimediabile oblio che avvolge i fatti storici, un po’ per la maturazione delle nuove classi politiche sia a destra che a sinistra.

Oltre la narrazione
Eppure qualche incrostazione resta anche se forse non è più compito dell’annalista di professione rimuoverla. I luoghi comuni resistono perché veicolati dai mass media, dalla televisione, dal cinema che preferiscono il cliché. Lo sforzo di Pansa, al di là dei meriti letterari che non sta a noi qui giudicare, è di fornire materiale psicologico, sebbene fondato su documenti; spesso nel romanzo, l’impatto narrativo cede infatti il posto all’intento didascalico, talvolta snervante perché l’autore immola la storia particolare, sull’altare della Storia generale. E non riuscendo a esimersi dal fornire con precisione al lettore riscontri oggettivi, date, nomi, luoghi geografici, strategie militari, analisi politiche, mettendoli in bocca ai protagonisti, rischia l’inverosimile narrativo, quasi che tutte le figure descritte non fossero parte in causa delle vicende, semmai veicoli dell’autore per fare storia in altro modo.

Ciononostante su un affresco vario e convincente della borghesia agraria emiliana, disegnate con maestria e umana pietas, si stagliano alcune figure, specie quella di Nora Conforti, il fulcro attorno al quale ruota l’intero dramma: giovane donna, figlia, madre, moglie, uccisa in un agguato appena ventiquattrenne, il 31 ottobre 1946, incolpevole vittima della diabolica follia che divise le famiglie, i fratelli, i paesi, l’Italia.
La Resistenza come mito fondante della Repubblica d’altronde poggiava sulla manifesta menzogna di molti storici sostenuti dalla politica, e più latamente sull’apporto di altri generi, come il romanzo e la memorialistica – più consoni a far vibrare e sedimentare sentimenti collettivi – che per decenni hanno “educato” nelle scuole le giovani generazioni.
Il romanzo di Pansa sarà dunque utile, come molta recente fiction televisiva, a riequilibrare anche per una platea più vasta le ragioni e i torti di quegli anni.
Mentre ci si allontana sempre più dal magma, mentre si affievoliscono i ricordi personali e scompaiono, non possiamo che auspicare non una beota dimenticanza né una forzata riscrittura, semmai una sincera opera di riconciliazione. (il Domenicale)

sabato 17 maggio 2008

La frode di Rigoberta Menchù. Guglielmo Piombini

Dopo il crollo del comunismo la sinistra occidentale è riuscita a conservare la propria egemonia culturale riconvertendosi dal marxismo al multiculturalismo. La sinistra multiculturalista non concentra più le sue critiche sulle strutture economiche della società capitalistica, come prescriveva il marxismo classico. Quasi nessuno oggi ha più il coraggio di chiedere l’abolizione della proprietà privata o la collettivizzazione dei mezzi di produzione. L’attacco prende invece di mira invece le “sovrastrutture” culturali della società, secondo la lezione di Antonio Gramsci e della Scuola di Francoforte.

Dietro una facciata relativista, il multiculturalismo combatte tutto ciò che appartiene al passato storico dell’Europa. Quest’odio profondo per il nostro retaggio religioso e culturale, motivato da un intenso sentimento di rivalsa, si manifesta con l’esaltazione acritica di tutte le culture estranee all’Occidente, comprese le più aberranti, e con il desiderio frenetico di ripopolare il vecchio continente con immigrati extraeuropei anche apertamente ostili.

Questa premessa serve a spiegare il senso di una delle operazioni propagandistiche più riuscite alla sinistra internazionale negli ultimi decenni: la creazione del mito di Rigoberta Menchú, l’indigena guatemalteca di etnia maya vincitrice nel 1992, a soli trentatre anni, del premio Nobel per la Pace. La fama della Menchú si deve al libro di memorie scritto nel 1983 dall’antropologa Elisabeth Burgos Debray, l’ex moglie del famoso rivoluzionario francese Régis Debray, la quale nel 1982 trascorse otto giorni nel suo appartamento parigino sollecitando e registrando il lungo racconto di Rigoberta (l’edizione italiana, pubblicata dalla casa editrice Giunti di Firenze con il titolo Mi chiamo Rigoberta Menchú, è del 1987).

