martedì 27 luglio 2010

I pupi. Davide Giacalone

La politica mette in scena l’opera dei pupi, marionette che traducono i poemi cavallereschi in un susseguirsi concitato d’amori struggenti, minacce devastanti e gran clangore di spade. Ora l’uno ora l’altro finiscono infilzati o decapitati, per riprendere il proprio posto nella rappresentazione successiva. La politica d’oggi somiglia a questa recita perché non si ha il coraggio di riconoscere il vero problema, che non è quello delle correnti e neanche della condotta governativa. Il fatto è che viviamo, da sedici anni, in un ibrido che non ha mai funzionato, né con la destra né con la sinistra. Un centauro al contrario: non come il mito greco, dell’animale con il corpo da cavallo, ma torso e testa d’uomo, possente e intelligente, ma il contrario, un bipede gracile con il testone nitrente.
Gianfranco Fini non è il problema, ma il suo frutto (come lo furono altri). Il punto critico, dal quale nessuno può prescindere, si concentra nel fatto che il nostro sistema elettorale (come anche quello precedente, il mattarellum) non è coerente con il sistema costituzionale. Quindi: prima si vota e poi si procede a disfare quel che gli elettori hanno creato.
Lanciare proclami contro le “correnti” non serve a niente, come dimostrano questi due quesiti: a. è lecito avere idee diverse, pur essendo all’interno di un medesimo partito? b. se si hanno idee diverse, è lecito lavorare perché si affermino? Le risposte sono, ovviamente, affermative. In un sistema istituzionale e politico in cui il premier è davvero molto forte e potente, quello inglese, non solo nei partiti ci sono le correnti, ma il capo del governo (come è successo a Tony Blair e Margaret Thatcher) può essere messo in minoranza e cacciato dal proprio partito, senza attendere le elezioni. In quel sistema, però, la democrazia interna ai partiti s’intreccia con l’autonoma rappresentatività di ciascun parlamentare, eletto in un collegio uninominale e maggioritario. Da noi capita il contrario: nei partiti (tutti, non prendiamoci in giro, che ce ne sono anche con il nome del proprietario) c’è scarsissima democrazia e i parlamentari discendono dalla volontà dei capi.
Guardate le gran polemiche di questi giorni, il vociare dei pupi nel mentre fan cozzare le corazze: quasi nulla riguarda l’azione di governo. Litigano su tutto, insultandosi fino a darsi del delinquente e del mafioso: questione morale, P3, intercettazioni, diritto stesso al dissenso. Ma non sull’azione di governo, sulla quale, anzi, ci tengono a far sapere che l’esecutivo deve andare avanti. Il candore di una simile insensatezza tradisce la forza reale che crea il subbuglio: c’è un’Italia, vasta, che pretende rabbiosamente di non essere governata. Da chiunque. Chiede di avere sostegni e difesa dei privilegi, ma non vuole essere governata. Ed è questa la forza che, di volta in volta, usa un galletto interno alla maggioranza per portare scompiglio nel pollaio.Anche questo, però, non è né strano né, in sé, pericoloso. Succedente pure in altre democrazie. La nostra scricchiola perché la sua architettura istituzionale era consustanziale al sistema elettorale proporzionale e all’esistenza di partiti con le correnti. Non intendo dire che si deve tornare a quel sistema (non credo neanche sia possibile), semmai che si deve cambiare l’architettura.
L’attuale sistema elettorale consegna ai capi dei partiti il potere di scegliersi i parlamentari. Che il criterio sia estetico, anagrafico, relativo alla disponibilità (umana e intellettuale), alla bella voce o all’umidità della lingua, cambia poco. Anzi, non cambia niente. Quando i signori dell’Espresso raccontano la carriera delle farfalline berlusconiane esercitano il classico moralismo senza etica della faziosità senza idee, perché si può benissimo fare la medesima disamina sia dall’altra parte che con l’altro sesso. Ma questo sistema elettorale chiede ai capi dei partiti una sola cosa: visto che vi siete assegnati il premio di maggioranza, visto che i parlamentari non sono stati eletti da nessuno e una quota di loro siede in Parlamento solo perché il gruppo che li ha candidati raccoglie la maggioranza relativa dei voti, avete l’obbligo di arrivare alla fine della legislatura esattamente come ci siete entrati. L’obbligo, perché con un sistema come questo va in cortocircuito il tragitto che la Costituzione segna per potere cambiare governo. Ecco, questa è l’unica cosa che si chiede, ed anche quella di cui non sono capaci. Né gli uni né gli altri.
In queste condizioni, se non si vuole scassare tutto, si deve avviare il cantiere della riforma costituzionale (quella vera, non quella propagandistica) e si deve o trovare una tregua o tornare alle urne. Ciò richiede una classe politica composta da gente dotata di responsabilità e non dedita al trasformismo più sfrenato. Da uomini, non da pupi. La porzione di forza di ciascuno, se non si vuole avvelenare la democrazia, non può che discendere dalla quota elettorale raccolta. Gira e rigira, questo è il punto dolente: ci sono apparati, istituzioni, gruppi e interessi che non hanno nessuna intenzione di riconoscere ai soli elettori il diritto di decidere, anzi, si sentono in dovere di correggerne gli indirizzi, che considerano plebei e infantili. Questo è il mare che tiene a galla i pupi.

lunedì 26 luglio 2010

E' ora che il "sistema Paese" smetta di versare lacrime da coccodrillo. Giuliano Cazzola

Ci risiamo con la Fiat. Dopo aver riorganizzato il gruppo predisponendo che, da ora in poi, il settore dell’auto vada per suo conto in giro per il mondo, in autonomia dalla famiglia, e diventi sempre più una public company di governance e di respiro internazionali, l’ad Sergio Marchionne ha lasciato tutti di stucco annunciando che la "monovolume" si farà in Serbia, dove il sindacato è più serio di quello italiano (ma esiste un sindacato in Serbia ?).

Le parole di Marchionne hanno suscitato le solite reazioni di casa nostra. A Torino si sono subito preoccupati per il destino di Mirafiori, tanto che - con il solito riflesso condizionato, sempre più assurdo - i lavoratori hanno scioperato.

