giovedì 31 ottobre 2013

Berlusconiani diversi Berlusconiani spariti. Arturo Diaconale


L'Opinione - Il voto palese sul caso Berlusconi, come ha spiegato Matteo Renzi, serve ad evitare che nel segreto dell’urna i senatori del Movimento Cinque Stelle possano fornire un “aiutino” al Cavaliere facilmente spacciabile come frutto di franchi tiratori del Partito Democratico e, conseguentemente, provocare la spaccatura del Pd. Secondo il sindaco di Firenze, dunque, la tesi delle sentenze che si rispettano e della legge che si deve applicare , cioè la posizione ufficiale del Pd sulla vicenda Berlusconi, è solo una copertura.

La verità è che con il voto palese a Palazzo Madama il Pd salva se stesso dal pericolo mortale di una riedizione del voto che provocò l’affossamento della candidatura di Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica. Basterebbe la spiegazione che il Pd ha scelto il voto palese per un interesse politico diretto e non per la nobile ragione del rispetto della legge a giustificare il rispetto del regolamento e l’adozione del voto segreto. Ma è proprio questa spiegazione che induce a ritenere che il Pd non rinuncerà mai alla spettacolarizzazione dell’esecuzione politica di Silvio Berlusconi. Non solo per poter esibire lo scalpo del proprio nemico storico, ma per salvare se stesso da una lacerazione che alla vigilia delle primarie potrebbe essere devastante.

La consapevolezza che la sorte politica di Berlusconi è segnata per l’intransigenza del Partito Democratico si ripercuote automaticamente all’interno del centrodestra e, in particolare, sui “diversamente berlusconiani”. Per questi ultimi diventa praticamente impossibile continuare ad essere berlusconiani in maniera diversa. Cioè a manifestare lealtà al leader e a sostenere una coalizione di governo in cui gli alleati (Pd e Scelta Civica) decapitano sulla pubblica piazza del Senato lo stesso leader a cui assicurano fedeltà e solidarietà. Messi alle strette, debbono scegliere tra essere berlusconiani o antiberlusconiani e rinunciare a quella diversità che consente ad Enrico Letta di ribadire come il governo si regga su una “maggioranza politica” diversa da quella originaria.

Che la forzatura del Pd e dello stesso Letta punti a provocare la cancellazione del “diversamente” e la scissione del Pdl-Forza Italia è fin troppo evidente. Ciò che non è evidente è la sorte a cui sarebbero destinati i governativi del centrodestra una volta diventati puntello del governo Letta egemonizzato dal Pd. Qualcuno di loro è convinto che nel breve periodo la scelta di evitare la crisi e le elezioni anticipate consentirebbe agli scissionisti di aumentare il numero dei propri sostenitori in Parlamento. Il che è vero visto che dopo un solo anno di legislatura nessuno frigge dalla voglia di una nuova avventura elettorale.

Qualche altro pensa che riuscendo a tenere in piedi il governo fino al 2015 si potrebbe cercare di riassorbire nel centrodestra il trauma dell’esecuzione politica di Berlusconi e procedere alla sua successione. Ma nessuno sembra porsi il problema che la nuova maggioranza politica, oltre ad essere esposta alla bufera della scontata elezione di Renzi alla segreteria del Pd, si reggerebbe su un pugno ristretto di voti. Come Prodi dopo il 2006. E difficilmente riuscirebbe a superare le difficoltà poste non solo da un Berlusconi ufficialmente martirizzato ma sempre più deciso a vendere cara la pelle forte del sostegno unanime dei propri elettori ma soprattutto da una crisi che appare addirittura aggravata dalla politica economica del governo.

Una prospettiva del genere dovrebbe far riflettere i governativi del Pdl-Forza Italia. Tra qualche mese i berlusconiani diversi potrebbe essere i berlusconiani scomparsi! (LsBlog)

mercoledì 30 ottobre 2013

Coop, gli oligarchi rossi che giocano in Borsa con i soldi dei soci. Giorgio Meletti


Il Fatto Quotidiano - Le cooperative sono diventate ormai banche d'affari che raccolgono risparmio - pur non essendo sottoposte ad alcuna vigilanza - e si lanciano in rischiose operazioni finanziarie e chiudono i bilanci in perdita. Le "nove sorelle" si sono inguaiate investendo chi su Unipol, chi su Monte dei Paschi. E hanno partecipato al tentativo di salvare la Fonsai di Ligresti.
Potremmo parlare di banca clandestina, se non fosse tutto alla luce del sole. Basta entrare in un supermercato Coop e diventare socio (che è come fare la tessera sconto in qualsiasi catena) per depositare i propri risparmi. Le nove grandi cooperative del consumo raccolgono ben 10,4 miliardi di euro. Sarebbe vietato: non è che un giorno uno si sveglia di buon umore, apre una banca e comincia a farsi affidare i risparmi dei passanti. La Coop infatti lo chiama “prestito soci”, senza però spiegare al popolo che il prestito soci è un capitale messo a rischio nell’impresa che, sia essa una coop o una società di capitali, lo usa per la sua attività, come aprire un supermercato.

Infatti accadono sotto gli occhi di tutti, comprese le autorità di vigilanza, due cose strane. La prima è che le Coop utilizzano i risparmi dei loro soci non per mettere scaffali nuovi, ma per dedicarsi alla speculazione finanziaria. Esempio: l’Unicoop Firenze, la maggiore per fatturato (ben 3 miliardi di euro), ha in bilancio immobilizzazioni tecniche (ciò che serve per funzionare) per 2 miliardi e debiti verso i soci per 2,3 miliardi. Ma il debito complessivo è di 3 miliardi. Che ci fa la Coop con tutti quei soldi? Unicoop Firenze ha in bilancio 644 milioni di immobilizzazioni finanziarie: una vera merchant bank.

I conti in rosso degli uomini al potere da decenni. La seconda stranezza è che queste banche d’affari a marchio Coop non sono sottoposte ad alcuna vigilanza. La Banca d’Italia controlla le banche propriamente dette, ma le Coop non se le fila nessuno, punto e basta. Negli ultimi anni, complice la crisi e nella disattenzione generale, si sono messe nei guai. L’anno scorso le “nove sorelle” (oltre 12 miliardi di fatturato, con 50 mila dipendenti e sette milioni di soci in tutto) hanno chiuso i loro bilanci in rosso per complessivi 135 milioni di euro, e proprio per colpa della finanza.

Ma prima di entrare nei dettagli di un disastro annunciato è bene spiegare il peculiare sistema di potere che consente ai boss delle coop di non rendere conto a nessuno. Il mondo delle cooperative cosiddette rosse ha seguito nel Dopoguerra uno schema sensato: le aziende sono cresciute sotto l’ombrello del Pci, che le governava attraverso la Legacoop, nominalmente un sindacato d’impresa, come la Confindustria, di fatto una sorta di holding attraverso la quale i vertici di Botteghe Oscure sceglievano strategie e manager.
Dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine del Pci decisa da Achille Occhetto nel 1989, il potere del partito si è dissolto e i capi delle cooperative sono diventati padroni assoluti, proprio come gli oligarchi russi che si sono appropriati delle aziende alla fine del regime sovietico. L’uomo simbolo di questo curioso fenomeno italiano è Turiddo Campaini, presidente di Unicoop Firenze dal 1973, cioè da 40 anni. Non c’è alcun meccanismo di controllo e nessuno lo può mandare a casa. I soci sono un milione e 200 mila, ma di essi solo 1288 (uno su mille, verosimilmente amici, dipendenti e sottoposti di Campaini) si sono presentati alle 39 assemblee decentrate che hanno approvato il bilancio. Tutti i colleghi di Campaini sono uomini di potere a 24 carati, che si scelgono in autonomia le amicizie politiche di riferimento. Il presidente della Coop Centro Italia, Giorgio Raggi, ex sindaco di Foligno, ha investito i soldi della cooperativa nella Edib, editrice del Corriere dell’Umbria nella fase in cui il quotidiano era nella sfera di Denis Verdini, e ha perso tutto. Recentemente si è fatto intercettare con la sua sodale di sempre, Maria Rita Lorenzetti, oggi agli arresti domiciliari, mentre si rammaricava di non essere potuto intervenire in tempo per bloccare un articolo de La Nazione sgradito alla zarina umbra. Ma lei cerca lui perché la Coop è la seconda azienda dell’Umbria dopo la Thyssen, e gli chiede di assumere la parente del consulente ministeriale che con la zarina sta curando gli interessi della Coopsette nei lavori Tav di Firenze.

