venerdì 31 luglio 2015

La domanda come motore dell'economia. Gianni Pardo

 
Secondo l’economia classica, l’offerta è il motore dell’economia. Qualcuno produce qualcosa e qualcun altro, che ha i soldi per comprare, l’acquista. Se invece si reputa che il motore dell’economia sia la domanda, si ha questo schema: qualcuno ha voglia di qualcosa e la va a comprare, inducendo così la produzione della cosa desiderata e dunque il lavoro per produrla. Di questo secondo schema è stato alfiere John Maynard Keynes.

La teoria di Keynes è stata ritenuta vangelo dagli Anni Trenta del secolo scorso, e tuttavia le si possono muovere delle elementari obiezioni.
In primo luogo, il denaro è un titolo che dimostra che si è prodotto un bene o un servizio, e dunque si è creditori nei confronti della collettività di un bene o d’un servizio di analogo valore. Nello schema di Keynes, invece, si ha acquisto da parte di qualcuno anche se non ha nessun credito, e questo è difficile da capire. Uno spostamento di ricchezza senza giustificazione economica si ha nel caso del potere impositivo dello Stato e, fra privati, in caso di furto, appropriazione indebita, rapina, truffa, estorsione, peculato e via dicendo. Ma Keynes giustifica il fenomeno con una superiore utilità sociale, e dunque è il caso di procedere oltre.
Una seconda perplessità sorge dall’asserita intenzione di stimolare la domanda per far funzionare il motore dell’economia. Questa si occupa di beni e servizi partendo dal dogma della loro scarsità, perché i desideri sono pressoché infiniti, mentre i beni sono finiti e non tutti possono avere tutto ciò che desiderano. Proprio per questo l’aria che respiriamo non è un bene economico: perché indefinitamente e gratuitamente disponibile. Dunque può sembrare sorprendente che in economia si debba promuovere la domanda, dal momento che essa, per sua natura, si promuove da sé. E infatti Keynes non dice questo. Egli vuole promuovere non il consumo per il consumo, ma il consumo come motore della produzione permettendo al primo attore – che per lui è il compratore – di far girare il meccanismo. 
Partiamo da un esempio concreto. Ammettiamo che un tizio amerebbe avere un paio di scarpe nuove, ma al momento non se le possa permettere. Ciò provoca una minore produzione di scarpe e una minore richiesta di operai che fabbricano scarpe. Se dunque forniamo a quel signore il denaro per comprare le scarpe, ciò favorirà la produzione di scarpe e, in definitiva, l’economia nazionale. Fra l’altro, i disoccupati che sono stati assunti nella fabbrica di scarpe a causa del maggiore consumo, avranno più denaro a disposizione, spenderanno di più, e a loro volta favoriranno la produzione di altri beni e servizi. Questo, all’ingrosso, lo schema di Keynes. 
Ma sorge qualche interrogativo. Se qualcuno riceve il denaro per comprare un paio di scarpe e a sua volta (per qualunque ragione) non produce nessuna forma di ricchezza, economicamente è come se quelle scarpe gli fossero state regalate, a spese dei contribuenti. Se invece lo Stato ha creato apposta il denaro per darglielo, il regalo è a spese di tutti indistintamente i cittadini e soprattutto i percettori di reddito fisso. Infatti quel denaro non a fronte di una ricchezza di cui sarebbe il corrispettivo provoca un aumento dei prezzi, dal momento che la quantità di beni sul mercato non è cambiata.
Viceversa, questo fenomeno non si verifica con l’economia dell’offerta. In questo caso le scarpe sono sul mercato, il singolo si attiva per guadagnare denaro e poi va a comprarle, contribuendo così al rilancio dell’economia. Ma, appunto, ha comprato con denaro precedentemente guadagnato. E mentre nel caso di Keynes può avvenire che non non saldi mai il debito, nel caso dell’economia classica il sistema è comunque in equilibrio.
Il sistema di Keynes comunque funzionerà se colui che ha ricevuto un incentivo al consumo poi vorrà, e soprattutto potrà, guadagnare per restituire quanto ricevuto. Se invece ciò non avverrà, come nel caso dei sussidi a persone improduttive, si avrà un assistenzialismo parassitario che, alla lunga, potrebbe divenire un peso insostenibile per lo Stato.
Un altro fondamentale dogma di Keynes (parecchio impressionato dalla crisi del ’29, in America) fu che l’economia classica, con la teoria dell’offerta, non conduce affatto al pieno impiego e al contrario può anche produrre lunghi periodi di disoccupazione. Dunque non bisogna lasciare che l’economia della nazione operi da sé: lo Stato deve intervenire (macroeconomia) per esempio sfavorendo il risparmio (moneta sterile) e favorendo gli investimenti. Al limite, per creare posti di lavoro, deve lanciare grandi lavori pubblici anche non strettamente necessari, a costo di pagarli con denaro semplicemente stampato allo scopo.
Al riguardo si può avere qualche perplessità. Che l’economia classica non sia stata capace di evitare una disoccupazione di lungo periodo è vero. Ma neanche l’economia keynesiana, in cui siamo immersi da molti decenni, riesce ad evitarla. L’Europa ha adottato politiche keynesiane per sessant’anni e oggi abbiamo un’enorme disoccupazione.