Il successo nelle librerie, nelle scuole e nelle università fu immediato, e fece della Menchú il simbolo degli indigeni dell’emisfero occidentale depredati e oppressi dai conquistatori europei. Come povera donna indios, la Menchú era un’icona perfetta del multiculturalismo perché riassumeva in sé tutte le caratteristiche più apprezzate dalle ideologie alla moda tra gli intellettuali progressisti.

Verso la metà degli anni Novanta cominciarono però a sorgere i primi dubbi sulla veridicità del suo racconto, anche perché sembrava strano che una contadina illetterata dell’America Centrale usasse con tanta disinvoltura il tipico frasario marxista dei radical-chic occidentali. L’antropologo americano David Stoll fece delle accurate verifiche sul campo e nel 1999 pubblicò i risultati delle sue ricerche, che smascheravano cumuli di menzogne presenti nella testimonianza della Menchú.

L’editore e giornalista libertario Leonardo Facco, esperto del mondo latinoamericano, ripercorre i retroscena di questo clamoroso inganno in un libro agile ed efficace appena pubblicato dall’editore Rubbettino di Soveria Mannelli: Si chiama Rigoberta Menchú. Un controverso premio Nobel (78 pp., € 10,00). La famiglia della Menchú, ricorda Facco, non era affatto povera, perché suo padre possedeva quasi tremila ettari di terra coltivabile; le dispute per questo terreno non nascevano dai tentativi di esproprio da parte dei ricchi proprietari terrieri discendenti dei conquistadores, ma da squallide beghe famigliari; suo padre non venne bruciato vivo dai militari all’interno dell’ambasciata di Spagna, ma rimase vittima di un incendio causato dalle bottiglie molotov dei dimostranti; anche le uccisioni della madre, di tre fratelli e del nipotino compiute dalla polizia sono un’invenzione; la Menchú sostiene di essere rimasta analfabeta fino all’età adulta, ma risulta che abbia frequentato per otto mesi all’anno un ottimo collegio religioso privato; questo fatto rendeva impossibile la sua partecipazione alle attività politiche e insurrezionali descritte nel libro.

Non c’è da meravigliarsi che in Guatemala la Menchú non sia mai stata popolare come all’estero. I suoi concittadini sanno benissimo che le storie che racconta al pubblico occidentale sono piene di falsità e di esagerazioni. Alle recenti elezioni presidenziali, che si sono svolte il 9 Settembre 2007, la “portavoce del popolo oppresso” ha rimediato infatti un misero 3,05 % dei voti, nel silenzio imbarazzato degli organi d’informazione che hanno cercato di dare il minor risalto possibile alla notizia.

La Menchú si difende dalle denunce di frode accusando David Stoll di “razzismo”, rispondendo elusivamente a tutte le obiezioni specifiche, e contestando la trascrizione di Elisabeth Burgos, con la quale è in lite per i diritti d’autore del libro. Gli intellettuali di sinistra continuano ad esaltarla perché “qualche inesattezza nel racconto non inficia la bontà della sua causa”, e il comitato per il Nobel si è rifiutato di ritirarle il premio. Come scrive Romano Bracalini nella prefazione del libro di Leonardo Facco, la menzogna è sempre stata un portato della dottrina totalitaria ed il comunismo ne ha fatta un’arte insuperata. Rigoberta Menchú viene dalla medesima scuola d’impostura. (Il Domenicale, 20 ottobre 2007)