La Cisl e la Uil si sono risentite per essere state genericamente accomunate in un giudizio severo sul sindacato italiano che, a loro avviso, non teneva ingenerosamente conto del loro impegno a risolvere i problemi, come avvenuto ultimamente a Pomigliano d’Arco.

La Fiom, nell’imbarazzo della Cgil, ha trovato un’ulteriore conferma della sua delirante strategia secondo la quale basterebbe scioperare di più per costringere la Fiat a restare e ad investire in Italia.

Intanto, il ministro Sacconi ha convocato le parti predisponendo l’agenda dell’incontro sulla base di una premessa di buon senso: prima di fasciarsi la testa è meglio aspettare di essersela rotta.

Anche il sindaco Sergio Chiamparino si è mosso sulla medesima linea del ministro, prendendo direttamente contatto con Marchionne ed accertandone la disponibilità a farsi carico dei problemi di Mirafiori. Si tratta, infatti, di sottoporre a verifica il piano denominato "Fabbrica Italia" rendendolo il più possibile compatibile con gli impegni internazionali del gruppo. La questione non può essere affrontata contrapponendo gli insediamenti all’estero a quelli in Italia. Un’azienda multinazionale deve articolare la sua presenza sul mercato globale, utilizzando ogni possibile convenienza offerta dalle politiche fiscali degli Stati e dal costo del lavoro della manodopera. Avere un’equilibrata presenza sui mercati internazionali – a costi concorrenti e competitivi – è anche una garanzia per la stabilità delle produzioni italiane. Del resto, che fosse all’esame un investimento in Serbia non era un segreto.

Nel confronto con la Fiat si dovrà preliminarmente verificare la compatibilità tra lo spostamento (e in quale misura?) della produzione della monovolume in Serbia e la saturazione degli impianti a Mirafiori, al di fuori della retorica sul significato della lettera "t" posta alla fine della ditta (che, come si sa, è il nome dell’impresa). Poi, gran parte del sistema Paese deve smetterla di versare lacrime da coccodrillo.

E’ tempo, invece, di riflettere sull’atteggiamento con cui l’establishment mediatico e culturale del Paese ha seguito e commentato una delle più importanti iniziative di politica industriale degli ultimi vent’anni: l’investimento di 700milioni a Pomigliano d’Arco.

In sostanza, la vicenda dello stabilimento Giambattista Vico è stata riassunta nel seguente interrogativo: è giusto rinunciare ai diritti in cambio di lavoro? Sulla base di questa rappresentazione fasulla della realtà i sindacati favorevoli all’intesa sono apparsi come succubi del "padrone" e i lavoratori che hanno votato sì come i soliti replicanti del vizio italiano del "tengo famiglia". La solfa dei diritti (addirittura di rango costituzionale) calpestati mediante il "vile ricatto" del lavoro è stata avallata da fior di giuslavoristi, quegli stessi che nelle Università insegnano ai nostri figli e preparano gli operatori del diritto di domani. In particolare, si è sostenuto che l’accordo conculcava il diritto di sciopero. Per sostenere questa tesi si è arrivati a teorizzare l’astensione dal lavoro come un diritto individuale indisponibile, inalienabile e assoluto, ben al di là di quanto dispone l’articolo 40 Cost.

In sostanza, il manager di un’azienda che negli Usa dialoga con Barack Obama, da noi è stato accusato di tentazioni schiavistiche, nel momento in cui si impegnava ad investire in uno stabilimento e in un’area del Sud dove tante sono le criticità.

Certamente, Marchionne è un "duro", un manager cresciuto ad una scuola dove s’insegna a non guardare in faccia a nessuno quando sono in gioco gli interessi del business.

Il sistema Italia preferisce i manager delle partecipazioni statali che elargivano emolumenti fuori mercato e mantenevano in vita posti di lavoro finti, magari riempiendosi la bocca di concetti come "politica industriale", "concertazione", "piani d’impresa" e quant’altro. Quei manager hanno lasciato dietro di sé una lunga fila di stabilimenti chiusi dopo aver dilapidato immense risorse pubbliche. L’ultimo esempio di quell’andazzo è stata l’Alitalia, la cui salvezza, nel tempo, costerà al Paese come una manovra finanziaria. (l'Occidentale)