Torniamo a parlare di soldi. Le Coop impiegano gli oltre 10 miliardi del prestito dei soci in operazioni finanziarie, dai Bot alla Borsa. Nel 2012 erano immobilizzati in partecipazioni azionarie 2,2 miliardi di euro. Siccome è buona regola non investire in Borsa i soldi presi in prestito (perché se crollano i listini fai la fine di Romain Zaleski), se la Banca d’Italia vigilasse sull’uso del pubblico risparmio fatto in casa Coop controllerebbe il rapporto tra partecipazioni azionarie e patrimonio netto (che è la somma di capitale sociale e riserve, cioè il vero patrimonio che fa da garanzia per gli investimenti a rischio).

Consorte ha tracciato il solco e gli Stefanini lo difendono. Ebbene, le nove Coop hanno partecipazioni azionarie per 2,2 miliardi e un patrimonio netto di 6 miliardi. Mediobanca ha lo stesso rapporto: 2,6 miliardi su un patrimonio netto di 7. Solo che Mediobanca è una banca d’affari, la Coop una catena di supermercati. Come mai? Il fatto è che gli oligarchi delle Coop sono rimasti abbagliati dall’esempio di Gianni Consorte, padre-padrone dell’Unipol che otto anni fa tentò senza successo la scalata alla Bnl. E siccome gli azionisti di controllo dell’Unipol erano e sono proprio le grandi coop, quando Consorte fu sconfitto i suoi colleghi, fraternamente, lo cacciarono. Pierluigi Stefanini, oligarca storico della Coop Adriatica, salì al vertice dell’Unipol. E i manager-padroni hanno ricominciato a giocare con la finanza, spaccandosi però in due fazioni, i cosiddetti toscani e i cosiddetti emiliani. I primi si sono fatti male con il Monte dei Paschi, i secondi con l’Unipol.

I “toscani” sono tre cooperative: Unicoop Firenze, Unicoop Tirreno e Coop Centro Italia. L’empolese Campaini, leader della corrente toscana, si scontrò a suo tempo con Consorte e non ha più voluto saperne di mettere soldi su Unipol. Ha preferito investire sul Monte dei Paschi, usando i risparmi dei soci per salvaguardare la “toscanità” (testuale) della banca senese. Ha speso oltre 400 milioni e ne ha persi circa 300, e nessuno ovviamente protesta. Unicoop Tirreno e Coop Centro Italia non stanno meglio. Insomma, nel 2012 le tre coop che coprono Toscana, Umbria, Lazio e Abruzzo hanno perso in tutto oltre 200 milioni, dopo aver segnato in bilancio 323 milioni di svalutazioni delle azioni possedute.
La Coop umbra presieduta da Raggi ha fatto addirittura strike, riuscendo a perdere soldi sia sul Montepaschi sia sulla Popolare di Spoleto (commissariata con vertici arrestati). Il capolavoro di Raggi è stato vendere una ventina di supermercati al Fondo Etrusco, società immobiliare del Monte dei Paschi e dell’ex vicepresidente della banca senese, Francesco Gaetano Caltagirone, per non vendere le azioni del Monte dei Paschi, considerate “strategiche” (che non vuol dire niente ma suona bene). Così adesso le azioni non valgono quasi più niente, ma ogni anno la Coop paga milioni in affitti al Fondo Etrusco, di cui però ha preso delle quote, cosicché partecipa alla speculazione contro se stessa.

Le sei cooperative del nord, che hanno in Emilia il loro epicentro, si sono invece inguaiate con l’Unipol. La compagnia assicurativa bolognese, trascinata da Mediobanca nel rischiosissimo salvataggio della Fonsai di Ligresti, fa capo alla holding Finsoe, a sua volta posseduta dalle coop del consumo insieme alla Holmo, scatola che riunisce le quote delle coop di costruzioni, l’altra gamba del potere cooperativo. Se al Centro si sono immolate per la “toscanità”, al Nord le coop sono state sacrificate all’ottimismo degli oligarchi. Le azioni Unipol valgono in Borsa circa 3,5 euro, ma il sistema cooperativo le tiene in bilancio a 10 euro. Il che significa che Finsoe segna le Unipol all’attivo del suo bilancio per 2,2 miliardi quando in Borsa valgono appena 800 milioni: mancano all’appello 1,4 miliardi, evaporati in questi anni in nome del mitico aggettivo: il controllo di Unipol è “strategico”.

Quando è arrivato da Mediobanca l’ordine di salvare Fonsai, oligarchi di primo livello hanno obbedito con entusiasmo: per esempio Ernesto Dalle Rive di Novacoop, Marco Pedroni di Coop Nord Est (ma presidente anche di Finsoe) e Mario Zucchelli di Coop Estense, tutti e tre consiglieri d’amministrazione di Unipol, non si sono fatti pregare per immolare i soldi dei soci al salvataggio dei crediti di Mediobanca e Unicredit verso i Ligresti. Siccome si trattava di far scucire a Finsoe 429 milioni per l’aumento di capitale di Unipol, non solo i “toscani” ma anche grandi cooperative di costruzioni come Cmb e Coopsette si sono tirate indietro e hanno lasciato alle consorelle del consumo, presunte ricche, il conto da pagare. Come nei salotti buoni, anche dentro il mondo coop l’oligarchia è ormai devastata dalle guerre intestine propiziate dall’anarchia.

Il mistero della Manutencoop che non voleva pagare per Unipol. Illuminante il caso della Manutencoop, uno dei maggiori azionisti di Unipol. Quando partì la chiamata alle armi di Mediobanca, Claudio Levorato, presidente da una trentina d’anni di una cooperativa che ha oggi 15 mila dipendenti e circa un miliardo di fatturato, rispose seccamente alla domanda se avrebbe messo mano al portafoglio: “Lo escludo categoricamente, Manutencoop non distoglierà risorse dal proprio core business”. Pochi mesi dopo Levorato ha pagato anche per le coop che si erano rifiutate, inneggiando all’operazione (indovinate?) “strategica”. Alla domanda se svenarsi per salvare la Fonsai non fosse una mossa rischiosa, Levorato ha opposto una risposta sibillina: “Se non l’avessimo fatta ci sarebbero stati dei problemi”.

Per obbedire a Mediobanca e Unicredit gli oligarchi hanno svenato le proprie coop. La Finsoe, non bastando i 300 milioni chiesti alle coop per l’aumento di capitale Unipol, ha aumentato i suoi debiti con le banche. E poche settimane fa la trimurti delle “banche di sistema” (Mediobanca, Intesa e Unicredit) ha soccorso Manutencoop collocando sui mercati internazionali un prestito obbligazionario da 450 milioni (quasi metà del fatturato) al tasso effettivo dell’8,75 per cento. Siamo ai limiti dell’usura e ciò illumina quanto sia conciata male la coop di Levorato. Ma da quando non c’è più il Pci le coop sono rimaste orfane, e gli oligarchi ormai si affidano ai salotti del capitalismo che una volta dicevano di voler combattere. Adesso, sempre in ritardo, fanno a gara a chi si integra meglio in un sistema in declino.

Iniquo e surreale. Davide Giacalone


Il dibattito sulla legge di stabilità procede in un clima surreale. Ignorando i pericoli che incombono, facendo finta di non sapere che i punti di forza (che esistono e sono tanti) del nostro sistema produttivo e della nostra affidabilità di debitori sono oscurati dallo spettacolo d’immobilismo che trasmettiamo in mondovisione, ragionando del 2014 come se nel 2015 non scattasse l’obbligo di tagliare, annualmente, un ventesimo del debito pubblico eccedente il 60% del prodotto interno lordo, bellamente trascurando tutto ciò si assiste alla seguente scena: il governo continua a dire che intende tagliare il cuneo fiscale, ma in maniera irrisoria e irridente, e la Corte dei conti va a sostenere che quel taglio sarebbe iniquo, in quanto non ne beneficerebbero i pensionati, i lavoratori autonomi e gli incapienti, cioè circa 25 milioni di cittadini. Roba fuori dal mondo.