Forse bisognerebbe guardare al problema da un diverso punto di vista. In Europa abbiamo una grande immigrazione. Ciò significa che, in nero, sottopagati, sfruttarti, tutto ciò che si vuole, gli immigrati il lavoro lo trovano. Mentre disoccupati sono i lavoratori che non accettano né lavori troppo umili né paghe troppo basse. E nessuno dice che debbano farlo. Ma rimane che li accetterebbero se avessero veramente bisogno. Tutto ciò sarà lontano dall’etica e dal sindacalismo, ma non per questo è meno vero. L’economia classica, non soccorrendo nessuno, obbliga tutti a lavorare, se vogliono sopravvivere. Un’economia moderna e assistenziale cambia invece i parametri, e può anche darsi che sia un bene: ma non bisogna dare la colpa della disoccupazione all’economia classica. 
I ferventi di Keynes reputano che la moneta sia manovrabile ad libitum e alle obiezioni che precedono risponderebbero che i guai attuali dipendono dall’euro e dal conseguente impegno ad evitare l’inflazione. Se il Paese fosse libero di emettere moneta a volontà, potrebbe operare grandi investimenti, concedere grandi aumenti di salario ai lavoratori, favorire la domanda e rilanciare l’economia. Anche qui, la teoria potrebbe essere esatta se, trattandosi di una crisi congiunturale, bastasse una spintarella per far ripartire una macchina ferma ma è ancora in eccellenti condizioni. Cosa di cui non siamo sicuri. Ma vediamo come si comporta lo Stato, quando vuole spendere il denaro che non ha. 
Il primo modo in cui lo Stato può erogare somme di cui non dispone è quello di stampare denaro, distribuirlo o investirlo. Naturalmente lo fa sperando che si produca un tale rilancio dell’economia da riassorbire il circolante in più, ma mentre questa è soltanto una speranza, è sicuro che si provoca inflazione. E questa è crudele innanzitutto con i percettori di reddito fisso, lavoratori dipendenti e pensionati. 
Un secondo modo di procurarsi denaro è l’emissione di titoli di Stato. Questo è un caso che ci interessa molto, perché è ciò che si è verificato dovunque. Mentre gli investitori cominciano a lucrare gli interessi (questa è quella “moneta sterile” che Keynes aveva in gran disprezzo) lo Stato ottiene il liquido nel modo più indolore: non provoca inflazione, non tassa i cittadini e il ricavato lo può immettere in circolo per consumi e per rilanciare la domanda. Purtroppo nella realtà questo rilancio non si è avuto, le spese dello Stato sono aumentate in modo esponenziale e i titoli sono diventati una valanga. Oggi il debito pubblico ha raggiunto in Europa la media del 92% del pil e si possono pagare gli interessi soltanto contraendo ulteriori debiti. Gli Stati, anche per i regolamenti dell’Unione Europea, fanno di tutto per lottare contro il debito sovrano, ma dovunque esso rimane in continuo aumento.
L’Italia è in preda ad un’invincibile stagnazione, ed è minacciata da un’astronomica massa di “denaro sterile” (il debito pubblico) che in occasione di una crisi di fiducia potrebbe riversarsi nell’economia. Sarebbe come una diga che si rompe e provoca tutta in una volta l’inflazione che, col semplice metodo del denaro inflativo, si sarebbe prodotta a poco a poco.
L’economia della domanda si fonda sul presupposto mitico che, dando del denaro a qualcuno perché lo spenda, costui poi vorrà e potrà attivarsi – come nella parabola evangelica dei talenti – per moltiplicare quanto ha ricevuto. Purtroppo, ciò non sempre è possibile e comunque non sempre si verifica7.
Fra l’altro, i vantaggi non meritati sono pericolosi. Si è visto anche in campo internazionale: gli aiuti al Terzo Mondo in qualche caso hanno piuttosto danneggiato che aiutato i Paesi beneficiari. In Italia in particolare il denaro dello Stato induce i cittadini poco corretti ad approfittarne illecitamente. La Regione Siciliana offriva incentivi per creare industrie e così i maneggioni facevano finta di crearle, incassavano i contributi e sparivano. Lo Stato avrebbe fatto meglio a detassare le imprese esistenti, piuttosto che a cercare di farne nascere artificialmente delle nuove, con l’intervento attivo predicato da Keynes. 
Un’ultima nota riguarda il modo come la teoria di Keynes è stata letta dai politici. Credendo che lo Stato, quando investe e regala soldi ai consumatori, fa qualcosa di meritorio per l’economia, i politici ne hanno dedotto che potevano spendere senza nessuna preoccupazione. Il risultato è stato la corruzione, il debito pubblico, una tassazione soffocante e, come esito finale, una crisi che dura da molti anni.
Un vecchio detto così suona: “Se questi sono gli amici, meglio avere dei nemici”. Analogamente, se Keynes voleva renderci tutti occupati ed economicamente prosperi, dobbiamo forse cercare qualcuno che ci voglia rendere disoccupati ed affamati. Chissà che non vada meglio.
pardonuovo@myblog.it

