giovedì 30 settembre 2010

Tornano i cattivi maestri. Luigi La Spina

Peccato. Sembrava che, dopo tanti anni, la parola, anche in Italia, si fossa liberata dalla prigione ideologica e linguistica che l’aveva costretta. Che si potesse ricostruire un periodo storico o analizzare un problema d’attualità senza i meccanici collegamenti mentali del pregiudizio e della semplificazione.

Che il cambio delle generazioni riuscisse a spazzar via, da una parte, il livore accusatorio di una memoria ferita e, dall’altra, l’ossessione giustificazionista di una memoria che ancora rimorde. Invece, colpisce ritrovare nelle parole, ancora di oggi, i vecchi stilemi che una volta potevano fare molta paura e che, ora, e speriamo di non illuderci, sembrano soprattutto suonare stonati e suscitare un moto di noia, ma anche un po’ di tristezza.

Ci riferiamo a piccoli e non tanto piccoli segni che sono ritornati a comparire sui nostri giornali, sulle tv dei serali tornei verbali, nelle giungle anarchiche degli sfoghi adolescenziali su Internet. Gli esempi sono numerosi e frequenti, ma partiamo solo dall’ultimo in ordine di tempo, forse il meno importante, il meno colpevole e, persino, il più trascurabile. Ma, proprio per questo, significativo della persistenza, nella medietà di certa comunicazione giovanile, di tic mentali di cui speravamo esserci definitivamente liberati. Si tratta dell’intervista, sulla «Stampa» di ieri, a Rubina Affronte, la ragazza che ha lanciato un fumogeno contro Raffaele Bonanni, durante la festa nazionale del Pd, a Torino. La giovane, che ha solo 24 anni, giustifica la negazione del diritto di parola nei confronti del sindacalista segretario della Cisl con queste motivazioni: «Era importante non farlo parlare. Non era impedire di parlare a una persona. Ma a chi, con quelle parole, mette in pericolo i diritti fondamentali di milioni di lavoratori».

Fa soprattutto un po’ di tristezza, lo ripetiamo, ritrovare su quella bocca, sulla bocca di una ragazza di 24 anni, la sintesi, magari confusa e certamente ingenua, dei tre fondamentali e perversi schemi mentali che, in anni speriamo lontani, provocarono tanti lutti e tante sciagure nel nostro Paese. Il primo riguarda la trasformazione di una persona in un simbolo; di un uomo, spogliato dalla sua concretezza fisica ed elevato a un tale livello di astrazione che lo priva della sua identità, per ridurla alla generica categoria di un nemico senza volto. Così, questa mutazione impedisce di avversare le sue idee con altre idee, come si fa nella vita reale, e induce alla contraddizione di violare un diritto concreto, quello della parola o della stessa vita di una persona, in nome di un diritto astratto che si presume conculcato a una generalità di altre persone. Con la possibilità di negare la responsabilità del gesto, perché sublimato nel cielo dell’incolpevole irrealtà.

Proprio qui scatta la seconda trappola di quel vecchio schema mentale: quella di pretendere, con arrogante autodafé, di rappresentare una intera categoria sociale senza averne avuto alcun mandato, né alcun motivo per presupporne il diritto. Si tratta di un vero esproprio, per nulla autorizzato, della volontà altrui, di cui, invece, ci si fa vanto di intuirne la necessità, persino quella che non si manifesta nella coscienza della categoria di cui si presume di anticiparne i desideri. C’è, infine, il terzo peccato mortale di quella antica e perversa logica: il semplicismo di chi collega fatti singoli, separati nello spazio e nel tempo, distinti nella concretezza della situazione storica, in una generica e comoda macchinazione unitaria, sapientemente eterodiretta da menti perverse, onniscenti e onnipotenti. L’esagerazione della potenza avversaria, singola eccezione in quella babele di volontà disperse, contraddittorie e multiformi che si agitano sul palcoscenico del nostro mondo globalizzato, serve a esaltare, in una patetica regressione infantile, la virtù salvifica di un solo gesto, quello del piccolo Davide, capace di vincere il gigante Golia.

Al di là del modesto esempio citato, queste catene linguistiche che non riusciamo a spezzare definitivamente imprigionano ancora le menti di molti giovani e meno giovani che si vorrebbero pensare ormai libere di giudicare le persone, nella loro responsabilità individuale e concreta e i fatti, nella loro specificità. Menti capaci di distinguere la realtà dei nostri giorni da quella degli Anni 70 e 80. Una distinzione quanto mai necessaria, proprio perché la memoria di quegli anni fa ancora male. (la Stampa)

venerdì 24 settembre 2010

Disoccupati e distratti. Davide Giacalone

Se i giovani fossero più attenti e meno viziati, le loro famiglie avessero patrimoni meno ricchi e minor possibilità di finanziarne i capricci, i genitori non fossero dei nonni impegnati nella gara a chi riesce a darla più spessa vinta, se la prospettiva di un lavoro non fosse collocata nel remoto futuro in cui ci si dovrà guadagnare la pagnotta (che dico? il sushi), le nostre piazze sarebbero già piene di gente in rivolta, che si rifiuta d’accettare il furto del proprio futuro. E non sarebbe un male, perché la consapevolezza, anche se dolorosa, è sempre meglio dell’incoscienza. Il guaio è che siamo tutti impegnati a consumare e trastullarci, dando le colpe di quel che non va a entità inafferrabili: il sistema, la società, la politica.

A questo quadro di ridanciana cecità si deve aggiungere un particolare rilevante: ciascuno si occupa degli affari propri, stando bene attento a non confonderli con gli interessi collettivi. Quando i precari della scuola o della sanità protestano si sentono solo loro, facendo accorre la scomposta pattuglia dei politici pronti a blandirli, mentre spariscono gli interessi antagonisti, quelli degli studenti e dei malati. Quando i lavoratori occupati chiedono maggiori garanzie si sente solo la voce dei loro sindacati, che neanche li rappresentano, e si scorge la gara politica a patrocinarli, ma tacciono gli interessi dei non garantiti, di quelli che dal mercato del lavoro sono esclusi. E così via, in un trionfo d’egoismo che campa alla giornata.

I nuovi dati Istat sulla disoccupazione segnalano un incremento all’8,5% nel secondo trimestre 2010 (più 1,1 rispetto al primo e più 13,8 su base annua), mentre i maschi al lavoro, fra i 15 e i 64 anni, sono scesi al 68% (meno 1,1 su base annua) e le donne sono il 46,5%. Dati impressionanti non in sé, ma per il fatto d’essere stati abbondantemente previsti, generati da guasti che continuamente denunciamo nel più totale disinteresse. Allora provo a dirlo in modo diverso: la contabilità dei parlamentari che hanno votato a favore dell’onorevole Nicola Cosentino è avvincente, le scommesse su ciò cui preludono scontate, la ricerca della reale proprietà dell’appartamento monegasco e ipocritamente scontata, il desiderio di Walter Veltroni di non andare alla conta nello scontro con Pier Luigi Bersani davvero intrigante, ma tutto questo sarà travolto dalla rivolta (mentre lo è già dal ridicolo) nel momento in cui sarà chiaro che, finito di mangiarci risparmi e patrimonio, si dovrà diminuire il tenore di vita. Non è affatto una sorte inevitabile, anzi, sono convinto che sia ribaltabile, ma a condizione di riacquisire consapevolezza di quel che accade e di non perdere tempo occupandoci del nulla.