giovedì 22 luglio 2010

L'eroismo di Mangano e l'ipocrisia dei finiani. Giancarlo Perna

Siamo in pieno tormentone su «Mangano eroe». Vittorio Mangano è un mafioso pluriomicida, morto da un decennio, che negli anni ’70 - prima di farsi assassino - fu stalliere ad Arcore. A dargli dell’eroe, a più riprese, è stato Marcello Dell’Utri per suoi personalissimi motivi. Ogni volta che lo dice si scatena la corsa per prendere le distanze dal recidivo senatore. È diventato un gioco di società. Se vuoi il lasciapassare tra le élite democraticamente corrette devi dire scandalizzato che no, Mangano non è un eroe, ma un mafioso assassino che merita la damnatio memoriae. L’ultimo che si è piegato al rito popolare è stato Gianfranco Fini alla commemorazione palermitana di Paolo Borsellino nel diciottesimo anniversario della strage. In sostanza, «Mangano eroe» è una cartina di tornasole. Se neghi a gran voce l’eroismo come Fini, sei promosso e applaudito. Se invece taci o azzardi un «ma», sei fuori dal consorzio umano.
Quello che colpisce in questa semplificazione è che tanti fingono di non capire quello che Dell’Utri ha veramente voluto dire. Si tappano le orecchie e ottundono i cervelli per accreditarsi antimafiosi a 24 carati e ostracizzare il senatore. Eppure la cosa è semplicissima. Dell’Utri è grato al mafioso, e ci tiene donchisciottescamente a farlo sapere, per la lealtà che ha dimostrato nei suoi confronti. Già condannato all’ergastolo e roso da un cancro terminale, Mangano ha rifiutato di dire ai magistrati, che glielo chiedevano con insistenza, la magica parolina secondo cui Dell’Utri e, per li rami, il Cav, fossero due coppole. Se ne avesse fatto i nomi, Mangano sarebbe tornato a casa per morire nel suo letto risparmiandosi le sofferenze della malattia in cella. Invece, pur di non mentire, non è sceso a patti ed è morto male. In questo atteggiamento, il senatore ha visto dell’eroismo. Si può discutere la parola, ma non negare l’abnegazione e, nella circostanza, il senso di verità dell’ex stalliere. Tra i Pm che volevano fargli dire il falso profittando della malattia e il rifiuto di Mangano a cedere, il meno prossimo all’inferno è lui.
Chiariamo. Dell’Utri non considera il defunto un eroe in generale ma - come ha precisato - «il mio eroe». Non ne ha lodato la carriera criminale, i furti, le estorsioni, gli omicidi. Ha solo reso omaggio al gesto estremo, il migliore di una vita sciagurata, in cui - una volta tanto - il mafioso ha preferito non danneggiare altri piuttosto che incassare per sé un vantaggio.
Da parte del senatore un atto di liberale umanità. Sapere riconoscere alcune virtù anche in chi è pessimo, è prova di intelligenza laica. Solo una mentalità medievale vede nel peccatore il male assoluto a prescindere. La realtà è diversa. Tra i filibustieri c’è chi è perfido sempre e chi ha lampi di riscatto. Differenziare è prova di razionalità. Se Mangano, al complesso dei suoi delitti, avesse aggiunto la menzogna su Dell’Utri e Berlusconi, sarebbe stato peggiore di quanto era già stato. Perché non dirlo anche a costo di una forzatura semantica in favore di un delinquente incallito?
L’appellativo di eroe si riserva in genere agli uomini nobili, ai coraggiosi, ai cavalieri senza macchia. Talvolta però, presi dall’enfasi, i politici si allargano. Di recente, il vetero comunista Nichi Vendola ha anche lui assunto nell’empireo degli eroi, Carlo Giuliani, il ragazzo del G8 di Genova che, prima di essere ucciso, scaraventò una bombola di estintore sulla testa di un carabiniere. E che dire dell’eroicizzazione e dello spreco di elogi per Adriano Sofri, definitivamente condannato per l’omicidio Calabresi? Se la sinistra trova dei motivi per innalzare le figure complessive di questi scialbi campioni, perché fa fuoco e fiamme se Dell’Utri esalta il gesto di lealtà - e quello solo - del mafioso in punto di morte? Per il solito e logoro motivo: ciò che ritiene legittimo per sé diventa un abominio se è fatto da altri.
La tecnica ex comunista è sempre la stessa. Demonizzare quello che, di volta in volta, è il suo nemico. Adesso sono la mafia e i berlusconiani. Due mondi distantissimi ma che, grazie ai polveroni alzati e mai diradati dalle toghe, sono stati accomunati. La frase di Dell’Utri, volutamente equivocata, è presa a pretesto per «mascariare» il senatore, il Cav e la sua cerchia. Con un triplice effetto: annichilire l’avversario, accreditarsi come puri, far passare chi non si allinea - perfino nel linguaggio - per mammasantissima.
La complicità dei finiani non stupisce. Mettersi nel solco della sinistra è un’assicurazione sulla vita. Nelle piazze, nei tribunali, con la stampa. È comunque singolare che uomini che hanno sofferto sulla propria pelle l’ottusità dell’ostracismo usino oggi gli stessi sistemi. Ci fu un tempo in cui essere fascisti, neofascisti o solo neutrali non dava scampo. I missini erano subumani e - si diceva - «uccidere un fascista non è reato». Ai saloini - i ragazzi di Salò - non si riconoscevano né ragioni, né ideali. Erano irredimibili e, alla stregua di Mangano, rinchiusi per sempre nel girone infernale. Inconcepibile che un missino avesse un’anima, un sussulto, un lato decente. Era fascista e basta. Come un mafioso è un mostro, a meno che non collabori, un missino si salvava solo con l’abiura e il rinnegamento di sé. A nulla valeva che fosse galantuomo, generoso, rispettoso delle leggi. L’etichetta prevaleva su tutto. O sei antifascista dichiarato o sei fascista. E per essere antifascista non potevi neanche essere liberale o dc. Dovevi per forza stare a sinistra.
La novità è che ora, in tema di mafia, i finiani fanno agli altri quello che fu fatto a loro. O te la prendi con Dell’Utri e urli che Mangano non è un eroe o sei reietto. L’esempio è Fabio Granata. Più zelante di Di Pietro, il noto immobiliarista, l’ex rautiano si è trasformato in buttafuori nella cerimonia per Paolo Borsellino, stilando un elenco di indesiderati. «Sarebbe bello - ha detto - non dovere scorgere qualche presenza stonata: ...chi ha appassionatamente solidarizzato con condannati per mafia (chi di grazia?, ndr), esaltatori di mafiosi eroici (Dell’Utri, ndr), ecc... Tutti questi hanno perduto per sempre il diritto di parola». Fantastico. A Granata per decenni hanno messo la mordacchia perché fascista. Ora, che con Fini è entrato nel salotto buono, la mette lui. Come dire: la voglia di menare il manganello è dura a morire. (il Giornale)

martedì 20 luglio 2010

Professione fratello. Filippo Facci

In effetti è strano. L’altro ieri - alle 9 del mattino di una domenica di luglio, con il solleone che già spaccava le pietre e marciava verso i 40 gradi, con il mare e le spiagge che attendevano frementi - la società civile di Palermo non ha avuto l'insopprimibile desiderio di accalcarsi in una marcia in salita di due ore diretta al castello di Utveggio sul Monte Pellegrino, e questo nonostante a calamitare la ressa ci fosse un comizio del fratello di Paolo Borsellino. É inspiegabile. C'era il fratello ma neppure la sorella, Rita. A meno che sia tutta «disinformazione strumentale alla fiaccolata della destra» come ha denunciato Salvatore Borsellino: i giornali infatti hanno scritto che c'erano al massimo 100 persone, ma - ha precisato lui - in realtà erano almeno 200. Tutti a sventolare la spettacolare cazzata dell'«agenda rossa di Paolo Borsellino», questo mito che non si sa neppure se esista, se il magistrato l'avesse con sé quando fu ucciso, se fu trafugata o solo persa, se ci fossero su appunti giudiziari o la formazione della Lazio, niente, zero, aria: eppure l'hanno fatta diventare «la scatola nera della Seconda Repubblica» (Marco Travaglio) o bene che vada «il motivo per cui Paolo è stato ucciso» (Rita Borsellino). Marce, manifestazioni: tutta roba che va comunque incoraggiata. L'immensa folla delle agende rosse, domenica, ha osservato un minuto di silenzio: deve osservarlo ancora. E ancora. E ancora. (Libero)