martedì 28 aprile 2015

la Malalingua 265. Dino Cofrancesco





L’Italia può considerarsi una vera democrazia? E’ una domanda che ci poniamo da 150 anni. La risposta non è facile giacché il nostro è un paese complesso, complicato, difficile da etichettare in un modo o nell’altro. Comunque ci provo: siamo indubbiamente una democrazia liberale se, per riprendere la teoria delle due libertà di Isaiah Berlin, ci riferiamo alla libertà negativa ovvero al non impedimento, al fatto che nessuno ci impedisce di fondare un partito o un giornale o di astenercene se questo è il piacer nostro. Non siamo una democrazia liberale se ci riferiamo alla libertà positiva ovvero al potere reale – in termini di concrete risorse materiali – che ci garantisce influenza e accesso al dibattito pubblico.

Un liberale non se ne lamenterebbe se tutto dipendesse dal mercato e dalle libere scelte dell’opinione pubblica ma in Italia non è così. La piovra corporativa, in nome della solidarietà e dai ‘diritti sociali’, affida alla sfera pubblica la decisione relativa alla quantità e alla qualità degli attori autorizzati a salire sul palcoscenico. In tal modo, un quotidiano che vende poche migliaia di copie, come ‘Il Manifesto’ non manca mai nelle rassegne stampa radiofoniche e televisive giacché, lassù in alto, si è deciso che la pars sanior del paese non può ignorarlo. Ma di casi analoghi se ne potrebbero citare centinaia.

Cantautori, romanzieri, registi, filosofi, giuristi in linea con il republicanism antifascista, saranno sempre sotto i riflettori (gratis, beninteso) dei canali televisivi – pubblici ma non solo, giacché vi sono canali privati che non rinunciano affatto alla funzione rieducativa. Teniamoci cara la libertà negativa che, anche da sola, non è affatto ‘formale’ e irrisoria – come ritenevano Marx e ritengono ancora oggi i realisti di destra e di sinistra – ma senza dimenticare che la libertà positiva amministrata dallo Stato e realizzata da un mercato condizionato dai suoi ‘consigli per gli acquisti’, può essere l’anticamera della democrazia totalitaria.

(LSBlog)

venerdì 10 aprile 2015

Coop e Mafia Capitale reggono Renzi & Co. Cesare Alfieri


 
 