La disoccupazione cresce, in Italia, ma resta pur sempre sotto la media europea. Questo non è un miracolo, e neanche un merito, ma il semplice derivato del non contabilizzare fra i disoccupati tutti quelli che già hanno perso il lavoro, ma ricevono la cassa integrazione. Che noi non chiamiamo sussidio di disoccupazione, quindi è un attributo degli occupati. Nel frattempo, però, la popolazione attiva, ovvero che lavora o cerca lavoro, è in diminuzione, essendo già ai livelli più bassi rispetto ai concorrenti europei. Per non parlare dell’universo femminile, dove decenni d’emancipazione e annate di “Sex and the City” ci restituiscono un’apparente assuefazione ai lavori casalinghi. In realtà si tratta di anacronistici e dannosi ostacoli all’ingresso nel mondo del lavoro. La disoccupazione giovanile sfiora il 28%, ma calcolata su un universo ancora ristretto, detraendo quelli che, non sapendo cosa altro fare, conciliano l’iscrizione all’università con l’impegno nell’happy hour. Non ci si meravigli se alla laurea arrivano in pochi, tanto serve ad ancor meno, piuttosto s’impari a far di conto e ci si renda conto che quella disoccupazione è, in realtà, ancora più alta.

Tutto questo non porta a esplosioni di protesta per tre ragioni: a. perché i nuclei familiari sono ancora finanziati da trasferimenti pubblici, il che favorisce la connivenza fra cattiva politica e cattiva cittadinanza; b. perché i patrimoni familiari sono ancora consistenti e non fiscalmente ingestibili; c. perché l’economia irregolare, specie al sud, ha un’elasticità ben più alta di quella fiscalizzata e gestita nel rispetto delle leggi. Ma sono tre armi a doppio taglio, anzi: tre pugnali impugnati dalla parte della lama. Perché: 1. i trasferimenti pubblici tengono alta la pressione fiscale, penalizzando il lavoro produttivo e favorendo la rendita improduttiva; 2. i patrimoni dovranno trasformarsi in liquidità nella condizione meno favorevole, diffondendo la sgradevole sensazione d’impoverimento; 3. l’economia irregolare non è solo sommerso ed evasione fiscale, ma anche criminalità che contagia l’amministrazione pubblica.

Basta guardare il panorama per preoccuparsi, senza lasciarsi ingannare dalla calma apparente. Ma nessuno si sforza di guardare l’insieme e ciascuno si concentra sulla propria condizione. Cittadini e rappresentanza politica, alla fine, si somigliano fin troppo, riflettendosi in uno specchio che rende tutto immobile. C’è chi tira a campare e chi tira a durare, percependo la propria posizione come un privilegio da non mollare. Collettivamente senza ambizioni, incuranti delle ingiustizie profonde che vengono generate. I dati appena ricordati si vedono già, nello specchio, disegnano un contorno preoccupante, aggravato dalla continua perdita di produttività. Ma lo specchio ancora riflette, sicché ciascuno si delizia nel rimirare sé medesimo.

martedì 21 settembre 2010

La sindrome di Stoccolma. Maurizio Ferrera

Dopo aver investito molti Paesi dell’Europa continentale, l’onda xenofoba ha raggiunto il cuore della Scandinavia. Nelle elezioni di domenica, i «democratici svedesi» (formazione di estrema destra) hanno ottenuto quasi il 6% dei voti. Una doccia fredda per il leader moderato Frederick Reinfeldt, una sconfitta di proporzioni storiche per i socialdemocratici.

La portata di queste elezioni oltrepassa i confini svedesi. Non si tratta solo di un piccolo terremoto politico, ma della crisi di un intero «modello sociale», per molti aspetti unico al mondo. Un modello capace di combinare in modo virtuoso crescita economica e welfare, difesa delle tradizioni nazionali e apertura verso l’esterno.

L’economia svedese è fra le più prospere del pianeta. Mercato e capitalismo non sono mai stati nemici da abbattere, ma strumenti da addomesticare per produrre ricchezza, senza eccessive sperequazioni. Lo Stato sociale è generoso e inclusivo. Costa caro, ma funziona bene. Impregnato sin dai suoi esordi di etica protestante, il welfare è diventato un elemento centrale dell’identità svedese: è considerato la «casa di tutto il popolo», la parola «imposte» vuol dire anche «tesoro comune».

Il principale artefice del modello è stato il partito socialdemocratico, pioniere di un riformismo ambizioso ma pragmatico e conciliante. Nei cortei del Primo maggio, i militanti del partito hanno sempre sfilato con la bandiera rossa in una mano e quella del Regno di Svezia nell’altra: solidarietà fra i lavoratori di tutto il mondo ma anche rispetto della comunità e identità nazionale. Che cosa è andato storto?

La crisi non è di natura economica: il circolo virtuoso fra crescita e welfare funziona ancora, la Svezia resta la prima della classe in Europa. A scardinare il modello è stata soprattutto l’immigrazione. A torto o a ragione, nell’ultimo decennio si è diffusa la paura di un assalto alla casa e al tesoro comuni da parte di persone «diverse » in termini di cultura, costumi, etica civica. Oggi un terzo della popolazione svedese è costituito da immigrati di prima o seconda generazione. Molti elettori accusano i socialdemocratici di aver spalancato le porte agli stranieri e il partito non è riuscito ad aggiornare il proprio programma al nuovo clima. Il cittadino medio crede ancora al binomio «crescita e welfare», ma non si fida più della combinazione «comunità e apertura ». Se deve scegliere, opta per la chiusura, per la difesa del territorio e dei diritti dei nativi. Il nuovo partito dei «democratici svedesi» ha sobillato e cavalcato questi umori ed è ora l’ago della bilancia nel Parlamento di Stoccolma.

I governi e i partiti politici europei (soprattutto quelli di ispirazione socialdemocratica) farebbero bene a riflettere seriamente sui fattori che hanno prodotto la sindrome di Stoccolma: flussi immigratori troppo intensi e senza filtri, la mancata integrazione degli stranieri (in particolare quelli di seconda generazione), la formazione di enormi ghetti islamici alla periferia delle metropoli, i problemi di sicurezza pubblica. Un progetto sistematico e coerente di rilancio del binomio «comunità e apertura» in chiave liberaldemocratica ed europeista non è stato ancora elaborato, da nessuna delle principali famiglie politiche del continente. Ma sarebbe lo strumento più efficace per rispondere in modo ragionevole alla grande sfida dell’immigrazione, evitando di farci travolgere dall’ondata xenofoba e nazional- protezionista. (Corriere della Sera)

lunedì 20 settembre 2010

Le maschere della crisi. Michele Brambilla

È probabile che «l’inconfutabile dato» sull’aumento dei furti nei supermercati sarà già da questa mattina oggetto del dibattito politico. Ciascuno sosterrà che siamo di fronte a una prova evidente dell’impoverimento degli italiani. Ma quanto alla ricerca della causa ci sarà un serrato ed elevato confronto: i tremontiani diranno che tutto dipende dalla recessione globale.

I brunettiani dalla mancata riduzione delle tasse, l’opposizione dirà che è una vergogna che non sia ancora stato sostituito il ministro delle attività produttive e che comunque è sempre e solo colpa di Berlusconi (ma Veltroni dirà che anche Bersani ci ha messo del suo), i leghisti se la prenderanno con Roma ladrona e qualcun altro con la coppia Fini-Tulliani. Quel che nessuno metterà in discussione è il dato di partenza: e cioè che i furti nei supermercati sono aumentati perché c’è la crisi e siamo tutti più poveri. Così il Barnum mediatico ha infatti immediatamente presentato la notizia. Al primo lancio d’agenzia già alla seconda riga si dava per scontato che siamo diventati mariuoli per necessità, ladri di biciclette come negli anni del neorealismo. Leggo testualmente: «Il furto costa caro ai supermercati italiani, ancor di più in tempo di crisi economica… A pesare sull’aumento dei furti è stata la recessione». Ma come no: d’altra parte l’indagine è stata fatta da alcuni «retailer» e c’è anche il parere di un «chairman marketing» che ci ha spiegato l’importanza della «loss prevention».