lunedì 12 maggio 2008

Marco, megafono delle Procure. Filippo Facci

Sul serio: che dobbiamo fare con Marco Travaglio? Perché vedete, quelle di Marco Travaglio non sono «opinione diverse»: sono piccole e grandi falsità mischiate a omissioni, ciò che nell’insieme forma una cosa che si chiama propaganda. Che sia per se stesso, o per i suoi amici, è propaganda. E che dovremmo fare? Si sbaglia in ogni caso. Se te ne occupi fai il suo gioco vanesio e legittimante, oltretutto perdi un sacco di tempo perché la quantità di cose appunto false e omissive da lui dette è talmente clamorosa da rischiar di consumare, solo per replicargli e smentire, tutto il tuo tempo e tutti i tuoi articoli. Se invece non te ne occupi, viceversa, c’è il rischio che il silenzio passi per assenso e dunque che lui, per farsi notare e fare sempre più il fenomeno, ogni volta alzi la posta delle cretinate che scrive e che ripete a pappagallo. Che fare, dunque? Va considerato peraltro che l’ego pubblico del ragazzo è talmente devastante da farlo esser fuori casa sette giorni su sette: presentazioni di libri suoi, libri di altri, spettacoli teatrali, girotondi, kermesse satiriche, comizi di Grillo, convegni organizzati da circoli culturali o da banche, soprattutto talk show illiberali sinché non lo invitano, questo secondo uno schema nondimeno brutale: se l’invitano deve poter dire qualsiasi cosa di questo regime, sennò è la prova che il regime c’è; se non l’invitano, be’, vuol dire che il regime c’è definitivamente.A proposito: Biagi è stato cacciato. Non è vero, è documentalmente provato che è falso, niente di serio prova il contrario: ma a lui e altri lo ripetono sperando che la cosa passi in cavalleria. Propaganda? I signori conduttori, nel dubbio, lo invitano. Travaglio oltretutto alza gli ascolti perché attira sia i descolarizzati & frustrati che lo amano (target Di Pietro) sia quelli che lo detestano e allora lo guardano come si guarda, dicendo «che schifo», un gatto spiaccicato sull’autostrada. Nel frattempo il terzo gode: si chiami Santoro, Fazio o chi volete. Che ci vuole: è sufficiente dissociarsi con una formuletta. L’ha fatto l’altro giorno Fabio Fazio, tutto contento, perché Travaglio è uno che fa comunque rumore e che fa parlare della tua trasmissione. Travaglio ha detto cose orrende del neopresidente del Senato, Renato Schifani, estraendo dal cappello alcune remote frequentazioni tra lui e altra gente che è stato indagata per mafia 18 anni dopo.
A Travaglio non par vero di potersi auto-associare a giornalisti come Lirio Abbate (persona seria, minacciata dalla mafia, ma essenzialmente cronista come Travaglio non è mai stato) o come Roberto Saviano, l’autore di Gomorra che ad Annozero, qualche settimana fa, in confronto, ha fatto sembrare Travaglio come un figurino patetico e impiccato ai suoi verbalini. Minacce mafiose: conoscendolo, è la medaglia cui Travaglio ambirebbe maggiormente. E una bella scorta, magari. Perché lui è libero e il regime vuole ucciderlo, mentre non siamo prigionieri e non ci fila nessuno: lo schema, involuto, è questo. Da capo: che fare, dunque? Non se ne uscirà, di questo passo. La logica degli ascolti e la vanità di questo addetto stampa della magistratura italiana presto ce lo mostrerà anche alla Prova del cuoco ad accusare Giuliano Ferrara di essere grasso (la sfottò per difetti fisici