Mafia Capitale attraverso le Coop dà i soldi al Pd. E il Pd se li tiene. Nessuno restituisce niente. Nessuno è perseguito per alcunché. Nessuno eccepisce alcun tipo di responsabilità. E’ passato un anno, meglio, c’è voluto un anno per capirlo e adesso che è chiarissimo, nessuno fa niente. Il governo Renzi è stato imposto da Napolitano, come i precedenti Monti e Letta. Vogliamo chiamarlo a rispondere Napolitano, che è l’inizio di questo scempio contro la nostra democrazia o no? I magistrati d’attacco sono stati da Renzi subito esauditi, una specie di trapasso storico in cui da Tangentopoli ad oggi si sono garantiti il potere, e chi ha alzato la voce o ha iniziato a perseguire papà Renzi e governo, amici e parenti, è stato cooptato e messo di peso nella pubblica amministrazione (si tenga presente che un giudice in politica mantiene intatto posto e stipendio da giudice). La delinquenza e le cooperative danno i soldi alla sinistra tutta e la inseriscono e mantengono nei posti di governo, si veda l’attuale ministro del lavoro Poletti così come Delrio ora a fare affari al ministero dei lavori pubblici, collocano cioè propri esponenti in modo che ripaghino quanto dovuto con appalti e lavori cospicui. Ecco cos’è questo governo Renzi, ecco cos’è la politica della sinistra post partito comunista pagato dall’Urss, è alla base delinquenza, al livello intermedio cooperative degli amici, poi affari, e infine governo. Come farli saltare? Se ne è accorto adesso Berlusconi da chi è stato intortato e distrutto? Lo capiscono il centrodestra e la destra che verranno fatti fuori da ogni ganglo istituzionale, politico, sociale ed economico, ad uno ad uno, e che questo era il “disegno” iniziale? Come si è fatto a pensare diversamente quando, dall’inizio, Renzi è stato messo al governo non eletto, dopo Monti e Letta facce della medesima medaglia, per fare da prestanome e testa di legno al mondo della sinistra politica corrotta e delinquenziale, tanto quanto incrostata nel nostro Paese? Renzi non vuole il libero mercato, non vuole il merito, la competizione, getta fumo negli occhi quando dice di volerli, Renzi è stato imposto al governo per fare da banderuola e tenere in piedi il mondo delle coop, di Mafia Capitale, dei sindaci di sinistra pagati dai primi due (Coop e Mafia Capitale), degli amici degli amici nella pubblica amministrazione, nelle istituzioni, per garantire al giudicetto di turno che si agiti, un posto al sole, perché stia zitto e lasci a lui e ai suoi, alla banda bassotti d’Italia, ruberie e “sistema” corrotto e criminale. Sicuramente anti democratico. E’ per questo che sarebbe stato fondamentale bloccare da subito Napolitano e quello che stava facendo. Per far sì che non succedesse ciò che sta accadendo. E cioè il Paese strozzato piano piano, progressivamente, inesorabilmente, nella morsa di sinistra sino ad “esistere” solo per garantire il suo stesso “sistema”, di sinistra. Ma un “sistema” siffatto, è noto sui libri di storia, “macina”, mangia e trangugia, inghiotte se stesso. E’ solo questione di tempo. Renzi cadrà e il boato sarà enorme, portando giù con sé fino all’ultima particella della sinistra oggi al governo. Si spera succeda più prima che poi. Si spera l’evoluzione venga “aiutata”, assecondata, spinta. Per il bene e nell’interesse dell’Italia.

Intercettando il giustizialismo. Davide Giacalone


Parole e fatti hanno divorziato, in tema di giustizia. Le prime volano a caso, mentre i secondi sprofondano nel nulla. Eppure, volendo, c’è il modo per risolvere la questione delle intercettazioni telefoniche. Tenendo assieme le ragioni della riservatezza, della decenza, della prevenzione e della giustizia. Volendo.

Discettare su come disciplinarle è un gioco di società, che si vuole non finisca mai. Immaginare punizioni per chi le diffonde è un gioco fesso assai, dato che è già proibito e chi se ne infischia viene premiato. La più stupida delle idee è puntare sull’autodisciplina degli intercettatori (le procure), o su quella dei pubblicatori (i giornalisti). Mentre è oltraggiosa del diritto l’idea, esposta da Giovanni Legnini, vice presidente del Csm, secondo cui “si deve tutelare chi non è indagato”. Avvertite questo signore che il diritto esiste anche per tutelare gli indagati, che non sono dei colpevoli, non, almeno, fin quando non prevale quel frullato d’inquisizione e soviet che gli gira per la testa.

La soluzione c’è e noi la proponiamo da cinque anni: mai le intercettazioni negli atti processuali, mai nei mandati di cattura, mai a disposizione delle parti, quindi mai alibi per la loro pubblicità, perché, come nel sistema inglese, devono essere strumenti d’indagine e praticamente mai prove da esibire. Così si tiene in equilibrio la prevenzione dei reati e la riservatezza delle comunicazioni.

Qualcuno di noi ha qualche cosa in contrario a che siano ascoltate le conversazioni di soggetti o gruppi che si suppone si stiano preparando a commettere reati gravi? Che siano potenziali integralisti assassini o pedofili alla ricerca di minorenni di cui abusare, no, non ho alcunché da obiettare. S’intercetti pure. Una volta colto un indizio, che può condurre a un ipotetico reato, il compito degli inquirenti consiste nel trovare prove che possano essere esibite in un processo. Se due o più soggetti ne parlano offrono elementi a chi indaga. In ogni caso le loro conversazioni non vanno da nessuna parte. Men che meno quelle con o su altri, magari riferite ad affari di corna. E’ questo il modo per far convivere la repressione con il diritto. Non altro. Considerare le intercettazioni, in sé, come elementi adducibili alla richiesta di custodia cautelare, quindi da depositare in atti giudiziari, porta a due conseguenze corruttive. Da una parte imbastardisce le indagini e degrada il lavoro delle procure. Dall’altra trasforma i giornalisti in copisti servili. Ci perdono sia la giustizia che il giornalismo, progressivamente rattrappiti nel ruolo di guardoni.