Andando a caccia di qualche residuo vocabolo italiano leggo tuttavia nelle ultime righe, buttato lì come ininfluente dettaglio, che gli articoli andati più a ruba (in senso letterale) sono «capi di abbigliamento, soprattutto firmati e accessori, e cosmetici». Un’altra agenzia parla di «soprattutto profumi, bottiglie di liquore, parmigiano e salumi vari, ma anche materiale elettronico». Prodotti non propriamente indispensabili per il sostentamento. Fanno eccezione il parmigiamo e i salumi ma, visto l’andazzo, non è da escludere che siano stati razziati per l’happy hour. Resisto alla tentazione di essere altrettanto facilone di chi sostiene l’equazione «aumento dei furti uguale crisi e povertà» sostenendo che, viceversa, questi dati testimoniano ancora una volta la cialtronaggine di noi italiani. Mi permetto invece di chiedere quale sia l’attendibilità delle indagini che ci vengono proposte ogni giorno. Solo ieri, ad esempio, abbiamo scoperto che esiste un «Barometro mondiale dei furti»; ed è singolare che a un’ora dall’annuncio del suo studio se ne sia materializzato sul computer un altro identico, eseguito dal mitico «Osservatorio di Milano».

Qualche giorno fa uno studio ci ha documentato come noi italiani, in tempo di crisi, ci siamo rimboccati le maniche e siamo tornati a fare i lavori più umili, togliendoli agli immigrati; ora parrebbe invece che neanche in crisi rinunciamo alla polo griffata e alla crema antirughe. Chi ha ragione? Chissà. Del resto anche istituti grandi e seri si contraddicono spesso, spiegandoci un giorno che siamo fuori dal tunnel e il giorno dopo che siamo alla canna del gas. Ci vorrebbe insomma una bella indagine sull’inaffidabilità delle indagini. Che magari arriverebbe alla conclusione che tanta confusione è, in fondo, colpa della recessione. (la Stampa)

La solitudine dei numeri due. Ernesto Galli Della Loggia

C’è un solo, vero vantaggio s t r a t e g i c o che la destra italiana ha sulla sinistra. La destra ha un capo, la sinistra no. Specie quando si tratta di votare, di scegliere un futuro presidente del Consiglio questo si rivela un vantaggio decisivo. Il candidato della destra è il suo capo effettivo, conosciuto e riconosciuto come tale. Il candidato della sinistra, invece, è uno scelto a fare il candidato dai capi veri. La cui autorità quindi è un’autorità delegata, revocabile in ogni momento.

La scelta di Berlusconi come capo della destra, per varie ed ovvie ragioni (ma anche per una meno ovvia e di solito dimenticata: ed è che la destra italiana quale oggi la conosciamo l’ha inventata lui e solo lui) non ha bisogno di spiegazioni. Da che il Cavaliere ha deciso di scendere in campo il fatto che il capo sia lui è qualcosa d’indiscutibile, sul quale Berlusconi per primo non è disposto a transigere. Nessuno del resto ha mai pensato di prenderne il posto. Fini stesso, dopo anni di acquiescenza, si è limitato a chiedere di essere coinvolto in qualche modo nelle decisioni da prendere e di poter esercitare una sia pure insistente libertà di critica. È bastato questo per vedersi cacciato dal Pdl su due piedi.

Ciò che richiede di esser capito e spiegato, dunque, è perché la sinistra invece non riesca lei ad avere un capo. Mi sembrano tre i motivi principali.

Perché, innanzi tutto, non ci riesce quello che è il suo partito di gran lunga più forte, il Pd. Dopo la fine dell’Unione Sovietica non aver scelto l’identità socialdemocratica, preferendole quella furbastra dei «democratici », lungi dal dare al part i t o e x c o m u n i s t a un’identità più ampia ed onnicomprensiva (come molti evidentemente speravano), gli ha reso impossibile, all’opposto, avere una qualunque identità. Lo ha condannato ad essere in permanenza un’accozzaglia di gruppi, di storie, di opinioni, ma non un partito. Dunque neppure ad avere una fisiologica e stabile vita interna con un capo riconosciuto. Il «comunismo » italiano, qualunque cosa esso fosse, traeva comunque dal leninismo il divieto ferreo del frazionismo e la conseguente inattaccabilità del segretario generale. Scomparso il «comunismo », non sostituito da niente, sembra svanita l’idea stessa di un capo. Sulla scena sono rimasti una dozzina di leader in lotta tra di loro ed autorizzati dal vuoto d’identità a recitare a turno tutte le parti in commedia.

Il secondo motivo riguarda con ogni evidenza la divisione ideologica della sinistra. Anche la destra è ideologicamente divisa, ma a destra sulle divisioni riesce sempre a prevalere in ultimo la volontà di vincere, e quindi il riconoscimento bene o male di un capo. Sulle passioni, cioè, riesce ad avere la meglio l’interesse politico complessivo.

A sinistra, invece, sembra prevalere su tutto la passione del proprio particolare punto di vista (di Rifondazione, Italia dei valori, Grillini, Verdi, ecc. ecc.). Vincere è importante, sì, ma a patto che ogni particolare punto di vista abbia modo di sopravvivere e di poter dire la sua da pari a pari con gli altri. Dunque senza riconoscere alcun capo: al massimo un leader elettorale. A sinistra il principale interesse politico, insomma, non è la vittoria sulla destra ma il mantenimento in vita delle proprie subidentità. In questo senso l’interesse delle varie minileadership fa corpo con l’aggressiva suscettibilità, alla base, delle varie sfumature del radicalismo ideologico.

C’è infine un terzo motivo, riconducibile in generale alla cultura maggioritaria nel popolo di sinistra. È il forte elemento antigerarchico presente in tale cultura. Cioè l’ostilità all’idea che specie in politica ci sia, debba esserci, uno che comanda e gli altri che obbediscono. E che dunque non contano solo le cosiddette «forze sociali», non solo «le strutture», ma anche (e come!) la personalità individuale: sicché la cosiddetta personalizzazione lungi dall’essere una patologia della politica è viceversa iscritta da sempre nel suo destino. Come se non bastasse, questo atteggiamento costitutivo della mentalità di sinistra è stato infine enormemente rafforzato dall’enfasi spasmodica posta sull’antiberlusconismo. Berlusconi dipinto incessantemente come «duce», «ras», «boss» ha prodotto l’effetto di squalificare ulteriormente ogni idea di comando, di capo. A ciò si è aggiunto l’altrettanto spasmodico e conseguente pregiudizio antipresidenzialista. Consacrato da una Costituzione la quale, si dice, sancirebbe la suprema ridicolaggine politica che un Paese possa essere governato non da un capo ma da un «primus inter pares».

Una sinistra con molti capetti ma senza un capo è costretta così a inventarsene spasmodicamente uno ad ogni stormir di fronde elettorali. Aprendo ogni volta un gioco al buio nel quale rischia di avere maggiori possibilità di successo, paradossalmente, o chi, tipo Beppe Grillo, in realtà non ha mai avuto a che fare con la politica, o chi, come Vendola, affida il suo richiamo sul pubblico allo stesso vuoto populismo del Grande Avversario da battere. (Corriere della Sera)

venerdì 17 settembre 2010

Finché i magistrati vorranno entrare a Palazzo Chigi, sarà difficile uscire dalla crisi. Bruno Vespa

Adesso va’ a spiegare alla gente che buona parte del gigantesco casino in cui si trova la politica italiana dipende dalle decisioni della Corte costituzionale. Fin dal 1994 Silvio Berlusconi è stato un presidente del Consiglio che ha corso con una gamba sola. L’altra gli è stata legata dalla magistratura. Dal 1994 a oggi contro il suo gruppo sono stati aperti 66 procedimenti penali rilevanti, di cui 22 contro il Cavaliere che prima di scendere in campo non aveva avuto nemmeno un avviso di garanzia (da 19 è stato assolto, archiviato o prescritto; tre processi sono ancora pendenti). A parte i suoi alleati più stretti, sia Gianfranco Fini sia Pier Ferdinando Casini hanno riconosciuto anche negli ultimi giorni che Berlusconi è sottoposto a un inconsueto «accanimento giudiziario». A molti «processi ad personam» il governo ha perciò risposto con alcune «leggi ad personam». Ma il costo politico di questa protezione è stato altissimo.