La P3 è una montatura ma scoperchia la casta della magistratura. Tiziana Maiolo

Se avessero intercettato un po’ di esponenti politici di sinistra nel periodo in cui a Milano sono stati nominati Edmondo Bruti Liberati (di Magistratura democratica) alla carica di Procuratore capo e Alfonso Marra a quella di Presidente della Corte d’appello, gli inquirenti ne avrebbero sentite delle belle. Avrebbero seguito in diretta tutta quanta la trattativa. Politica.

Qualche magistrato romano potrebbe anche venire a fare una passeggiatina nei corridoi del palazzo di giustizia di Milano, dove anche i pregiati marmi degli anni trenta hanno occhi, orecchie e anche bocca. E parlano, oh se parlano. E dicono che, come è sempre accaduto, anche quelle due nomine sono state il frutto di uno scambio politico. Noi vi votiamo Bruti, voi ci votate Marra. Uno di destra, uno di sinistra. E allora?

Non c’è bisogno di smascherare “cricche” o risibili P3 per sapere che la casta-magistratura, divisa in correnti sindacali agguerrite e spesso tra loro feroci più di quelle dei partiti, è un organismo politico.

Della politica rispecchia le ideologie (ormai un po’ sbiadite anche tra i magistrati ), della politica ha il cinismo e anche l’abitudine all’intrallazzo. Qualcuno può credere che quando vengono nominati a importanti ruoli dirigenziali i magistrati di sinistra non ci siano telefonate e trattative politiche? Che molti magistrati non abbiano anche più o meno espliciti contatti con esponenti di partito? Nella società delle corporazioni non esistono vergini.

Allora, se il Csm dovesse decidere il trasferimento del presidente Marra, applichi almeno quel sano principio che dice simul stabunt, simul cadent e trasferisca anche Bruti Liberati.

Ma la cosa migliore, la più saggia sarebbe che restassero ambedue al loro posto. Con quel sano realismo politico di cui certo non difettano gli stessi esponenti del Consiglio superiore. A partire dal vice presidente Mancino, che conosce (e non lo nega) da quarant’anni il signor Lombardi, uno degli arrestati per la fantomatica P3, e non nega neppure il fatto che quest’ultimo gli abbia parlato ben due volte della posizione del dottor Marra. Ma dichiara sprezzante “ma volete che io dessi retta a un geometra?” Ora le questioni sono due: la prima è che Mancino Marra l’ha votato (sicuramente perché se lo meritava) e la seconda che Lombardi geometra lo è sempre stato. Oppure quando lo frequentava negli ambienti democristiani Mancino, Lombardi aveva tre lauree e solo dopo, quando ha cominciato a frequentare esponenti del centro destra è diventato geometra?

Tutta questa storia del coinvolgimento di magistrati in un’inchiesta che comunque fa acqua da tutte le parti puzza molto di resa dei conti nelle mura dei palazzi di giustizia. I magistrati di sinistra affilano le armi e cercano di buttar fuori gli altri. C’era stato a Roma un unico magistrato “rosso”, Francesco Misiani (che purtroppo non c’è più) che aveva avuto il coraggio di denunciare quel che succedeva nella sinistra in toga. Poi il silenzio. E la guerra continua sempre nello stesso modo, con le intercettazioni e le inchieste.

Le radici di quel che sta succedendo oggi, sono antiche. Hanno origine nel concetto stesso di magistratura, una casta privilegiata e corporativa disposta a tutto (scioperi, manifestazioni, interviste a go-go) purché non si cambi nulla del loro status quo.

Non lo stipendio (generoso) non i ruoli. Eppure se anche nel nostro ordinamento, come nei paesi di diritto anglosassone, esistessero solo i giudici, la casta sarebbe già sgretolata. E la dialettica sarebbe tutta spostata nella competizione tra avvocati dell’accusa e avvocati della difesa. E sarebbe processuale più che politica.

Purtroppo di queste riforme radicali, come anche dell’abolizione della finta obbligatorietà dell’azione penale, dell’abolizione dei reati associativi (che servono ad arrestare senza che ci siano fatti criminosi) e altre cosucce del codice Rocco non si parla più. E in ogni caso non si riuscirebbe a realizzarle, perché partirebbero i cannoni della casta-magistratura, appoggiata dalla sinistra e dagli sfasciacarrozze del presidente Fini.

Così finirà che i conti interni alla magistratura metteranno ai margini persone per bene come Marra (o some il procuratore aggiunto di Milano Nicola Cerrato), poi l’inchiesta sulla presunta P3 finirà in niente (a scommetterci sopra ci sarebbe da diventare ricchi), ma intanto il risultato politico sarà stato raggiunto. (l'Occidentale)

giovedì 15 luglio 2010

Gli impegni di Bersani. Orso Di Pietra

La notizia che più ha colpito nella giornata di ieri non è stata quella sulla retata dei trecento affiliati alla ’ndrangheta arrestati non in Aspromonte ma in Lombardia. Neppure quella della totale indifferenza con cui la libera stampa nazionale ha reagito alla sentenza con cui magistrati milanesi hanno definito il generale Ganzer un narcotrafficante ed alla decisione dei vertici della Benemerita e del governo di confermare fiducia e ruolo all’alto ufficiale. Non parliamo poi della stretta di mano a Trieste di Napolitano con i suoi colleghi presidenti di Croazia e Slovenia che non ha minimamente scosso nessuno. E tanto meno del calo di consenso di Obama o della nave libica guidata dal figlio di Gheddafi che cerca rogna con gli israeliani. La notizia con la scossa è che Pierluigi Bersani, in visita negli Stati Uniti, ha esaurito il tradizionale shopping tra la Quinta Strada e la Madison, effettuato il giro in battello di Manhattan, salutato la statua della Libertà ed, infine, è andato al cimitero di Arlington a visitare le tombe dei fratelli Kennedy. Insomma, ha avuto ciò che in Italia non gli capita mai di avere: una giornata ricca di impegni! (l'Opinione)

