venerdì 20 giugno 2008

Opportunismo elettorale, la balla. Valerio Fioravanti

L’europarlamentare siciliano Claudio Fava, da poco nominato segretario della Sinistra Democratica in successione di Fabio Mussi, ha così commentato le recenti elezioni nella sua regione: “Due mesi fa abbiamo fatto il funerale della sinistra, non è che si può ricostruirla così in gratta… è ovvio che gli elettori salgano sul carro dei vincitori”. Insomma, sembra di capire, sono gli elettori che si adeguano al flusso elettorale, e il flusso elettorale è solo una delle tante variabili della democrazia, mica la principale come credevamo noi. Magari quello di Fava è un lapsus (ma il giorno dopo non c’era smentita sui giornali), ma è una concezione ben strana della democrazia quella in cui si accusano gli elettori di opportunismo. Più la sinistra subisce batoste elettorali, più aumenta la lista di insulti contro gli elettori. Questa di “opportunismo” poi è proprio il colmo. Ma c’è da scommettere che non sarà l’ultima, altre cose inventeranno. Sarà difficile battere in originalità questa di Fava, ma è solo questione di tempo: ci riusciranno.

lunedì 9 giugno 2008

Petrolio: riserve sarebbero il doppio di quelle stimate. l'Occidentale

Le riserve petrolifere mondiali sono più del doppio di quanto venga dichiarato oggi dai principali produttori. A sostenerlo è l'attuale Direttore generale della Royal Society of Chemistry britannica, Richard Pike, ex consulente dell'industria petrolifera.

Le stime correnti indicano che nel mondo ci sono 1.200 miliardi di barili, ma i dati in possesso dell'industria petrolifera suggeriscono invece che tale cifra ammonta a meno della metà delle riserve realmente esistenti. Lo scienziato sottolinea inoltre che i dati reali non tengono conto dei giacimenti ancora non esplorati, nè di quelli ancora da scoprire nè di quelli ritenuti troppo costosi da sfruttare. Lo scienziato spiega al quotidiano britannico Independent che la sottostima dipende dal calcolo aritmetico usato dall'industria per valutare l'entità delle riserve, mentre sarebbe più accurato adottare il calcolo delle probabilità, basato sulla curva a campana, usata per valutare le riserve già accertate, probabili e possibili di ciascun giacimento. "Lo stesso avviene per il gas naturale - sottolinea - perchè le stime vengono condotte nella stessa maniera".

L'industria petrolifera che è a conoscenza dei dati reali sulle riserve globali preferisce tacerli, sostiene Pike, per poter mantenere alto il prezzo del greggio.

Le stime statistiche potrebbero indebolire la campagna degli ambientalisti a favore di fonti energetiche alternative al greggio, ammonisce lo studioso. "La cattiva notizia è che la sottostima delle riserve petrolifere accertate ha generato un falso senso di sicurezza dal punto di vista ambientale - afferma - perchè ci costringeva a cercare alternative ai combustibili fossili entro i prossimi decenni. Non dovremmo invece sorprenderci se il petrolio dominerà tutto il XXII secolo. Questo evidenzia un grande errore nella programmazione energetica e ambientale, per cui stiamo drammaticamente sottostimando le sfide che siamo chiamati ad affrontare". (fonte: APCOM)

sabato 7 giugno 2008

Tesoro: nel 2007 persi 600 milioni su swap debito pubblico.

Nel 2007 il Tesoro ha perso 600 milioni di euro su operazioni di swap sui titoli del debito pubblico, interrompendo una tendenza positiva che, tra il 2003 e il 2006, aveva fatto risparmiare 4,2 miliardi di euro. Lo scrive oggi Il Sole 24 Ore citando dati della Commissione europea e della Banca d'Italia. E sottolineando come il "mistero circonda le operazioni in derivati a livello centrale".

Il quotidiano milanese sottolinea che, attualmente, "il Tesoro non diffonde informazioni sul numero, le dimensioni e la tipologia dei contratti di swap firmati con le banche". Un aspetto tutt'altro che irrilevante viste le dimensioni delle operazioni in gioco.

"E' vero - sottolinea l'editorialista Orazio Carabini - che 600 milioni di effetto swap (negativo) nel 2007 sono meno dell'1% della spesa per interessi di quell'anno. Ma i 2,39 miliardi (positivi) del 2005 sono il 3,7%. Un importo paragonabile, nel bilancio pubblico, all'Ici sulla prima casa. E poi bisogna ricordare che in quella voce si contabilizza solo l'eccedenza che deriva dallo scambio di flussi. Per arrivare a quegli importi o le operazioni sono strutturate in modo da dare dei vantaggi soprattutto nel breve periodo, oppure il capitale sottostante è molto elevato, nell'ordine di qualche centinaio di miliardi. Di qui - conclude - l'urgenza di fare chiarezza sulla politica del Tesoro nel settore dei derivati". (Apcom)

martedì 3 giugno 2008

Non eco-scettici ma eco-realisti. Stefania Prestigiacomo

Non sono «eco-scettica», ma nemmeno «eco-illusa». Lo dico perché da queste colonne nei giorni scorsi sono stata arruolata nella pattuglia di quanti sono insofferenti dei vincoli di Kyoto.