Se negli ultimi sette anni di governo Berlusconi non ha fatto che qualche piccolissimo passo, per esempio, nella grande e organica riforma della magistratura, è perché alcuni alleati pro tempore hanno arricciato il naso e anche perché persone bene informate e regolarmente smentite gli avevano promesso giudizi favorevoli di questa o quella corte se lui si fosse comportato in un certo modo. E veniamo alla Corte costituzionale. Una persona della sinistra moderata e di grande buonsenso come Antonio Maccanico aveva capito fin dal 2002 che senza uno scudo permanente il governo non avrebbe potuto operare serenamente. Il 12 settembre di quell’anno, mentre alla Camera maggioranza e opposizione s’azzannavano sulla legge Cirami sul «legittimo sospetto», Maccanico propose una legge ordinaria che garantisse l’immunità durante il loro mandato alle cinque più alte cariche dello Stato. Berlusconi la rispolverò nel gennaio 2003. La norma, rielaborata dal capogruppo dei senatori di Forza Italia Renato Schifani, fu approvata il 18 giugno successivo. Prima dell’approvazione furono compiute due ricognizioni con esito positivo. La prima dal presidente del Senato Marcello Pera presso alcuni giudici costituzionali, la seconda addirittura dal capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, che prima di firmarla chiese il parere di costituzionalità a quattro presidenti emeriti della Corte: Giuliano Vassalli, Giovanni Conso, Francesco Paolo Casavola e Leopoldo Elia. Soltanto Elia espresse parere contrario e Ciampi firmò. Ma il 13 gennaio 2004 la Corte bocciava la legge con 10 voti contro 5 per violazione dell’articolo 3 della Costituzione sui pari diritti dei cittadini dinanzi alla legge. Nella motivazione non si faceva cenno all’articolo 138, che prevede la revisione della Carta con due passaggi alla Camera e due al Senato. Perciò, con il nuovo governo Berlusconi, nel 2008 il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha riproposto il lodo correggendo soltanto le violazioni dell’articolo 3. E lo ha fatto, ovviamente, dopo infinite consultazioni e anzitutto, com’è ovvio, con il Quirinale. Risultato: il 7 ottobre dell’anno scorso, dopo una furibonda campagna mediatica contro il lodo, la Corte lo bocciò con 9 voti contro 6. E proprio per violazione dell’articolo 138.

Ora, non si capisce perché il governo abbia perso sei mesi aspettando la fine di aprile per partire con un terzo lodo, stavolta «costituzionale». Si capisce invece perfettamente perché Berlusconi continui a essere sotto schiaffo dei suoi alleati. Si dà infatti per scontato che la Corte, che non ha mai preso una decisione importante in favore del Cavaliere, il 14 dicembre boccerà il «legittimo impedimento», un’altra norma scudetto, se non scudo, approvata al posto dell’aborrito «processo breve». E allora via di corsa ad approvarne una nuova versione nella speranza che la Corte rinvii, come d’uso nel galateo istituzionale, la decisione del 14. O si preferirà la prima lettura del nuovo lodo? Intanto Berlusconi continua a essere sotto schiaffo e a dovere subire i ricatti di chi, in cambio del voto salvavita, può chiedergli qualsiasi cosa. (Panorama)

Uolter l'Africano. Davide Giacalone

Uolter l’Africano rientra sulla scena con il suo stile inimitabilmente imitante, prima con una portentosa intervista a Gioia (senza che noi s’osi immaginare cosa sarebbe riuscito a secernere ove la testata si fosse chiamata: Noia), poi con un documento di sei pagine, senza illustrazioni, sul quale ora si raccolgono le firme. Dice di non volere fondare una corrente, ma un movimento. Cosa significhi non è chiaro, visto che le correnti compongono un partito mentre i movimenti lo superano e distruggono, ma ci permettiamo di suggerirgli il possibile inno, tratto dalla colonna sonora di un bel film d’animazione: “mi piace quel che muovi, mi piace come muovi, e allora: MUOVI!”.

La premessa del pensoso documento, redatto assieme a Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni, denuncia la crisi del centro destra. Come si vede, gli attempati giovanotti son persone cui non sfugge nulla. Però tendono a non consideare un elemento: il centro destra si tiene Silvio Berlusconi, fin dalle sue origini e nonostante i ripetuti assalti alla baionetta, mentre il centro sinistra non solo ha fatto fuori, ma ha addirittura perso i suoi capi. Nell’ordine: a. Achille Occhetto è uscito dal partito, poi è anche uscito di senno e s’è alleato con Antonio Di Pietro; b. Romano Prodi è l’unico che li ha fatti vincere, ma loro lo hanno detronizzato due volte, sicché il professore balla da solo; c. Francesco Rutelli arriva da lontano e non ha ancora smesso di pellegrinare, tanto che ha fondato un partito alternativo a quello che lo candidò a governare; d. Uolter l’Africano, al secolo Veltroni Walter, era il candidato che univa e fondeva in un solo partito, nel quale oggi non si ritrova più. E se questi sono i capi, figuarevi i gregari. Per non parlare dei poveri elettori.

Fortunatamente la fame nel mondo diminuisce, grazie alla globalizzazione e all’industrializzazione, il che autorizza a credere che è meglio Uolter rimanga da noi. In fondo stiamo bene e certi problemi possiamo gestirli. Non trovandosi di meglio da fare, ed essendo escluso che vada a lavorare, s’è accorto che il Partito Democratico è privo di “bussola strategica”. Cosa sia un tale strumento non mi è noto, ma questo è un dettaglio, perché la cosa divertente è la sua chiosa: nel documento “non c’è una parola contro Bersani”. Dicono che è senza bussola, volendo significare che non sa dove andare e manco come andarci, ma sostengono di non criticarlo. Se lo avessero fatto, immagino, il documento sarebbe stato vietato ai minori.

Andiamo oltre. Il documento è succosamente pregno di frasi fatte sulle riforme: devono essere strutturali e indirizzate al bene del Paese. Roba su cui potrebbero convergere sia Storace che Diliberto, repubblicani e monarchici, juventini e romanisti (ops, dimenticavo, Veltroni è già tutto questo). Ma la cosa bella è che per capitanare una squadra di sconosciuti, indirizzata a far riforme fumose e buoniste, ritengono sia necessario un leader “fuori da sé”. Il rischio è che ne trovino uno fuori di sé. Ci vuole uno della società civile. Che è una di quelle espressioni che provoca l’orticaria, perché capace di congiungere il nulla con il nessuno. A chi si riferiscono? Un grande evasore, in rappresentanza dell’Italia che lavora e si ribella? Un cassintegrato a vita, in rappresentanza dell’innovazione produttiva? Un attore, meglio se attrice? (Potrebbe andare la Sabrina Ferilli, se non fosse che continua a far dichiarazioni d’ammirazione per Massimo D’Alema, che solo a sentirlo nominare i paladini dell’unità a sinistra si scompongono in sette sataniche). O, forse, puntano a Silvio Berlusconi, espressione di sentimenti popolari, laico fin troppo disinibito e acquisito che svuoterebbe la destra.

Il nuovo Movimento, strutturandosi attorno ad un programma vacuo e puntando ad un leader ancora da trovare, avrà il compito di rilanciare la “vocazione maggioritaria”. Che è, al tempo stesso, una creazione e una vittima dell’ottimo romanziere prestato alla politica, o viceversa, o, magari, un politico romanzato. Perché è vero che fu lui a capire, e gliene va reso merito, che la sinistra potrebbe vincere dotandosi d’idee e uomini accettabili, non di coalizioni arlecchinesche, ma è anche vero che fu lui ad affondare la speranza, contraendo l’alleanza con l’estrema destra manettara degli italovaloristi. Il che pone un secondo, e più solido problema: è noto anche ai sassi che la componente cattolica, o, per la precisione, ex democristiana, del Partito Democratico non ne può più di stare a rimorchio di ex o neo comunisti, ma è anche vero che quel con cui devono rompere è, prima di tutto, il dipietrismo, malattia senile del sinistrismo senza idee. Fioroni e Gentiloni farebbero bene a pensarci: non è simpatico prendersela con Bersani, poverello, senza avere il coraggio di puntare il dito sulla piaga più infetta. Programmaticamente parlando, ammesso che a loro importi qualche cosa, la distanza da Bersani si misura in centimetri, quella da Di Pietro in chilometri.