mercoledì 14 luglio 2010

Zero, ovvero il peso specifico del Pd. Filippo Ferri

La fine della cosiddetta Prima Repubblica non ha significato soltanto la fine dei partiti, ma anche la fine delle idee, la fine della politica. Quel momento di crisi ha generato un vuoto che ancora non è stato colmato. Ne è controprova l'imbarbarimento culturale della classe politica e la degenerazione dei toni del dibattito politico, ridotto sempre più a uno scambio di insulti e accuse, o a un insieme di "chiacchiere da bar". La verità è che il dibattito politico - come veniva inteso una volta - oggi non esiste più. Questo male assoluto affligge tutte le formazioni politiche. Anche la Lega Nord ne è afflitta, ma è quella che ne patisce meno, grazie alla sua ottima ramificazione territoriale e al suo pragmatismo, spesso rozzo, ma efficace perché di grande impatto sui cittadini. L'Italia dei valori fa dell'antipolitica il proprio manifesto, e pertanto se ne giova; si tratta, però, di un serbatoio che prima o poi si esaurirà - è inevitabile - e allora il partito dell'ex poliziotto dovrà fare i conti con la propria inesistenza politica o, in alternativa, con la propria natura fascistoide. Anche il Pdl è afflitto dal "vuoto delle idee"; pur essendo da quella parte, non nascondo che spesso rabbrividisco di fronte alla povertà intellettuale di alcuni esponenti - anche di spicco - del partito del Cavaliere. Tuttavia, il Pdl, in questo senso, è salvato soprattutto dalla presenza dei riformisti, gli unici in grado di esprimere un indirizzo politico chiaro e riconoscibile. Il partito, però, che in assoluto è più colpito dalla "nullità politica" è il Partito democratico: rifugio degli ex comunisti mai pentiti e dei cattolici illiberali, il Pd è il "partito del nulla", politicamente inteso. Non ha la legittimità storica e politica di chiamarsi socialista o socialdemocratico, né la capacità di dettare una linea alternativa credibile. Un episodio emblematico è accaduto in queste settimane di protesta contro la legge sulle intercettazioni. Uno slogan va di gran moda tra i manifestanti, in particolare tra quelli del Pd: "Intercettateci tutti". Solo una mente seriamente compromessa dall'odio ideologico o personale può partorire un simile abominio. Solo degli individui d'infinita ignoranza e di spaventosa inciviltà possono pronunciare tale slogan. "Intercettateci tutti" è una delle frasi più incolte e contrarie alla Costituzione che l'opposizione abbia mai inventato. E soprattutto è una frase antidemocratica come poche. Essa svela la vera natura che già abbiamo compreso dell'Idv e mette a nudo il peso specifico del Partito democratico: zero. Come fanno i giovani che aderiscono al partito di Bersani a non rendersi conto dell'imbarazzante assurdità del loro comportamento? Come è possibile chiamarsi "Partito democratico", e allo stesso urlare "intercettateci tutti", lo slogan più dittatoriale che esista? Questa gente vorrebbe per caso una nuova Ddr, o una nuova Urss, o un nuovo Reich, dove la Stasi, il Kgb, la Gestapo ascoltavano e spiavano tutto e tutti? La loro contraddittorietà è talmente macroscopica da generare ilarità e scherno. La verità è che questa è la miserevole situazione della "sinistra" (che "vera" sinistra non è!) italiana: i relitti di ideologie sconfitte dalla Storia, che meschinamente hanno tentato di vincere con vie antidemocratiche e che anche così hanno fallito, sono confluite in un soggetto senza tradizione, senza cultura, senza identità. Si chiamano democratici, ma non lo sono. Si dicono di sinistra, ma provate a chiedere loro cosa significhi e vi risponderanno o con un'idiozia da salotto tv, o con un fantasma comunista, o con l'odio per Berlusconi. In natura qualsiasi corpo, per quanto piccolo, ha pur sempre un "peso specifico"; il Pd non ne ha, perché, politicamente, non esiste. E solo l'accozzaglia informe di spettri di epoche ormai trascorse, di opportunisti che devono il loro successo al periodo più buio della storia d'Italia (che essi stessi hanno contribuito a provocare), di "uomini nuovi" senz'arte né parte. E necessario, in questa situazione desolata e desolante, tornare alla politica. Urge un ritorno alle idee di giustizia e di pace sociale, di pari opportunità e di meritocrazia, di eguaglianza e di libertà. Chi crede veramente in queste idee - e può fregiarsene per discendenza storica e politica - ha il dovere di dare ad esse nuova vita e di promuovere un ritorno alla dialettica, al dibattito, al discorso politico. L'Avanti! non ha mai smesso di farlo. Gli amici che si riconosco nelle nostre idee non possono sottrarsi a questo dovere. Bisogna rinnovare la politica - che altro non è se non l'arte del vivere assieme - e i socialisti, ovunque siano e comunque si chiamino, sono tra i pochi che possono colmare il "vuoto delle idee" con la loro (la nostra) storia e con la nostra identità, mai tradita e mai dimenticata; e soprattutto mai barattata per inesistenti "feticci democratici". (l'Avanti)

L'Onu ha scoperto un nuovo diritto: quello delle intercettazioni

Nel caravanserraglio che dal popolo viola arriva ai post-it di Repubblica, mancava un mattatore capace di ravvivare la fiamma dell’antiberlusconismo su scala planetaria. Puntuale il mangiafuoco è arrivato e risponde al nome di Frank La Rue, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di espressione. "Il governo italiano – ha sentenziato La Rue incurante della nostra sovranità nazionale – deve modificare o abolire il progetto di legge sulle intercettazioni", perché, "se venisse adottato nella sua forma attuale può minare il godimento del diritto della libertà di espressione in Italia".

