lunedì 28 febbraio 2011

Tra scuola statale e pubblica c'è un abisso ma la sinistra non lo sa (o finge). Andrea Bellantone

La scuola italiana non regge il passo con i tempi. Non solo perché gli insegnanti non sono stati sempre reclutati con la dovuta cura. Ci sono anche altri problemi: le infrastrutture, ad esempio. Ma anche una
pedagogia generale che, volendo andare verso il progresso, ha finito per distruggere tutto quel che di buono gli anni avevano solidificato e reso sana abitudine. Qualche volta, infatti, per stare al passo con i tempi, occorre conservare ciò che di buono ci ha consegnato il passato, senza la smania di riformare e di cambiare degli equilibri che sono per definizione assai delicati. Basti pensare al buon vecchio insegnamento delle lingue antiche, a quello della storia, per non parlare delle matematiche. Le famiglie italiane hanno già da tempo compreso la disgregazione della scuola pubblica, comprendendo assai bene che la sua origine non può essere cercata né nella cosiddetta carenza di fondi né nella maggiore o minore accondiscendenza dei governi nazionali verso il sistema dell'istruzione statale.
Per questo - chi ha avuto la possibilità - ha già da tempo sottratto i propri figli dalle scuole statali e li ha avviati verso la formazione privata. Su questo gli italiani non hanno alcun dubbio ed è per questa ragione che hanno  Condiviso le linee guida della destra sul tema della scuola, sia nel ciclo 2001-2006 (Moratti) sia nel ciclo 2008-2011 (Gelmini). Il fatto che la sinistra oggi frigni, in difesa di un'istituzione che non funziona più, indica ancora una volta - ma non c'era bisogno di conferme - quale e quanta sia la distanza tra le esigenze del paese (il tanto vituperato senso comune) e la cultura dei progressisti italiani (il tanto esaltato mondo della cultura). Ma nel dibattito sollevato in questi giorni in merito alla scuola pubblica si sente un difetto di fondo, le cui radici sono tutte culturali: la confusione tra scuola pubblica e scuola statale.
La scuola statale è quella di proprietà dello Stato, gestita tramite suoi funzionari e con programmi e metodi definiti dal potere politico. Questa scuola ha senza dubbio fallito il proprio compito e non è più adatta ad una società che si fa sempre più complessa e pluralista, il cui bisogno essenziale è quello di indicare ai giovani modelli di eccellenza. Rispetto al XIX e al XX secolo, in cui la scuola statale ha svolto senza dubbio il ruolo di grande contesto della formazione della comunità nazionale, il panorama è totalmente mutato e il monopolio statale delle istituzioni formative ha perso totalmente senso.
Diverso, invece, è il concetto di scuola pubblica. Una scuola è pubblica quando i criteri di accesso dei suoi allievi e quelli della valutazione non sono influenzati da criteri di discriminazione (nazionalità, religione, orientamenti ideologici, ricchezza, etc.) e quando la sua finalità è quella di dare una formazione basata sulla centralità della dignità umana. Questa scuola è pubblica, nel senso che tutti vi possono accedere e che essa è un luogo trasparente di confronto e maturazione tra le tendenze culturali della società. Rispetto alla scuola statale, c'è quindi una differenza sostanziale: essa non appartiene al potere pubblico, non è gestita dall'amministrazione dello Stato tramite i suoi funzionari, ma è una realtà che nasce e cresce nella società civile.
Rispetto a questa scuola, lo Stato può certamente farsi garante del suo carattere pubblico - cioè aperto, critico, oggettivo - senza tuttavia pretendere di avere su di essa un potere diretto di gestione e controllo. La fine della mitologia dello Stato - tipica del XX secolo - ha già da tempo animato molte riflessioni sul superamento del monopolio statale della scuola. La scuola italiana, tuttavia, fa enorme fatica ad aprirsi verso un sistema multicentrico, concorrenziale, il cui fondamento sia l'idea di una scuola pubblica. Su questo versante si combatte la vera battaglia per la modernizzazione del sistema educativo italiano.
Tutto il resto, dall'evocazione della figura di Gentile da parte di Bocchino al piagnisteo statalista di Bersani, mostra solo l'ineffabile arretratezza della cultura politica italiana. (l'Occidentale)