Infine, dice Veltroni che è ancora presto per discutere la leadership della sinistra, dato che il governo non è ancora caduto. Qualcuno lo informi, e con lui la sinistra intera, che l’efficacia di chi guida l’opposizione si misura nel far cadere il governo e predisporre l’alternativa. Quello che aspettava i pomi gli cadessero in testa era Newton, che non fa il centravanti.

giovedì 16 settembre 2010

Lehman, crisi da non sprecare. Francesco Guerrera*

Un venerdì pomeriggio di due anni fa, John Thain, l’amministratore delegato della Merrill Lynch era nel suo ufficio che sbrigava le ultime pratiche prima del weekend quando squillò il telefono. In linea c’era un funzionario del governo statunitense con un messaggio conciso ma chiaro: «Si faccia trovare al quartier generale della Federal Reserve di New York tra un’ora». Thain è un veterano di Goldman Sachs, è stato persino capo della Borsa di New York e non è facilmente impressionabile. Ma quel giorno, capì subito la gravità della situazione: i signori della finanza si dovevano riunire d’urgenza nella sede della Banca Centrale perché la Lehman Brothers, una delle più grandi banche d’affari del mondo, era in fin di vita.

«Di telefonate del genere ne ho ricevute pochissime nel corso dei miei trent’anni a Wall Street - mi raccontò dopo -. E non hanno mai portato buone notizie». Thain aveva ragione. Nel breve spazio di un weekend d’autunno, il settore finanziario e l’economia mondiale furono colpiti da un terremoto da cui devono ancora riprendersi. I miliardi di fondi spesi dai governi per stimolare la crescita, i nuovi limiti sul capitale delle banche stabiliti questa settimana a Basilea, e, soprattutto, l’odio viscerale della gente comune per i nababbi della finanza, sono tutti figli di quei due giorni che cambiarono il mondo.

Quando Thain e gli altri titani di Wall Street uscirono dal palazzo-bunker della Fed quella domenica sera, la Lehman era morta, uccisa da perdite esorbitanti sul mercato immobiliare e consegnata alla storia come la più grande bancarotta di sempre. Aig – il gigante delle assicurazioni – dovette essere salvato dai contribuenti americani con 180 miliardi di dollari. E perfino Goldman, Morgan Stanley e Citigroup furono costrette a prendere soldi dal governo Usa per rimanere a galla. (Anche Merrill scomparsa, comprata dalla Bank of America, che licenziò Thain dopo pochi mesi).

Ma il tonfo di Lehman echeggiò ben oltre i grattacieli di New York. Lo choc nei mercati provocò un blocco quasi totale del commercio internazionale, con investitori ed aziende paralizzati dalla paura di perdere soldi. Mi ricordo bene il panico nella voce di un vecchio amico che mi chiamò da Hong Kong, uno dei porti-chiave per il transito di merci tra continenti, il lunedì dopo il weekend di Lehman. Disse semplicemente: «Le navi-container sono ferme. Non capisco. Sono... ferme».

A ventiquattro mesi di distanza, le navi sono salpate e i mercati hanno superato le paure del dopo-Lehman. Parlamenti e banche centrali stanno cambiando le regole del gioco per impedire alle banche di trasformare ancora una volta l’economia mondiale in una roulette russa i cui proiettili vanno a colpire i posti di lavoro e il tenore di vita degli innocenti. E Wall Street e la City di Londra stanno svecchiando le loro classi dirigenti, nella speranza che una nuova generazione introduca valori e comportamenti meno venali e più morali di quella precedente.

La crisi come atto catartico – un male doloroso ma necessario per purificare un settore finanziario vittima dei suoi successi ed eccessi. E’ un’idea allettante, come i discorsi melliflui di politici e banchieri che ci dicono che ora va tutto bene, che le esplosioni del 2007-2009 non accadranno mai più grazie al nuovo sistema finanziario che stanno progettando.La realtà, purtroppo, è più complessa. L’attivismo politico del dopo-crisi ha fatto del bene, su questo non c’è dubbio. Costringere le banche a mettere fine ad operazione rischiose e fini a se stesse – come la compra-vendita di titoli con i propri soldi che è stata messa fuori legge negli Usa – e mantenere alti livelli di capitale - come da accordo di Basilea - sono senz’altro sviluppi positivi. Il problema è che gran parte delle riforme introdotte sia nel vecchio che nel nuovo continente curano i sintomi, non le cause, del male.

Quando gli Stati Uniti si trovarono in una situazione simile negli Anni 1930, il governo prese misure drastiche, passando la famosa legge «Glass-Steagall» che separò le banche d’affari dalle casse di risparmio. L’erezione di quel muro tra investitori e risparmiatori fece sì che Wall Street non avesse accesso ai soldi di Main Street e non fosse quindi in grado di utilizzarli (e sperperarli) in attività ad alto rischio.

Nel mezzo secolo seguente – fin quando le banche convinsero il Congresso ad abolire la «Glass-Steagall» - la speculazione e il desiderio di fare soldi rimasero le raisons d’être dei professionisti del mercato, ma senza mettere a repentaglio il benessere dell’americano medio. La recente ondata di nuove regole non comporterà nessun cambiamento fondamentale né nella struttura delle istituzioni finanziarie né nei comportamenti dei loro capi e questo è molto preoccupante. Il ripristino di una separazione netta alla «Glass-Steagall» è forse impossibile vista la complessità delle banche moderne. Ma governi e regolatori avrebbero potuto fare di più. Molto di più.

Un paio di esempi. Se, come sembra, una delle cause della crisi è stato il fatto che il pagamento annuale dei bonus ha creato una mentalità a breve termine tra i banchieri, si sarebbe potuto obbligare le aziende a pagare gli alti dirigenti in azioni che possono essere vendute solo quando vanno in pensione. E perché non decidere che le banche non possono prestare i depositi dei piccoli risparmiatori a hedge funds e altri operatori di mercato? La verità è che, nonostante l’antipatia dei cittadini per la classe finanziaria, le banche sono riuscite a persuadere i politici che misure più radicali le avrebbero danneggiate e messo a rischio la ripresa economica. E visto che i governanti sono anch’essi vittime di una mentalità a breve-termine (la prossima elezione, la prossima intervista ecc, ecc), le lamentele dei banchieri hanno trovato terreno fertile. Vikram Pandit, che, come capo della Citigroup, è un esperto in materia di disastri, mi ha detto di recente: «A crisis is a terrible thing to waste» – Sprecare una crisi è terribile. Lui parlava di altro, ma quella frase dovrebbe essere inscritta su tutti gli edifici governativi di New York, Washington, Basilea e Bruxelles. (la Stampa)

*Caporedattore finanziario del Financial Times a New York.

mercoledì 15 settembre 2010

La ciofeca di Venezia. Orso Di Pietra

La soluzione è li, sotto gli occhi di tutti, Non c’è bisogno di cercarla chissà dove. Nel futuro lontano, in quello prossimo, tra i vicini, tra gli estranei, in mezzo ai grattaceli o nelle zone più esotiche del mondo. E’ in bella vista, nella nostra storia. Non quella più antica e neppure in quella epica del dopoguerra. Ma in quella più vicina a noi. Talmente convincente, banale, scontata da diventare una sorta di luogo comune. Alla mostra di Venezia il cinema italiano non ha preso neppure uno straccio di premio. Pubblico e giuria hanno giudicato le pellicole in concorso una ciofeca (per dirla con Totò) inesportabile. Il direttore della Mostra, Marco Muller, quel signore che si veste come un reverendo ed invita Alba Parietti che fa scandalo mostrando le tette rifatte, c’è rimasto male ed ha pensato bene di aprire sull’argomento un dibattito cogliendo inavvertitamente la soluzione del problema. Quella data a suo tempo da Nanni Moretti (che però strada facendo l’ha dimenticata). “No, il dibattito no!”. Magari storie, ma niente dibattiti! (l'Opinione)

Prima o poi ci scappa il morto. Giampaolo Pansa

Un mazzo di rose alla petardista di Torino. Dovrebbe mandarlo Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, per ringraziare la ragazza di aver sbagliato mira nel lanciargli addosso un fumogeno alla festa nazionale del Pd. Se la guerrigliera Rubina Affronte, anni 24, una bella figliola bruna, si fosse rivelata più abile nel getto del petardo, Bonanni, non sarebbe qui a raccontarla. Invece di fargli soltanto un buco nel giubbotto, il proiettile ricevuto in piena faccia lo avrebbe sfigurato per sempre. O magari accoppato.