Leggo che un magistrato di valore, come Carlo Nordio ha idee simili alle nostre. Me ne compiaccio. Ma questa roba deve trovarsi nella legge, non nella presunta bontà d’animo o nella morigeratezza di chi maneggia quel materiale. La soluzione è semplice e può essere immediata. Se non la si adotta è patetico lamentarsi di un male di cui si è la causa.

Matteo Renzi, che promette interventi ma non chiarisce quali, ha detto che sta leggendo il libro di Mario Rossetti (con Sergio Luciano: “Io non avevo l’avvocato”). Lettura utile a dimostrare che in più di venti anni s’è straparlato, nulla è cambiato, semmai peggiorato. Dice Renzi che non si deve essere giustizialisti. Bravo, ma aumentare le pene e allungare la prescrizione (come sta facendo) è la quintessenza del giustizialismo. Quella è la resa del diritto alla retorica della severità farlocca. La resa del processo all’accusa eterna. Più che giustizialismo: è dispotismo. L’idea che i diritti individuali siano subordinati alle verità sociali. L’accoppiata “ignoranza & viltà” socia di quella “chiacchiere e inutilità”. Una quadriglia che prova a fermare la divulgazione delle intercettazioni dando sempre più potere a chi se lo conquista divulgando. Galattica bischerata.

Pubblicato da Libero


mercoledì 3 dicembre 2014

Il M5S si avvia ad uscire di scena. Gianni Pardo

 
 
 
 
 
Il pessimismo riguardo al successo e alla sopravvivenza del M5S è stato di rigore anche nel momento del trionfo alle elezioni politiche. Gridarlo sui tetti sarebbe stato tuttavia sconsigliabile, perché in palese contraddizione con gli umori dell'elettorato, tanto da apparire una negazione della realtà. Attualmente invece quella formazione politica mostra vistose crepe e dunque, se non si arrischia qualche timida previsione ora, si potrà poi apparire profeti del passato.
 
Ciò che rende vitale e longevo un partito è una bandiera leggibile.
 
La Democrazia Cristiana ha prosperato per mezzo secolo solo perché sentita come anticomunista. Molta gente ne era disgustata, sapendo quanto poco cristiana e quanto poco anticomunista fosse, ma lungo i decenni milioni di italiani hanno continuato a "turarsi il naso e votare Dc". Né diversamente andavano le cose per il Pci: essendo il vessillifero del marxismo, ha proposto un diverso modello di produzione e di società. Un modello fallimentare, ma tanto è forte il richiamo di una speranza e perfino di un'illusione. Anche la rozza Lega Nord si è data un'immagine riconoscibile, costituita da un paio di idee correnti nei bar, come l'uscita dall'euro, la stanchezza di svenarsi per il Sud, l'insofferenza per gli immigranti illegali: dei programmi populistici, se si vuole, ma non un semplice rifiuto dell'esistente. E per questo ha successo.
 
Il M5S è partito perdente perché la sua bandiera contiene un monosillabo: "No". E col "no" non si va da nessuna parte. Negare tutto, disprezzare tutto, voler distruggere tutto è un moto di malumore, non un programma politico. E se un giorno, spinti dall'insofferenza, si può votare per chi grida "vaffanculo", presto si vede che l'invettiva in sé è una parola vuota. La caratteristica del movimento lanciato da Beppe Grillo è la più totale assenza di programmi, mitigata dalla presenza di alcuni progetti economicamente assurdi, come il reddito di cittadinanza.
 
La posizione di voluta estraneità alla comunità politica è stata inoltre premessa di insuccesso assicurato: infatti, se il M5S si fosse associato con l'implorante Pd di Pierluigi Bersani, si sarebbe compromesso col sistema. Non avrebbe più potuto dire semplicemente "no", avrebbe dovuto dire dei "sì", e si sa che i "sì" spesso producono fatalmente l'opposizione di chi avrebbe voluto qualcos'altro. Se viceversa non si fosse associato con nessuno, sarebbe rimasto fedele al suo schema di partenza, ma sarebbe diventato folcloristico e irrilevante. Come di fatto è divenuto.
 
Di tutto ciò s'è reso conto lo stesso Grillo, quando ha vagheggiato di ottenere il 51% dei voti, per governare da solo e cambiare l'Italia nella direzione (quale?) da lui voluta. Ma questa affermazione è velleitaria. Forse ha potuto servire da alibi per la raggiunta irrilevanza, ma ignora volutamente che gli elettori sono tutt'altro che disposti a votare coralmente per un solo partito, soprattutto senza neanche sapere quali programmi concreti poi applicherebbe. E giustamente ne diffidano. A queste insuperabili aporie si aggiungono le gaffe, le espulsioni, le beghe miserelle. Tutta una serie di fatti che, giorno dopo giorno, hanno mostrato i "grillini" come dei rumorosi rompiscatole senza importanza. Non è facendosi espellere dall'aula che si guida la nazione.
 