L’idea di concentrare gli sforzi nel taglio del cuneo fiscale è giusta. Risponde al bisogno di restituire competitività al nostro sistema produttivo, alleggerendo il costo del lavoro da oneri che non si traducono in salario. Il guaio non è nell’idea, ma nel fatto che rimane una pura ipotesi, o una realizzazione meramente propagandistica, facendo il solletico a un cuneo enorme e punitivo. Ma l’obiezione della Corte dei conti è solo in parte questa, perché poi solleva il tema dell’equità. Vorrebbero che riguardasse tutti. Ma come li fanno, i conti? Il nostro problema è che, a fronte di una spesa pubblica di 800 miliardi più della metà se ne va in debiti: 80 per gli interessi sul debito pubblico e il resto in pensioni. Sul sistema produttivo pesa un debito esagerato e iniquo. Certo, va abbattuto con le dismissioni. Ma anche nel governare la pressione fiscale non ha senso supporre che si debba agire allo stesso modo sia relativamente alle pensioni che ai fattori produttivi, e se lo si facesse il tagliettino diventerebbe ancora più piccolo. Si comunichi ai signori della Corte una banale verità: la ricchezza bisogna prima produrla, mentre loro credono si debba solo redistribuirla.

A essere audito, presso le commissioni bilancio di Camera e Senato, è stato il presidente designato: Raffaele Squitieri, che sostituirà Luigi Giampaolino, che ha raggiunto i limiti d’età. Solo che il secondo ha 75 anni e il primo, ovvero il futuro, 72. Il quale andrà in testa a una magistratura che costa, ogni anno 333 milioni, di cui 150 spesi per gli uffici dei vertici. Il gettito e il danno erariale che la Corte riesce effettivamente a recuperare, ogni anno, è incongruente con quel che costa. Così, tanto per dare qualche riferimento a chi volesse tagliare la spesa pubblica inutile. Non a caso ieri ha sostenuto che va ripensata “l’organizzazione delle funzioni pubbliche per evitare che la riduzione di dipendenti determini il degrado nella qualità dei servizi”, aggiungendo che le norme di taglio sul pubblico impiego “non sono replicabili all’infinito”. Devono ancora cominciare, e possono partire dalla Corte che presiederà. Che, del resto, fu istituita nel 1862, affinché vigilasse sulle amministrazioni pubbliche, in modo da prevenire e impedire sperperi. Direi che non ha avuto un ragguardevole successo, sicché le funzioni utili possono essere esercitate in sede civile. Le altre soppresse.

Nella Costituzione si trova all’articolo 100: “La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. (…)”. Non vedo traccia di funzioni politiche, come quella sul giudizio di equità. E’ vero che ha anche funzioni consultive, ma è la stessa Corte (sezioni riunite, deliberazione 54/2010) ad avere stabilito che tale attività non può divenire “consulenza di portate generale” limitandosi alla “materia di contabilità pubblica”. Ieri il presidente designato ha fatto l’esatto contrario.

Preso dall’entusiasmo ha anche detto “si pongono le condizioni per una tregua fiscale”. Passaggio che apre il cuore alla speranza. Ma poi ha documentato il contrario: la pressione fiscale è destinata a crescere, i tagli sono immaginari e le clausole di salvaguardia inesorabili. E la tregua? Vive solo nel surrealismo imperante. Ci si conceda almeno la tregua delle chiacchiere e delle lezioni di equità da pulpiti sempre vissuti di spesa pubblica e compartecipazione alle scelte e carriere politiche.

Pubblicato da Libero

domenica 27 ottobre 2013

La carcerazione preventiva è una tortura. Alessandro Spanu


Il caso della detenuta in attesa di giudizio Giulia Ligresti (e, ça va sans dire, di migliaia di detenuti nelle sue stesse condizioni, ma meno celebri) costretta obtorto collo a patteggiare per uscire dalla galera è l’ennesima conferma che la carcerazione preventiva non solo è un atto di ostilità nei confronti dei cittadini, come sosteneva Thomas Hobbes, ma è diventato uno strumento di tortura per estorcere per tormenta delazioni e confessioni dagli indagati.

Il caso di Giulia Ligresti, peraltro in galera per un reato economico, nonostante le esigenze cautelari siano tutelate anche e soprattutto dal sequestro dei beni (ma questo è un altro discorso e non entro nel merito della vicenda) ripropone, per l’ennesima volta non solo il problema dell’abuso della carcerazione preventiva (sono 26000 i “condannati preventivi” per dirla col titolo del pamphlet di Annalisa Chirico) ma anche quello del patteggiamento, un istituto mutuato a sproposito dal sistema americano, che, come vedremo, porta ad uno scambio perverso di confessioni e delazioni in cambio di una cospicua riduzione della pena.

Per quanto concerne la carcerazione preventiva (o, per dirla coi termini eufemistici del nostro legislatore, custodia cautelare) come è purtroppo noto è lungi dal limitarsi a misura eccezionale per impedire l’inquinamento delle prove o la fuga dell’imputato.

Peraltro anche in questi casi “sbattere in galera” i sospetti pare eccessivo, posto che la tecnologia oggi offre strumenti per controllare a distanza le persone, dalle intercettazioni ai famosi e costosissimi braccialetti elettronici (per i quali lo Stato, se li avesse comprati da Bulgari, avrebbe forse risparmiato) e atteso che nel mondo “globalizzato” di oggi è ben difficile una fuga senza lasciare tracce: anche qualora l’imputato fosse miracolosamente riuscito a nascondersi (magari dopo una plastica facciale e con una nuova identità) in un Paese per il quale non è prevista l’estradizione il diritto penale avrebbe comunque raggiunto l’ obbiettivo di neutralizzarlo e metterlo in condizioni di non nuocere.

Ma, in realtà, oggi la carcerazione preventiva è non tanto “pena anticipata”, misura di prevenzione e di difesa sociale per evitare che in futuro una determinata persona, ritenuta socialmente pericolosa, commetta reati (ovvero: prima si punisce e solo dopo si processo o si punisce processando, visto l’effetto sputtanante dell’essere arrestato)quanto, piuttosto, come ho detto, strumento di tortura per intimidire e pressare gli indagati costringendoli a collaborare con gli inquirenti.

Ricordate i magistrati di Milano che nell’estate 1994 fecero un appello televisivo a reti unificate contro il famigerato “Decreto Biondi” che, secondo loro, limitando il carcere prima della condanna, avrebbe reso più difficili, se non impossibili, le loro inchieste?

In questo modo i peggiori metodi “di polizia” come “torchiare” i sospetti (che vergogna l’interrogatorio senza difensore, tutt’ora consentito dal nostro codice di procedura penale!) e raccogliere e premiare le “spiate” entrano di diritto nel processo penale, che si riduce a rapporto di forza fra il pubblico ministero, dominus del processo e l’imputato, indotto alla confessione o, peggio, alla delazione, dal timore di restare in carcere e dalla speranza di una ritrovata libertà, preferendo patteggiare sùbito una pena ridotta in cambio delle collaborazione con gli inquirenti, piuttosto che attendere una eventuale assoluzione fra 10 anni (magari aspettata in carcere!)

E’ questo l’aspetto di criticità dell’istituto del patteggiamento, un accordo fra accusa e indagato che permette di “saltare” il dibattimento ed avere uno notevole sconto di pena (ridotta fino ad un terzo) scimmiottamento del plea bargaining americano, dimenticando però che nel sistema statunitense non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, che è a discrezione del prosecutor, il quale può anche concedere l’immunità all’indagato in cambio delle sue dichiarazioni, non essendo il procuratore un funzionario statale collega del giudice, ma sostanzialmente un “politico” eletto dai cittadini oppure nominato dal Governo (spesso la candidatura o la nomina sono il primo passo di una carriera politica: pensiamo a Rudolph Giuliani).