Non è vero che “un fumogeno non ha mai ucciso nessuno”. A sentire il Corriere della sera del 10 settembre, è questa la sentenza lapidaria e bugiarda emessa dalla stessa Rubina e dai suoi compagni. Tutti insieme formano una boriosa squadra antagonista che, invece di stare in galera da un pezzo, concede interviste ai giornali. Al Corriere hanno spiegato: «Di giacche Bonanni se ne può comprare altre. Non piangiamo certo per un pezzo di stoffa». Sono parole avventate perché non tengono conto di un’ipotesi molto realistica che tra un istante descriverò.

C’è un fatto che stupisce nella sequenza di aggressioni violente attuate fra la fine di agosto e questo inizio di settembre. Sempre per mano di antagonisti rossi contro obiettivi ritenuti forcaioli, reazionari, fascisti e dunque da aggredire. Vogliamo rammentarli? Una festa leghista nella Bergamasca con tre ministri, un dibattito a Como con il senatore Dell’Utri, una seconda missione a Milano sempre contro Dell’Utri, il presidente del Senato Schifani, il vecchio cislino Marini (soltanto fischiato) e infine Bonanni, questi ultimi tre a Torino.

Un ciclo offensivo attuato da gruppi collocati tutti nella sinistra antagonista. Svelti di mano, però lenti di testa. Infatti, a stupire è che non mettano in conto una violenza uguale e contraria. Sono convinti di avere il monopolio dello scontro fisico. E non immaginano la discesa in campo di bande capaci di fare peggio di loro. Lanciando ordigni ben più pesanti dei petardi torinesi. Con guasti irrimediabili al bel faccino di Rubina.

Ecco un’ipotesi molto realistica. Tanti media fanno finta di niente, come gli struzzi. Senza rendersi conto che si rischia l’inizio di un conflitto coperto di sangue, uno scontro già visto in altri momenti della storia italiana. Le condizioni ci sono tutte. Una casta politica screditata. Un governo debole. Una maggioranza e un’opposizione incerte sul da farsi. Una crisi economica che indebolisce i ceti meno protetti. Un’immigrazione che si espande incontrollata. Una criminalità capillare. Infine i famosi giovani senza avvenire, troppo coccolati dalle famiglie, dai media, dai preti. E mai educati a guardare al proprio futuro con realismo, senza sogni da paese dei balocchi.

Questa è l’Italia del 2010, signori dei partiti. Il Bestiario vi rammenta che siete seduti su una polveriera. E vi consiglia di evitare le prediche fatte in questi giorni. Qui ne citerò due. La prima è di Piero Fassino, uno dei big del Pd. Intervistato dalla Stampa, ha spiegato le aggressioni di Torino così: «Chi ha fischiato lo ha fatto indignato per l’arroganza con cui la destra governa, per l’affarismo di cui ha dato tante prove in questi anni. Quei fischi sono anche la conseguenza dell’imbarbarimento della vita politica, dell’incanaglimento della destra e per capirlo basta guardare che cosa è Il Giornale…».

Insomma è tutta colpa di Silvio Berlusconi e di Vittorio Feltri. Pensavo che il purgatorio di Fassino, messo nell’angolo da Bersani & C, non avrebbe distrutto il suo acume. Mi sbagliavo. Se davvero ha parlato in quel modo, Fassino si è bevuto il cervello. Auguri di pronta guarigione, anche per essere pronto in caso di nuovi assalti.

Ma ben più da Bestiario di lui è un capo partito: Antonio Di Pietro. Subito dopo la prima aggressione contro Dell’Utri a Como, ha lanciato un proclama di guerra: «Iniziamo a zittire quelli come Marcello Dell’Utri in tutte le piazze d’Italia, perché non è lì che dovrebbero stare, ma in galera… I fischi sono segnali positivi. Se personaggi come Dell’Utri vengono cacciati a suon di fischi dalle piazze, forse il risveglio sociale non è poi così lontano. C’è ancora un’Italia pronta a indignarsi».

Ignoro se Di Pietro, un ex magistrato, si sia reso conto delle pericolose conseguenze delle sue parole. Forse no. Perché, come succede spesso ai big della casta, ritiene di essere un Premio Nobel della furbizia. In altri tempi, molti avrebbero provato ribrezzo per un parlamentare di prima fila che incita a compiere reati. Ma oggi non esistono più regole. Il Cavaliere si sarà perduto dietro le escort raccolte a Palazzo Grazioli. Eppure mi sembra meno colpevole di un Di Pietro che spera di vincere a furia di linciaggi. Sarebbe perfetto con il cappuccio razzista del Ku Klux Klan.

Sapevo che la Seconda Repubblica sarebbe affondata nel disonore. Ma non la credevo capace di suicidarsi, eccitando l’estremismo. Aldo Moro venne rapito e ucciso dalle Brigate rosse, però non gli aveva mai strizzato l’occhio, dicendogli: colpite duro noi dei partiti. Oggi assistiamo a questo paradosso stomachevole. Con il risultato che, prima o poi, ci scapperà il morto. Se accadrà, speriamo che gli irresponsabili come Di Pietro non abbiano la faccia di presentarsi ai funerali. (il Riformista)

lunedì 13 settembre 2010

L'errore del Cav.? Ha fatto scappare il mondo culturale e giornalistico. Carlo Panella

La leadership di Berlusconi mi ha sempre affascinato perché passa allegramente e in continuazione attraverso tutti i periodi musicali della mia non breve vita: dal melodico di Nilla Pizzi, ai Pink Floyd e Annie Lennox, passando per i cantatutori degli anni sessanta, e poi Rock, Twist, Pop, Reggae, Tekno, con brevi notazioni Country, senza mai dimenticare i fondamentali di Tango e Samba.

Dunque, nulla da dire, nulla da correggere. Inutile soprattutto tentare generosamente, come ha fatto con saggezza il Foglio poco prima del deferimento ai probiviri di Bocchino, Granata e Briguglio, di evitare disastri in famiglia mettendo al centro dell’agire le regole auree del gioco politico.

Non intendo quindi parlare del “che fare”, nel guazzabuglio quotidiano, in attesa dell’ennesimo nuovo spartito.

Un consiglio però, lo darei volentieri al Cavaliere: si guardi indietro e conti quanti giovani giornalisti, canuti commentatori, intellettuali, artisti, opinion makers lo hanno seguito dal momento della sua discesa in campo sino ad oggi (e fanno 17 anni). Se lo fa, si accorge che la sparuta pattuglia di mondo culturale e giornalistico che stava con lui già allora, non è cresciuta. Peggio, è diminuita, perché non pochi dei suoi supporters si sono stufati di essere ignorati – quando non penalizzati o marginalizzati nelle sue stesse aziende - e si sono ritirati nel loro guscio.

Questo, nonostante che Berlusconi sia il più grande editore italiano nel campo della televisione, dei libri e della carta stampata e che abbia seduto a Palazzo Chigi per 9 anni, anche se non consecutivi, controllando un ministero chiave come quello della Cultura, che decide nomine strategiche in tutti gli snodi del mercato culturale italiano, nel senso più vasto.

