mercoledì 30 settembre 2009

Tutti in piazza per la fola della libertà di stampa minacciata dal Cav. Giancarlo Loquenzi

Che cosa hanno in comune Di Pietro e i Boy scout, la Mezzaluna Palestinese e la Lega Antivivisezione, i giovani avvocati e i precari della scuola, Pax Christi e la Cgil, le Acli e i Comunisti Sinistra Popolare, Mani Tese e “Il Bolscevico”, Michele Santoro e l’Ufficio Stampa dell’Inps, la redazione di Cucina & Vini e il direttore di Guerra & Pace, i comunisti italiani e l’associazione mazziniana…?

Poco o niente, ma saranno tutti (e moltissimi altri) a Roma il prossimo 3 ottobre per manifestare contro Silvio Berlusconi. Perché di questo si tratta anche se l’appuntamento, convocato dal sindacato dei Giornalisti e super-sponsorizzato dal gruppo Espresso-La Repubblica si richiama alla libertà di stampa, alla fine a smuovere le truppe da ogni parte d’Italia verso la capitale, a risvegliare il popolo dei pulmann, è sempre lo stesso motore: l’odio antiberlusconiano.

Non c’è altra spiegazione che questa, visto che sarebbe altrimenti impossibile credere alla fola dell’informazione al guinzaglio (come recita lo slogan della manifestazione), alla censura di regime o alla democrazia a rischio. La verità è che in tutto il mondo l’informazione ha mille guinzagli: ogni giornalista, direttore, editore ha il suo. Mai come oggi, quando il business delle news è in crisi ovunque, la libera stampa è libera solo di nome. Piuttosto è sovvenzionata, finanziata, piegata a giochi di potere, incastrata in un risiko finanziario senza confini. L’unico modo per salvarsene è la limpida lettura degli interessi che la sostengono. Invece in Italia la messa in scena è quella che vedremo il 3 ottobre: tutti liberi e indipendenti contro l’unico Squalo.

Eppure basta gettare uno sguardo anche disattento oltre confine per rendersi conto delle tante poste in gioco. Guardate in Spagna quale titanica lotta di potere è in corso tra Zapatero e il gruppo Prisa, quello che edita El Paìs . Guardate negli Usa, dove Barack Obama (dopo aver dato sostanzialmente dei "farabutti" ai bloggers) è sul punto di infrangere un tabù secolare, approvando un bailout per la stampa, cioè il salvataggio dei grandi giornali con soldi pubblici. Così il guinzaglio lo terrà ben stretto l’amministrazione in carica.

Poi tornate in Italia e guardate a quel brulicare di astio, di risentimento e di miopia che anima la protesta nostrana secondo cui fatto fuori Berlusconi avremmo il migliore dei mondi (e dell’informazione) possibili. Senza neppure lo sforzo di chiedersi come mai non si sbloccano le nomine di Rai3 e Tg3 e perché, come d’incanto, esse arriveranno una volta sciolto il nodo della segreteria del Pd.

L’odio contro Berlusconi si dà appuntamento a Roma e si sublima attorno al tema dell’informazione perché non ha altro sottomano, nel momento in cui – non i sondaggi sul premier - ma l’indice sulla fiducia dei consumatori italiani calcolato dall’Isae ha raggiunto il suo massimo dal dicembre 2006. Per questo aderiscono anche Di Pietro e Franceschini in cerca di linfa per l’opposizione.

La stampa non c’entra. E come potrebbe? Come si può gridare alla libertà di stampa a rischio in un paese in cui un grande quotidiano ha potuto in modo del tutto indisturbato e anzi applaudito in Italia e all’estero, montare per mesi una campagna ad personam contro il presidente del consiglio in carica senza neppure uno straccio di avviso di garanzia come pretesto. In quale altro paese sarebbe stata ammissibile e di successo una campagna anti-nazionale tesa a mettere alla berlina in tutto il mondo l’Italia e gli italiani; dove altro si sarebbe festeggiato come un trionfo, con traduzioni e titoli in prima pagina, ogni più becero, risentito e interessato attacco contro l’Italia pubblicato anche dall’ultimo giornale del pianeta.

Si può parlare di informazione col bavaglio in un paese in cui dopo anni che non esce un nuovo quotidiano, quello fondato dalla congrega dei principali nemici di Berlusconi sbanca le edicole e fa il pieno di abbonamenti al suono lugubre di una grancassa giudiziarista?

E c’è davvero la preoccupazione per il “pensiero unico” e il “regime televisivo”, in un paese dove il principale competitor sul territorio nazionale delle aziende televisive del premier è un signore di peso planetario che ha messo tutte le sue numerose testate a sostegno della distruzione personale dell’avversario e inoltre possiede il monopolio della tv satellitare in Italia?

Si dirà, già lo sento, che Berlusconi se l’è cercata, che i suoi costumi licenziosi e imprudenti lo hanno portato a tutto questo. Sia pure, ma la libertà di stampa che c’entra. Se davvero Berlusconi ha avuto quello che si meritava, al limite vuol dire che il meccanismo funziona. E non saranno certo due cause per risarcimento danni il grande spauracchio che muove i paladini della libertà di stampa.

D’altro canto il teorico di questo tipo di contromisure è qualcun altro. Fu Massimo D’Alema nel gennaio 1998, in uno dei suoi momenti di ira funesta contro di giornalisti (c’era di mezzo “affittopoli”) che rivendicò la necessità di “un sistema che consenta una rapida ed efficace tutela in sede civile che preveda consistenti risarcimenti patrimoniali”. D’altronde quello che D’Alema pensa della libera stampa lo aveva già confidato a Lucia Annunziata su Prima Comunicazione: “Il livello di faziosità e di mancanza di professionalità è impressionante. Non esiste l'indipendenza dell'informazione: i giornali non sono un contropotere, ma un pezzo del potere. E come tali sono inattendibili. Il loro compito è la destrutturazione qualunquista della democrazia politica. Gli editori si contendono a suon di milioni i giornalisti più canaglia”. Aveva ragione.

Solo che nessuno si fece vedere con il cartello “canaglia” appeso al collo e nessuno ovviamente scese in piazza.

P. S. La libertà di stampa, la circolazione delle informazioni, il diritto a libere opinioni, sono temi seri e gravi, non andrebbero spesi per interessi di bottega, per difendere lo snobismo fazioso di certi giornalisti o per tentare nuove spallate politiche. (l'Occidentale)

martedì 29 settembre 2009

Il signor F e i suoi due padroni. Giampaolo Pansa

Sono abbastanza anziano per aver partecipato alle Tribune politiche della vecchia Rai, al tempo della Prima Repubblica. Qui ne rammento una del giugno 1976, vigilia elettorale. Il protagonista era Enrico Berlinguer, segretario generale del Pci. E il suo arrivo in via Teulada ebbe il protocollo e le cadenze di un rito ecclesiastico. Tanto da farmi ricordare l’ingresso di un cardinale in una parrocchia di certo importante, ma non del livello di una sede vaticana.

Il moderatore di quella Tribuna, Luca Di Schiena, e il regista, Giuseppe Sibilla, attendevano il leader del Pci all’ingresso degli studi televisivi. Attorniati dalla pattuglia dei comunisti in servizio attivo alla Rai. E dai tanti cronisti, me compreso, tutti abbastanza eccitati.

Sceso dalla berlina blu, re Enrico avanzava nel cortile con passettini lenti. A braccetto del suo medico, il pneumologo Francesco Ingrao, fratello di Pietro. Il piazzalino di via Teulada era gremito di gente. Ma nessuno fiatava. Anche Berlinguer stava in silenzio. Si limitava a sorriderci in quel suo modo speciale: tra l’intimidito e l’altero. Mi sembrò davvero un uomo di chiesa. E pensai: adesso ci benedirà.

Quando il leader del Pci giunse di fronte alla vetrata che conduce agli ascensori e poi agli studi, la piccola folla si divise. Facendo ala al suo passaggio. Re Enrico ringraziò con un tenue cenno del capo. Quindi seguì il suo addetto stampa, l’energico Tonino Tatò, che premeva per non arrivare in ritardo alla registrazione.
Adesso spostiamoci ai tempi d’oggi. È giovedì 24 settembre 2009. Siamo sempre alla Rai, dove sta per iniziare la puntata di “Annozero”. Anche in questo caso è atteso un leader politico di sinistra e tra un istante vedremo chi sia. Ma i due big del programma se ne fottono.
Michele Santoro e Marco Travaglio entrano nello studio per primi. Il pubblico si leva in piedi e li accoglie con una standing ovation. Michele e Marco si offrono al battaglione dei fotoreporter. Scherzano, se la cantano e se la ridono. Del resto, hanno una ragione per fare così: “AnnoZero” sono loro due e nessun altro.

Qualche minuto dopo entra il leader invitato nel Tempio del Santorismo. È Dario Franceschini, il segretario del Partito democratico. Nessuno se lo fila. Eppure il signor F. si è presentato persino in maniche di camicia. Adesso si usa: la camicia segnala voglia di combattimento, fa molto talk show all’americana. Come ci ha insegnato Gianni Riotta, che quando dirigeva il Tg1 aveva come divisa la mitica button-down bianca. Al massimo accompagnata da una cravattuccia nera, poco più di una stringa.

Ad “Annozero” iniziato, il signor F. indosserà poi una giacca. Ma neppure così rivestito attenuerà l’impressione grigia che suscita in noi telespettatori. Che pena, il povero F. Mi ha fatto pensare a un leader dimezzato. Costretto a tener conto di due padroni. Il primo non è di oggi: Ezio Mauro, il direttore di Repubblica. E adesso anche il santone Michele, un politico ben più forte di F. Dotato di un’arma micidiale che lui non possiede: un programma televisivo all’arma bianca, seguito da milioni di tifosi molto scaldati.

Di qui alla fine del tormentone congressuale del Pd, il signor F. sarà obbligato a percorrere la strada che Mauro e Santoro gli indicheranno giorno per giorno. Bisogna aggiungere che F. si comporterà così non perché la sua autostima sia ridotta al lumicino. Anzi, a osservarlo nei comizi, F. pare sempre più convinto di essere un Superman del progressismo. Se fosse milanese invece che figlio della magica Ferrara, dovremmo dire che non vediamo nessuno più ganassa di lui. A Milano il ganassa è lo spaccone, il parolaio presuntuoso, tutto chiacchiere e distintivo del Pd.