Il Movimento è nato morto. Mancando di spina dorsale, la facile previsione era che si sarebbe a poco a poco sgonfiato. Alle elezioni europee si è avuta la prima riprova di quanto s'è detto. Il centro-destra, proprio in quei giorni, sembrava anemico e difficilmente guaribile, e dunque la paura di un autentico e ancor maggiore successo del M5S ha spinto moltissimi a votare per il partito che sicuramente sarebbe stato - per consistenza - in grado di sbarrargli la strada: il Pd. In questo senso l'interpretazione che Renzi ha sempre dato del suo famoso "quaranta per cento" è discutibile. La Democrazia Cristiana è vissuta per mezzo secolo del pericolo comunista e, caduto il Muro di Berlino, è caduta anch'essa. Nello stesso modo, il successo di Renzi non si ripeterà, quando il pericolo grillino sarà passato di moda. Ché anzi, il quasi venti per cento raggiunto dal Movimento in occasione delle europee è stato l'ultimo miracolo. Oggi, prevedibilmente, la tendenza delle percentuali dovrebbe continuare a subire molto l'influenza della forza di gravità. Le stesse ultime espulsioni somigliano al delirio di onnipotenza di chi, mentre la nave affonda, crede di poter dare ordini alla tempesta.
 
Naturalmente, tutte queste argomentazioni valgono quello che valgono. Il futuro è sempre imprevedibile e quello che s'è detto potrebbe benissimo essere smentito dai fatti. Se avverrà, lo si riconoscerà umilmente.
 
Gianni Pardo
 
 
 

martedì 25 novembre 2014

Orgoglio & pregiudizio. Davide Giacalone


Dal Ministero dell’economia hanno fatto benissimo a non lasciar correre, usando anche Twitter per ricordare quali sono i punti di forza dell’Italia. Siccome, però, sono le cose che qui scriviamo da anni, senza (noi) cambiare opinione a seconda del colore dei governi, conosciamo anche il retro di ciascuna medaglia. Dal Ministero hanno lanciato l’ashtag #prideandprejudice. Vediamone i sei punti.

1. L’avanzo primario italiano, dicono dal governo, è fra i più alti e stabili del mondo. Nel 2013 secondo solo a quello della Germania. Se è per questo, aggiungo, è il più alto al mondo, se si considera il cumulo degli ultimi ventuno anni; c’è sempre stato, a eccezione di un leggero scivolare nel 2009; e, se calcolato su base annua, abbiamo fatto numeri che la Francia non s’è mai sognata. Non c’è dubbio: possiamo dar lezioni globali, in quanto a rigore finanziario produttivo di avanzi primari.

Però: mentre accumulavamo avanzi primari il debito pubblico cresceva, talché il bilancio statale si chiudeva regolarmente in deficit. Il deficit di oggi è il debito di domani, così siamo i campioni mondiali di avanzi & dissennatezza. Non è un caso, del resto, che nel corso della seconda Repubblica i governi, costantemente alternandosi fra destra e sinistra, si siano vantati e vicendevolmente rimproverati di tutto, ma non gli avanzi primari. Sarebbe stato imbarazzante dover dire che fine facevano: gettati nella fornace del costo del debito crescente.

2. Abbiamo tenuto il rapporto deficit/pil entro il 3%, così chiudendo la procedura d’infrazione che subivamo. Siamo fra i pochi a rispettare quel parametro. Verissimo. E ci costa dolore. Ma tale nostra virtù la dobbiamo agli avanzi primari di cui sopra, quindi a soldi che i cittadini versano per pagare il costo del debito. E la nostra tenuta del deficit la scontiamo con l’essere gli unici europei ancora in recessione.

Altri hanno potuto comportarsi diversamente, perché all’appuntamento con la crisi dei debiti sovrani non sono arrivati con un debito pubblico smisurato.

3. Negli anni della crisi il nostro debito pubblico è cresciuto meno di quello di altri europei (e non), sia in assoluto che in rapporto al pil. Vero, siamo stati i soli, fra i grandi, a far funzionare il freno a mano.

Ma l’altra faccia della medaglia è drammatica: il nostro debito è cresciuto perché spinto dal suo stesso costo, mentre il debito di tutti gli altri (tranne la Svezia, la sola ad aver fatto meglio di noi) è cresciuto per spese anticicliche. Il nostro debito cresce da solo, annientando la politica. Il debito tedesco o francese cresce per scelta politica. Non è una differenza da poco.