Col patteggiamento viene stravolto il principio di causalità e proporzionalità fra reato e pena, posto che la misura di quest’ultima non dipenderà più dalla gravità del reato commesso ma dal fatto che si “collabori” o meno con gli inquirenti: nel confronto impari con l’accusa cosa può dare l’indagato, magari in carcere e quindi in condizioni di sudditanza psicologica ed impossibilità materiale di organizzare la propria difesa, per ottenere il patteggiamento e la conseguente riduzione di pena, se non la propria dichiarazione di colpevolezza o, peggio, la chiamata di correo, magari infondata, di altre persone?

Per tornare alla carcerazione preventiva, pena senza condanna, non posso non ricordare che essa contrasta palesemente con la presunzione di innocenza, principio in base al quale nel processo penale l’onere della prova incombe sempre e solo sull’accusa, che deve dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio la colpevolezza dell’imputato, il quale è considerato non colpevole fino a sentenza definitiva di condanna.

Il già citato Thomas Hobbes, a torto presentato come teorizzatore dello stato totalitario, è, a leggerlo, molto più garantista di certi nostri giudici dai quali non vorrei mai essere giudicato (penso in particolare a quel consigliere di Cassazione secondo cui la presunzione di non colpevolezza semplicemente non esiste perché “non ci sono innocenti, ma solo colpevoli che attendono di essere scoperti” e, perciò, siamo tutti in “libertà provvisoria”!)

Infatti il filosofo inglese considerava come “contrario alla legge di natura qualunque danno sia fatto soffrire ad un uomo prima che la sua causa sia ascoltata, oltre ed al di sopra di quanto sia necessario ad assicurarne la custodia”e si chiedeva “ come si possa parlare di delitto, senza che sia pronunciata sentenza, e come sia possibile, sempre senza una precedente sentenza, infliggere una pena”.

Infine mi chiedo: perché non si abolisce la carcerazione preventiva e non si consente agli indagati un processo a piede libero in modo che possano realmente difendersi in condizioni di parità con l’accusa? (the FrontPage)

sabato 26 ottobre 2013

L'ultima carta del mazzo. Marcello Veneziani


Diffidavamo dei tecnici perché sono uno sfregio alla sovranità popolare, ma per disperazione accettammo la soluzione Monti dei Pegni, pur nata in modo indecente, perché pensammo che un tecnico avesse mani più libere per incidere sullo Stato e gli sperperi. E invece Monti non tagliò nulla, ma si accanì sui cittadini, spremendoli e minacciandoli. Lui dirà che la politica non gli permetteva di tagliare: allora, Professore, anziché andare dalla Bignardi a farsi coglionare col cane, convocava una conferenza stampa in tv e lo denunciava, e se non sortiva effetto si dimetteva. Sarebbe uscito alla grande...
Detestavamo il consociativismo perché mortifica la democrazia bipolare ma per disperazione accettammo la soluzione Letta matrimoniale, pensando che solo un governo di larghe intese potesse varare leggi difficili da far digerire e riforme costituzionali e strutturali. E invece tirano da parti opposte e il pupazzo resta fermo o diventa un grottesco asino pezzato; e intanto si fanno a pezzi tra loro e a vicenda. Sono unanimi solo nel rinvio o nel peculato (vedi Bologna, grillini inclusi). A questo punto se non vogliamo sperare in un'invasione straniera, un golpe di extraterrestri o sperimentare, primi nel mondo, lo scioglimento dello Stato e l'anarchia, la soluzione che resta da provare è una. Elezione diretta del premier, pieno mandato di governo e chi vince si assume tutte le responsabilità di decidere. Per cinque anni non lo tocca nessuno, poi verrà giudicato dal voto. È l'ultima carta, prima di passare a quella igienica. (il Giornale)

venerdì 25 ottobre 2013

Memoria corta giustizia lenta vergogna veloce. Paolo Guzzanti

 

I fatti risalgono al 1991. Chi è nato in quell'anno, è già laureato. La giustizia italiana, si sa, ha i suoi tempi, i suoi affanni, la sua gotta, asma, dissenteria, stipsi, prolassi e rilassamenti. Dunque, che sorpresa volete che provochi la notizia secondo cui la Cassazione ha messo in calendario la sentenza finale per il 2015, ma forse anche per il 2016?

Nessuna. La questione in questione, se così si può dire, non è questione di briciole ma di un bel pacco di soldi: una cifra prossima ai 360 milioni che lo Stato italiano, ovvero la sua agenzia delle entrate, reclama con amichevole pacatezza prossima tra l'ipnosi e la paresi, uno sbadiglio e un letargo.

Il lettore chiederà: ma di che si tratta? Di chi si tratta? Si tratta di un diverbio. Meglio: di una incomprensione fra un grande industriale editore e figura politica da una parte, e lo Stato dall'altra. Sapete com'è: il grande industriale ed editore si è ritrovato, buon per lui, una cospicua plusvalenza.

Ma l'Agenzia delle entrate - con molto garbo, senza attacchi di ansia o grida scomposte di evasione fiscale - sostiene di non aver visto il corrispondente versamento in tasse: «Ma sì che te l'ho dato», «Ma no che non l'ho ricevuto», sapete come vanno queste cose. Un po' l'età per il tempo che passa, un po' l'ipocondria, alla fine si gonfiano le vene sul collo e va a finire che la lite si trasferisce dal cortile alla Corte. Di Cassazione.

L'avrete a questo punto capito: il grande industriale, editore e figura politica è Carlo De Benedetti, tessera numero uno del Partito democratico, proprietario del gruppo editoriale l'Espresso. È lui che si trova al centro di un contenzioso arcimilionario con l'Agenzia delle entrate già nel 1991, due anni dopo la caduta del Muro di Berlino.

Direte: figuratevi con la fame di tasse inevase la furia dell'Agenzia delle entrate per riavere il suo. Errore: cercate di osservare la cosa al rallentatore, alla moviola, ma mai nei tempi e ritmi cui ci hanno educato le recenti fulminee velocità di quella suprema e anzi celestiale Corte, quando il cittadino era un altro.

Da quando la grana è scoppiata, è stato dunque tutto un rinvio, una rimodulazione di chiacchiere, ricorsi e controricorsi, attese e rinvii. Siamo in Italia, culla del diritto perché il diritto non è mai uscito dalla culla. E dunque il dio Kronos, il tempo, la stasi e la palude dominano la scena. La gente benpensante non ha nulla da ridire: il cittadino De Benedetti, in fondo, è un miliardario come tutti gli altri e gli tocca la stessa velocità di giustizia che tocca a tutti i normali cittadini: rinvii decennali e sentenze da aprirsi insieme al testamento del coinvolto, alla presenza della servitù in lacrime.

Qualcuno dirà: ma scusate, per Berlusconi hanno fatto tutto in quattro e quattr'otto, tagli ai tempi morti, sezione estiva, sezione notturna, acceleratore a tavoletta per azionare la lama della ghigliottina che scende fulminea e taglia la testa. Si tratta di una obiezione subdola e inopportuna: i tempi per Berlusconi non sono quelli della comune giustizia, ma di quella straordinaria. Una giustizia speciale. Per fortuna con De Benedetti si torna all'antico, ai tempi normali che tutto il mondo ci invidia.

Gli usi e costumi normali sono quelli che accompagnano la vicenda giudiziaria e fiscale dell'ingegner De Benedetti per il quale i tempi - e i pagamenti - si allungano a telescopio. Si parte dal 1991, si va avanti con uno sportivo rimpallo fra Cassazione e Commissione tributaria che si trascina per anni (i figli crescono, le mamme invecchiano, le rose sfioriscono per poi rifiorire) e finalmente nel 2007 la Cassazione con un tiro sottorete mette a segno un punto e annulla la sentenza di secondo grado. Palla al centro, servizio a De Benedetti che però perde di nuovo in secondo grado. Fischio dell'arbitro, ricorso, e la palla torna alla Cassazione.