Il nocciolo del problema sta nel meccanismo fantozziano escogitato per eleggere il segretario democratico. In un primo round, votano gli iscritti al partito, come sta avvenendo. Ma il vincitore non potrà affatto ritenersi il leader. Poiché dovrà sottoporsi a un altro esame: quello delle primarie.

In questo secondo round voterà chi deciderà di farlo, chiunque sia e qualunque scopo abbia in mente. L’esito della consultazione potrebbe ribaltare l’esito del voto dentro il partito. Con quali conseguenze nessuno è in grado di dirlo.

Le cronache politiche sostengono che il signor F. stia contando sulle primarie. Il voto degli iscritti dice che, per ora, a essere in testa è Pierluigi Bersani. Avrà anche un linguaggio antico, popolaresco, un po’ fuori moda, in stile tardo Pci, come ci ha spiegato sul Sole-24 Ore quel cervellone di Miguel Gotor. Ma ai pochi o tanti iscritti del Pd, Bersani sembra un segretario più affidabile del ganassa di Ferrara. Però anche in questo partito, ahimè!, del domani non v’è certezza.

La conclusione è scontata. Per vincere le primarie, il signor F. sposerà le posizioni più estremiste, le più arrabbiate, le più lunatiche. Urlerà invece di parlare. Farà scelte turche: demagogia allo stato puro, fanatismo, rabbia, invettive. Il tutto condito dalle balle stratosferiche che sta già spacciando: siamo al fascismo, la democrazia tira le cuoia, la libertà di stampa è defunta, a Palazzo Chigi siede un tiranno che accorpa in se stesso i connotati malvagi di Mussolini, Hitler e Totò Riina, in salsa puttanesca.

Il signor F. non farà nessuna fatica a condursi così. Gli basterà attenersi ai consigli di Repubblica e di “Annozero”. Se non gli sembreranno sufficienti, potrà sempre rivolgersi all’alleato Tonino Di Pietro. Quello che ha detto: abbiamo un Parlamento di mafiosi. (il Riformista)

lunedì 28 settembre 2009

Un carrozzone che nessuno cambierà mai. Marcello Veneziani

La Rai non cambierà mai. È davvero impossibile tentare di riformarla, di raddrizzarla, di rinnovarla. Vive prigioniera di tre carcerieri: il sistema soffocante dei partiti che le impedisce ogni ariosa riforma ed ogni seria politica fondata sulla valorizzazione delle buone idee e del vero talento; la nomenklatura interna, il cosiddetto partito Rai, ingessato e imbolsito, refrattario ad ogni modifica di assetto e ad ogni fuoruscita dall’abitudine oziosa e viziosa. Il sindacato, giornalisti e dipendenti, i soviet di rete e di testata che impediscono ogni minimo spostamento di ruoli e di mansioni, ogni flessibilità e ogni innovazione.
Provate a spostare o a licenziare qualcuno che non lavora o viceversa a far lavorare uno che vorrebbe farlo ma il Palazzo non vuole che venga utilizzato. Provate a cambiare taglio, profilo, linguaggio alle reti, ai programmi, ai settori vitali della Rai. Missione impossibile. Provate ad assumere un ragazzo di talento, a dare un incarico ad uno che potrebbe giovare ai programmi. Macché. Non si può. Provate a proporre programmi di qualità e di servizio, campagne educative, a elaborare piani strategici e a varare laboratori di ricerca per la nuova tv, a inventare nuovi canali e nuovi format senza importarli dall’estero o comprarli dalle solite grandi ditte fornitrici, provate a rilanciare un discorso di cultura popolare, provate semplicemente a denominare diversamente reti inutilmente battezzate in gergo similamericano. Non è possibile niente, tutto si ri-forma, torna come prima, la coazione a ripetere è l’unica filosofia possibile, la sopravvivenza per forza di inerzia e servitù di padrinato riprende subito il sopravvento, ogni elemento non conforme viene espulso, rigettato, dall’organismo Rai. L’impresa non viene riconosciuta e vieni cancellato, senza nemmeno l’onore delle armi.
Lo dico con dolore, mica rallegrandomi, perché credo che sia importante un servizio pubblico televisivo, per utilità e rispetto dei cittadini, per far crescere civilmente e culturalmente il Paese, per intrattenerlo, informarlo e promuovere il suo sviluppo, per educarlo perfino. Ho sempre difeso l’idea di un’azienda pubblica culturale, anzi della principale impresa di cultura popolare del Paese. Ma devo ammettere, per esperienza diretta e per osservazione dall’interno, che la Rai non si può riformare, nessuno ha il potere di farlo, tutti passano e nessuno ha pieni poteri. Neanche i leader politici, peraltro disinteressati al destino della Rai, interessati solo a piazzare un loro cliente o una marchetta in loro devozione.
Prendete il caso Santoro. Nessuno in Rai ha il potere di decidere davvero, tutti hanno paura di qualcuno e di qualcosa, tutti pensano prima a campare e a pararsi il fondoschiena. In un Paese serio si farebbe una scelta di fondo, di assoluta trasparenza. O si sceglie che il servizio pubblico è ispirato per intero ad uno sforzo di obbiettività e di rispetto della libertà plurale e chi è vistosamente fuori da questi canoni è fuori dalla Rai; o si ha il coraggio di una svolta radicale e allora si ridisegna la missione della Rai, ritenendo che anche le opinioni estreme abbiano diritto di cittadinanza. Differenziamo le reti Rai non per colore politico ma per tono e taglio. E allora una rete resta il più possibile neutrale e moderata, rispettosa di tutte le opinioni e tesa a unificare anziché dividere il Paese, trovando punti d’incontro. Un’altra rete invece ha la missione opposta, quella di dar voce a tutte le opinioni forti, a tutti gli estremismi eccetto quelli che fomentano violenza e illegalità; ed una terza rete si allontana dal politico e si dedica al culturale, al sociale, al civile, alla pubblica utilità di servizio.
Avremmo così una rete moderata ed ecumenica, una talebana e radicale, ed una neutrale e apolitica. Offerta variegata. Una rete che punta a scoprire la concordia e i valori condivisi di un Paese, una rete che rappresenta invece i valori divisi, le fratture e mira a trasferire la guerra civile in un conflitto civile ma regolamentato; ed una rete impolitica, laboratorio, aperta su scenari futuri.
Traduco nel caso specifico: Santoro finirebbe nella rete dedicata ai tribuni della plebe, ma in quella rete si avvicenderebbero non solo i giacobini alla Travaglio ma anche i sanfedisti, i talebani di sinistra e i mujaheddin di destra, i radicali di ogni risma, gli ultra-conservatori, insomma gli estremisti. Allora avrebbe un senso Santoro nel servizio pubblico: tra i predicatori, gli imam e gli estremisti.
Aggiungo una notazione: programmi come quelli di Santoro non hanno finalità politica come si ripete, ma settaria. Sono due cose diverse. Una tv politica sposta consensi, fa cambiare opinione, si rivolge a quelli che la pensano diversamente per far loro vedere anche l’altra faccia della luna. I programmi alla Santoro non sono così, radicalizzano le convinzioni di ciascuno, non spostano consensi, confermano ciascuna tifoseria nell’odio o nell’amore e dunque hanno finalità di setta o di curva, producono l’effetto fatwa o Colosseo. Non fanno pensare e dubitare chi la pensa in un modo, ma ti fanno uscire più berlusconiano e più antiberlusconiano di prima, rafforzando le rispettive convinzioni. La missione giornalistica dunque è tradita due volte: la prima perché non informa ma deforma, la seconda perché non fa mutare opinioni ma rafforza la fede in una tesi. Questa è la ragione per cui i politici di centrodestra non devono agitarsi contro di lui temendo danni politici e facendo il suo gioco agitandosi; e i politici di sinistra non devono esultare per la sua campagna perché propaga l’immagine di una sinistra cupa, feroce e settaria.
Ma lasciamo il picciotto e torniamo alla mamma. Serve una Rai così, che non fa servizio pubblico né aiuta a maturare opinioni, che non fa crescere il senso critico ma la tifoseria, che non fa interagire valori divisi e condivisi, dissensi e consensi ma spinge ognuno a chiudersi nel proprio fortino? Non serve. Allora se non si riesce a dare una forte autonomia decisionale ai vertici Rai, con persone in grado di decidere, che abbiano il coraggio di rilanciare o di privatizzare l’azienda, di rivoluzionare o di smembrare il suo corpaccione, il destino della Rai, canone o no, è segnato: un declino indecoroso, indecente, inarrestabile. Buona Notte, Santorai. (il Giornale)