L’uomo dell’Onu si dice "consapevole" delle "implicazioni che la pubblicazione delle informazioni intercettate possono avere nel processo giuridico o nel diritto alla privacy" e auspica un "dialogo significativo" tra il governo e tutte le parti interessate, dichiarandosi pronto a "fornire assistenza tecnica per garantire che il provvedimento rispetti gli standard internazionali sui diritti umani".

Visto che le parole di La Rue, com’era prevedibile, si sono rivelate una manna dal cielo per l'opposizione, è opportuno verificarle una per volta. Primo, l’onusiano non ci sembra granché “consapevole” del fatto che non esiste un legame di sangue tra la libertà di espressione e i paletti (che non sono un divieto assoluto) imposti al regime delle intercettazioni. Se domani questo giornale decidesse di pubblicare l'epistolario privato fra La Rue e la sua consorte e una legge ce lo impedisse sarebbe un attentato alla libertà di espressione o un modo spregevole di turbare la sua privacy? D'altra parte, come ha evidenziato seccamente il ministro Frattini, "in tutti i paesi liberali e democratici del mondo non è consentito divulgare prima della sentenza definitiva atti che devono restare segreti".

Secondo, quando La Rue chiede "più dialogo" al governo dimentica che ormai sono due anni che il ddl intercettazioni passa dalla Camera al Senato, e che alla discussione in aula si sono aggiunte le audizioni in Commissione Giustizia, dove si è ascoltato il parere, per esempio, dei magistrati. Come pure forse non è informato del fatto che si stanno valutando e votando una serie di emendamenti che vanno incontro alle perplessità del Colle e hanno lo scopo di trovare un punto d’equilibrio fra il diritto alla riservatezza garantito dalla Costituzione, l’azione della magistratura e la libertà di stampa. (Uno degli emendamenti potrebbe rivedere al ribasso la “punizione” inflitta a quegli editori che pubblicano materiale intercettato, che per La Rue è una pena “sproporzionata al reato”.)

In conclusione, rispondiamo con un cortese “no, grazie” alla sua offerta di trasferirsi per qualche mese in Italia come consulente del governo sulla questione della libertà di espressione. La Rue deve aver confuso il nostro Paese con il Guatemala, lo stato dell’America Centrale in cui ha fatto carriera negli anni scorsi battendosi (giustamente) contro i bavagli (quelli veri) imposti dai governi locali a giornalisti che in quelle latitudini rischiano davvero grosso. Resti pure da quelle parti, insomma, e saremo noi i primi a offrirgli la nostra consulenza. In caso contrario, potremo dire che ci mancava solo lui per finire di screditare l’enorme carrozzone delle Nazioni Unite. (l'Occidentale)

martedì 13 luglio 2010

Blog e regime. Christian Rocca

Massimo Bordin, nella conversazione settimanale con Marco Pannella, ha riconosciuto che a dare la notizia delle sue dimissioni da direttore di radioradicale per dissidi con Pannella (che dovevano restare nascoste ancora per un po') è stato questo blog, nella tarda mattinata di venerdì.
Il Corriere ha preferito non ricordarlo, il giorno successivo.
PS
Non perdetevi la conversazione di domenica, dove Pannella e Bordin provano a spiegarsi. Cominciate dal minuto 57, fino alla fine, un'ora e venti dopo. Altro che finale di Coppa del mondo. (Camilloblog)

mercoledì 7 luglio 2010

Da detenuti a soldati del jihad, ora in cella l'islam fa paura. Ida Magli

Fra i tanti problemi posti dall’eccessiva presenza in Italia d’immigrati, uno dei più difficili da risolvere è quello dell’alto numero di musulmani nelle carceri. Si tratta di molte migliaia di persone che si trovano a vivere una delle esperienze più dolorose, quale appunto quella della privazione della libertà, in un ambiente dove non si parla la loro lingua, dove non possono condividere col compagno di cella né ricordi del passato né progetti per il futuro; dove, insomma, la “estraneità” della terra d’origine, della patria, della religione, dei costumi, dei sentimenti, delle abitudini quotidiane, già tanto forte all’esterno, assume in un certo senso una dimensione “essenziale”. Soltanto se si fa lo sforzo di comprendere quest’aspetto del vissuto carcerario dei musulmani, si può rendersi conto di come la scoperta, o la riscoperta della devozione religiosa, attraverso le cure che in tal senso porgono loro i più solerti compagni, divenga un legame e una forza di salvezza.

Di fatto è stato organizzato un sistema di recupero al Corano nei confronti dei prigionieri, anche di quelli più lontani dall’osservanza della fede, cosa che senza dubbio aiuta psicologicamente le singole persone, specialmente quando sono state trascinate nella criminalità del furto o della droga dalla mancanza di un qualsiasi ordine di vita e di lavoro. Ma soprattutto le spinge a trovare un nuovo centro d’interesse e una guida concreta proprio perché il Corano non è soltanto un testo sacro, quanto un codice simultaneamente civile e religioso; una voce che dice al credente come Dio gli indichi una strada sicura nella quale non sarà mai lasciato solo purché sia fedele alle preghiere e ai precetti quotidiani. Questa, però, è soltanto una premessa a ciò che sta diventando una forma di organizzazione disciplinata e attenta di molti degli immigrati musulmani che, proprio perché selezionati fra quelli meno integrati in Italia e già predisposti alla devianza come i prigionieri, possono più facilmente diventare portatori di un’esasperata volontà di riscatto islamico, ed eventualmente anche eversiva. In altri termini, non è inverosimile supporre che si stia sviluppando una forma di vero e proprio indottrinamento dei prigionieri che porti, attraverso la maggiore fedeltà al Corano, al recupero della forma più radicale d’identità musulmana, quella che non ammette l’esistenza di “infedeli”, i quali vanno combattuti e vinti in nome di Allah.