Il pubblico, mitridatizzato dalla noia, si è liquefatto. Gli ultimi appassionati hanno atteso per un po' che tornasse l'eco del ricorso pendente e poi finalmente si è saputo: che la cosa va presa con ulteriore calma, adelante Pedro. Del resto riflettete: non è che si può costringere De Benedetti a tirare fuori 350 milioni con la stessa velocità con cui poté incassare 541,2 milioni dalle tasche di Berlusconi per la questione Mondadori. Sarebbe stato crudele e contrario alle tradizioni. Altra storia per Berlusconi per il quale ha funzionato la giustizia speciale, la Tav delle sentenze, Speedy Gonzales della messa in decadenza, del pagamento immediato. Per De Benedetti, tutt'altra storia. Se ne parlerà - se va bene - fra un anno e mezzo, magari due, insciallà, non c'è fretta. I cittadini sono notoriamente uguali davanti alla legge. (il Giornale)

mercoledì 23 ottobre 2013

Il delirio degli intellettuali di sinistra

Il delirante comunicato delle Brigate rosse intellettuali è a firma di Paolo Flores d'Arcais e apre la sua rivista MicroMega


«L'intellettuale di destra è una contraddizione in termini... L'intellettuale di destra o di centro, quando esiste, è personale di servizio. C'è un solo impegno, quello democratico, di sinistra. Chi sta dalla parte della reazione e del privilegio, cioè dalla parte sbagliata, non è un intellettuale ma un officiante della servitù volontaria».

Il delirante comunicato delle Brigate rosse intellettuali è a firma di Paolo Flores d'Arcais e apre la sua rivista MicroMega. Gli argomenti migliori che adopera nel suo articolo sono tutti di marca intellettuale di destra: come l'eterogenesi dei fini o l'imbarbarimento dell'industria culturale. La conclusione sfiora il ridicolo: auspica un illuminismo di massa, ma è un impegno «improbo perché sembra non volerlo nessuno»; e allora dovrà essere imposto alla massa riluttante? L'articolo morirebbe lì, nell'infamia faziosa dei fanatici, se non esprimesse a voce alta quel che il potere culturale dominante pratica ogni dì.

Il suddetto si dimise dalla direzione di una collana libri nel 1987 della SugarCo vicina a Craxi perché pubblicava il libro di un autore di destra, che certo non era al potere o asservito a qualcuno. Fa il paio con un trombone suo collega, all'epoca scrivano di Craxi, che definisce ancor oggi subcultura fascista le opere di autori di destra. Pensi ai libri scritti e letti, agli autori, alle idee e alla storia di una vita, ai veti «perché di destra», e ti prende lo sconforto. Anche perché nessuno reagisce. Ma sì, a voi va bene una destra che fa rutti e sputa in faccia.

(il Giornale)

lunedì 21 ottobre 2013

Hic sunt pirlones. Davide Giacalone

La democrazia cristiana non rinasce, semmai si perpetua la radiazione fossile del suo doroteismo. Deideologizzato e praticato come equilibrismo (l’unico che i giovani a vita conobbero). Capace non di dare vita a un partito, ma di toglierne a quelli esistenti, occupandoli. Cose di cui è ragionevole supporre che non importi niente alla gran parte degli italiani, se non fosse che si tratta dell’involucro dentro cui si protegge la naturale tendenza al galleggiamento inerte. Questi, però, non si rendono conto che il pericolo non viene dalle correnti oceaniche, bensì dal calare velocissimo del livello dell’acqua. Vestono alamari d’ammiraglio, ma veleggiano in una vasca da bagno.


La Democrazia cristiana era pianta con radici diverse. Una giungeva all’idea di organizzare i cattolici in politica, ricollegandosi allo sturziano Partito popolare. Altre portavano al suo opposto, ovvero alla subordinazione della politica ai dettami delle gerarchie vaticane. Altre ancora erano il semplice posizionamento nel baricentro politico, coagulato dall’impossibilità che prendesse forma un’alternativa di sinistra. La Dc era consustanziale alla guerra fredda, che faceva da mastice nel tenere assieme anime altrimenti alternative. Esploso quel mondo i suoi reduci si trovarono (appunto) ovunque, ma in posizione subordinata rispetto alla spinta bipolarista imposta dal debutto berlusconiano. Il bipolarismo era l’antitesi del democristianismo. Il bipolarismo, però, si mostrò presto pregno di contrapposizioni formali e asciutto d’aspirazioni sostanziali. Durò a lungo, perché a dominarlo era il suo ideatore, fondatore e animatore: Silvio Berlusconi. Ma quella formula cominciò presto a esaurirsi, sicché sorse un fenomeno interessante: i democristiani lo scalarono e interpretarono a loro modo. Oggi si trovano alla guida della destra, della sinistra e del centro. Non ci sono riusciti con le liste ortottere, troppo velocemente lievitate per consentire un ruolo alle cicale. Perché mai dovrebbero rifare la Dc, visto che da democristiani già dominano le truppe in campo?

Politicismi per maniaci? Può darsi, ma ecco la traduzione pratica, che paghiamo tutti: mentre in Germania le larghe intese sono la formula delle riforme, da noi sono la ricetta dell’immobilismo. Facile da spiegare: mentre i teutonici le usano per far confluire forze politiche ed elettorati diversi, uniti dalla necessità, ma anche dall’opportunità di fare il necessario; in salsa italica servono per far defluire i paguri presenti nelle conchiglie altrui, oramai privi di partito e d’elettorato, ma riuniti dal desiderio di durare il più a lungo possibile. Si spiega così che i ministri delle varie componenti partirono come ambasciatori del proprio mondo e divennero in fretta apolidi nel nuovo. E si capisce così l’espressione stupefatta di Mario Monti, che paga in proprio il prezzo di un’illusione pericolosissima: pensare di far politica senza far politica, cioè senza incarnare idee e interessi che sono naturalmente e democraticamente di parte. Il super partes è un abbaglio losco, un parto dell’ipocrisia, e se poi non ti pieghi al sugherismo democristianeggiante scopri di non avere proprio nessuna parte, nella nuova commedia. Tanto m’innervosiva il Monti che si pensò capo politico, tanto m’intenerisce quello che scopre la coda senza esserne più a capo.

Se rifacessero la Dc dovrebbero, prima o dopo, contare i voti. Roba complicata. Gli italiani normali non campano da ricchi senza mai avere lavorato, come capita a quasi tutti questi signori, e non trovano divertente consegnare la gran parte del loro reddito allo Stato. A questi stessi italiani si racconta che le tasse diminuiscono, senza presentare neanche il testo di legge e con la stessa sicura dizione con cui altri affermarono essere figlia d’Egitto colei la quale dei faraoni fu capace di portare in dote solo le maledizioni. Cosa diminuisce? Dove? Che stanno dicendo? Hanno appena alzato di un punto l’Iva! E il cielo non voglia che per barcamenarsi pensino di usare le dismissioni, come già hanno fatto con la “manovrina”, al fine di coprire spese correnti. Sarebbe la formula certa del disastro. Non credeteli così ingenui da volere prendere il posto dei capi, da volere rifare il loro comune partito. Sono scaltri e sanno di avere già il comando. Dorotea perse la testa, i dorotei mai. Sanno che alle elezioni dovranno pur trovare il modo di riproporsi, ma il 2015 è oltre la linea dell’orizzonte. Hic sunt pirlones.

Pubblicato da Libero

venerdì 18 ottobre 2013

Hanno partorito un mostro giuridico. Marcello Veneziani

Non ce ne stiamo accorgendo ma, nel giro di poche settimane, la repubblica di Napolitano e della Boldrini, del ministro Kyenge e dei volenterosi manovali del Parlamento, sta stravolgendo lo Stato di diritto e il senso della giustizia col plauso dei media.


Viene introdotto il reato di omofobia, nasce cioè un reato dedicato in esclusiva; viene introdotto il femminicidio, cioè viene stabilito che c'è un omicidio più omicidio degli altri; viene negato il reato di immigrazione clandestina e dunque la cittadinanza non ha più valore; viene introdotto il reato di negazionismo, valido solo per la shoah.