4. Il nostro debito pubblico è fra i più sostenibili, mentre il rischio connesso, sia nel breve che nel lungo periodo, è inferiore alla media europea. Non solo è vero, ma aggiungerei un dettaglio: noi e i tedeschi, dal punto di vista statale, siamo coetanei, solo che noi i nostri debiti li abbiamo sempre pagati, mentre loro, per due volte, li lasciarono insoluti. Quelli affidabili siamo noi.

La sostenibilità, però, è anche il frutto di un patrimonio privato enorme e di un indebitamento privato minuscolo (rispetto agli altri), cui si aggiunge l’accondiscendenza a farsi tassare per pagare il costo del debito. Peccato che questo sia l’inferno del socialismo fiscale. Se il debito non lo si abbatte, e se non si vuol perdere l’affidabilità, si corre verso la patrimoniale (ulteriore, perché già ne paghiamo diverse). Quindi: piano con l’orgoglio e in alto il pregiudizio, perché quello è il modo per autoevirarsi.

5. Siamo terzi per contributi versati ai paesi europei in crisi. E’ così. Ma questo è un punto molto delicato: perché fummo costretti a versare soldi che, aiutando i greci, servirono a salvare le banche tedesche e francesi che se ne erano rimpinzate? Siamo terzi per la semplice ragione che si paga in percentuale sul pil, e il nostro è il terzo pil. Perché, dovendosi salvare le banche, non si è pagato in rapporto all’esposizione delle proprie? Ci sarebbe costato meno e avremmo fatto rimarcare che le nostre sono state meno ciniche e incapaci di quelle altrui.

Forse questo punto avrebbero fatto meglio a non metterlo, perché dietro c’è una storia ancora non raccontata. O forse non lo sanno. O forse pensano che gli altri siano tutti analfabeti fessi.

6. Infine: le nostre banche hanno ricevuto aiuti statali infinitamente inferiori a quelli che si sono visti altrove. Germania, Regno Unito e Francia in testa. Vero, ma va aggiunto quanto appena detto: abbiamo aiutato più le banche altrui che le nostre.

Però, quando si sono fatti i test sulle banche le nostre si sono rivelate fra le meno capitalizzate. Ed è vero che le abbiamo aiutate poco, ma pure che fanno sempre meno le banche e sempre più le casse di riscossione. Il sistema delle fondazioni bancarie è al capolinea, mentre in Germania Stato e Lander sono soci delle banche.

Per i nostri lettori sono cose non nuove. Direi vecchie. Il fatto è che se i punti di forza non sei capace di farli valere, anche sfruttando le debolezze altrui (che ci sono, eccome), mentre quelli di debolezza te li fai rinfacciare notte e dì, con il di più delle polemiche interne, va a finire che di pregiudizi ne subisci tanti e con l’orgoglio ci fai poco.

Pubblicato da Libero

martedì 23 settembre 2014

Giustizia Carogna. Davide Giacalone


Se il cittadino Gennaro De Tommaso, meglio noto alle cronache come “Genny ‘a carogna”, fosse stato arrestato il 3 maggio scorso, quando scavalcò il reticolato che divide il pubblico di uno stadio di calcio dal campo di gioco, sfoggiando una maglietta in cui s’inneggiava a chi aveva ammazzato un poliziotto, trattando con le autorità sportive la possibilità di far iniziare, o meno, la partita, dopo che dei tifosi s’erano accoltellati e sparati a vicenda, il tutto sotto gli occhi dei rappresentanti del governo e delle istituzioni, se, dicevo, lo avessero arrestato in quel momento, anziché considerarlo interlocutore di una trattativa, avrei scritto: che lo processino subito, che si difenda secondo i suoi inviolabili diritti e, se condannato, che sia assicurato alle patrie galere. Genny, invece, divenne una star. Ove mai qualche tifoso non avesse ancora capito il suo ruolo di capo e caporione, a quel punto il dubbio gli sarebbe passato. Lo arrestano adesso, invece. Sicché non so chi me lo fa fare, ma ho il dovere di osservare che questo è un ulteriore sfregio al diritto.

Le prove non le può inquinare. Intanto perché sono in gran parte filmate, poi perché se avesse voluto intimidire qualche testimone avrebbe già provveduto. Che scappi all’estero non è fra le cose imminenti. E anche questo, del resto, se lo avesse voluto fare, lo avrebbe già fatto. Reiterare il reato gli risulta difficile, perché s’è beccato un Daspo di 5 anni. Si dirà: ma può sempre incitare gli altri tifosi alla violenza. Certo, così ragionando però, in galera andiamoci tutti, perché è sempre possibile che ciascuno sia preso dalla voglia di scuoiare quello che continua a ciucciare la caramella, standoti accanto, che si cada nella tentazione di rubare, che si coltivi un pensiero lascivo su questa o quel passante.