La posizione assunta in sede di «G8 Ambiente» a Kobe credo vada spiegata, cominciando col ricordare che il Protocollo di Kyoto, che punta a limitare le emissioni di gas ad effetto, non è stato recepito dal maggiore produttore di gas-serra al mondo: gli Usa. Inoltre Cina e altri paesi, in via di tumultuosa crescita come India e Brasile, che consumano e chiedono sempre più energia, hanno ratificato il Protocollo, che però per essi non prevede impegni di limitazione delle emissioni.

Noi riteniamo che gli accordi internazionali in materia di cambiamenti climatici del tipo «Kyoto» abbiano un senso se riusciremo a farne un impegno di tutti. Perché è ovvio che la validità di una tale intesa ha un valore quasi simbolico se lasciamo fuori chi «inquina» di più. Ed è altrettanto ovvio che caricare le imprese europee di costi aggiuntivi per adeguarsi a Kyoto mentre i concorrenti cinesi e americani non sostengono quei costi rappresenta un gap grave per la nostra competitività.

L’Italia comunque si è impegnata, ratificando il protocollo, a contribuire per la sua parte, assieme ai paesi Ue, a ridurre le emissioni. Il problema è il modo in cui l’Europa nel ‘98 ha ripartito tagli ai gas-serra da parte dei singoli Paesi. Il negoziato per la definizione di tale ripartizione, inizialmente guidato da una metodologia che contemplava una combinazione di diversi criteri, si è concluso con un accordo «politico». Pertanto la ripartizione degli impegni di riduzione non hanno riflesso adeguatamente le «circostanze nazionali» e quindi il potenziale di riduzione dei diversi Paesi. Ad esempio l’Italia, che nel 1990 era caratterizzata da emissioni pro capite pari a 7,8 Mt di CO2 ha avuto un impegno di riduzione del -6,5%, mentre la Francia con emissioni pro capite pari a 7,0 Mt di CO2, non ha avuto impegni di riduzione, ma solo un obbligo di stabilizzazione (impegno dello 0%).

A Paesi come la Germania e il Regno Unito, che avevano una struttura produttiva a bassa efficienza energetica con alto impiego di carbone, tale ripartizione ha permesso di «combinare» la riduzione delle emissioni con l’ammodernamento del sistema produttivo, e quindi ha rappresentato uno stimolo alla crescita.

Il raggiungimento dell’obbligo di riduzione comporterà invece per il nostro Paese costi superiori a quelli che mediamente dovranno sostenere altri Paesi europei con significative conseguenze in termini di competitività intra-Ue ed un impegno di abbattimento delle emissioni circa doppio rispetto alla media europea. Su tale scenario ha influito anche il portafoglio energetico dell'Italia che è privo del nucleare, fonte energetica a zero emissioni serra, al contrario dei principali paesi Ue che possono contare quindi su una elevata sicurezza/autonomia energetica.

Così l’Italia, negli ultimi anni non solo non ha ridotto le emissioni ma le ha aumentate del 12%. Siamo quindi, anche a causa del meccanismo di riparto penalizzante a livello europeo, oltre il 18% al di sopra della quota assegnata e corriamo il rischio di pesantissime sanzioni. Oggi si discute del «dopo Kyoto» i cui parametri per gli anni 2013-2020 saranno decisi a Copenhagen alla fine del 2009. Nel marzo del 2007 l’Europa a 27 ha deciso di anticipare i tempi e fissare per il nostro continente i famosi impegni »20-20-20», che significa ridurre le emissioni del 20%, raggiungere il 20% di quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e aumentare del 20% l’efficienza energetica entro il 2020. Questo piano, definito l’anno scorso, non è stato ancora assunto formalmente dall’Ue ed io credo che, responsabilmente, l’Italia debba esprimere in sede europea le proprie valutazioni sui criteri di assegnazione delle quote-paese per evitare scelte ulteriormente penalizzanti per l’economia italiana.

Non si tratta di essere eco-scettici quindi, semmai eco-realisti e di riaffermare il principio secondo cui deve ridurre di più le proprie emissioni chi più inquina.

Ciò non toglie che dobbiamo muoverci puntando con risolutezza sulle rinnovabili. Il governo ha intenzione di affrontare il problema della risorsa ambiente e quello, connesso, del fabbisogno energetico seriamente, il che significa in primo luogo non assumere impegni che non si potranno mantenere. Significa anche progettare un modello di medio-lungo periodo in cui l’Italia possa affrancarsi progressivamente dalla dipendenza dai combustibili fossili, causa prima dell’effetto serra, ma che è anche una fonte di energia sempre più costosa, forse presto insostenibile economicamente oltre che ecologicamente. In questa strategia si inserisce anche l’opzione nucleare, che non vediamo come la panacea dei problemi, ma come una componente importante di quel mix di fonti di cui l’Italia ha bisogno se vuole ridurre la sua dipendenza dall’estero (e dai combustibili fossili) ed attenuare il peso della bolletta energetica.

Vorrei discutere serenamente di questi temi. Senza ideologismi, senza ipocrisie, tenendo i piedi per terra. Perché anche la demagogia è una grave forma d’inquinamento. E non ci sono leggi per contrastarla. (la Stampa)