E’ questo un aspetto nuovo delle difficoltà che l’immigrazione pone agli Italiani. Lontani come sono ormai in grande maggioranza da una fede che li induca alla battaglia, i cattolici non riescono a rendersi conto della forza di una fede religiosa quando è sentita in forma assoluta. Nelle carceri si trovano naturalmente molti italiani, ma il cappellano è una figura ovvia, amica, confortante di per sé, non perché induca a forti passioni in nome di Dio. Non sappiamo se, posti nella stessa cella, non sia il musulmano a suscitare l’interesse del cristiano parlandogli di Allah più che il cappellano parlandogli di Dio. Questa è la situazione, e la Chiesa non sembra per niente preoccuparsene, anzi. Si preoccupa degli immigrati, del loro diritto alla propria religione, senza neanche il più piccolo tentativo di mettere in luce l’abisso che separa l’obbligo coranico dell’odio per gli infedeli dal: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Nei confronti dei cattolici, i preti sembrano ormai accontentarsi di una stanca routine, fatta di parole ovvie e sempre uguali, ben sapendo che a nulla servono e che nulla cambiano.

Anche le carceri, dunque, lungi dal preparare gli immigrati a quella “integrazione” di cui si dimostra tanto sicuro Gianfranco Fini, allevano dei forti musulmani che probabilmente, una volta usciti, sia che rimangano in Italia, sia che tornino nei loro paesi, saranno disponibili ad azioni ostili. Qualche correttivo, però, si potrebbe mettere in atto, se non altro organizzando gli incontri religiosi sotto la guida di un imam conosciuto dalla direzione delle carceri; ma soprattutto non accantonando il problema nella speranza che si risolva da sé. (italianiliberi.it)

Terzo pollo. Davide Giacalone

Dice Francesco Rutelli che è scoccata l’ora del terzo polo. A questa costruzione si dedica, egli ricorda, da quando è uscito dal Partito Democratico, che aveva cofondato. Allo stesso sforzo chiama Gianfranco Fini, che dal Popolo delle Libertà non vuole uscire, avendolo cofondato. In quella casa terza, inoltre, dovrebbe darsi tutti appuntamento con Pier Ferdinando Casini, a lungo esponente del centro destra, poi navigante solitario più per necessità che per scelta. Tutto questo m’affascina, perché terzopolista nacqui, e probabilmente creperò, ma non capisco cosa diavolo vogliano fare questi signori e temo che neanche loro abbiano le idee passabilmente chiare. Intanto perché per esserci un terzo polo occorre che ce ne sia un primo e un secondo. Se qualcuno li vede mi faccia un fischio, perché io vedo solo spaccature pro o contro Silvio Berlusconi.

Il vecchio sogno della “terza forza”, che mi svezzò, nasceva da un presupposto oggi sconosciuto: c’è una vasta forza politica dei cattolici e c’è un’imponete presenza dei comunisti, nella sinistra, sicché i laici antitotalitari immaginavano possibile dare vita ad una terza componente. Che non prese mai forma compiuta, perché la realtà era diversa, visto che nella sinistra, dopo la rottura del Fronte Popolare, c’erano anche i socialisti e che l’area dei partiti laici era divisa in tre o quattro partiti. La fissione dell’atomo, si diceva con amara ironia. Ma, insomma, quella era un’altra storia.

Oggi i comunisti sostengono di non esserlo mai stati e tutti si dicono amici del Vaticano, sicché domando: ma terza de che?

Più che un movimento politico, quello dei terzi, sembra un’assemblea degli sfrattati. Rutelli è stato eletto sindaco dalla sinistra, è stato candidato della sinistra contrapposto a Berlusconi, ha cofondato il partito della sinistra, ma, ad un certo punto, s’è scoperto una vocazione da terzo incomodo. Dice che, per soddisfarla, ha rinunciato alla poltrona. Non è che, per la precisione, sia stata l’assenza della medesima ad avergli solleticato lo spirito critico? Lo stesso Fini ha tutte le ragioni quando sostiene il diritto al dissenso e al mettere a confronto idee politiche diverse. Solo che, se entrasse in una macchina del tempo e potesse incontrare il sé stesso nel corso degli anni, potrebbe utilmente dibattere con sé medesimo, accusandosi da sé solo di estremismi contrapposti: dal duce (minuscolo, proto, minuscolissimo) più grande statista del secolo a male assoluto, dai maestri che non siano froci ai diritti degli omosessuali, dall’Europa nazione e la legge sull’immigrazione al venite, integriamoci e votate. Posto che, senza l’entusiasmo del neofita, tendo a condividere gli approdi e detestare le sponde da cui salpò, prima di aprire il dibattito si deve fare come per i vini: stabilire l’annata di riferimento.

Poi c’è il furbo Casini, l’unico terzaforzista nato e cresciuto democristiano, che gode dei guai degli altri due, come loro godettero dei suoi. La posizione di Casini è lineare: se volete confluire nel mio Partito della Nazione (i nazionalisti? oibò), riconoscendo d’esservi sbagliati per almeno un paio di legislature, sarete i benvenuti, se, invece, ve ne starete per i fatti vostri auguri, che io potrò sempre sostituirvi, da una parte o dall’altra. L’ex rampollo di Arnaldo Forlani imparò la politica fin da piccino e sa leggere i risultati elettorali, i quali dicono, alle regionali, che l’Udc prende voti quando s’allea con il centro destra e li perde quando va a sinistra. Ha capito l’antifona, ma visto che non ci sono elezioni in corso si barcamena.

L’antica terza forza puntava alla nascita di una sinistra democratica, qui, invece, i senza tetto odierni cercano di cancellare dal vocabolario i concetti di destra e sinistra, se non per dire che sono detestabili. Dopo averli lungamente abitati. La domanda è: perché la sinistra vera, quella che fu comunista e che cambia nome come gli abiti stagionali, non li aiuta a crescere? La risposta è: perché mica sono del tutto scemi. Oramai incapaci di fare politica, un po’ tutti, si limitano a campare di rendita berlusconiana e antiberlusconiana. I primi devono solo mostrarsi degli entusiasti balilla, meglio se giovani italiane, ma i secondi sanno bene che se sorgono altri soggetti ci si deve dividere la torta. I voti antiberlusconiani, più o meno, quelli sono. Il più bravo a coalizzarli fu Romano Prodi, fin qui imbattuto. I successori, invece, sono dei maghi nel dividerli. Se prendono anche Fini fra i concorrenti, avendo già in seno una bella truppa di giustizialisti fascistoidi, si mettono tutti a stecchetto e va a finire che scavalcano a destra Francesco Storace, camerata verace.