è una sua ossessione, da fascistello qual è) o a spiegare che la lobby dei tacchini natalizi era chiaramente citata nel «Piano di Rinascita nazionale» caro a Licio Gelli. Perché un altro punto, e ve lo dice uno che i verbali giudiziari li ha letti e masticati per vent’anni, è che Travaglio non è uno appunto che ha «opinioni diverse», Travaglio è un cialtrone. Marco Travaglio è un grandissimo cialtrone inviso a qualsiasi persona intellettualmente onesta e minimamente informata. È la faziosità pura, la riproposizione dei passaggi di alcune sentenze al posto di altri, di certi verbali al posto di altri, di certi avversari al posto di altri. È l’enfasi delle sentenze di condanna e in caso di assoluzione è la sottolineatura delle parti che la condanna auspicavano. È l’invenzione di status giuridici inesistenti (prescritto al posto di non colpevole, soprattutto) o è la citazione dell’articolo articolo 530 come «insufficienza di prove» anziché «assoluzione perché il fatto non sussiste». È dire «in nessun paese del mondo avviene che» anche se non è vero, sapendo che nessuno o quasi andrà a controllare: vedasi il caso delle intercettazioni telefoniche, o del celebre conflitto di interessi, che negli Usa sarebbe tranquillamente tollerato come ha ripetuto Al Gore di recente. Più in generale, Marco Travaglio è un fracco di balle di cui nessuno si accorge perché lui è così «documentato» che nessuno si prende la briga di controllare, tantomeno conduttori e direttori e capiredattori. Per anni Travaglio ha attribuito a Paolo Borsellino la citazione di una telefonata tra Mangano e Dell’Utri dove si parlava di droga: appreso che questa telefonata non è mai esistita, lui ha continuato a citarla. Travaglio ha scritto balle contro Mediaset e Fedele Confalonieri: condannato, ma non lo sa nessuno. Ha scritto balle contro Cesare Previti: condannato, ma non lo sa nessuno. E pochi sanno degli errori materiali (chiedete a Giuseppe Ayala) e pochi sanno dei casi di omonimia di cui ha dovuto scusarsi (chiedete a Pier Ferdinando Casini, Giuseppe Fallica e Antonio Socci) e pochi sanno soprattutto delle tantissime sciocchezze e omissioni che nessuno sta neppure a smentire.
All’ultimo Annozero Travaglio ha detto che Grillo non può essersi arricchito con l’antipolitica perché i quattro milioni di euro da lui dichiarati, in realtà, sono del 2005, e cioè di quando i vaffanculo day neppure li faceva. Non è vero, sono i redditi dell’anno scorso: ma a lui basta dirlo. Al V-day di qualche settimana fa Travaglio ha tuonato contro i finanziamenti pubblici all’editoria e ha detto che anche L’Unità percepisce contributi «come tutti i giornali italiani»: e non è vero, perché la sua Unità percepisce più contributi di tutti, in quanto stampa politica come tantissimi altri giornali non sono. Se vai suo internet e cerchi l’ultimo articolo di Travaglio contro Gianni Alemanno, nei sindaco di Roma, trovi le accuse più incredibili contro di lui ma neppure la citazione del dettaglio che è stato assolto. Sempre assolto. Il nostro precisino sa essere tremendamente impreciso: ogni volta alza la posta dell’invettiva, abbassa l’asticella del target e tutto il resto è regime: magari citando e ricitando Montanelli. Quando un Montanelli redivivo, oggi, a uno come Travaglio, gli rilascerebbe sul sedere un bel verbale a forma di tacco. (il Giornale)