sabato 26 febbraio 2011

Svolta, Rai meno "rossa": Ferrara ritorna in tv. Gian Maria De Francesco

Tra qualche settimana l’infor­mazione Rai sarà un po’ meno «sini­stra »e un po’ più equilibrata.Il diret­tore del Foglio , Giuliano Ferrara, avrà un proprio spazio per affronta­re in pochi minuti argomenti di attua­lità. «Ho avuto l’offerta di rifare la mia vecchia rubrica Radio Londra e l’ho accettata»,ha dichiarato aggiun­gendo che il programma, che si chia­merà proprio Radio Londra , «andrà in onda su Rai1 tra il Tg1 delle 20 e Affari Tuoi ». La trasmissione potrebbe partire lunedì 7 marzo. Saranno «dai 3 ai 5 minuti di commento», ha detto Fer­rara precisando che «non sarà né un programma facinoroso né fazioso: ne ho fatti ma non voglio più farne, ora sono vecchio, maturo». Interpel­lato dal Tg3 sulla «linea» che intende­rà seguire, visto che ha organizzato la manifestazione contro la campa­gna antipremier, ha rilevato come «il modo che si è scelto per combattere Berlusconi è disgustoso perché di di­fetti ne ha, ma è il contrario dell’im­magine demoniaca che si sta co­struendo di lui». Il consiglio di amministrazione di Viale Mazzini si esprimerà nella riu­nione di giovedì prossimo, ma ad avere l’ultima parola sarà colui che ha la competenza sul palinsesto: il di­rettore generale Mauro Masi. Che con il direttore di Raiuno Mauro Mazza ha condotto la trattativa per riportare sul piccolo schermo l’idea­tore di Linea rovente , L’istruttoria e Otto e mezzo . L’opera di parziale rie­quilibrio nei confronti dello strapote­re del santoro-travaglismo e dei for­mat di Annunziata, Floris, Fazio e Ga­banelli è solo all’inizio. Entro aprile dovrebbe partire anche il nuovo pro­gramma di Vittorio Sgarbi, entusia­sta del «rafforzamento di un fronte diverso da quello del pensiero uni­co, di chi ha un solo nemico». L’apertura a voci non schierate aprioristicamente con l’antiberlu­sconismo e l’impossibilità di frap­porre veti hanno scatenato la solita ridda di indignazioni a orologeria an­che perché a Ferrara sarà riservata la striscia di prime time che era il san­cta sanctorum del Fatto di Enzo Bia­gi. E non è un caso che uno dei primi commenti sia stato quello di Marco Travaglio, «grillo parlante» di Anno­zero . «A Raiuno si sentiva proprio la mancanza di una voce vicina al presi­dente del Consiglio. È una rete piena di comunisti...», ha ironizzato col­pendo due bersagli con un colpo so­lo: il direttore del Foglio e quello del Tg1 Minzolini. Il dipietrista Pancho Pardi ha mes­so da parte il bon ton . «Non vorrei do­vermi trovare nella condizione di ri­ciclare la battuta del premier dicen­do che quello spazio dopo il Tg “ieri era purosangue e oggi si trasforma in ippopotamo”», ha chiosato auspi­cando «una tv pubblica impeccabile sia sotto il profilo del pluralismo che della prevenzione ferrea dei conflitti di interessi». Il metro della sinistra è questo: se parla Santoro va in onda la libertà, altrimenti c’è il regime. L’equazione l’ha spiegata il consi­gliere Rai in quota Pd Nino Rizzo Ner­vo. «Ancora una volta Masi si limite­rebbe ad attuare gli ordini del capo, mentre nel caso della Annunziata il direttore generale non ha apposto la firma definitiva al programma», ha rilevato ricordando che il nuovo pro­gramma della anchorwoman non ha ancora ricevuto il placet definitivo. La patente di giornalista libero e indi­pendente è una questione di cogno­mi e di sponsor tant’è vero che Rizzo Nervo ha ammesso di aver proposto Ferrara per una conduzione l’anno scorso. L’Usigrai, il sindacato giornalisti Rai, è già sulle barricate. «Il consiglie­re del principe prenota uno spazio di massima visibilità in Rai, siamo alla propaganda scandalo coi soldi di tut­ti: tutti in piazza a difendere la Costi­tuzione », ha dichiarato il segretario Carlo Verna. Quelli che si lamentano sono quel­li del «pluralismo della domenica» che «hanno in mente di continuare sulla strada dello status quo », ha ta­gliato corto il consigliere Rai in quo­ta Pdl Antonio Verro confidando di aver realizzato con Ferrara e Sgarbi «il sogno di un pluralismo per addi­zione e non per sottrazione ». E «stra­felice » è pure il direttore del Tg1 Au­gusto Minzolini: «In un’azienda in cui ci sono Tg pseudo-istituzionali, vecchi naviganti partitocratici e fa­ziosità mi sentirò meno solo ». Assie­me a lui saranno meno soli i telespet­tatori non assuefatti all’indignazio­ne a senso unico. (il Giornale)

venerdì 25 febbraio 2011

Non è vero che l'opposizione non ha un programma di governo! L'Occidentale

E’ ora di smetterla con le prese in giro dell’opposizione e del Pd in particolare per la mancanza di un vero programma di governo con proposte serie e articolate per il rilancio del paese. Finche sì scherza va tutto bene ma poi bisogna seriamente ammettere che questo programma esiste ed è di tutto riguardo.