Bilancio preoccupante, grave, cui dovrebbero fare attenzione soprattutto i suoi collaboratori, quei dirigenti del Pdl che sanno che da qui a qualche tempo dovranno pur fare i conti con la successione del leader carismatico..

Un quadro che risulta ancora più grave – quasi inspiegabile - a fronte della capacità che ha invece dimostrato Fini, nel prendere 4, diconsi 4, intellettuali a lui affini (e ben poco noti), di affidargli la sua Fondazione FareFuturo e di riuscire così a far dominare le acque della politica italiana da un agile battello corsaro che – nel bene come nel male: il nostro è un discorso di tecnici della politica - ha dettato l’agenda degli ultimi mesi.

Lezione preziosa (e dolorosa), che andrebbe studiata a tavolino in via del Plebiscito. (l'Occidentale)

11 settembre, 9 anni dopo: l'Islam non contrasta il terrorismo islamico, questo è il dramma. Carlo Panella

Tutti ricordiamo ogni istante di quel maledetto pomeriggio dell’11 settembre, soprattutto l’orrore sbalordito di quella virata così elegante del secondo aereo per schiantarsi nella seconda torre. In quel momento tutto fu chiaro, ogni illusione non fu più possibile: un attentato. Il più grande, clamoroso, odioso, infernale della storia umana. Però, se proviamo a ricordarci il 12 settembre, il giorno dopo, tutto si sfuma. Un senso corale di sdegno, tutti che si sentono americani, le condanne senza se e senza ma, quell’istrione senz’anima di Arafat che si fa riprendere mentre si va cavare il sangue da donare ai superstiti, l’urgenza di una risposta. L’Islam. Il 12 settembre del 2001 tutto il mondo, capisce che deve fare i conti con qualcosa di terribile che è nata dentro l’Islam, dentro una religione. E qui, il ricordo si fa confuso. Perché il 12 settembre, sin dalle prime ore, solo una piccola parte di leader politici, di analisti, di giornalisti, di coscienze, comprende la terribile complessità del tema: si deve combattere un’atroce organizzazione, completamente ammantata di una veste religiosa. La stragrande maggioranza, invece, esorcizza il tema, si rifiuta di prenderne atto, parla d’altro. Ancora oggi, con Obama che pensa che al Qaida non c’entri nulla con l’Islam e il suo inaffidabile Consigliere per la Sicurezza, Brennan, che sostiene che “non si può fare guerra al terrorismo, perché è una tattica” e pensa che il “Ihioad, sia solo uno sforzo dell’anima e non una guerra santa contro gli infedeli. Quel giorno, il 12 settembre 2001, sottotraccia, inizia il dramma che oggi, nove anni dopo, è divenuto epocale. Perché i primi a rifiutarsi di accettare l’evidenza, le profonde radici islamiche di quella strage furono e sono proprio i musulmani. George W. Bush, con la sua cultura evangelica, ebbe la geniale capacità di afferrare questo nesso e parlò di “Asse del Male”, comprendendo che doveva fronteggiare un nemico che aveva l’Apocalisse come dimensione e come mira. I terroristi islamici di Atocha, la stazione di Madrid, emuli di quelli delle Twin Towers, completarono questa definizione con la loro testimonianza di fede, icastica: “Perderete, perché voi amate la vita; noi amiamo la morte”. Ma il mondo musulmano rifiutò di accollarsi la responsabilità di una paternità religiosa che pure era nei fatti, indiscutibile. E aggiunse a questo rifiuto la viltà. Perché in nove anni mai ha sfidato apertamente il terrorismo, lo ha contrastato, anche ferocemente, ma sempre in modo sotterrraneo. I regimi musulmani hanno epurato moschee e madrasse (quando l’hanno fatto, in Pakistan, invece, le hanno favorite), hanno imprigionato, torturato, ucciso, terroristi. Mai, mai, hanno lanciato una sfida chiara e aperta al terrorismo islamico. Peggio, quando il terrorismo kamikaze colpiva gli ebrei, l’hanno sempre esaltato, aiutato, incensato. Dopo l’11 settembre Arafat fece deflagrare l’Intifada delle stragi e tutto il mondo musulmano dedicava canzoni e trionfi ai kamikaze che uccidevano donne, bambini, vecchi (e anche un superstite dell’11 settembre), non nei Territori Occupati, ma in Israele, sugli autobus, nelle pizzerie, al Delfinario. Questa ambiguità, questo non farsi carico del contrasto del terrorismo islamico da parte degli islamici, si condensa in un dato di fatto inequivocabile: in Afganistan, nella guerra a al Qaida legittimata dall’Onu, in nove anni solo Indonesia, Malaysia e Turchia (stato laico), hanno inviato poche decine di soldati, pro forma; i 53 stati musulmani del mondo invece di essere alla guida del contingente, invece di impegnarsi allo spasimo nel contrasto, sul terreno al terrorismo islamico, si sono dati latitanti. Qui, è la vera ragione delle difficoltà della guerra al terrorismo, in Afghanistan, qui i suoi veri, insuperabili limiti. I soldati americani e europei possono solo stendere uno scudo difensivo, tentare sortite, vincere qualche battaglia. Ma la guerra al terrorismo islamico, quella si può vincere solo se l’Islam si impegna in toto. Putroppo non lo fa. (il Tempo)

venerdì 10 settembre 2010

La vera storia del fuoriuscito del "Delfino". Carlo Priolo

Lungo l’arco di ben 16 anni dalla nascita nel 1994 di Alleanza Nazionale fino alla fusione con Forza Italia Fini è il fedele alleato di Berlusconi. Nasce inizialmente come formazione elettorale composta dal Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale e da altre personalità ed associazioni minori d’area, in particolare, liberale, democristiana e conservatrice come - in particolare - Domenico Fisichella, Giuseppe Basini, Publio Fiori e Gustavo Selva. Il nuovo MSI-AN debutta con la Lista “Alleanza nazionale” alle elezioni politiche del 1994 come alleato di Forza Italia al Centro-Sud per la coalizione del Polo del Buon Governo, e come indipendente al Nord: il partito raggiunge uno storico 13,4 % e diventa forza di governo. In questo modo, per la prima volta, il MSI entra a far parte di un governo, il quale, però, cadrà dopo appena otto mesi. I ministri chiamati a farne parte erano: Giuseppe Tatarella, Altero Matteoli e Adriana Poli Bortone (del MSI), Publio Fiori e Domenico Fisichella per AN. Si consacra la cosiddetta “svolta governista” al partito, allargandolo a cattolici moderati e conservatori, e spingendolo verso il centro destra conservatore e liberale. Alle elezioni del ’96 è il terzo partito italiano, dopo il Partito Democratico della Sinistra e Forza Italia, con quasi 6 milioni di voti e il 15,7%, suo massimo storico. Dopo la caduta del governo Prodi I (ottobre 1998), diventa presidente del Consiglio Massimo D’Alema, il primo ex-comunista alla guida di un governo italiano, episodio che viene visto da AN in maniera negativa, in quanto D’Alema non è stato eletto dal popolo: l’incarico gli viene affidato dal Presidente della Repubblica Scalfaro, dopo aver ravvisato la consistenza di una maggioranza a suo sostegno racimolata soprattutto tra i parlamentari di centro. Per dare una risposta a simili giochi di palazzo, con cui piccoli gruppi sembrano capaci di determinare le coalizioni di governo, e al fine di proteggere il bipolarismo dalle “paludi” centriste, AN si fa promotrice insieme a Mario Segni del Referendum abrogativo dell’aprile 1999, volto ad abolire la quota proporzionale del sistema elettorale Mattarellum, considerata la causa della proliferazione dei piccoli partiti. Nel 2001 AN ritorna al governo, stavolta in maniera più stabile e duratura, in seguito alla vittoria che il centrodestra riscuote alle elezioni del 13 maggio 2001: la coalizione dà origine alla nuova alleanza della Casa delle Libertà, con Berlusconi come premier, e governa l’Italia per i successivi cinque anni (vedi Governo Berlusconi II e III). AN si presenta come il secondo partito della coalizione.