Oddio, l’alzheimer: perché ho cominciato a scrivere questo articolo? Tanto, questa roba è destinata a scuocere senza essere scolata. Ah sì, adesso ricordo. Ho una modesta e limitata richiesta da avanzare: per rispetto di quelle scuole minoritarie, ma gloriose, che affondarono le loro radici nel Risorgimento e guardarono con speranza alle democrazie anglosassoni e maggioritarie (quelle vere), potreste avere la buona creanza di non chiamarvi “terza forza”, o “terzo polo”? Provate con qualche cosa di più immediato e popolare, mettendo a frutto la lezione che il berlusconismo impartisce, da tanti anni. Ecco, ad esempio: “a riecchice”, oppure “daje e ridaje”.

venerdì 2 luglio 2010

Coriandoli costituzionali. Davide Giacalone

Il Presidente della Repubblica non si è riservato di esprimere un giudizio sulla legge relativa alle intercettazioni telefoniche, attualmente al vaglio del Parlamento, lo ha già fatto e ha già annunciato la bocciatura. Giorgio Napolitano non si è limitato a manifestare le proprie opinioni, cosa che la Costituzione, per volere essere precisi, esclude, ma si è spinto a intervenire sui calendari parlamentari, disponendo affinché delle intercettazioni non si parli finché si discute della manovra economica, e non si è fermato alla manifestazione di una preferenza, ha anche reso pubblica la propria irritazione perché il Parlamento, che un tempo si sarebbe definito “sovrano” ha voluto organizzarsi diversamente. E neanche questo gli è bastato, perché ha usato parole assai precise per indicare che di queste cose, quindi sia della diversa opinione sulle intercettazioni sia dei calendari parlamentari, ha discusso con esponenti della maggioranza, in questo modo potendo voler dire due cose: a. ho concordato un’azione con gli uomini della maggioranza che si opporranno a tutto questo; b. ho avvertito chi di dovere che se la maggioranza avesse preteso d’essere tale si sarebbe aperto un conflitto.

Quel clima di collaborazione istituzionale, di cui taluno favoleggiò, non c’è più. E cambiata stagione, e l’aria sé fatta appestata e appiccicosa.

A fronte di tutto ciò appare un dettaglio di scarso rilievo il fatto che le parole presidenziali non sono contenute in un messaggio formale, ma arrivano da Malta, laddove, come lo stesso Napolitano ha ricordato, è prassi consolidata che il Capo dello Stato non vada all’estero per tirare di simili randellate sulle questioni interne. Più interessante, invece, l’invenzione di una nuova categoria, cui il legislatore dovrebbe inchinarsi, portata da Napolitano al rango di custode dell’ortodossia: gli studiosi. Già, perché il Presidente è riuscito ad argomentare che la legge sulle intercettazioni va malissimo anche perché lo confermano gli studiosi. E chi sono? Chi assegna loro la pecetta di saggio e colto? Chi chiede loro di parlare? Noi, per esempio, siamo certamente incolti e tendenzialmente zotici, ma abbiamo ripetutamente scritto che quella legge non servirà a nulla, non sarà un bavaglio, ma neanche un rimedio, che complicando le cose le peggiora e, quindi, è una pessima idea. Ma ero convinto, pensate l’ingenuità, che noi si fosse una democrazia, dove legifera la maggioranza e si lascia ai pensatori (nel nostro caso meglio s’attaglia la definizione di “cani sciolti”) la possibilità di criticare. Invece no: i pretesi cultori del dettato costituzionale lo riducono in coriandoli, fra le trombette cattedratiche.

Le parole di Napolitano, come forse s’è già intuito, non mi convincono, le ritengo, al di là del merito, un colpo alle regole e una pericolosa manomissione degli equilibri costituzionali. Ma a preoccupare ancor di più è il clima complessivo in cui vive il Paese. Perché può anche darsi che tutto sia un succedersi sgangherato di parole in libertà, senza più un nesso, senza un contesto condiviso di regole, ma può anche darsi che non sia casuale il fatto che un Presidente Emerito sostenga che si fu vicini al colpo di stato, ricordandosi a scoppio ritardato di affibbiare a dei protagonisti della politica la colpa di avere favorito la mafia, e può non essere casuale che dopo quelle affermazioni vadano a ruota il procuratore nazionale antimafia e altri professionisti della materia. E, sempre ammesso che le cose abbiano un senso, qualcuno provi a spiegare perché Beppe Pisanu sente il bisogno di parlare dopo la sentenza Dell’Utri, con l’inarrestabile impulso di darsi dell’incapace e, forse anche del complice per i fatti propri. Che sta succedendo? Cosa bolle in pentola? Se queste cose non sono il frutto del caldo e dell’età, quali notizie circolano, circa ciò che si prepara?

Il governo, dal canto suo, non ci guadagna nulla a reagire accelerando la discussione di una legge (sempre quella sulle intercettazioni) che gli si ritorcerà contro. Non è una dimostrazione di forza, ma qualche cosa che somiglia alla forza della disperazione.

Francamente non credo che siano moltissimi gli italiani che la sera, prima di prender sonno, pensano a queste cose, ma ho l’impressione che ci sia in giro chi punta sull’insonnia di molti, provocata dalle preoccupazioni e dalla sfiducia nel futuro, per soffiare sul fuoco della rabbia e della reazione, magari gettando nella combustione anche materiale altamente inquinante, come le faccende di mafia. Stiano attenti, gli apprendisti stregoni, perché non è detto che il servizio antincendio funzioni, e non è detto che a seguire i suggerimenti che arrivano dall’estero si possa poi sostenere, neanche con se stessi, di avere servito gli interessi nazionali.