Siamo in grado di pubblicarlo integralmente, d’altra parte si tratta di un’agile cartellina, non certo le 300 e passa pagine del sussiegoso e prolisso programma di Romano Prodi, piuttosto abbiamo a che fare con sfida seria e documentata al governo e a chi lo guida:

Lavoro: Berlusconi lavori al dopo-Berlusconi
Riforme istituzionali: Berlusconi è fuori dalla Costituzione
Welfare: Berlusconi vada in pensione
Giustizia: Berlusconi deve essere condannato
Istruzione, scuola, Università: Berlusconi deve essere bocciato
Politica estera: Berlusconi vada alle Bahamas
Piano Casa: Berlusconi vada a casa
Economia: Berlusconi ceda le sue aziende
Pari opportunità: Berlusconi ha l’opportunità di farsi da parte
Sanità: Berlusconi si faccia curare
Famiglia: Berlusconi si vergogni
Spettacolo: Berlusconi faccia un passo indietro
Fine vita: Berlusconi faccia un passo avanti.

giovedì 24 febbraio 2011

Quartierino malato. Davide Giacalone

Il pubblico ministero chiede tre anni di carcere per Antonio Fazio, ex governatore della Banca d’Italia. La notizia, naturalmente, rimbalza dalle agenzie ai notiziari e da qui ai giornali, rinfrescando la memoria di quanti avessero posto nel dimenticatoio lo scandalo di quella scalata. Siccome è oramai chiaro che sul nostro naso si trovano occhiali diversi da quelli che usano altri, le considerazioni che ne ricavo sono diverse da quelle a piene mani diffuse.

1. Prima di tutto sarebbe ora di finirla con questo sconcio delle cronache giudiziarie alimentate solo con le accuse, come sarebbe ora di smetterla di dare informazioni utili solo a consolidare il pregiudizio colpevolista. Si comincia con le indagini, si prosegue con l’avviso di garanzia, poi la richiesta di rinvio a giudizio, quindi il rinvio, cui segue l’esposizione del pubblico ministero, per giungere alla richiesta di condanna. Prima di avere ascoltato un verdetto, provvisorio per giunta, l’imputato è già stato condannato una decina di volte.

2. Sia i fatti che l’inchiesta in questione risalgono al 2005. Sono passati cinque o sei anni per arrivare alla conclusione dibattimentale. Dopo le repliche delle difese (di cui nessuno pubblicherà alcunché) ci sarà la sentenza di primo grado. Questa verrà appellata, ovviamente. Poi, dopo il secondo grado, si chiederà alla Corte di cassazione di porre la parola “fine”. Tempi previsti, a volere fare in fretta, complessivi dieci anni. E mi tengo basso. Fuori dalla civiltà. Per giunta su un tema, relativo al mercato, in cui la realtà viaggia bruciando i minuti.

3. La mia opinione è che, in quella vicenda, Antonio Fazio abbia sbagliato. Non dico e non scrivo nulla sulla questione penale, perché conservo un (inutile) rispetto della legge e mi ripugna la sola idea che le colpevolezze e le innocenze si commercino fuori dalla sede dovuta. Ma ritengo che abbia sbagliato: quale che sia fine non poteva giustificare una condotta così poco conforme alla funzione. Detto questo, però, occorre ricordare che se, oggi, il nostro governo può andare in giro per l’Europa dicendo che la crisi è prevalentemente bancaria e che, pertanto, l’Italia ha colpe minime e le nostre banche sono messe cento volte meglio di quanto non siano conciate quelle degli altri, ciò lo si deve anche a Fazio.

4. Così come il processo di concentrazione bancaria, di cui quella scassatissima scalata era una delle tessere, è stato un fatto positivo. E lo dobbiamo, anche questo, a Fazio.

5. Gli ultimi due punti non devono servire per sostenere che le eventuali colpe penali si compensano con altri meriti, giacché le une non hanno nulla a che vedere con gli altri. Sono cose diverse e vanno mantenute separate. Ma dobbiamo piantarla di leggere, esaminare e ricordare la nostra vita collettiva solo alla luce delle carte processuali. E’ diventata una malattia, morale e mentale.

mercoledì 23 febbraio 2011

Gas libico, ecco perché l'Italia non ha sbagliato. Marcello Foa

L’Eni ieri ha chiuso il gasdotto libico Greenstream. Di gran fretta e con molte buone ragioni, considerato che la Libia è in preda a una guerra civile e che in mattinata gruppi di ribelli avevano annunciato di voler boicottare le forniture all’Italia. Non dovrebbero esserci ripercussioni sulle forniture di metano alle famiglie italiane, come ha assicurato il governo, mentre l’Eni afferma che non dovrà nemmeno ricorrere alle riserve strategiche. Evidentemente è sufficiente aumentare gli approvvigionamenti da altri Paesi per scongiurare ripercussioni significative sulla nostra economia. C’è preoccupazione, ma non allarme, né panico.

Bene così, ma non si può non ampliare la riflessione con un sguardo al passato e uno al futuro. Come sta l’Italia sull’energia. Malissimo, come noto. Importiamo il 92% del petrolio e l’87% del gas. Siamo fragili e ricattabili.
Per inciso: gli avvenimenti di queste ore in Libia dovrebbero spazzare via i dubbi di chi ancora diffida dell’energia atomica. Avanti, con le centrali, in assenza di valide alternative. Ma i tempi, si sa, sono lunghi e saranno necessari molti anni prima che l’Italia possa contare su quote significative di energia «autarchica».
E allora non resta che la diversificazione.