Nel corso dell’azione di governo, AN si contraddistingue nell’elaborazione di una nuova legge, correlata al mondo del lavoro, per combattere e controllare l’immigrazione clandestina, la cosiddetta Legge Bossi-Fini, che prevede l’estradizione dei clandestini dopo un periodo nei Centri di permanenza temporanei. Un motivo di scontro all’interno del partito è provocato dai referendum sulla procreazione medicalmente assistita, che si tengono il 12 e 13 giugno 2005: si tratta di quattro quesiti promossi dai Radicali e da alcuni partiti della sinistra italiana, che chiedono l’abrogazione di alcune parti, che pongono dei limiti all’impiego degli embrioni per la fecondazione e la ricerca scientifica, della legge recentemente approvata in Parlamento. Queste posizioni sui temi etici, come quelle che esprimerà l’anno seguente, di cauta apertura ai diritti delle coppie di fatto, provocano malumori nel partito. La leadership di Fini, nella prima estate del 2005, viene così messa in discussione. La frattura si ricompone all’assemblea nazionale di luglio. Nell’estate dello stesso anno, in seguito alle rivelazioni del quotidiano Il Tempo su una scottante conversazione tenuta da tre “colonnelli” del partito (Altero Matteoli, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri) nella quale Fini veniva fatto oggetto di valutazioni e commenti da lui giudicati irriguardosi, il leader di AN decide di azzerare i vertici del partito per ridurre i pericoli di complotti e di una proliferazione delle correnti (da lui peraltro già dichiarate “sciolte” nel 2004). Al posto dei dirigenti rimossi subentra a far parte della segreteria politica di AN Andrea Ronchi, un fedelissimo di Fini. La frattura tra il leader e i colonnelli tuttavia si ricomporrà col passare del tempo. Nel dicembre 2006, in Alleanza Nazionale si forma la fondazione FareFuturo, un think-tank che, sul modello delle fondazioni conservatrici americane e in particolare su quella di Aznar in Spagna, intende elaborare una politica conservatrice a carattere liberale nella società civile. I rapporti con Forza Italia, intanto, dopo un periodo di grande compattezza, esibita tra l’altro il 2 dicembre 2006 in un’imponente manifestazione contro il governo Prodi, si allentano dopo che Forza Italia aveva risposto con lentezza alle richieste avanzate più volte da Fini di fondare con AN un soggetto unico

L’8 febbraio 2008, alla vigilia delle elezioni politiche anticipate scaturite dalla caduta del Governo, Fini annuncia la fase costituente di un nuovo soggetto unitario al quale AN intende dar vita insieme a Forza Italia e ad altre formazioni minori del centrodestra: il Popolo della Libertà. Il 16 febbraio 2008 Fini ha anche dichiarato che in autunno AN si scioglierà nel nuovo soggetto, a patto che il partito sia concorde. Lo scioglimento avverrà per gradi, e si deciderà alla fine con un congresso nazionale. Dopo essere rimasto alquanto perplesso circa il modo in cui il PdL era nato nel novembre 2007 (all’indomani della cosiddetta “svolta del predellino”), si è poi convinto a farvi aderire AN. L’idea di unificare i due partiti ha riscosso un buon successo alle elezioni del 13 e 14 aprile: il Popolo della Libertà ha ottenuto, come partito singolo, il 38% dei voti, che rappresenta più della somma dei voti che AN e Forza Italia ottennero nel 2006. Alleanza Nazionale riesce ad eleggere nelle liste comuni 90 suoi deputati e 48 senatori. In seguito alla vittoria nelle elezioni politiche, il 7 maggio 2008 AN è tornata al governo con quattro ministri: Altero Matteoli alle Infrastrutture, Ignazio La Russa alla Difesa, Andrea Ronchi alle Politiche Comunitarie e Giorgia Meloni alle Politiche Giovanili. AN accede inoltre per la prima volta ad una delle tre cariche più prestigiose delle Repubblica, ottenendo la presidenza della Camera a cui va Gianfranco Fini. Come conseguenza, Fini ha ritenuto opportuno lasciare la presidenza di Alleanza Nazionale a causa del ruolo super partes che gli viene dal fatto di essere presidente della Camera, pur restando comunque leader del partito. Il suo posto è stato preso da Ignazio La Russa, che in qualità di reggente traghetterà AN verso la nascita del nuovo Popolo della Libertà. Il 21-22 marzo 2009 ha infine avuto luogo il terzo ed ultimo Congresso del Partito, che ha approvato all’unanimità la confluenza nel Pdl e la costituzione di una Fondazione che erediterà nome e simbolo del vecchio partito, oltre al ricco patrimonio immobiliare. Gli uomini di Berlusconi e Fini lavorano insieme, insieme elaborano i programmi, insieme decidono le candidature per le elezioni. Gli uni e gli altri sgomitano per conquistare i posti di prima fila nel partito per ottenere riconoscimenti ed incarichi.

Nel momento della fusione dei due partiti nel nuovo soggetto politico PdL i dirigenti di AN registrano forti perplessità per il motivo che la fusione di due forze di peso diverso normalmente spinge il partito più grande a fagocitare quello più piccolo. I fatti si sono incaricati di dimostrare il contrario. Gli uomini di AN proprio perché il loro partito è più organizzato, più radicato sul territorio, con una antica esperienza di militanza politica dei propri iscritti, diversamente dalle aspettative, conquistano le posizioni di vertice della nuova formazione, si inseriscono stabilmente nella organizzazione territoriale, portano ai vertici degli enti territoriali i propri esponenti più rappresentativi. Tutti gli ex colonnelli di AN si posizionano nei posti di comando della nuova unitaria aggregazione politica. E Fini? Fini si colloca, per sua scelta, nella gerarchia istituzionale dello Stato, ma perde il controllo del suo ex partito e del nuovo, capisce che il futuro potrebbe ridimensionarlo e destinarlo a ricoprire posizioni meno apicali. Si pente della recente unione con Forza Italia, di aver liquidato An dove era l’indiscusso leader, avverte che i suoi colonnelli non hanno più bisogno del capo carismatico, in quanto sanno bene camminare da soli ed allora tenta l’unica carta rimasta: uscire dal partito, formarne uno personale con i pochi che l’hanno seguito e cercare alleati in aree che non gli appartengono. Ha fatto un vero pasticcio….ai posteri l’ardua sentenza. (l'Opinione)

venerdì 3 settembre 2010

Liberté, egalité, contratto in esseré. Christian Rocca

La comica campagna di coscienza "autorial-fiscale" contro le case editrici del Cav, condotta sul giornale il cui editore, il cui fondatore e le cui principali firme scrivono libri e incassano dalle case editrici del Cav, si arricchisce di un altro elemento mica male: il fomentatore della protesta, il teologo Vito Mancuso, oggi risponde ai suoi critici (quasi tutti big di Repubblica con contratto Mond.). "Cari amici, preferisco la giustizia" è il titolo. Mancuso spiega che "l'autore ha il dovere di chiedersi la correttezza etica della sua editrice e si deve chiedere a quali investimenti contribuisce con il profitto generato dalle vendite delle sue opere" (valesse la reciprocità, cioè se l'editore si chiedesse a quali investimenti contribuisce con gli anticipi accordati agli autori, vivremmo in un paese illiberale – ma provare a spiegarlo a quelli di Rep. è impossibile). Libertà e democrazia. Coscienza e principi prima di tutto, quindi. Prima di tutto tutto, però no. Prima ci sono gli anticipi da riscuotere: "Quando avrò concluso il volume per il quale ho un contratto in essere con la Mondadori – ha concluso il teologo – tirerò le conseguenze di tutto questo ragionamento". (Camillo blog)