venerdì 9 maggio 2008

Il Faraone-ombra. Orso Di Pietra

Chi fece secco Giovanni Conso? Chi liquidò Alfredo Biondi? Chi provocò la cacciata di Filippo Mancuso? Chi mise in croce Roberto Castelli? E chi tormentò Clemente Mastella? Per spiegare la catena di incidenti, accidenti e traversie varie capitate ai Guardasigilli succedutisi dal ’92 ad oggi, si parla della “ maledizione di via Arenula”. Come se al confine del vecchio Ghetto di Roma fosse stata scoperta la tomba di Tutankamon. E lo spirito del Faraone, imbufalito per essere stato svegliato dal riposo eterno, avesse deciso di vendicarsi di tutti i titolari del Ministero della Giustizia. Ma quale Tutankamon! Il Faraone ha un nome ed un cognome. Ed è quello di chi dal ’92 ad oggi, indossando i panni del Guardasigilli-ombra, ha fatto le bucce ai Guardasigilli al sole costruendoci sopra il proprio successo politico. Si chiama Di Pietro. E che per esorcizzare la sua maledizione basta non ascoltarlo. “Rompe-Antonio”, “rompe-Antonio”... (l'Opinione)

Silvio Berlusconi Presidente del Consiglio dei Ministri

Un sogno si avvera: l'ho scritto, così lo rileggo tutte le volte che voglio.
Finalmente Berlusconi è ritornato Presidente del Consiglio.
Facciamoci i complimenti noi che ci abbiamo sempre creduto e lo abbiamo sempre voluto.
E' realtà, è lui il Presidente.
Grazie, Silvio.

domenica 4 maggio 2008

Se anche il comico è sinistro. Paolo Pillitteri

Un conto è essere di sinistra, un altro essere sinistro. Ce lo dicevano i maestri della socialdemocrazia che si consideravano bensì marxisti, cioè di sinistra, ma di stampo revisionista e riformista, giammai “sinistri”. Non è questione di lana caprina tanto più se certi comici, vedi il Maurizio Crozza che va per la maggiore, ma anche il brillante Michele Serra, pensano di essere di sinistra ma, a tutti gli effetti, sono sinistri, univoci, undirezionali, sulla medesima via, quella al comunismo d’allora, scambiato come unica, autentica sinistra. Per Serra, le stagioni della sinistra al governo nel dopoguerra sono state troppo brevi: “neanche dieci anni su sessanta di vita repubblicana”, facendo coincidere la sinistra italiana col Pci, poi Pds, poi Ds e ora Pd, eliminando d’un sol colpo i sociaisti di Nenni, Craxi, Pertini, roba da pensiero unico. Crozza, dal canto suo, ha detto alla “Stampa” che con la morte elle utopie, non è la sinistra che non ascolta la gente, è invece la gente che non ascolta la sinistra.

Essere di sinistra, secondo l’inventore del tormentone “maanchista” veltroniano, “significa tolleranza e libertà: valori superati. Gramsci, Bordiga,Togliatti lottavano per togliere povertà e disuguaglianza, oggi si lotta per togliere l’Ici... dal Che Guevara siamo passati la Che L’ho Duro”. Ora, che Gramsci, Bordiga,Togliatti e Che Guevara siano le stelle polari del Crozza-pensiero, lo sospettavamo, pur senza stupirci. Quei nomi appartengono alla mitologia della sinistra, sono, anzi, la leggenda sinistra di un’ideologia che lungi dal rispettare tolleranza e libertà, ha realizzato, dove fu al potere per oltre settant’anni, totalitarismo, oppressione, negazione della libertà, miseria e gulag. Tutto questo si sapeva non dopo la caduta del Muro comunista ma molto, molto prima ,ed è un peccato che non sia capitato fra le mani allo studente Crozza quell’insuperabile classico di Orwell, “Animal farm”, che spiegava molto bene che cosa significasse, nell’universo repressivo della dittatura del proletariato, la parola uguaglianza: c’era sempre qualcuno più uguale degli altri.

Quanto al Che Guevara, sono da non pochi anni in vendita le biografie molto meno agiografiche e molto più obbiettive su un mito, oggi da T shirt, ma ieri quando era al governo cubano, emblema del più duro stalinismo, inflessibile fucilatore di dissidenti. Uno come Crozza, per dire, ai tempi del Che o nei regimi cari a Gramsci e a Togliatti, sarebbe finito se non alla Lubianka, certamente in gelidi campi siberiani a spaccare sassi. “Ma anche” a rieducarsi su concetti come egemonia, filosofia della prassi, dittatura del proletariato. E poi dicono che uno si butta a destra... (l'Opinione)