sabato 26 settembre 2009

Fra Calais e l'infibulazione. Davide Giacalone

In Italia vivrebbero, secondo un’indagine commissionata dal governo, almeno 35mila donne che hanno subito la mutilazione dei genitali. Una roba violentissima che non ha nulla a che vedere con la circoncisione maschile, non è frutto di alcun precetto religioso (nel qual caso farebbe schifo lo stesso) e serve solo a trasformare in sofferenza quello che la natura vuole sia un piacere. Molte di queste donne, qualche centinaio, avrebbero subito la barbarie in Italia.
Da noi, ovviamente, questa roba è un reato. La difficoltà sta nel punirlo, perché il legame stretto che avviluppa le comunità d’immigrati, il loro essere spesso dei clandestini, l’omertà attorno ad una pratica che costumi tribali possono considerare “normale”, finiscono con il rendere meramente declamatorio il controllo sociale. Non aggiungo altro, ma basta ed avanza per tornare ad un tema che imbarazza sempre molto: un Paese che tollera la clandestinità si condanna all’inciviltà. E, a tale proposito, negli ultimi giorni si sono viste cose davvero curiose.
Guardando Calais non si sa se ridere o arrabbiarsi. L’una cosa, del resto, non esclude l’altra. Si gradirebbe sapere dove sono finiti i perdigiorno dell’Onu, sempre pronti ad alzare il ditino e darci lezioni d’umanità. E sarebbe simpatico sentire anche le parti politiche che sono pronte a lanciare accuse di razzismo ogni volta che si parla di respingere i clandestini, quelle stesse che ci siamo trovati contro quando abbiamo scritto cose di banale ragionevolezza. Escano dal cantuccio dove si sono rimpiattati e osservino Calais.
Si trova nel nord della Francia, sul canale della Manica, di fronte alla costa inglese ed alle “bianche scogliere di Dover”. Qui era sorto un vasto campo d’immigrati clandestini. Un po’ stanziali, un po’ in attesa di andare in Inghilterra. Il governo francese ha annunciato un repulisti generale, poi ha mosso cinquecento agenti in tenuta antisommossa ed ha arrestato tutti quelli che non avevano provveduto a togliere il disturbo. Per sicurezza, ha spianato le baracche. Ha inviato i minorenni (tanti) nei centri d’accoglienza, mentre gli adulti li ha spediti in luoghi segreti. Ad essi pone tre alternative: a. potete tornare da dove siete venuti, ed in questo caso vi aiutiamo; b. potete chiedere asilo, tanto nel 98% dei casi ve lo rifiutiamo, anche se venite dall’Afghanistan; c. vi buttiamo fuori senza neanche aspettare la risposta. Scegliete.
Gli inglesi, che non amano i francesi, che di Calais ricordano d’averla persa con la pace di Cateau-Cambresis (1559), applaudono. Bravi, e grazie. Il resto, fra le ciarliere e presunte autorità internazionali, tace. Salvo il vice presidente della Commissione Europea, Jacques Barrot, guarda caso francese, che dice: “il tempo per risposte nazionali è finito, questo tipo di fenomeni richiede una risposta europea”. Ecco, appunto: dica ai suoi colleghi di non rompere le scatole a noi italiani e comincino a mettere mano al portafogli per pagare i controlli nel Mediterraneo, compresi quelli che servono a fermare i barconi e rispedirli al mittente.
Osservo, infine, che il governo francese ha utilizzato l’argomentazione sulla quale noi abbiamo battuto e ribattuto: non si può concedere nulla ai traffici illeciti di chi commercia in clandestini. Insomma, quel che c’è stato rimproverato come razzismo è quel che i grandi governi europei considerano giusto. Anche in Francia capita che una parte della stampa salti alla gola del governo e che l’opposizione socialista cavalchi l’ipocrisia dell’accoglienza (così rafforzando Sarkozy). La differenza consiste nel fatto che il loro governo non cela e camuffa la propria durezza, ma la teorizza e manifesta, ed i loro commissari europei non dicono di non essere competenti sulla materia, ma sono chiamati ad interdire i colleghi che abbiano voglia di far gli spiritosi ed a schierarsi. Autorità ed autorevolezza, che nessuno ti regala.
Sono le cose che qui abbiamo scritto e sostenuto ad essere la sostanza della politica praticata dalla più saggia Europa, ma qui da noi dominano i provinciali del luogocomunismo.

mercoledì 23 settembre 2009

Farabutti e cialtroni. Orso Di Pietra

“Pace subito! Pace subito”. Con quale enfasi e palese soddisfazione le agenzie di stampa ed i siti dei grandi giornali hanno ossessivamente sottolineato come nel corso della cerimonia funebre dei sei paracadutisti della “Folgore” abbia risuonato dentro la Basilica di San Paolo questa richiesta perentoria. Come se quell’urlo rappresentasse il sentimento comune e profondo dei partecipanti al funerale e dell’Italia tutta. E costituisse un impegno all’immediato ritiro. Poi, il giorno dopo, si è appreso che a lanciare il grido è stato un esibizionista recidivo. Uno che in passato aveva interrotto il Festival di San Remo, il Costanzo Show ed un concerto di Madonna a Barcellona. Ma i giornalisti delle agenzie e di siti che tanto avevano evidenziato l’appello pacifista, si sono ben guardati dall’ammettere di aver commesso un errore. Farabutti? No, semplicemente cialtroni! (l'Opinione)

martedì 22 settembre 2009

La legge di tutti e quella islamica. Davide Giacalone

L’islamico sgozzatore, il marocchino che non riconosceva alla figlia il diritto di disporre di se stessa, l’uomo che si sentiva ferito nell’onore, merita un regolare processo, in tempi ragionevoli, al termine del quale, con ogni probabilità, dovendoglisi negare ogni attenuante e contestare tutte le possibili aggravanti, merita un ergastolo da scontare fino alla fine dei suoi giorni. Anche la di lui moglie merita una punizione, perché non è lecito condividere e giustificare un assassinio efferato, contro una persona inerme. Ma questo è il meno.

A preoccuparmi non è che una simile bestialità sia stata possibile, bensì il clima
d’indeterminazione culturale e morale, la mancanza di reazione immediata ed inequivoca, come se essere islamici possa non dico giustificare, ma anche solo spiegare quel che è accaduto. E non è la prima volta. E’ necessario, pertanto, spendere parole sgradevoli e chiarissime: voglio in galera non solo chi esegue uno sgozzamento, ma anche quanti credono che siano giustificabili le culture che ne sono la radice. Li voglio punire anche per salvaguardare quanti sono islamici senza essere né volere diventare assassini.
Sgomberiamo subito il campo da un colossale equivoco: non è assolutamente vero che tutte le religioni sono ammesse, in virtù di un’ipocrita convivenza. L’articolo 8 della nostra Costituzione, al secondo comma, recita: “Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano”. L’articolo 3 è netto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Se un individuo è convinto, per sua religione, che una femmina debba essere subordinata al maschio, che ne possa disporre stabilendo con chi, come e quando può accoppiarsi, quell’individuo deve andare in galera o a farsi benedire altrove, perché questo è un Paese civile e non c’è posto per barbari simili.
Ciò contrasta con l’accoglienza degli stranieri? Niente affatto, perché si accoglie chi voglia integrarsi, non chi voglia creare, sul nostro territorio nazionale, sette separate ed antagoniste. Contrasta con la tolleranza? Nemmeno, perché non si tollerano gli intolleranti. I nostri principi cozzano con le convinzioni di alcuni? Vadano a professarle fra chi è disposto ad accogliere l’inciviltà, qui domina la legge e quelle convinzioni sono reati o prodromi di reati, pertanto vanno repressi. Repressi.
E’ moralmente bacato un Paese che cita il femminismo per contrastare la realtà della prostituzione e se ne scorda quando si tratta di liberare delle ragazze dal dominio di esaltati e violenti padroni. La superiorità del nostro mondo non è nelle sue tradizioni religiose, ma nella creazione dello Stato laico, ovvero dell’organizzazione statuale che è casa di tutti, credenti e non credenti. A ciascuno è riconosciuta libertà, a ciascuno si deve rispetto, ma solo se mostra rispetto per le leggi e per la Carta costituzionale, altrimenti va isolato e combattuto. Il nostro mondo è superiore perché ha compreso il valore della libertà e responsabilità individuali, di ciascuno, nessuno escluso, il che non significa tollerare e favorire la convivenza di tante comunità chiuse, all’interno delle quali ciascuno può far valere la propria legge, pretendendola divina, ma, al contrario, fa valere la legge di tutti in tutti i gruppi, etnie e comunità. Il nostro mondo è superiore perché la legge di tutti vale anche dentro le famiglie, talché l’essere legati da matrimonio o da vincoli di sangue non rende estranei ai doveri ed ai diritti, ed un coniuge non può picchiare l’altro, magari per malinteso amore e desiderio d’assicurargli una vita coerente con i principi che per lui sono sacri e per me incivili, giacché, in quel caso, interviene la giustizia e (se funziona) lo manda al gabbio.
Io ci credo nella società in cui vivono persone di diverse origini, lingue e religioni, ma funziona solo se tutti sono chiamati a rispettare la medesima legge. Chi non ci sta è fuori. Se è italiano è fuori, nel senso che è dentro un edificio che gli impedisce di nuocere. E se non è italiano è bene che se ne stia fuori, nel senso che se mette piede da queste parti con l’idea di amministrare una legge propria deve subito fare i conti con la forza e la severità della legge nostra.
Vuoi essere islamico in casa nostra? Accomodati, orientati sulla Mecca e genuflettiti a piacimento. Ma se pensi di far valere qui quella che credi essere la legge islamica, se allunghi le mani sui nostri figli o sui tuoi, resta pure appecoronato, che risulta più comodo prenderti a calci.

lunedì 21 settembre 2009

Gelmini: "Ora la scuola non è più Cosa loro". Stefano Lorenzetto

Finora l’unico insulto che hanno risparmiato a Mariastella Gelmini è quello che il senatore socialdemocratico Luigi Angrisani, fondatore della Lista del gallo, riservava sulle piazze della Campania al suo rivale democristiano Fiorentino Sullo, il ministro della Pubblica istruzione in carica giusto 40 anni fa. Il pittoresco parlamentare interrogava un gallo tenendolo per le zampette: "Sullo è ’nu poco ricchione?". E subito faceva partire una scossa elettrica nei testicoli del pennuto, che rispondeva assertivamente con uno straziato chicchiricchì. Per il resto, alla donna di governo del Pdl - la quarta nella storia repubblicana a dirigere quel dicastero, dopo Franca Falcucci, Rosa Russo Iervolino e Letizia Moratti - ne hanno dette di tutti i colori.

Offrendole la poltrona più irta di spine, il premier Silvio Berlusconi era stato facile profeta: «Non aspettarti la fanfara». Lei sembra essersene fatta una ragione: «Non mi spavento. Anzi, le dirò, non me ne importa nulla. È vero che non posso paragonarmi né a Benedetto Croce né a Giovanni Gentile, ma, se è per quello, non vedo dei Croce o dei Gentile neppure fra i miei predecessori. La sinistra mi odia perché le ho tolto il controllo sull’insegnamento. La scuola è sempre stata una sua sinecura, una fabbrica di consenso politico. Be’, adesso non è più un’azienda privata: è tornata proprietà dello Stato, cioè di tutti». Il ministro dell’Istruzione trascorre il week-end nella sua casa di Padenghe sul Garda, un condominio senza pretese color giallo oro. Abita al secondo piano. Scende lei ad aprire. In salotto un computer acceso, pile di faldoni che s’è portata da Roma, un tapis roulant e i pesi per mantenersi in forma. Né scorte, né domestici, né autoblù ad aspettarla giù di sotto. Tutto si potrà dire, tranne che ami le insegne del comando. Al cancello d’ingresso, un segnale arancione, con le sagome nere di due scolari che attraversano di corsa la strada, le ricorda l’eterno pericolo: finire asfaltata.