Da maggio a settembre, con quel genere di prove, con quel tipo di condotta, si dovrebbe già essere a processo. Concluso. Le accuse sono evidenti. I precedenti penali si raccolgono in pochi minuti. Gli si da il tempo di trovarsi un avvocato e si va davanti a un giudice. E questo non è un film, ma, per reati di questo tipo, il minimo che si dovrebbe pretendere. Ma da noi no. Da noi partono le indagini, dopo cinque mesi si scopre che il soggetto potrebbe anche essere pericoloso, si applica la misura cautelare, così che chi in galera è probabile ci debba stare per scontare ce lo si sbatte da innocente. Un capolavoro. Qualcuno osserverà, rivolgendosi a chi qui scrive: faccia poco il sofistico e la smetta con questo garantismo assai mal riposto. Già, chi me lo fa fare? Me lo fa fare il fatto che il diritto si difende proprio con gli indifendibili, perché con gli innocenti e con le vergini è piuttosto banale lanciarsi nell’esercizio. E sarà pur vero che ‘a carogna potrebbe meritare una carognata, ma sono io a non meritarmi l’incarognimento di una giustizia fuori tempo e capace di capovolgere l’ordine naturale delle cose, talché la prigione precede e non segue il processo, facendo da companatico all’indagine.

Pubblicato da Libero


venerdì 12 settembre 2014

Ci sarebbe l'Emilia rossa da rottamare... Fabrizio Rondolino


L'Intraprendente - Il problema di Matteo Renzi in Emilia Romagna non è la magistratura, ma il Pci. E il modo in cui si concluderà la partita delle primarie aiuterà a misurare il tasso di rinnovamento e quello di continuità in una regione d’Italia amministrata ininterrottamente da settant’anni dal Partito comunista e dai suoi eredi diretti. È caduta Livorno, è caduta Perugia, e quando Berlusconi ancora faceva politica cadde persino Bologna: ora è bene che cada l’Emilia rossa.

In un Paese normale, il compito di garantire il ricambio della classe dirigente spetterebbe all’opposizione. E il centrodestra, sulla carta, avrebbe molti buoni motivi per provare a fare dell’Emilia la base di partenza della propria ricostituzione: basterebbe che capi e capetti facessero un passo indietro, e che si scegliesse (con le primarie) un candidato capace di rappresentare la voglia di discontinuità e di aria fresca che attraversa tanta parte della società emiliana. Ma siccome (e purtroppo per la democrazia italiana) non sarà così, il compito del ricambio spetta anche in questo caso a Matteo Renzi. Il partito emiliano sta da sempre con il segretario: e quando il vecchio segretario non c’è più, ordinatamente si allinea dietro a quello nuovo. È sufficiente ricordare i risultati delle primarie: nel 2012 Bersani ottiene il 60,8% e Renzi si ferma al 39,2%; l’anno successivo Renzi incassa il 71,03%. È per questo motivo che praticamente tutti i candidati – ancora in gara e già ritirati, probabili e improbabili – sono convintamente “renziani”. Salvo eccezioni marginali, in Emilia tutti i gruppi dirigenti e gli apparati, i gruppi consiliari, gli amministratori locali, i cooperatori e i sindacalisti sono diventati renziani – dopo esser stati bersaniani, veltroniani, fassiniani, dalemiani, occhettiani, nattiani, berlingueriani, longhiani e togliattiani. È il Pci che dalla fine della guerra, e senza altri cambiamenti che non siano l’insegna della Ditta, amministra, governa e controlla l’Emilia Romagna. Non è qui in discussione il “modello emiliano”, che nel panorama nazionale può ben dirsi orgoglioso dei risultati raggiunti: ricchezza e benessere, un welfare efficiente, pochi conflitti e corruzione al minimo. È in discussione, invece, il principio della permanenza incontrastata e incondizionata al potere di una stessa classe dirigente. E poiché la rottamazione è precisamente il rovesciamento di questo principio, ci si aspetta da Renzi che a guidare l’Emilia Romagna vada non l’ennesimo post-comunista, ma una donna o un uomo espressione di una cultura politica diversa, nuova, lontana e alternativa.

Esistono anche in Emilia molti trentenni che hanno incontrato la politica per la prima volta nel Pd, che non vengono da una famiglia comunista, che apprezzano il modello emiliano ma non ne sopportano più le incrostazioni, i limiti culturali, la chiusura continuista. Ed esistono emiliani adulti che non sono mai stati nel Pci, che anzi lo hanno politicamente avversato, e che oggi provano delusione nel vedere alla guida del Pd gli stessi di prima. Cambiare fa bene a tutti, e farà bene a Renzi non fermare la rottamazione ai confini emiliani.

(LSBlog)