E in quest’ottica, fortunatamente, non abbiamo nulla da rimproverarci. Anzi. Chi, nelle scorse settimane, ha criticato Berlusconi per l’amicizia con Putin e storto il naso alla firma dell’accordo tra Eni e Gazprom per la costruzione del gasdotto South Stream, oggi dovrebbe ricredersi o perlomeno riflettere sull’opportunità di leggere tutto sempre solo in chiave di politica interna. Se i giacimenti si trovano in un Paese retto da un regime dittatoriale o autoritario o comunque poco democratico, gli Stati occidentali non hanno scelta e devono scendere a patti. Gli Emirati arabi, come abbiamo visto in questi giorni in occasione delle proteste a Manama, non sono certo più liberi dell’Egitto di Mubarak. E l’Arabia Saudita in tema di diritti umani ha un curriculum da spavento; eppure sono entrambi alleati fedelissimi (e indisturbati) degli Stati Uniti.

L’Italia ha stretto accordi con chi ha potuto, considerando la prossimità geografica. E, negli ultimi anni, ha ignorato le pressioni europee e soprattutto americane, che sui gasdotti avevano altre priorità. Enrico Mattei aveva capito, con straordinaria preveggenza, che la fedeltà agli alleati non può prescindere dagli interessi strategici nazionali; e fino ad ora la linea da lui indicata non è stata abbandonata. Il fondatore dell’Eni morì 25 anni prima del referendum sul nucleare, eppure già negli anni Cinquanta indicava nella diversificazione una priorità per il nostro Paese. Oggi le importazioni di gas sono così ripartite: il 36% dall’Algeria, il 29% dalla Russia, il 12% dall’Olanda, il 7% dalla Norvegia e solo il 10% dalla Libia. Non siamo appesi a un solo Paese e, pertanto, solo in presenza di una crisi simultanea in Algeria e in Russia l’Italia si troverebbe davvero in difficoltà. Se l’Iran non fosse governato dagli ayatollah oltranzisti, la ripartizione delle fonti sarebbe verosimilmente migliore. Più fornitori, meno rischi. Per il gas come per il petrolio.
E quanto sia sensibile la partita energetica lo dimostrano i file del governo americano pubblicati l’altro giorno da Repubblica, leggendo i quali abbiamo appreso che Hillary Clinton ha ordinato alla Cia di indagare sugli accordi energetici tra Italia e Russia. A conferma che ognuno pensa, innanzitutto, a se stesso. Anche l’Italia. Per fortuna. (il Giornale)

Democrazia aspirazione universale. Antonio Martino

Tutti ricordiamo le geremiadi dei “pacifisti” al tempo della guerra in Iraq prima e della missione italiana poi: l’idea di esportare la democrazia è una forma di colonialismo, il tentativo di imporre un nostro modello di organizzazione sociale a paesi che non sono interessati né preparati ad adottarlo. Solo l’ingenua dabbenaggine di un guerrafondaio texano può far credere che con la brutalità della guerra si possa trasformare l’Iraq in una democrazia di tipo occidentale. E così via blaterando.
Poca o nulla attenzione fu prestata al fatto che prima gli afghani poi gli iracheni al rischio della vita, si fossero recati in massa a votare, per la prima volta nella loro storia. Il settimanale inglese The Economist alla vigilia delle elezioni irachene ne previde l’inevitabile fallimento, perché il segno sulle dita era fatto di un inchiostro che sarebbe rimasto per giorni, consentendo l’identificazione di quanti erano andati a votare ed esponendoli alla violenza dei terroristi. La profezia fu clamorosamente smentita.
Sostenni allora che i “pacifisti” avevano torto: la democrazia non è per nulla uno dei tanti sistemi politici, è un’aspirazione universale. Ovunque ne abbiano la possibilità le persone desiderano esprimere in qualche modo il proprio parere sul governo del loro paese. Finora l’unico metodo che possa garantire quanto tutti vogliono è il voto in libere elezioni, che solo la democrazia consente.
Quanto accaduto in Tunisia, Egitto, Algeria, Yemen, Bahrein e ora in Libia è la prova indiscutibile che anche in nord-Africa, anche nel mondo arabo, gli esseri umani preferiscono decidere del proprio futuro anziché affidarlo a un dittatore, non importa se selvaggio e sanguinario o se bonario e tollerante. Almeno negli slogan delle piazze la libertà e la democrazia sono le richieste dei dimostranti. Purtroppo, non sempre le piazze ottengono quanto desiderano: i francesi volevano la libertà e l’eguaglianza e ottennero il Terrore; i russi volevano liberarsi dell’autocrazia degli zar e si beccarono Stalin, ed è possibile che le richieste di libertà e democrazia finiscano col condurre alla teocrazia: è quanto successo in Iran, dove la cacciata dello Scià è costata l’avvento al potere degli islamisti più sanguinari e retrogradi del pianeta.
Bush aveva ragione: la democrazia è aspirazione universale ed è anche contagiosa, perché tende a estendersi agli stati vicini. Sarebbe difficile negare che i fatti che in Tunisia hanno condotto alla cacciata di Ben Ali non abbiano avuto un importante ruolo ai successivi eventi in Algeria, Egitto e altrove. Era anche per questa ragione che Bush faceva riferimento al medio oriente allargato, era consapevole che la democrazia in uno dei paesi avrebbe potuto incoraggiare altri a imitarlo.
E’ impossibile dire quale sarà l’esito dei sommovimenti storici che scuotono il nord-Africa e non solo, ma a me sembra che almeno una cosa sia chiara: i soloni che ironizzavano sulla tesi di George W. Bush non appaiono particolarmente intelligenti alla luce di quanto sta accadendo. Altrettanto chiaro mi sembra che gli “Obamaniaci”, gli entusiastici adoratori dell’attuale presidente americano farebbero bene a chiedersi se sia stata saggia la scelta del loro idolo di cercare a tutti i costi rapporti con i nemici dell’America, arrivando persino a tollerare la sistematica violazione dei diritti umani. L’attuale inquilino della Casa Bianca ha ripetutamente sostenuto che “l’America non presume di sapere cosa sia meglio per tutti”; una tesi che equivale a una dichiarazione di neutralità fra libertà e servitù, democrazia e dittatura, rispetto dei diritti e delle libertà personali e loro violazione, e che non importa molto a chi ha già la fortuna di vivere in un Paese libero e democratico ma che può fare la differenza altrove. Infine, come se non bastasse, l’essersi affrettato a mollare Mubarak ha insegnato a tutti quanto valga l’alleanza con gli Stati Uniti.
Mi auguro, come credo tutte le persone sensate, che gli eventi odierni preludano a una diffusione della democrazia e dei suoi valori di libertà, tolleranza e separazione fra religione e politica, ed è possibile che, almeno in alcuni paesi, il nostro augurio venga soddisfatto. Comunque vada, tuttavia, il cambiamento per noi più urgente è quello del presidente americano; finché l’attuale deciderà la politica estera degli Stati Uniti, il mondo non sarà al sicuro. (il blog di Antonio Martino)