Ho visto che venerdì era a Rovereto per Educa 2009. «Non ci sono andata».

La manifestazione nazionale è stata presentata dagli organizzatori con due pagine pubblicitarie sul Corriere della Sera nelle quali si leggeva che lo scopo è quello di «appasionare», con una sola s, i ragazzi allo studio.
«Ho fatto bene a non andarci».

Meglio dedicare le energie alla grana dei precari.
«È una piaga endemica. Per decenni la scuola è stata considerata un ammortizzatore sociale. Ha venduto illusioni che si sono trasformate in delusioni. Oggi la sinistra tenta un giochetto miserevole: ascrivere i 250.000 precari alla responsabilità di Berlusconi. Ma anche i tigli che vede lì fuori capirebbero che non è così».

Un’eredità del passato.«Degli Anni 70 e 80 e dei tanti concorsi banditi senza che vi fosse un numero programmato. Questo governo, al contrario, ha varato un provvedimento-tampone che prevede un’indennità di disoccupazione e una corsia preferenziale per i supplenti annuali. Ma l’opposizione, anziché avanzare proposte alternative, predilige il terrorismo psicologico. Per un anno mi hanno accusata di voler tagliare il tempo pieno. Ha idea di quale effetto sortisca una simile notizia su due genitori che lavorano tutto il giorno e non sanno a chi lasciare in custodia i figli il pomeriggio? Mi hanno telefonato allarmate persino alcune coppie di amici. La verità è che non solo il tempo pieno non è stato abolito ma ne usufruiscono 50.000 bambini in più rispetto al passato».

È un fatto che, insediata da poco più di un mese, lei aveva già presentato un piano per il taglio di 148.000 posti, di cui 101.000 insegnanti e 47.000 amministrativi e ausiliari.
«No, sono 86.000 docenti e 42.000 non docenti in un triennio. I sindacati mi hanno fatto passare per Maria la Sanguinaria. Mettiamo bene in chiaro una cosa: la Gelmini non ha licenziato e non licenzia nessuno. Quest’anno faremo 16.000 immissioni in ruolo, metà insegnanti e metà personale tecnico-amministrativo, e 30.000 prepensionamenti».

Tanto rumore per nulla?
«Il governo ha solo preso atto che la scuola ha raggiunto una cifra stratosferica di dipendenti, 1,3 milioni. Non esiste alcuna nazione al mondo dove il bilancio dell’istruzione venga prosciugato per il 97% dal pagamento degli stipendi. La media europea è intorno al 50%. Quindi bisogna invertire il trend del continuo allargamento della pianta organica. Lavoriamo perché i quindicenni di oggi non diventino i precari di domani. Se questo desta l’allarme dei sindacati, non posso farci nulla. Le nuove generazioni vanno attrezzate alla cultura del rischio. Preferisco dire loro con schiettezza che l’idea del posto fisso, dell’insegnante che comincia e finisce la carriera nello stesso istituto, non è più realistica».

Dario Franceschini ha dichiarato che «tagliare le risorse alla scuola è un suicidio collettivo», perché un Paese non può risparmiare sul proprio futuro.
«È futuro consegnare ai giovani un Paese con il terzo debito pubblico al mondo? Certo, sono capaci tutti di governare alla maniera di Franceschini: basta mettere le mani nelle tasche dei cittadini, ripristinare l’Ici, magari inventarsi una bella patrimoniale. Noi invece preferiamo stringere un po’ la cinghia ed evitare gli sprechi. Ho tagliato 1.300 corsi di laurea inutili, ho chiuso 500 scuole di specializzazione che non specializzavano in nulla».

Ho letto che ha anche recuperato quasi 10 milioni di euro in contributi a pioggia che il suo ministero avrebbe dovuto erogare. Ha bocciato le richieste dell’Associazione allevatori provincia di Taranto, che pretendeva 350.000 euro, o dei Silenziosi operai della croce, che volevano addirittura un milione.
«Il vero scandalo è che questi finanziamenti venivano rubricati alla voce “ricerca”. Io non credo che si rilanci l’innovazione scientifica con le micro elargizioni clientelari».

Ha lasciato alla porta anche la Fondazione Umberto Veronesi. «Non decido io. C’è un comitato di valutazione».

Teme che il professor Giorgio Israel possa fare la stessa fine di Marco Biagi solo per il fatto d’essere suo consulente, oltreché ebreo?
«Non voglio neppure pensarlo, anche se le parole sono pietre e chi ha lanciato quelle infami minacce su un sito internet dovrà assumersene tutta la responsabilità. Ho scelto il professor Israel come consulente per la sua grande esperienza scolastica. Non ha un carattere facile, difende le sue idee. E le sue idee sulla scuola e sull’università collimano con le mie».

Ma lei che scuola sogna?
«Una scuola che torni a educare la persona, che si assuma questa enorme responsabilità, anziché parlare soltanto di organici e di programmi».

Invece che scuola ha trovato?
«Un ufficio di collocamento. La scuola ha smarrito il senso della sua missione e funziona male. Lo attestano le classifiche internazionali: su 57 Paesi presi in esame, i nostri alunni figurano al 36° posto per le competenze scientifiche, addirittura al 38° per quelle matematiche, e al 33° per la capacità di lettura e di comprensione del testo. Sono più bravi persino gli studenti di Taipei e di Macao».

Lei non sta messa meglio: L’Espresso questa settimana le ha appioppato un 6 meno meno in copertina.
«Visto che non si tratta di una testata bensì di un partito impegnato a far fuori Berlusconi, lo considero un ottimo voto. Non sono nemmeno riusciti a darmi l’insufficienza. Ma non ho compreso quale fosse lo scopo dell’inchiesta. Wher’s the beef? dov’è la ciccia?, come chiedono i direttori dei giornali anglosassoni ai cronisti. Manca la notizia. Solo qualche gossip biografico. Mi rimproverano d’essere figlia di un contadino, d’aver visto la luce in una cascina anziché ai Parioli. Cos’è? Una colpa?».

«Un curriculum scolastico anonimo, una laurea in legge senza lode», ha ricostruito il settimanale gemello di Repubblica. «Sono uscita dal liceo classico con 50/60, che non mi pare proprio un voto disprezzabile. Hanno intervistato il professor Antonio D’Andrea, ordinario di diritto costituzionale all’Università di Brescia, “che dell’impacciatissima laureanda fu relatore”. Ci mancherebbe altro che avesse parlato bene di me: già allora era vicino a Rifondazione comunista e oggi è relatore soprattutto nei dibattiti organizzati dal Partito democratico. Si figuri quanto poteva piacergli la mia tesi sul referendum regionale e sul federalismo. L’Espresso scrive che ho cambiato tre volte scuola. Per forza: ho cambiato tre volte casa e località di residenza».

L’accusano d’essere andata - proprio lei, la propugnatrice della meritocrazia - a sostenere l’esame d’abilitazione per il praticantato legale a Reggio Calabria, dove forse era più facile passarlo che non a Brescia. «Non mi pare che gli ordini professionali siano avamposti della meritocrazia. Provengo da una famiglia umile, avevo bisogno di lavorare, per cui sono andata dove c’erano più probabilità di accedere alla professione. L’esame è stato regolare. Non è che un minuto dopo mi abbiano dato un posto e uno stipendio. Un avvocato lavora solo se è bravo».

Non ho ancora capito se sia lei oppure Renato Brunetta il ministro più vituperato.
«È una bella guerra. Renato me l’ha anche fatto osservare con un sorrisetto: “Che credevi? Che L’Espresso sbattesse in copertina solo me?”. Sono totalmente d’accordo con lui: i poteri forti appoggiano il Pd per tentare una riedizione del ribaltone. Del resto io e Brunetta ci occupiamo di scuola e di pubblica amministrazione, le due privative della sinistra. Ma i fatti dicono che gli insegnanti vogliono essere premiati per il loro valore, non progredire nella carriera solo per anzianità, e che i genitori ci chiedono di educare i loro figli, non d’indottrinarli. Il contrario della cultura sessantottesca che ha imperversato fino a ieri».

È favorevole all’insegnamento del dialetto a scuola?
«Se questo rientra nella difesa dell’identità locale, delle nostre tradizioni, non sono contraria. L’integrazione non è né facile, né indolore. Soprattutto non significa resa. Non si amalgamano gli alunni italiani con quelli extracomunitari togliendo i crocifissi dalle aule, rinunciando alle recite natalizie, mettendo da parte la religione cattolica per non offendere la sensibilità dei nuovi arrivati».

Si capisce il senso della frase con cui Benedetto XVI l’ha salutata al G8: «Lei è una donna tenace».
«La maggioranza degli elettori è contraria ai cedimenti buonisti e in democrazia va rispettata l’opinione della maggioranza. Esempio: l’accorciamento dei tempi per la concessione della cittadinanza agli immigrati secondo me rappresenta una scorciatoia pericolosa»

Come farà a mettere un tetto del 30% alla presenza di alunni extracomunitari se in alcune classi arrivano oltre il 90%?
«Il come lo decideremo. Si potranno redistribuire all’interno del plesso. L’importante è che si sappia una cosa: sono i dirigenti scolastici i primi a chiedercelo».

Le sembra normale che per una supplenza di pochi giorni in una scuola primaria del Veneto le direzioni didattiche cerchino un precario in Sicilia?
«No, anche perché un palermitano costretto a insegnare a Vicenza avrà come unico obiettivo quello di tornare a casa. Così come non è normale che ogni anno 200.000 docenti cambino cattedra. La continuità didattica va garantita. Ma ci sono le graduatorie nazionali da rispettare. Serve una nuova legge per il reclutamento su base provinciale, al massimo regionale».