Vengono così stravolti i principi su cui si fonda ogni civiltà giuridica: l'universalità della norma che deve valere per tutti, il principio più volte sbandierato e poi di fatto calpestato, della legge uguale per tutti; viene punito col carcere il reato d'opinione, e colpendo solo certe opinioni; viene sancita la discriminazione di genere, a tutela di alcune minoranze; è vanificata l'opera del giudice nell'individuare eventuali aggravanti nei reati giudicati perché vengono indicate a priori quelle rilevanti e dunque sono suggerite pure quelle irrilevanti.

Usano l'eccezione per colpire la norma, piegano le leggi a campagne ideologico-emotive e le rendono variabili. Sfasciano la giustizia col plauso dei giustizialisti, uccidono la libertà e l'uguaglianza, il diritto e la tolleranza nel nome della libertà e dell'uguaglianza, del diritto e della tolleranza.

Un mostro. E se provi a dirlo, il mostro sei tu, a suon di legge. (il Giornale)
 

martedì 15 ottobre 2013

Antiberlusconismo, una grave patologia. Gianluca Perricone

 


Me ne rendo conto frequentando uno dei miei pochissimi amici del cuore. A lui voglio un bene pazzo, spessissimo mangiamo un boccone insieme e chiacchieriamo di tutto. Ma talvolta lui si lascia andare e dimostra di essere afflitto da quella patologia (è forse anche il caso che la medicina ufficiale se ne inizi ad occupare) per la quale si vede Berlusconi ovunque: un vero incubo che trasforma vite umane in vero supplizio.

Lui, sempre il mio amico del cuore, è un lettore del Fatto Quotidiano e questo, per certi versi, potrebbe giustificare l’esistenza della patologia: dalla sua, per fortuna, ha una testa e una mente che talvolta riescono ad essere critiche anche rispetto alla testata di Padellaro. Ma, sotto sotto, in qualsivoglia cosa accada in Italia, l’ombra del Cav. appare inesorabile nei discorsi del suddetto amico. Il quale costituisce, per mia e sua fortuna, la parte (ancora) pensante di uno schieramento intellettuale e politico che invece soffre, in modo praticamente irreversibile, della patologia di cui sopra.

Certi altri ceffi, invece, non riescono a celare la loro malattia neppure di fronte a certi drammi come quello della situazione delle carceri nazionali. Nelle quali “alloggiano” circa 17mila esseri umani oltre la capienza delle strutture a disposizione del sistema penitenziario nostrano: costruite per ospitare 47mila e 600 persone, attualmente ne ospitano quasi 65mila. Di fronte al sovraffollamento delle carceri non si può mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi; né “gli amici degli amici” possono permettersi (ipocritamente) di far finta di nulla di fronte ai numeri che inconfutabilmente ci dicono anche che sono circa 39mila i detenuti condannati in via definitiva.

Questo vuol dire - ci si permette di farlo presente agli afflitti dalla grave patologia in questione - che 25mila persone stanno rinchiuse oltre le sbarre in attesa che qualcuno faccia loro sapere se sono o meno colpevoli. La vergogna è che ci si ostini a rimettere in mezzo Berlusconi e non ammettere che quei 25mila sono lì dentro perché il “sistema giustizia” italiano non funziona come dovrebbe. Ce lo ha certificato, tramite diverse sanzioni, anche l’Europa ma gli “ammalati” si ostinano a collegare qualsiasi possibile modifica dello status quo alle vicende dell’ex Presidente del Consiglio.

Eppure sarebbe un gran gesto di onestà intellettuale dei “manettari travagliati” ammettere che esiste un abominevole abuso della carcerazione preventiva (spesso usata come strumento di indagine, leggasi estorsione di confessione), che certi togati sbagliano e che per questo è giusto che paghino, che i tempi dei processi sono troppo lunghi, e via dicendo: e tutto ciò a prescindere da Silvio Berlusconi. (l'Opinione)

sabato 12 ottobre 2013

ArchivioAndrea's Version

12 ottobre 2013

Lezione numero uno: gli elettori di Grillo non sono avatar creati dalla rete, sono italiani in carne e ossa con il loro retroterra culturale e le loro idee. Lezione numero due: tra gli otto milioni e mezzo di voti a Grillo, ci sono molti ex leghisti e un po’ di destra assortita, quella che gongola per i vaffanculo e le urla anti sistema. Ma ci sono anche moltissimi italiani di sinistra, conquistati da scelte politiche decisamente civiche (per esempio la battaglia per l’acqua pubblica) e arcistufi della labile politica del Pd. Bon, Michele Serra dixit. Perché a votare Grillo, ci ha spiegato, sono stati un pugno di bestie bavose e una marea di virtuosi. Già. Fu un drappello di sudici nazisti, a scegliere Hitler, più una caterva di soavi tedeschi inteneriti da quanto amava i cani.

martedì 8 ottobre 2013

Orgoglio lampedusano. Davide Giacalone

 

In tema d’immigrazione il buonismo è uno sport che praticano i ricchi a spese dei poveri. L’alternativa non è il cattivismo, bensì il realismo. In questi giorni se ne sono sentite di tutti i colori, con alcune scemenze che gridano vendetta. Prendiamo puntualmente in esame le principali, ma con una premessa: per quel che è successo a Lampedusa non provo alcuna vergogna, ma orgoglio. Sono orgoglioso di vivere in un Paese che si lancia al soccorso e piange per quel che non riesce a salvare. Poi ci sono quelli che parlano a vanvera, cui è dedicato il resto di questo articolo.

1. E’ stata invocata l’Unione europea. Giusto: così come non può resistere un’unione monetaria che pretende di far convivere debiti pubblici, tassi d’interesse e politiche economiche diversi, altrettanto non può esistere uno spazio comune i cui confini e la cui politica dell’immigrazione non siano oggetto di comuni impegni. Ma la chiamata dell’Europa ha un senso solo se si ha chiaro che chiediamo il coinvolgimento di tutti per far fronte e reprimere l’immigrazione clandestina. Altrimenti siamo nell’ipocrisia allo stato puro. Non solo nessuno degli altri europei ha la minima intenzione di farsi invadere (anzi, crescono i movimenti xenofobi), ma i tedeschi ci rimandano indietro gli immigrati che istradiamo oltre le loro frontiere. Quindi: l’Ue può essere invocata contro i clandestini, non a loro favore.

2. Ci sono modi diversi di fronteggiare la clandestinità. Sono orgoglioso, nuovamente, di vivere in un Paese in cui non si spara alle frontiere (come in Spagna) e non si allontanano verso il largo i barconi (come a Malta). Il coinvolgimento di tutti deve cambiare le regole Frontex (agenzia Ue, in gran parte inutile, con sede a Varsavia): non più chiamate in caso di emergenza, ma pattugliamento comune continuo, a spese di tutti.

3. I migranti sono una cosa, i profughi un’altra. Se si mescolano e confondono la responsabilità è delle inutili agenzie Onu, capaci di far la morale, ma incapaci di assolvere ai loro doveri. Dovrebbero vergognarsi, loro sì. I profughi devono essere concentrati e smistati, posto che è un dovere accoglierli. La loro destinazione non può essere il Paese più vicino, ma tutti i Paesi civili, per quota parte. La regolazione è internazionale, non nazionale.

4. Ai tanti che hanno invocato la revisione della legge che regola l’immigrazione, dal presidente della Repubblica in giù, vorrei fare osservare che con la tragedia di Lampedusa (l’ultima, ma anche le precedenti), non c’entra nulla. Le leggi nazionali regolano (e non potrebbe essere diversamente) l’afflusso regolare d’immigrati e stabiliscono pene e provvedimenti per i clandestini. Nessuna legge nazionale può risolvere, o affrontare, il flagello della migrazione, che si svolge in un teatro planetario. E non è pensabile che la soluzione consista nell’accogliere tutti. Sono enormità che lasciamo dire ai demagoghi di turno.