martedì 22 febbraio 2011

Gheddafi e l'ipocrisia della sinistra. Bernardino Ferrero

Lascia un po' sgomenti lo sconcerto del Pd davanti al silenzio (“preoccupato”) del premier Berlusconi sulla crisi libica. Sabato scorso, il Cavaliere ha sterilizzato la rivolta di Bengasi con un laconico “non voglio disturbare” e Veltroni e Fassino hanno subito reagito stigmatizzando il rapporto speciale fra il Cavaliere e il Colonnello. Ma il trattato di amicizia fra Italia e Libia non è un’invenzione del centrodestra e la politica estera dell’Italia verso i paesi del Nordafrica è stata tradizionalmente orientata verso una piena legittimazione dei regimi illiberali che garantivano l’ordine in Egitto e Tunisia.
La nostra disponibilità diplomatica verso Tripoli affonda le sue radici nel governo Prodi – ministro degli esteri D’Alema – e prima ancora in Lamberto Dini, che ne gettò le basi alla fine degli anni Novanta. Giuliano Amato era convinto che si dovesse coinvolgere Tripoli nella sicurezza nel Mediterraneo così come era stato fatto con Tirana per l'Adriatico. Un misto di cattiva coscienza sulle colpe del nostro passato coloniale, di paura delle nuove ondate migratorie, di interessi economici cogenti, hanno spinto la nostra classe dirigente a tollerare chi reprime il dissenso con la violenza e la censura. Diciamolo, la promozione della democrazia in questi Paesi non è mai stata all’ordine del giorno. Ora il ministro degli esteri Frattini parla di un “Piano Marshall” per il Mediterraneo, ma prima degli aiuti economici, degli accordi e dei salvataggi in extremis, in Nordafrica va fatto germogliare il seme della democrazia. Il realismo non ci aiuterà a favorire chi contesta un regime vecchio quarant’anni. Egiziani e tunisini se la sono dovuta sbrigare da soli.
In Italia Gheddafi ha avuto campo libero, riverito dagli accademici della Sapienza neanche fosse il John Kennedy africano, corteggiato da quelle giovani italiane disposte a islamizzarsi pur di avere un suo autografo e una piccola mancia. Adesso che il Colonnello spara sui manifestanti, il capitale di fiducia che gli avevamo concesso si rovescia sull’Italia, complice la stampa internazionale, in particolare quella anglosassone. Peccato che anche Tony Blair abbia stretto vigorosamente la mano al Colonnello, e uno dei suoi ministri, Jack Straw, lo abbia definito "uno statista". Il governo Cameron sembra aver preso un direzione diversa: condanna ferma e senza mediazioni delle violenze contro chi protesta pacificamente.
La sinistra italiana piange lacrime di coccodrillo. In una intervista al Sole 24ore, D’Alema chiede a Gheddafi di fermare la repressione e indire nuove elezioni, ma spera in una “evoluzione positiva che incoraggi il Colonnello sulla strada delle riforme”. In realtà Gheddafi serve a preservare gli interessi economici dell'Italia. ENI fa affidamento sui paesi del Nordafrica per il 35% delle sue produzioni petrolifere ma ci sono anche altre grandi aziende e piccoli imprenditori che fanno affari nel Mediterraneo, dalle materie prime al turismo. Per il governo Prodi il trattato italo-libico fu il passpartout necessario ad entrare nella tenda del Colonnello con i supermanager del “cane a sei zampe”. Nei giorni scorsi, ENI ha ceduto a Gazprom una parte consistente di alcuni suoi assetti nella produzione del greggio libico: “Medvedev ha bisogno di Berlusconi per l’energia”, titola Bloomberg.
Le rivolte del Maghreb hanno preso di sorpresa il governo italiano, l’Europa e gli Usa. Berlusconi non avrebbe potuto permettersi di stabilire una relazione privilegiata con Gheddafi se il Colonnello non fosse stato riabilitato a Washington, dopo essere finito nella lista degli sponsor del terrorismo. La violentissima repressione degli ultimi giorni in Libia cambia di nuovo le carte in tavola: in Egitto, che ha una popolazione immensamente più grande di quella libica, durante un mese di proteste si sono contate 300 vittime; a Bengasi e nelle altre città in rivolta, nel giro di qualche giorno siamo arrivati alla stessa cifra. Obama esprime “grande preoccupazione” per quello che sta accadendo e chiede che vengano puniti i responsabili delle violenze.
Una volta Berlusconi ha detto che gli stretti rapporti diplomatici fra Italia e Libia hanno sempre riguardato “più petrolio e meno immigrazione”. Sul petrolio, non è detto che un governo diverso dall’attuale sarebbe più sconveniente per l'Eni e i nostri investitori. Sull’immigrazione, i dubbi sull’affidabilità di Gheddafi come partner sono tanti, troppi. Gli abbiamo fornito jeep, motovedette e tecnologie per contenere la pressione migratoria ma gli sbarchi sono ripresi ancora una volta. La settimana scorsa alcune voci incontrollate provenienti dai servizi italiani, poi smentite, raccontavano di carrette del mare spinte dal regime libico verso le nostre coste con scientifico tempismo. C’è una terza incognita. La democrazia. Invece di preoccuparci solo dei profughi che arriveranno in Italia (Tripoli non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati), cominciamo a pensare come sarà la Libia senza Gheddafi. (l'Occidentale)