Grembiule, 5 in condotta per i discoli, ammissione all’esame di maturità soltanto se non si scende sotto il 6 in tutte le materie, maestro unico, più lezioni di inglese, Sms per avvisare i genitori che i loro figli hanno marinato la scuola. È sicura che queste novità da lei annunciate siano diventate tutte operative?
«Sì, anche se alcune sono demandate all’autonomia dei singoli istituti, come il grembiule, un fatto di decoro e di uguaglianza che segna la fine dell’insensata rincorsa alla magliettina griffata. Difenderò fino alla morte il ritorno del maestro unico prevalente. Un responsabile della didattica ci vuole. Il modulo con i tre insegnanti non esiste in nessun altro Stato d’Europa. Se l’erano inventato i sindacati per sopperire al calo della natalità. Una furbata per non ridurre il personale docente».

Ha provato a parlarne con sua sorella Cinzia, che mi risulta sia sindacalista della Cgil scuola? Lasci stare mia sorella. Con lei sono sempre riuscita a dialogare».

Devo farle un esame di cultura non generale, bensì specifica. La sigla Invalsi che vuol dire? «Istituto nazionale di valutazione per lo sviluppo del sistema scolastico».

Ahi ahi. Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione.
«È la stessa cosa».

Pof, Care, Siis, Indire, Gold, Irre. Ma chi ha inventato a viale Trastevere questo modo grottesco d’esprimersi per acronimi? Il suo stesso ministero è stato ribattezzato Miur, manco fosse una Lamborghini.
«È il burocratese caro alla sinistra. Ci combatto tutti i giorni. Ho chiesto al mio ufficio legislativo di modificare persino il linguaggio delle circolari».

Incursione nel privato: si sposa o no col geologo Giorgio Patelli?
«Capiterà. Ormai stiamo insieme da quasi due anni. Ma non mi chieda anche lei la data».

La vita di una ministra è compatibile col matrimonio?
«Spero di sì. E anche con la maternità, come ha già dimostrato la mia collega Stefania Prestigiacomo. Semmai mi preoccupa la mia scarsa attitudine alla cucina. Non vado oltre le uova al tartufo. Quello nero, eh, non bianco».

S’aspettava d’essere paparazzata a Positano mentre prendeva il sole in bikini e si scambiava effusioni col suo fidanzato? «No».

Aveva preso qualche precauzione, almeno?
«Molte. Una per tutte: non siamo mai scesi in spiaggia, solo piscina. E vede quant’è servito».

Che cosa pensa di questa deriva pettegola della politica italiana?
«Mai visto nulla di più squallido. Ne sappiamo qualcosa io e Mara Carfagna, i bersagli prediletti dei fabbricanti di maldicenze. È molto brutto sentirsi colpita nella propria femminilità. Ma gli italiani sono provvisti di buonsenso. Questa colata di fango seppellirà chi l’ha provocata». (il Giornale)

domenica 20 settembre 2009

Con Berlusconi la democrazia italiana ha trovato compimento. Gabriele Cazzulini

Anche se può apparire strano, Berlusconi dovrebbe essere, anche, il leader del Partito democratico. Se le parole conservano il loro significato letterale, Berlusconi è il leader italiano che è stato democraticamente eletto più volte: nel 1994, nel 2001 e nel 2008. Ma si è presentato ad ogni elezione politica negli ultimi quindici anni. Sono gli elettori ad aver scelto Berlusconi come premier. Invece nessun leader dell'attuale Partito democratico è mai stato democraticamente eletto. Paradossale il caso di D'Alema: è stato l'unico della post-sinistra a diventare premier, ma senza passare per la verifica elettorale. Infatti rimase a Palazzo Chigi solo un anno. Anche Prodi non scherza: vinse nel 1996 e nel 2006, per un pugno di voti, ma senza avere un suo partito. Era come votare per un partito che a sua volta eleggeva un leader che però non era il suo.

La cultura politica italiana, per tradizione storica e per deformazione ideologica, svaluta le elezioni. E' logico: per mezzo secolo il voto popolare ha contato meno del potere delle oligarchie di partito. E' una macchia che scurisce la trasparenza della nostra democrazia. Infatti ancora oggi, nella foga della guerra mediatica, si spulcia in qualunque risvolto della vita del premier ma si ignora quel voto popolare che nel 2008 ha scelto Berlusconi e non Veltroni. Svalutare le elezioni significa anche svalutare la fiducia degli elettori per Berlusconi e la fiducia negli elettori stessi. E' ancora peggio: l'attacco all'avversario politico deborda nello svilimento dei suoi elettori. Si può colpire, anche malignamente, un nemico politico. Ma è molto più complicato provare a far cambiare idea a milioni di elettori. Ecco perché si demonizza il loro leader. Se Berlusconi viene messo in cattiva luce, allora i suoi nemici giurati sperano che gli elettori cambino idea.

Ma qui il ragionamento cambia. La democrazia non è una questione di apparenza e il voto non si concede tanto facilmente e solo in base a criteri esteriori o momentanei. Ma questa sfiducia nell'elettore che vota Berlusconi è anche il segno della sinistra orfana delle sue ideologie, con cui mobilitava e irreggimentava le menti di intere generazioni. Niente ideologie, niente voto ideologico, cioè il voto assicurato semplicemente esibendo un simbolo e pronunciando qualche parola chiave. Adesso i voti bisogna prenderseli uno ad uno. Per farlo bisogna comunicare, anzitutto se stessi, vedi Berlusconi. Allora ecco un altro motivo per cui combattere il premier con tanta acrimonia: la comunicazione è il successo di un leader, oppure è la sua sconfitta. E' sempre stato così - nelle democrazie. La fiducia del voto si conquista con il discorso. Ma ogni argomentazione richiede il rispetto reciproco. Torniamo al punto di partenza.

Purtroppo è invalsa la mentalità della sinistra di accaparrarsi la democrazia come fosse una sua pertinenza esclusiva. Il significato delle elezioni primarie del Pd è proprio questo: noi siamo quelli democratici. Tuttavia la sinistra ha vinto solo quando gli elettori votano una coalizione con un premier senza partito, Prodi - oppure hanno votato alle primarie un leader che poi gli italiani non hanno votato come premier. I conti non tornano. La democrazia di partito non è la democrazia. E' un'organizzazione del consenso interno. Ma ci sono altre forme, specialmente quando il consenso interno del Pd rimane bloccato perché la sua classe dirigente segue politiche a prescindere dal mandato elettorale degli iscritti. Si può attaccare chiunque, in tanti modi. Colpire Berlusconi sulla sua «democraticità», nel senso più originario, è un pretesto per delegittimare i suoi elettori. Ma qui siamo, anzi sono, già fuori dal perimetro della democrazia. (Ragionpolitica)

Se l'Imam detta legge. Lorenzo Mondo

Diamo per scontati l’orrore e la pietà davanti allo scempio di Sanaa, la bella ragazza marocchina sgozzata dal padre. Ma restano ineludibili alcune riflessioni sul modo in cui si è cercato di spiegare l’accaduto. Osservano i sociologi che qui non siamo lontani dal delitto d’onore praticato fino a cinquant’anni fa nel nostro Meridione. Prendiamola per buona, anche se nel delitto di Pordenone assistiamo a una sommatoria di motivi, in cui riveste un peso non indifferente il fattore religioso. In ogni caso, il rilievo sembra viziato da una certa rassegnazione e da una sorta di ottimismo storico, come se bastasse dare tempo al tempo per mettere le cose a posto. Mentre cola il sangue, dobbiamo invece respingere con forza, per i nuovi venuti, una integrazione à rébours, non accettare passivamente che essi ripercorrano i momenti meno esaltanti della nostra storia. Come sembra esemplificare l’assassino che, va ricordato, risiedeva e lavorava in Italia da undici anni.

L’imam di Pordenone, deprecando l’omicidio, esibisce come prova a discarico il fatto che si tratta del primo caso verificatosi nella sua comunità (ma è anche il primo caso, probabilmente, in cui una donna ha osato uscire dai ranghi). Afferma poi che il padre di Sanaa non frequentava la moschea, era dunque un miscredente, a differenza della madre, che lui apprezzava per la sua devozione. Ma si tratta della stessa donna che non ha esitato a perdonare e a giustificare il marito. In seguito all’«errore» della figlia, era ridotto a uno straccio: «Non dormiva più, non mangiava, fumava in continuazione, dava pugni contro il muro» e, vien da concludere, doveva per forza mettere mano al coltello. E qui il problema si sposta. Prescindiamo dall’imam in questione, magari sfortunato o malaccorto. Ma sul fanatismo che sembra inquinare in modo sotterraneo le comunità musulmane, dove non mancano ovviamente le persone laboriose e civili, occorre tenere conto delle veementi parole di Dounia Ettaib, presidente dell’associazione Donne arabe d’Italia. Rammentando anche l’analogo assassinio della pachistana Hina, avvenuto a Brescia tre anni fa, denuncia il nefasto «indottrinamento di sedicenti e autoproclamatisi imam che dettano legge». Cosa aspetta lo Stato italiano - si chiede e chiediamo con lei - a esercitare un più severo controllo sulla loro predicazione? (la Stampa)