5. Un procuratore della Repubblica ha sostenuto che la legge attuale impedisce di punire i trafficanti di carne umana. Spero che smentisca, o cambi mestiere. La legge (Testo Unico 286/1998, modificato dalla legge 189/2002, articolo 12), stabilisce che: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque in violazione delle disposizioni del presente testo unico compie atti diretti a procurare l’ingresso nel territorio dello Stato di uno straniero ovvero atti diretti a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a 15.000 euro per ogni persona”. Se lo fa per fini di lucro, ovvero i gestori dei barconi, la pena va da quattro a dodici anni. Cresce se si espongono i migranti al pericolo e così via. Pene pesantissime. Dov’è l’impunità? Nel fatto che la giustizia non funziona, è lenta e si lascia sfuggire, nel tempo, imputati e testimoni. Non è la legge che procura il guasto, ma la malagiustizia.

6. S’è letto che la legge punisce chi soccorre i naufraghi. Che infamia! Ecco il testo in vigore: “fermo restando quanto previsto dall’articolo 54 del codice penale, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato”. Il soccorso è addirittura un obbligo, e la sua omissione un reato, se si tratta di pubblici ufficiali. Da dove nasce la leggenda? Dalla malagiustizia: due pescatori tunisini soccorsero dei migranti e li portano sulle coste italiane, con il risultato che furono indagati in quanto schiavisti e i loro pescherecci sequestrati per quattro anni. Una vergogna, che non pesa sulla legge e meno ancora sui cittadini, ma sulla giustizia peggiore d’Europa. La nostra.

7. Buonismi e cattivismi sono isterismi propagandistici, capaci solo di vellicare gli istinti peggiori. L’Italia reale è ben lontana da tali sentimenti, ulteriore motivo d’orgoglio, ma non può tollerare che un pugno di privilegiati sparascemenze vogliano scaricare a casa degli altri il prezzo della loro ipocrisia. L’immigrazione ci serve, ma non regolarla, e non respingere e reprimere la clandestinità, ci spingerebbe su un terreno ove la perdita di sovranità sarebbe bilanciata dalla perdita di lucidità. In un trionfo di rabbia e razzismo. Capirete il perché il mio “no” si presenta piuttosto rigido.

Pubblicato da Libero

domenica 6 ottobre 2013

Froci sì, froci no. Angelo Libranti

 



Ogni tanto spuntava una discussione circa la posizione sessuale e sociale degli omosessuali nel contesto della società italiana. Da un po’ di tempo a questa parte invece, le discussioni sono all’ordine del giorno per l’invadenza delle loro pretese.

Ne è passata di acqua sotto i ponti dalla prima riunione pubblica, quasi clandestina, al teatro Alberico nel quartiere Prati di Roma.

Credo fosse il 1975 e attraverso Radio Radicale seppi del primo Congresso Nazionale del F.U.O.R.I., un avvenimento epocale anche se poco o niente propagandato.

Da inguaribile curioso quale sono, mi avventurai in quel teatro dove in un’ampia sala c’erano volti spauriti, quasi timidi, di giovani desiderosi di mostrarsi per quello che sentivano di essere.
Fui ripreso anche da una telecamera e non risolvevo se nascondermi o mostrare indifferenza.

Decisi per l’indifferenza, tanto mi dissi se nessuno mi riconosce mi prenderà per gay, se qualcuno mi riconoscerà saprà di sicuro qual è la mia natura.

Insomma, stetti lì una serata senza rendermi conto di stare in compagnia di giovani che poi sarebbero diventati famosi come Mario Mieli, Angelo Pezzana, Paolo Hutter, Dario Bellezza, Gianni Vattimo e tanti altri per me, all’epoca, completamente sconosciuti.

Le loro rivendicazioni mi sembrarono giuste ed ingiusta mi sembrava la loro ghettizzazione.
Ora invece, siamo arrivati all’esagerazione, ora vogliono il “matrimonio” e, addirittura, l’adozione di bambini.

Non sono d’accordo perché la società attuale è senz’altro più matura di quella degli anni Settanta e gli omosessuali sono visti con simpatia, al massimo con indifferenza, e tranne la frangia estrema di giovani delinquenti omofobi, li si lascia vivere tranquilli alle loro attività.

Concessione dopo concessione, siamo giunti alla confusione dei ruoli e credono di essere normali, quando normali non sono.

Quanto meno i gay soffrono un disturbo della personalità, legati spesso all’assenza di un padre o alla forte personalità della madre, oppure a traumi di natura sessuale subiti durante l’infanzia; lo si legge in tutti i testi seri di psicologia.

Non si spiega la loro ferma aspirazione al “matrimonio”, quando il codice civile prevede già i rapporti fra due persone, maschio o femmina che siano. L’eredità si può lasciare a chi si vuole e se non ci sono figli legittimi, non c’è nessun problema a trasferire anche grossi patrimoni.

Se uno il testamento non lo fa, significa che il rapporto non è così solido e ciò accade anche fra le coppie eterosessuali.

L’impedimento all’assistenza del compagno malato è una fesseria, perché al momento del ricovero si chiede l’indicazione di un nome e il numero di telefono di persona gradita al degente, chiunque esso sia, e non c’è articolo di legge che impedisca questa norma.

La realtà è che si mira alla pensione di reversibilità, questo è l’obiettivo malcelato delle coppie dello stesso sesso, e qui il discorso si fa complesso perché intervengono precise norme a regolare la questione. Da popolo furbo quale siamo, non ci sarebbe da meravigliarsi se due etero si mettono d’accordo per frodare lo Stato e poi ci sarebbe il problema dei fratelli e delle sorelle conviventi ed entrambi liberi. Anche loro potrebbero chiedere, giustamente, la pensione di reversibilità. Insomma un problema all’italiana.

Le pretese dei froci sono giunte a tentare di scardinare lo status della famiglia tradizionale quasi fosse un’istituzione dannosa ed omofoba, per il solo fatto di non condividere il loro “modus vivendi”. Il genitore n°1 ed il genitore n°2 rappresenta un segnale inquietante nel sovvertimento della società, fermo restando che sempre distinti sono: il n°1 è il papà (o la mamma) e il n°2 è la mamma (o il papà), cosa cambia? Odiano proprio l’attribuzione di papà e mamma e questo non sta bene. Sembra di capire che le fobie le soffrano loro e sono sempre incazzati verso gli etero e quelle comunemente definite coppie regolari. Perché non si accontentano del loro stato e lasciano in pace la società che è già abbastanza evoluta per accettarli e considerarli per quello che sono e per quello che possono offrire al consorzio umano? Calma e tranquillità ci vuole, la loro serenità servirebbe a valorizzarli meglio ed a ottenere maggiore considerazione. Già sono presenti in molti campi di attività e sono considerati per come svolgono il loro lavoro. Non gli basta?

Si giunge a protestare per la dichiarazione di un imprenditore, che non fa la morale ma ha un fine economico di vendita, indirizzata ad un target di sua scelta.

Interferire negli affari altrui significa coartare la libertà del prossimo ed è una prepotenza bella e buona, da chi pretende ampia libertà per sé. La frase infelice della terza carica dello Stato, esortante a riflettere sull’armonia della famiglia nel chiuso della propria casa è un insulto al sentir comune e al buon senso. Andrà a finire che i discriminati saranno gli altri e la lobby omosessuale deciderà per tutti.

Uno Stato così concepito non ha futuro perché vengono a mancare le garanzie per il cittadino; tanto per essere chiari la legge contro l’omofobia, così come è concepita, rappresenta i privilegi per un gruppo, con la conseguenza di rappresentare una casta e come tale va a finire che si ghettizzano da soli.

Più chiaro è stato il Papa a scomunicare il prete australiano che predicava il matrimonio fra persone dello stesso sesso ed il sacerdozio per le donne.

Indubbiamente Francesco è un Papa illuminato che cerca di portare la Chiesa al Vangelo di Cristo quando, appunto, gli apostoli erano tutti maschi e la sodomia e la prostituzione erano condannate come peccato. I peccatori poi, erano confortati dalla misericordia Divina. ( the FrontPage)

mercoledì 2 ottobre 2013

Solidarietà per il liberale Ostellino. Arturo Diaconale


02 ottobre 2013

“ Solidarietà per il liberale Piero Ostellino”. E' la campagna che Arturo Diaconale, direttore del quotidiano liberale “ L'opinione delle libertà” e presidente della associazione “ la Comunità de l'Opinione”, lancia in difesa dell'ex direttore ed attuale editorialista del Corriere della Sera” oggetto di una sistematica e violenta aggressione via web a causa dei valori di libertà che esprime nei suoi articoli sul quotidiano di via Solferino.