sabato 3 maggio 2008

Un consiglio al sindacato che sta rischiando di sparire. Geminello Alvi

In Italia non c’è tragedia alla quale il destino eviti di finire in commedia. E così adesso mentre al clientelume romano e ai neocomunisti e ai postprodiani viene da piangere, al contempo ne sortisce un involontario effetto comico. Giacché fa ridere vedere compunti editorialisti del Corriere della Sera, costernati, e in rincorsa del vincitore. Per non dire dell’agitarsi delle Triadi, non quelle dei cinesi, ma sindacali. Tutti lì: a dire che non c’erano, e comunque già pronti a cambiare. Non viene da compatirli; e però sorridendo, bisogna dirlo, passa la voglia di avversarli. Bonanni che dal palco, col fazzolettone tricolore stretto in posa bracciantile, arringa la plebe di pensionati, non merita livore. E nelle Triadi forse è pure il meno peggio. Tuttavia quei poveri vecchietti, nei pullman, con le bandiere che gli si infilano in ogni pertugio, e malgrado i calli trascinati ai comizi di rito, un po’ pena la fanno. A rischio insolazione, intervallati da qualche immigrato africano ansioso di oratorio: paiono invecchiate comparse di un film anni ’70. Spremute ancora allo stremo, per recitare al posto di una classe operaia che, ingrata, vota per Berlusconi e la Lega.Del resto è la resa dei conti inevitabile, per una struttura che ha fatto finora sempre la distratta. Ma non era meno malata dei partiti; ed è in continuata cogestione, da decenni, di uno stato e di una spesa pubblica che hanno funzionato sempre peggio. Perché questo ha capito la gente che lavora; a forza di veder salire su e giù da Palazzo Chigi i sindacati, a concordare tutto e niente, comunque male. La prima prassi, direi, da terminare. Che sindacati o Confindustria debbano intervenire ogni volta su Finanziaria, Sanità e Mondo Universo è assurdo. Giacché il veto sulla politica economica spetta agli elettori, che votano i deputati, che votano il governo. Il doppio governo di chiacchiere, di un sindacato, composto per lo più da vecchi e statali è un abuso. Quindi basta coi veti, e i riti dei sindacati di padroni o lavoratori. La costituzione fissava semmai il Cnel, organo evoluto intanto a cimiteriale, come il luogo deputato per concertare, persino le proposte di legge. Passino per lì, o per una camera economica da inventare, le loro urgenze.
E smettano i rituali delle sfilate, ormai più adatte a mostrarli stanchi che forti. Insomma ritornino sindacati. Difendano i lavoratori veri nelle fabbriche, e chiedano come devono salari più alti con lotte dure e pure. Basta con le ideologie, disegni concertanti, e gli abbracci all’Euro rovinosi per i salariati. Si adeguino ai nuovi tempi, al vento che non è solo di destra, ma viene dal Nord, dall’economia più robusta. Si territorializzino. E, se sanno farlo, aiutino la costruzione di concrete comunità nel territorio. Si pensi per esempio al sovrappiù di insegnanti: si diano da fare per creare Fondazioni nelle quali riassorbirli, soccorrere il bisogno d’assistenza di bambini o degli anziani. Brighino per farsi trasferire dai comuni immobili, divengano gestori concreti. E la smettano di chiedere a noi che paghiamo le tasse di sussidiare un pubblico impiego, ch’è il problema, e non la sua soluzione. Lo stesso per le pensioni; si mettano al lavoro per spezzare l’Inps in tante mutue autogestite e magari contrattino, in cambio della riduzione di spesa statale, il conferimento di patrimoni statali inoperosi. Ma si pentano di aver voluto la controriforma Prodi. Tornino all’autogestione, al mutualismo, e alla passione. E la Cisl, potrebbe in questa impresa riuscire meglio di tutti gli altri. (il Giornale)