sabato 19 settembre 2009

Consorte, Bersani e l'aberrante. Davide Giacalone

Rieccola, la giustizia ad orologeria: Pierluigi Bersani si candida alla segreteria del Partito Democratico e tempestivo arriva il rinvio a giudizio di Giovanni Consorte, assieme ad altri, per la scalata alla Banca Nazionale del Lavoro. Reati ipotizzati: aggiotaggio, insider trading ed ostacolo all’autorità di vigilanza. La notizia torna utile per ricordare che gli ex vertici dell’Unipol, compagnia assicurativa della Lega delle Cooperative, quindi lo stesso Consorte e Ivano Sacchetti, sono sotto processo anche a Bologna, per i reati che si suppone abbiano commesso nel riacquisto di obbligazioni proprie. I due furono trovati con una montagna di soldi, accumulati all’estero. Che c’entra Bersani? C’entra, perché, conoscendo bene uomini, cose e quattrini si spese a favore sia della scalata bancaria che della totale legittimità dell’agire cooperativo. Con Piero Fassino e Massimo D’Alema, ebbe parole di conforto ed incoraggiamento verso i compagni scalatori.
Consorte e Sacchetti, del resto, sono diventati straricchi grazie alla scalata di Telecom Italia, condotta dalla celebrata “razza padana” dei “capitani coraggiosi”, da cui, successivamente, si fecero scucire decine di milioni. Naturalmente in segreto, naturalmente all’estero. Quella scalata fu coronata da successo grazie anche all’appoggio del governo di allora, presieduto da D’Alema e di cui Bersani era autorevole ministro. C’entra, eccome.
Ho riassunto i fatti perché non è detto che tutti i lettori tengano aggiornato, nella memoria, il bollettino giudiziario. E anche perché il rinvio a giudizio, naturalmente, favorisce il riepilogo ed i ricordi, di certo non agevolando chi pretende di parlare del futuro, sperando di vincere una gara nel presente. Ebbene, trovo che questa sia un’occasione d’inciviltà. Aggiungo una cosa: quattro anni fa Bersani sostenne che era “aberrante” volere condannare il compagno Consorte senza neanche un processo, sconsigliandogli di dimettersi. Bersani ha ragione: è aberrante. Egli, però, converrà con me che la malagiustizia è aberrante con tutti, mica solo con gli amici suoi. In quattro anni, secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, oltre che secondo il buon senso, deve concludersi un processo, mentre da noi, se va bene, si avvia. Andando così le cose, dunque, è normale che la giustizia sia sempre ad orologeria, nel senso che avendo l’orologio scassato allunga per lustri la broda dell’accusa, costringendo i protagonisti, siano essi imputati o loro sodali, a vedere periodicamente riemergere le imputazioni.
Da qui a che arrivi la fine, Bersani farà in tempo ad essere eletto e a guidare la sinistra. Ma di lui si potrà riparlare il giorno dell’apertura del processo, quando parlerà l’accusa (la difesa non fa notizia), alla prima sentenza, quindi al secondo processo e così via. E, ogni volta, sarà lecito porsi la domanda: ma quei soldi, Consorte e Sacchetti, li presero per il partito, quindi anche per Bersani, o li intascarono, fregando il partito, quindi anche Bersani? Governanti di ieri e candidati a governare in futuro, dunque, sono complici o fessi? Un dilemma non esaltante.
Né Bersani né i suoi compagni, però, possono vestire i panni delle vittime. Essi sono, in gran parte, la causa di questo sconcio. Perché, lasciando da parte le possibili responsabilità nel caso specifico, c’è un’enorme responsabilità politica: avere impedito una seria riforma della giustizia, avere alimentato il giustizialismo, avere fatto credere che le accuse siano delle condanne annunciate ed essersi alleati con l’incarnazione di questa barbarie. Sicché, siccome sono ipocriti, oggi diranno: abbiamo fiducia nella giustizia. Mentono, sono lividi. Ma non sanno essere riformatori.

mercoledì 16 settembre 2009

Rimpiangeremo Mino Pecorelli? Lino Jannuzzi

Sul finire della prima Repubblica c’era un giornalista che si chiamava Carmine Pecorelli ed era detto “Mino” ed era insieme editore, direttore e redattore pressoché unico di una piccola rivista intitolata “OP”, che stava per “Osservatorio politico” e con cui spiava e minacciava mezzo mondo. La rivista aveva una tiratura assai limitata, fino a poco tempo prima era addirittura diffusa sotto forma di foglio ciclostilato, e circolava in ambienti ristretti ma molto sensibili, quelli della politica di palazzo, i circoli militari e dei servizi segreti, gli enti economici e finanziari pubblici e privati. Le indiscrezioni, le insinuazioni, gli attacchi violenti di Pecorelli colpivano ogni settimana in tutte le direzioni. Spesso erano solo accennati, anticipati in una specie di codice, e se ne preannunciava il seguito o il chiarimento nel numero successivo della rivista. Qualche volta si stampava solo la copertina con titoli minacciosi, la si faceva circolare negli ambienti interessati, si discuteva e si trattava, si incassava una qualche regalia sotto forma di abbonamenti o di sottoscrizioni al capitale della società editrice e si cestinava l’articolo minacciato.

Alla fine Carmine Pecorelli fu ammazzato, la sera del 20 marzo 1979, a Roma, in strada, sotto la redazione della sua rivista, mentre era montato sull’auto e aveva messo in moto, la prima pallottola in piena bocca, sfondando il labbro inferiore, le altre al petto e al cuore. L’assassino non è stato mai trovato, anche perché persero anni per processare come mandante Giulio Andreotti, ma poteva essere uno qualsiasi dei tanti spiati e minacciati di rivelazioni nelle ultime settimane. La rivista sparì con lui, ma non sparì un certo tipo di giornalismo a base di spionaggio e di rivelazioni scandalistiche o anche soltanto di minacce di rivelazioni, anzi con l’avvento della seconda Repubblica si diffuse a macchia d’olio. L’offensiva giudiziaria di Mani Pulite e di Tangentopoli favorì l’incubazione, il debutto e la crescita di tanti Pecorelli, più smaliziati e più mimetizzati, che ormai scrivono su giornali importanti e autorevoli, e qualche volta addirittura li dirigono. E, ciò che è più grave, fanno politica al posto dei politici di professione, ancor più di quanto non abbiano fatto le Procure, i giornali al posto dei partiti e ormai anche al posto delle Procure. Fino al punto che famosi pm professionisti dell’Antimafia preferiscono, più che passare veline ai cronisti amici come hanno fatto per anni, scrivere in prima persona e direttamente sui giornali. Le conclamate nuove indagini sulle stragi di mafia del ‘92 saranno sempre più fatte dai giornali piuttosto che dalle Procure e sui giornali da pm-giornalisti più che da giornalisti-pm. E saranno sempre più destinate al fallimento, più ancora di come sono clamorosamente fallite le indagini sulla strage di via D’Amelio: in quindici anni i pm, a furia di dare la caccia ai “mandanti occulti”, non hanno trovato nemmeno gli esecutori materiali, nemmeno il picciotto che ha premuto il pulsante per far esplodere il tritolo. I pm-giornalisti dei picciotti assassini nemmeno si occuperanno, scriveranno tanto dei “mandanti occulti” che hanno scoperti e individuati da tempo e non sono mai riusciti, in mancanza di prove, a portare in una aula di tribunale e a farli condannare. Li processeranno e li condanneranno sui giornali.

Rimpiangeremo Mino Pecorelli? (il Velino)

giovedì 10 settembre 2009

La madre dei teoremi. Davide Giacalone

La madre dei teoremi è sempre incinta, ma ce n’è una che partorisce sempre lo stesso pargolo, quale che sia il padre, quale che sia l’epoca. Mi riferisco all’antimafia militante, sempre pronta ad inseguire l’ultimo pentito, anticipandone le dichiarazioni. Non si sa se perché informata di quel che ancora si sta verbalizzando o desiderosa di suggerirne il contenuto. Così, secondo la vulgata giornalistica, la mafia, non potendo più prendere ordini da Giulio Andreotti, avrebbe cominciato a prenderne dal nordico Silvio Berlusconi, per il tramite di Marcello Dell’Utri, anche nella funzione d’interprete. Tutto può essere, ma, da siculo, non solo trovo la tesi vagamente inverosimile, ma anche fastidiosamente deprimente.
Visto che i rumori di procura si fanno sempre più intensi, è capitato che Berlusconi abbia reagito in anticipo. Dopo di che, con monotonia degna di miglior causa, l’Associazione Nazionale Magistrati è insorta per denunciare la “delegittimazione”. Mi domando se, nel vocabolario, hanno anche qualche sinonimo. Allora, i teoremi li lasciamo alla loro prolifica madre, noi preferiamo i fatti, che, messi in fila, fanno paura.
Sull’ipotesi che le stragi e gli attentati mafiosi, in quei primi anni novanta, avessero mandanti meneghini s’insiste da tempo. Punti di appoggio: uno stalliere siciliano assunto ad Arcore ed alcune dichiarazioni di Paolo Borsellino, opportunamente manipolate. La suggestione ha trovato anche una sua verità processuale, sancita nella ricostruzione dello scenario che portò a Via D’Amelio, dove Borsellino e la scorta incontrarono la morte, inverata da una sentenza definitiva. Verità processuale per voce solista, quella del pentito Vincenzo Scarantino. Solo che il delinquente ha raccontato un sacco di balle, come ha dimostrato un altro mafioso, Gaspare Spatuzza, divenuto collaborante. La giustizia antimafia ha, per anni, sbandierato un successo che, in realtà, era una bufala. E questa non è una mia opinione, ma un fatto.
Ora, però, si batte una pista originale: così come Scarantino, anche Spatuzza, che dice il contrario, porta a Dell’Utri e Berlusconi. Può essere, tutto può essere, ma visto che la suggestione, immediatamente ripresa da La Repubblica, viene dagli stessi che affermarono essere Scarantino non solo mafioso (e credibile), ma addirittura partecipante ai vertici della cupola, quando era tossicodipendente e, per giunta, amante di un transessuale conosciuto come “la sdillabbrata”, c’è da ritenere che certuni la mafia l’abbiano vista solo al cinema, con pellicole di dubbia qualità.
Ma continuiamo con i fatti, perché alcuni sono clamorosi. Repubblica c’informa che nella trattativa fra mafia e Stato s’è preparato il brodo di coltura da cui è nata Forza Italia. Può essere, tutto può essere. Ma lo scorso luglio ragionammo, qui, su un fatto assai singolare, senza che nessuno ci abbia dato alcuna risposta: come è possibile che l’allora presidente della commissione bicamerale antimafia, Luciano Violante, sia corso in procura, a Palermo, essendosi ricordato, quindici anni dopo, e solo quando si annunciava l’uscita di certe carte, che, a dir suo, Vito Ciancimino, per il tramite del carabiniere Mori, gli aveva chiesto un incontro? Sono quindici anni che si discute sulla possibilità o meno che sia esistita una trattativa, o, almeno, un colloquio, fra mafia e Stato, ed il mafiologo numero uno si prende una così clamorosa botta d’amnesia?Ora, posto che dai verbali di quella commissione sembrerebbe vero il contrario, ovvero che Violante chiese a Mori di contattare Ciancimino, il quale gli mandò in regalo l’anteprima del suo libro, questo antefatto, fino al luglio scorso sconosciuto a tutti, non getta una luce diversa sulle dichiarazioni di quel mafioso, Giovanni Brusca, che prese l’aereo assieme a Violante e disse di avergli ricordato gli impegni presi? Così, tanto per dire che, volendo, non manca di che indagare.
E stiamo ai fatti. Dopo la strage di Capaci, dove morì Giovanni Falcone, proprio per mano di Brusca, cosa successe? Per prima cosa fu eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, poi finì di venire giù il mondo della prima Repubblica. Ora, vabbé che erano fessi, ma vi pare che i mandanti sino da cercarsi fra i decapitandi? E quando scoppiarono le altre bombe mafiose, cosa successe? Non ricordo che si consolidò il potere attorno alle forze moderate, e, se si vuole, per fantastica comodità, reazionarie, anzi, mi pare che si spianò la strada alla sinistra al governo.
Con il che non sostengo affatto che i mandanti delle stragi vanno cercati a sinistra. Mi vergognerei, nel suggerire una simile suggestione. Ma sono anni che campiamo con la suggestione opposta, non solo altrettanto vergognosa, ma anche priva di punti d’appoggio nella realtà dei fatti. Almeno quelli che conosciamo.
Dunque, noi cittadini italiani siamo qui ad attendere che la giustizia sia realmente tale, scopra la verità e punisca i colpevoli. Non abbiamo nessuna intenzione di tollerare che il suo corso sia bloccato e che le si impedisca di fare il proprio dovere. Ma ne abbiamo le tasche piene di una giustizia amministrata nelle procure, utile solo a compitare veline che falsi giornalisti d’inchiesta prontamente rilanciano come se fossero verità rivelate. Se volete conoscere il volto dei nemici della giustizia, quella vera, guardate da quella parte.