lunedì 14 febbraio 2011

Donne in piazza, l'ira di Berlusconi: "Sostengono il teorema giudiziario"

Roma, 14 feb. - (Adnkronos) - La manifestazione di ieri delle donne "mi è sembrato un pretesto per sostenere il teorema giudiziario che va in questi giorni e che non ha nessun riscontro nella realtà". Così il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ospite de 'La telefonata' di Maurizio Belpietro su Canale 5. "Ho visto la consueta mobilitazione di parte, faziosa, contro la mia persona - ha aggiunto il premier - da parte di una sinistra che cavalca qualunque pretesto per cercare di abbattere un avversario che non riesce a vincere democraticamente nelle urne. In realtà tutte le donne che hanno avuto modo di conoscermi sanno quanta sia la considerazione che ho per loro, nei loro confronti mi sono sempre comportato e mi comporto con grande attenzione e grande rispetto. Sia nelle mie aziende, sia nel mio governo ho sempre valorizzato le donne al massimo, perché ritengo che abbiano una marcia in più rispetto a noi uomini. Quindi ho sempre cercato e cerco sempre di fare in modo che ogni donna si senta speciale". "La Procura di Milano, al contrario, e i media hanno calpestato la dignità delle mie ospiti, esponendole al pubblico ludibrio senza alcuna ragione, senza alcun riguardo, calpestando la verità. E' davvero una vergogna - ha sottolineato - una grande vergogna".

Il premier replica anche Gianfranco Fini, che ieri è tornato a chiedere le dimissioni del Cavaliere: "E' una cosa paradossale, da un punto di vista istituzionale, che il presidente della Camera per ben due volte abbia chiesto le dimissioni del presidente del Consiglio, arrivando persino ad auspicare una crisi extraparlamentare". "Non si era mai visto nella nostra storia repubblicana - ha aggiunto il premier - un presidente della Camera fondare un partito e trasformare la terza carica dello Stato in una fazione politica. La proposta di Fini comunque è irricevibile, io infatti non ho tradito il mandato elettorale, non ho sabotato il governo e le riforme, non ho usato la mia veste istituzionale per ordire complotti e ribaltoni politici". Poi aggiunge: "Credo che sia arrivato il momento per tutti, sia nel Paese, sia nelle istituzioni per giudicare se il nuovo ruolo che si è ritagliato Fini sia compatibile con quello di presidente super partes previsto dalla Costituzione".

"Non credo assolutamente" che lo scioglimento anticipato delle Camere "sia nei pensieri del presidente Napolitano", ha detto ancora Berlusconi ospite de 'La telefonata'. "Tra l'altro - ha aggiunto - nell'ultimo colloquio che ho avuto con lui al Quirinale mi ha garantito che finché c'è un governo che governa e finché c'è una maggioranza politica che lo sostiene e che lavora non esistono, non esistono, motivi per sciogliere il Parlamento". "La Costituzione comunque prevede che senza una formale crisi di governo, per interrompere anticipatamente una legislatura occorre che il presidente della Repubblica consulti sia i presidenti delle Camere sia il presidente del Consiglio, cioè Silvio Berlusconi - sottolinea il premier - Quando nel '94 sciolse le Camere senza il passaggio di una crisi formale ebbe l'assenso del premier di allora che era Ciampi, il quale acconsentì dicendo che la funzione del suo governo si era esaurita". "Questo non è il nostro caso perché il governo è nella pienezza delle sue funzioni, ha ottenuto due voti di maggioranza il 29 settembre e il 14 dicembre, altri sei voti parlamentari li ha ottenuti con il voto positivo sulle grandi riforme come quella dell'Università e sia sulle sfiducie individuali sui ministri Calderoli e Bondi che sono state respinte", aggiunge Berlusconi che precisa: "Quindi c'è molta confusione ma io ho le idee molto chiare: l'interesse del Paese è quello di avere un governo stabile che mandi avanti con grande determinazione il programma concordato con gli elettori e che porti a compimento le riforme, a partire da quella sul federalismo, che tra l'altro è in dirittura d'arrivo".