Di fronte alla valanga di insulti e minacce che gli viene rivolta per non essere omologato al pensiero unico politicamente corretto , Ostellino ha chiesto agli intellettuali ed ai giornalisti che si definiscono “ liberal “ di prendere le distanze e contestare un fenomeno di intolleranza così brutale. Un fenomeno che , di fatto, punta a cancellare uno dei principali diritti di libertà sanciti dalla Costituzione repubblicana : quello di opinione . La sua richiesta non ha trovato una sola risposta positiva. Ad eccezione di quella, proveniente non da un esponente del mondo intellettuale e del giornalismo di sinistra ma del versante opposto della destra, di Marcello Veneziani.

A dimostrazione e conferma che la cultura dell'intolleranza manifestata a livello di base da chi tende a trasformare la rete nel terreno delle esecuzioni degli avversari politici considerati o criminali o antropologicamente tarati, è pienamente condivisa ( e alimentata ) dai massimi vertici della nomenklatura intellettuale della sinistra. Non si può essere, come diceva Popper, tolleranti con gli intolleranti. Perché si lascia campo libero a chi tende ad approfittare dei valori della democrazia liberale per cancellare ogni possibile area di dissenso e distruggere a proprio vantaggio la democrazia stessa.

Ma per i liberali essere intolleranti con gli intolleranti non significa usare gli stessi metodi e la stessa violenza di chi si contesta. Almeno fino a quando sarà ancora possibile non c'è altra strada che reagire alle aggressioni ed ai linciaggi mediatici con i soli strumenti della democrazia. Per questo chiedo ai componenti de “ La Comunità de L'Opinione” ed a chiunque creda che alla base della democrazia repubblicana ci debba essere la difesa delle libertà, di partecipare alla campagna “Solidarietà per Piero Ostellino” . Perché oggi, nelle condizioni in cui versa il paese, rivendicare il diritto d'opinione del giornalista liberale, significa battersi per la difesa della libertà di tutti i cittadini !

Loris Facchinetti

Paolo Pillitteri

Alessandro De Rossi

Andrea Mancia

(l'Opinione)

 

martedì 1 ottobre 2013

ArchivioAndrea's Version

1 ottobre 2013

Spero con tutto il cuore che si faccia un governo. Un governo come si può, non pur che sia, purché sia un governo. Spero che vi partecipi il Pd, e questo mi sembra ovvio altrimenti non se ne fa niente, ma anche Sel di Nichi Vendola, e tutti, tutti quelli che, pur con qualche riserva, dispongano di un minimo di buona volontà. Spero che partecipi Monti, naturalmente, ma anche Casini con Cesa, e Riccardi, e tutta la variegata famiglia di centro, e che il nuovo governo possa assorbire i dissidenti di una parte e di quell’altra, di chi scegliesse di uscire a malincuore da Forza Italia, per dire, come di coloro che si fossero stancati di Grillo, e vorrei perciò che tutti, ma proprio tutti entrassero a far parte. Questo spero. Poi spero che arrivi dicembre e allora, visto come ci raccontano i drammatici e velocissimi mutamenti della condizione climatica, che a Roma possa fare una nevicata sui cento, centocinquanta metri.

Ma la crisi non farà più danni del governo. Nicola Porro

A leggere ciò che dice tutto il salotto buono dei commentatori, sembra che in Italia manchino solo le cavallette. Ma viviamo in una gigantesca bolla di ipocrisia


A leggere ciò che scrive e dice praticamente tutto il salotto buono dei commentatori, sembra che in Italia manchino solo le cavallette. Insomma sembra che a rischio siano anche i raccolti, per colpa della rottura imposta da Silvio Berlusconi. Sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco. In questa modesta ricostruzione non si vuole prendere una posizione sulle mosse politiche del Pdl (Forza Italia?). Lasciamo i giudizi a chi se ne intende di più.

Ma su una cosa cerchiamo di essere freddi. L'economia italiana è da tempo che non gira per il verso giusto e le manovre messe in campo, fino ad ora, dal governo Letta non sono servite a un'acca. Volere attribuire a Berlusconi e alla sue recenti mosse il disagio dell'economia è comprensibile dal punto di vista politico, ma certamente non da quello tecnico. Tutto sommato, se una responsabilità si vuole attribuire al Cavaliere, è quella di aver appoggiato un governo che non ha segnato alcuna svolta di politica economica.
Partiamo dai numeri. A differenza di tutte Europa, l'Italia non sta dando alcun segnale di crescita.

Nel documento finanziario presentato il 20 settembre da Letta e dal suo ministro dell'Economia si legge chiaro e tondo che siamo in coda alla ripresa europea. Il terzo trimestre ha visto una crescita della ricchezza dei paesi euro superiore alle previsioni. Esattamente il contrario per l'Italia, che ha dovuto peggiorare il numeretto del Pil rispetto a quanto preventivato. Colpa di Berlusconi? E non si venga a dire che sono stati i tassi di interesse. Il nostro sforamento del deficit dipende per il 75 per cento dalla congiuntura economica. Insomma il Pil cresce di meno e di conseguenze gli introiti fiscali, mentre la spesa pubblica fa sempre il suo sporco dovere: cioè sale. In queste ore gli stessi che ci raccontavano dell'inutilità di abolire l'Imu (una delle poche battaglie vinte dal centrodestra) adesso si dicono preoccupati che per la crisi di governo saremo costretti a pagare la seconda rata a dicembre. Preoccupazione legittima, ma che proviene dagli stessi che ci avrebbero fatto pagare sia la seconda sia la prima. Ma fateci il piacere.

Si dice, ed è vero, che da oggi per colpa del Cav e dei suoi ministri aumenterà l'Iva. L'alternativa però era quella di compensare la tenuta sull'Iva con l'aumento della benzina: sai che risultato. Cambiate il nome, ma sempre di tassa si tratta. A tutti i nostri maestri del pensiero che si stracciano le vesti per la crisi di governo vorremmo fare una domanda secca: quale azienda del mondo è oggi in grado di assumere a tempo indeterminato decine di migliaia di dipendenti? Semplice: la nostra pubblica amministrazione, complice le manovre messe in piedi da questo governo.

Ma andiamo avanti e pensiamo all'economia reale. Ma vi sembra normale che la nostra più importante industria pesante (l'Ilva) sia di fatto commissariata e non in grado di lavorare appieno? È normale che il commissario europeo e spagnolo abbia imposto a una nostra banca (la terza per dimensioni) la ricerca di risorse doppie rispetto al previsto? Quando ad esempio nella stessa Spagna le medesime banche, con ben maggiori guai, se la siano cavate con un prestito europeo, pagato anche dai contribuenti italiani? È forse colpa della crisi di governo se Telecom e Alitalia stanno per essere acquisite da gruppi stranieri? Sia chiaro chi scrive non si scandalizza: ma gli stessi che ritrovano interesse a giorni alterni per il nostro peso in Europa, non sono i medesimi che vorrebbero politiche protezionistiche?

Viviamo in una gigantesca bolla di ipocrisia. Si preannuncia l'arrivo delle cavallette su quel che resta del raccolto economico italiano. Ma è una balla. Come lo era quella dello spread, calato solo per l'intervento di Mario Draghi. L'economia italiana ha bisogno di uno choc e non saranno quattro mosse di buon senso messe in campo da un governo democristiano a procurarlo. Come non sarà una crisi di governo a peggiorare la nostra condizione. Il vero punto di domanda piuttosto è un altro. Davvero si crede che nuove elezioni creino una maggioranza tale da poter dare una sferzata al nostro molle e timido corpaccione statale? È un dubbio legittimo. Mentre è una certezza che con questo governo di larghe intese non si va da nessuna parte. (il Giornale)