martedì 8 settembre 2009

Cervelli in fuga? Peggio quelli inutili che restano. Stefano Zecchi

Fuga di cervelli? Lodevole è il tentativo di riportarli nella madre patria. Ma se saranno le università a decidere chi deve rientrare in Italia, è meglio che i cervelli fuggiti restino dove sono per il bene della ricerca scientifica.
Il vero problema non è oggi il ricercatore in fuga, ma il ricercatore che resta. Le analisi e le statistiche sulla qualità dei ricercatori universitari italiani appaiono desolanti, ma la responsabilità del disastro è di chi era ed è chiamato a decidere chi può diventare ricercatore, cioè i professori dell’università. Loro sono le colpe che dividono con il massimo livello di gestione dell’università: senato accademico e rettori in testa.
Cosa accade in un concorso per ricercatori? Vi spiego quello che chiunque insegna come professore ordinario dell’università sa perfettamente, e sa perfettamente di essere complice di una truffa.Dunque, supponiamo che arrivino all’ateneo i tanto agognati finanziamenti per reclutare venti ricercatori da inquadrare tra il personale di ruolo dell’università. Il senato accademico stabilisce, secondo propri criteri, che, di questi venti posti, cinque vengano assegnati alla Facoltà di Lettere e filosofia, la quale, a sua volta, decide che uno vada al Dipartimento di filosofia.Fin qua, niente di male: si potrà discutere perché cinque e non tre e non sette di quei posti siano assegnati alla Facoltà di Lettere e Filosofia e perché proprio uno al Dipartimento di filosofia, ma con un po’ di buona volontà si possono anche trovare le ragioni della suddivisone. Il bello incomincia adesso.
Una persona normale penserà che a questo punto si indice il concorso, e vincerà il migliore. Neanche per sogno: incominciano invece le riunioni nel Dipartimento di Filosofia per stabilire in quale specifico raggruppamento concorsuale dovrà andare quel posto. Sarà per quello di Storia della filosofia, di Morale, di Filosofia della scienza, di Estetica? I docenti titolari di queste e delle altre discipline incominciano a discutere, a litigare: «L’altra volta il posto lo hai avuto tu, ora tocca a me. Ma tu non hai candidati. I miei sono bravissimi, non dire sciocchezze...» e avanti così, e peggio di così, finché, per esempio, il professore di morale la spunta, essendo riuscito a costruirsi attraverso una serie di compromessi una maggioranza all’interno del Dipartimento: maggioranza che ovviamente si spartirà i prossimi posti di ricercatore. Ma il peggio arriva adesso.
Il concorso è nazionale, ma tutte le precedenti discussioni fanno immediatamente capire che c’è un candidato nel cuore del docente di Morale. È bravo? È un suo amico? È qualcuno sentimentalmente vicino? Mah! Decide il prof. di Morale: fatti suoi, perché i prossimi sono fatti miei, cioè deciderò io chi far diventare ricercatore, per esempio, di Filosofia della scienza. Insomma, deve vincere, alla faccia del confronto con tutti gli altri candidati nazionali che si presenteranno.
Come si procede, allora, per blindare il pupillo del professore di Morale? Il pupillo ha solo tre pubblicazioni? Eh, sì, è un po’ deboluccio, ma non c’è problema. Il bando di concorso, che verrà firmato dal rettore, prevede che i concorrenti debbano presentare un numero massimo di tre pubblicazioni. Il pupillo, però, è ancora a rischio: essendo modesto, un altro concorrente lo potrebbe superare con tre suoi ottimi saggi. Cosa si inventa, adesso, quest’università autoreferenziale e truffaldina? Indica sul bando di concorso che, per lo sviluppo della ricerca scientifica del Dipartimento di filosofia c’è la necessità di reclutare uno studioso di filosofia morale specificamente esperto del periodo che va dal 1630 al 1650 in Olanda: esattamente gli argomenti delle tre pubblicazioni dell’amato pupillo. La truffa è consumata.
Qualunque studioso eccellente di filosofia morale viene emarginato. E se non bastassero quelle clausole concorsuali, sottoscritte, lo ripeto, dal rettore, in sede di valutazione degli aspiranti ricercatori si potranno taroccare le carte, perché il padrino del pupillo entra di diritto nella commissione giudicatrice. Ma questa, spesso, diventa materia per i tribunali.
Ora vorrei sapere perché si debba dare del denaro pubblico per finanziare questo scandalo. Il problema dell’università non sono i tagli alla ricerca, sono i professori, le modalità in cui essi vengono reclutati e i modi in cui essi stessi perpetreranno il reclutamento fasullo. Sono loro che dovrebbero fare un passo indietro, e il ministro Gelmini dovrebbe avere il coraggio di varare nuove norme per concorsi accademici seri. Poi si potranno richiamare i cervelli fuggiti, perché altrimenti cosa tornano a fare in quest’università? (il Giornale)

sabato 5 settembre 2009

Il precariato è una piaga di cui non è responsabile la Gelmini ma i sindacati. Sergio Belardinelli

Ci risiamo. Sta per iniziare l’anno scolastico e la scuola italiana entra di nuovo in fibrillazione. Questa volta i protagonisti sono i cosiddetti “precari”. Alcuni di loro si incatenano a Milano, altri si mettono in mutande a Roma, altri ancora salgono sui tetti a Benevento, chiamando a far loro compagnia anche il segretario del PD Dario Franceschini. Sotto tiro, manco a dirlo, il famigerato Ministro Gelmini. La Cgil è durissima nei suoi confronti: “Il governo si disinteressa di 25000 precari della scuola che rimangono senza lavoro e senza salario per colpa dei tagli alla scuola pubblica”. Secondo il segretario nazionale della Cgil scuola, Mimmo Pantaleo, il Ministro si occuperebbe d’altro, baloccandosi con “proposte che calpestano la nostra Costituzione, come quella di finanziare allo stesso modo le scuole statali e quelle paritarie” (che tristezza, ragazzi). Questo almeno è quanto viene riportato da “Repubblica”, la quale da due giorni sembra essersi affezionata non poco alla “strage” di precari che sarebbe stata messa in atto dalla Gelmini.

Premesso che quando c’è di mezzo il lavoro, c’è di mezzo la vita delle persone e che quindi non è proprio il caso di scherzarci sopra o di farne un pretesto per attaccare chicchessia, siamo di fronte alla replica di una tragedia (i precari in mutande potrebbero in verità trasformarla in farsa), della quale la scuola italiana sembra non vedere la fine. Il precariato purtroppo l’assilla da molto tempo; per comprenderlo e per arginarlo, si dovrebbe forse riflettere un po’ più a fondo sulle cause che l’hanno generato, tra le quali troviamo soprattutto il sistema di reclutamento; ma non sempre coloro che si occupano di scuola, specialmente i sindacati confederali, sembrano propensi a farlo. Aver ingrossato le graduatorie degli “abilitati”all’insegnamento, con la speranza di farli scivolare verso il ruolo a tempo indeterminato sulla base di alchimie sindacali circa la composizione delle cattedre, anziché in base al numero effettivo degli alunni: tutto ciò ha creato i problemi di sovrannumero con i quali ci troviamo a fare i conti. In ogni caso, mi sembra opportuno ricordare che il famoso “Quaderno bianco sulla scuola”, pubblicato nel 2007, nel quale si affermava che “l’elemento dominante della maggior spesa pubblica per studente della scuola italiana si conferma il rapporto insegnati/studenti”, auspicando la “diminuzione di un punto” in tale rapporto che avrebbe determinato “una riduzione di circa 70.000 unità nel fabbisogno insegnanti”; questo quaderno, dicevo, porta la firma dei Ministri Fioroni e Padoa-Schioppa, non della Gelmini, la quale si è limitata semplicemente, e, diciamolo pure, giustamente, a farne propri alcuni criteri che, come ebbi a dire a suo tempo, mi sembravano e mi sembrano impeccabili.