Inoltre, afferma ancora Berlusconi, "alla Camera sono convinto che arriveremo presto ad avere una maggioranza intorno ai 325 deputati, cioè una maggioranza più che sufficiente per portare avanti il programma di governo sia in Aula che nelle commissioni". Il presidente del Consiglio si dice inoltre "sicuro" che la riforma della giustizia verrà approvata. "In questa legislatura - ha aggiunto - è stato sempre Fini a sbarrare la strada a questa fondamentale riforma. Mi si dice che Fini avesse garantito l'Associazione nazionale dei magistrati che finché la sua componente fosse rimasta nella maggioranza nessuna riforma della giustizia a loro sgradita sarebbe stata portata a termine. Però adesso le cose sono cambiate".

Perché "lo scempio di queste conversazioni private che non avendo alcuna rilevanza penale arrivano sui giornali deve assolutamente finire". "Quante persone innocenti - ha aggiunto il premier - sono state distrutte moralmente e materialmente da questo infernale circuito mediatico-giudiziario senza che nessun magistrato di quelli che passano le intercettazioni alla stampa sia mai stato chiamato a rispondere. Un Paese nel quale alzando il telefono non si è sicuri della inviolabilità delle proprie conversazioni non è un Paese libero e il sistema della pubblicazioni delle intercettazioni è un sistema barbaro".

sabato 12 febbraio 2011

La lezione di filosofia osé per cultori del toga-toga. Marcello Veneziani

Schopenhauer faceva tardi la sera per­ché, dopo aver letto Kant, si dava alla pazza gioia con la vispa Teresa. Era una procace veneziana di nome Teresa Fuga, un gran pezzo di Fuga, come le tante don­ne, anche occasionali, che il filosofo del dolore ebbe in Italia e altrove. Un «filoso­fo donnaiolo e predone d’alcove» docu­menta il filosofo e germanista Anacleto Verrecchia nel libro «Schopenhauer e la vispa Teresa». Altro che misogino, scrive Verrecchia, Schopenhauer aveva una na­tura demoniaca o dionisiaca e amava pu­re ballare. Schopenhauer prendeva in gi­ro la compagnia kantante, ovvero i «filo­sofi da burletta », così li definiva, che si tra­vestivano con i vestiti e la parrucca di Kant. Li chiamava «le scimmie di Kant». Kant non ebbe figli, ma le sue scimmie sì. Anche Marx non doveva leggere solo Kant la sera se metteva incinta la camerie­ra e poi non riconosceva i suoi figli. Rous­seau non ne parliamo. Nemmeno Nietz­sche si dedicava solo a Kant la sera, cantò la vita ed ebbe un rapporto tormentato col sesso, da aspirante dionisiaco. Sui filo­sofi a luci rosse, che dopo aver letto Kant andavano a puttane, sono usciti vari libri. C’è pure un increscioso ritratto cinque­centesco di Hans Baldung Grien: c’è una prostituta con frustino che troneggia sul­la schiena di un vecchio filosofo nudo a quattro zampe, che non era il grande Eco ma il piccolo Aristotele. Pure Simenon, scrittore amato da Eco, non passava le se­re con Kant ma con le donne di piacere; lui stesso vantava un carnet di migliaia. E Joyce? Forse neanche Kant, se avesse po­tuto, avrebbe letto Kant la sera... Che in­sopportabile spocchia il virtuismo di Um­berto Eco (così Pareto definì l’ipocrisia moralista). Che snobismo e che disprez­zo verso il popolo, anzi la plebe, cioè i peg­giori... Anche a me capita di far tardi più a leg­gere Kant, o meglio altri filosofi, che a fare altro. Lo preferisco alla tv, a Santoro e Ler­ner. Ma non me ne vanto, non mi reputo superiore e non lo rinfaccio a chi avrà pu­re mille vizi, ma si sollazza qualche notte dopo aver lavorato sodo tutto il giorno, infine spompandosi più con i giudici che con le mignotte. Il toga toga è più sfibran­te del bunga bunga. (il Giornale)

mercoledì 9 febbraio 2011

Ecco i ragazzi del 1983: Fini, Casini e Rutelli in Parlamento da 28 anni. Francesco Cramer