Il precariato, lo ripeto, è senz’altro un problema; quando poi si resta senza lavoro è un vero dramma; sarebbe però imperdonabile se ne facessimo semplicemente un pretesto per alimentare vecchie strategie di gestione sindacale della scuola che sono le principali responsabili della situazione nella quali oggi ci troviamo. (l'Occidentale)

I cocci del doppiopesismo. Davide Giacalone

Il caso dell’ex direttore di Avvenire, quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, non è interessante quanto è divenuto dirompente. Non ne ho tratto, nel merito, né eccitazione né condolente partecipazione, essendo una vicenda misera. Trattengo a stento la rabbia, invece, per il contorno immorale, ipocrita, falso, che lo ha accompagnato. Per l’incoerenza politica ed il trasformismo senza bussola che s’è visto e rischia di continuare. Ne scrivo, pertanto, in maniera ruvida, senza neanche provare a edulcorare la sgradevolezza.Il caso fu reso noto da un candidato cattolico alla segreteria del Partito Democratico, Mario Adinolfi. Che è persona seria, ma le cui parole caddero nel vuoto. Da quando il tondo pocherista (partecipa anche a tornei internazionali) lo tirò fuori, però, è da escludersi che alla Cei non ne fossero informati. La notizia riemerse su Panorama, e solo dopo molto tempo giunse su Il Giornale. Nel frattempo il citato direttore s’era messo a fare l’estremista etico, arrivando a pubblicare roba delirante che paragonava i respingimenti dei clandestini alla Shoa (per giunta condannando quanti tacquero e si volsero dall’altra parte, il che dimostra l’incoscienza polemica, visto che scriveva sul giornale dei vescovi).
Solo l’ultima pubblicazione ha fatto scalpore, muovendo un mondo d’insopportabili doppiopesisti, che si son messi anche a cianciare di privacy. Ma come? Avete squartato vivi dei cittadini solo perché indagati in inchieste penali, pubblicando di loro l’indirizzo di casa e il nome dei figli, salvo poi dimenticare di far sapere che sono stati assolti e, pertanto, sono stati smentiti i copisti di procura, che in questo Paese scombinato credono d’essere giornalisti d’inchiesta. Ed ora, che si è di fronte ad una condanna certa, per un reato ammesso, con un risarcimento alla parte lesa in modo da far ritirare la denuncia, ora si dovrebbe tacere, per rispetto della vita privata? Ma credono davvero che qualcuno possa bere una simile cretinata? Ipocriti come sono, per giunta, la gran parte dei giornali sparava il titolone in prima pagina (dopo avere ignorato due volte la notizia), per poi condannare la spettacolarizzazione del caso. Allora, giù la maschera, è d’altro che si sta parlando.
Detto sinteticamente: dopo mesi in cui non si scrive che delle avventure del capo del governo, qualcuno ha puntato il dito dall’altra parte ed ha suggerito che il pulpito da cui giungeva la predica difettava di credenziali. Tecnica che, alla fine, conduce alla solita (im)morale: qui il più pulito ha la rogna. E ce lo meritiamo, tutti, perché questo è il livello cui si è ridotto il dibattito politico. Davvero l’opposizione ha creduto di potere spodestare il presidente del Consiglio, prendendolo dalla cintola in giù. Davvero i suoi difensori possono credere che il destino delle brache altrui funzioni da bilanciamento.
Ne escono a pezzi in molti. Non fa una bella figura la Cei, al netto delle sue diatribe interne. Sapevano ed hanno coperto. Sono omofobi per i fedeli ed omotolleranti per se stessi. Inutile far finta di non capire: la questione dell’omosessualità non c’entra nulla con il procedimento penale, e ci mancherebbe altro, ma c’entra, eccome, con l’insegnamento ecclesiale. La chiesa non condanna gli omosessuali, ma tutte le pratiche sessuali che siano, come dicono loro, “contro natura”, essendo naturale solo il sesso destinato alla riproduzione. Guardino al loro interno, e mettano un po’ d’ordine fra le parole ed i fatti. Ne esce malissimo l’opposizione che, con le voci un tempo definite libertarie, erano lì a recitare il rosario del moralismo senza etica, nella speranza di affondare l’avversario politico grazie a principi che detesterebbero vedere applicati a se stessi. Sono pronti a festeggiare e far valere il “progressismo” porporato, dimentichi di tutte le volte che ne denunciarono l’ingerenza. E vedremo come ne esce la maggioranza, perché se il rovescio della dissolutezza privata fosse (come fin qui è stata) la bigotteria delle norme pubbliche, il risultato sarà un doppiopesismo etico eguale e contrario a quello della sinistra.
In tutto questo, sia chiaro, non c’entra nulla l’interessante e decisivo tema dello Stato laico, né il doveroso e civile rispetto per il credo religioso. Questi sono temi seri, e c’è un’Italia seria, pronta a discuterli, anche animatamente. Quel che vedo, invece, è solo il funerale della politica. Di come dovrebbe essere, almeno.

venerdì 4 settembre 2009

Tremonti, giudizio duro da estendere ai media. Daniele Capezzone

Giulio Tremonti è stato molto duro nei giorni scorsi, qualificando come maghi (rectius: come illusionisti) buona parte degli economisti italiani. È davvero difficile dare torto al ministro dell’Economia su un punto di fondo, che illustra l’incompetenza o la scarsa buona fede di tante “analisi”: perché quelli che oggi ci assillano - quando un po’ di luce si rivede finalmente all’orizzonte - per tentare di convincerci che tutto va male e che la ripresa è lontana, non sono stati così bravi da avvisarci uno o due anni fa del possibile arrivo della crisi finanziaria internazionale? Sono fatti così alcuni “esperti”: quando c’era un pericolo reale, lo hanno ignorato o non hanno saputo riconoscerlo; e ora che invece i guai sono forse finalmente alle spalle, continuano a raccontarci che il peggio deve ancora arrivare. Inutili prima, dannosi adesso.

Ma un giudizio così severo va probabilmente esteso anche al sistema dei media, il cui ruolo è stato ed è essenziale nell’amplificare alcune tendenze. Stanchi o soprattutto incapaci di prevedere il futuro, infatti, molti analisti e con loro buona parte del sistema dei media preferiscono “prevedere” il passato. Da parte mia, non si tratta di una battuta o di un esercizio di sarcasmo contro troppi “esperti” o sedicenti tali: è l’amara constatazione di quello che accade ai cittadini, ai lettori dei giornali, agli utenti dell’informazione in genere, i quali sono quotidianamente sottoposti ad una vera e propria valanga di dati, elaborazioni, statistiche, che - per lo più - confondono e stordiscono, anziché informare: eludono le questioni di fondo, non aiutano a capire i reali trend in atto, e - a ben vedere - finiscono inevitabilmente per alimentare un’atmosfera ansiogena. E così, tra un futuro che non si sa davvero anticipare e un passato vivisezionato fino all’inverosimile e senza sintesi efficaci, resta proiettata sul presente - su chi in quel momento legge, ascolta, vede - un’ombra cupa di incertezza, di negatività.

Oppure, un altro esempio. Perché, venendo alla specifica situazione italiana, è così difficile sentire illustrato e ribadito l’elenco dei nostri punti di forza? I punti di debolezza ci vengono masochisticamente ripetuti ogni giorno: debito pubblico elevatissimo, spesa pubblica alta, e così via. Ma, se è giusto avere a mente le cose che dobbiamo correggere, sarebbe altrettanto saggio tenere in considerazione alcune “poste attive” di bilancio che mettono il nostro Paese in una condizione molto migliore di molti altri: abbiamo una grande tenuta della famiglia italiana, che assicura a quasi tutti una prima e naturale rete di protezione e assistenza (eppure, i media vi parleranno solo del “familismo amorale” degli italiani, oppure di un Paese di “mammoni”); abbiamo l’85 per cento degli italiani che sono proprietari della prima casa (e che quindi, in un anno difficile, non hanno avuto affitti da pagare); abbiamo una fortissima tendenza al risparmio, che fa delle nostre famiglie delle buone amministratrici di se stesse (e ci consentono di avere uno dei più bassi livelli pro-capite di debito privato); abbiamo una strepitosa rete di oltre 5 milioni di piccole e piccolissime imprese, che, in tempi di crisi dei castelli di carta della finanza, ci hanno fornito un solido ancoraggio all’economia reale. Perché tutto questo non fa mai notizia?

Un altro aspetto paradossale riguarda più specificamente i dodici mesi appena trascorsi, che certamente non sono stati facili. Eppure, in questo stesso periodo, a ben vedere, circa 14 milioni di italiani (i lavoratori dipendenti) hanno usufruito di dinamiche salariali legate agli anni precedenti, con aumenti del 3-4 per cento, proprio mentre l’inflazione scendeva, e hanno così visto aumentare - sia pure magari di poco - il loro potere d’acquisto. E lo stesso discorso si può riproporre per 16 milioni di pensionati. Morale: pur in un anno difficile per l’economia mondiale, 30 milioni di italiani non hanno subito alcun peggioramento della loro condizione. Non sono certamente diventati più ricchi: ma non si sono neppure ritrovati più poveri. Eppure il sistema dei media, con poche e coraggiose eccezioni, ha cercato di disincentivare i consumi, o di suggerire uno stile di vita più misero ed impaurito.

Fortunatamente, i cittadini sono stati e sono più saggi, e - pur tra spinte e controspinte - hanno continuato ad agire in modo razionale. Anche il Governo ha operato con ragionevolezza: garantendo i risparmi degli italiani; tenendo sotto controllo i conti pubblici (non oso pensare cosa sarebbe successo se, al posto della mai abbastanza elogiata finanziaria triennale, ci fosse stata una legge finanziaria tradizionale, con l’ormai abituale “assalto alla diligenza” in Parlamento); stanziando oltre 9 miliardi per gli ammortizzatori sociali (il decuplo di quanto era stato fatto in precedenza); e ora adottando misure (dagli 8 miliardi garantiti dalla Cassa depositi e Prestiti fino alla moratoria di un anno dei debiti delle aziende) volte a garantire maggiore liquidità al sistema delle imprese. E, non dispiaccia a troppi corvi, l’Italia ce la sta facendo. (il Velino)