 Fini, Casini, Rutelli - i Qui, Quo, Qua del Palazzo - non ci stanno: terzo polo non ci va. Sa di sconfitta, di gradino basso del podio, di ultima scelta dopo il primo e il secondo. Meglio nuovo, nuovo polo. Bello. Ma finto come i soldi del Monopoli. Il «nuovo» appiccicato a loro è come le «convergenze parallele»: un ossimoro, uno sberleffo, una beffa che, per di più, sa di muffa. Stantìo Fini, classe 1952; antiquato Casini, natali nel 1955; sorpassato Rutelli, che è del 1954. Insieme fanno 172 anni e la loro ventata di novità è un alito cattivo di chi poltrisce nelle stanze del potere da quasi tre decenni. Ora uniti dall’antiberlusconismo ma in passato acerrimi nemici, i tre re magi della Prima Repubblica hanno in comune il bollino dell’immatricolazione politica. I fantastici tre condividono la data in cui per la prima volta hanno messo piede in Transatlantico. E da lì non si sono più schiodati. 1983: governo Fanfani quinto poi Craxi primo; Pertini e Bearzot, Portobello, «L’amico è» di Baldan Bembo, i primi computer, Andropov e Reagan, E.T. (che non sta per Elisabetta Tulliani), la Roma di Falcao, gli swatch, Tortora in manette. Preistoria insomma. Ecco, il vecchio che avanza è diventato onorevole quel dì. Fini, Casini e Rutelli hanno cominciato a gattonare in quel di Montecitorio l’anno dopo dell’Italia di Pablito campione del mondo. Di strada ne hanno fatta parecchia: per ventotto anni hanno calpestato la moquette del Parlamento ma anche idee, valori, convinzioni, amicizie, alleati. Troppo lungo il percorso fatto per non entrare in rotta di collisione con tutti, ma soprattutto con se stessi.
Fini è un campione: fascista, antifascista, ma soprattutto sfascista. Chi lo lanciò, donna Assunta Almirante, ha ammesso: «Me lo scrisse anche il fondatore del Msi, Pino Romualdi: non insistere su Gianfranco. Ha distrutto il Fronte della gioventù, farà lo stesso con l’Msi». Touché. Nel suo zigzagare nel Palazzo, l’eterno secondo Fini è stato tutto e il contrario di tutto: proporzionalista e per il maggioritario, presidenzialista e parlamentarista, cattolico e laico, apologeta di Mussolini e suo denigratore, garantista e giustizialista, tifoso di Saddam Hussein quando faceva lingua in bocca con Le Pen e poi supporter dell’americana e democratica e ben più chic Nancy Pelosi, berlusconiano e feroce anti Cav. Tutto sempre per opportunismo.
Ma anche Rutelli non scherza: è stato radicale, pacifista, libertario, filocraxiano, garantista, manettaro, pidiessino, verde, andreottiano, mangiapreti e cattolico. Insomma, multicolor. Camaleontico, ha sempre cambiato colore a seconda del momento e della convenienza. Casini, invece, è democristiano nel dna e quindi macchinoso e doroteo per definizione. Discepolo del «coniglio mannaro» Arnaldo Forlani, Pier Ferdinando ha sempre scelto di tutto e spesso ha scelto di non scegliere. È stato favorevole all’alleanza col Carroccio col suo Ccd e poi antileghista con l’Udc; filo Cavaliere e antiberlusconiano; strenuo difensore del bipolarismo e poi super tifoso del terzo polo. Dieci anni fa ruggiva: «Il centro che conta è quello che si schiera. La gente non disperderà il voto in centri che non hanno prospettiva. Il centro vero deve scegliere perché il bipolarismo c’è, è nel cuore degli italiani che odiano le manovre di Palazzo». Ora è il principe della politica dei due forni e dell’«un po’ di qua un po’ di là».
I tre musicanti della Prima Repubblica, naturalmente, nel loro cammino si sono incrociati, amati e odiati a seconda delle reciproche convenienze, come in uno schizofrenico gioco delle sedie. Tutti contro tutti fino al 1994; Fini e Casini con Berlusconi contro Rutelli dal ’94 al 2006; Fini con Berlusconi contro Casini e Rutelli dal 2006 al 2010; e ora Fini, Casini e Rutelli insieme contro Berlusconi. L’armata terzopolista giura: domani saremo uniti. Ieri si massacravano. Nel 1993 Fini sbeffeggiava Rutelli: «Cattocomunista!». E l’altro: «Fascista!». Nel 2001 Casini picchiava Rutelli: «Non hai senso dello Stato!». E l’altro: «Con Fini, Buttiglione e Bossi sei il cameriere di Berlusconi». E Fini: «Ormai sei un disperato! E i camerieri sono quelli che ti presenteranno il conto il giorno delle elezioni». Oppure: «Petulante, bambino viziato, pinocchio!». Nel 2008 Fini graffiava Casini: «Non fai gli interessi degli elettori moderati che dici di voler rappresentare». E l’altro: «Ma io non vendo la mia storia come hai fatto tu!». Adesso la storia la vogliono fare insieme. Credibili? (il Giornale)

Vendola boccia le proteste ma solo sotto casa sua. L'uovo di giornata

Noi crediamo ancora a Nichi Vendola e solidarizziamo con lui. Se a qualcuno fosse sfuggito, lo scorso 29 Dicembre anche il governatore pugliese fu oggetto di schiamazzi notturni da parte di un’orda di chiassosi disturbatori (poi avveratisi pdiellini) convenuti a notte fonda, chissà con quali intenzioni, sotto la sua residenza nel centro di Terlizzi, paesino natale vicino a Bari. Tale lo spavento, il povero governatore cadde addirittura dalle scale, restando claudicante per giorni. Il giorno dopo il fattaccio Vendola ammonì magistralmente: “Spero che i giovani del PdL abbiano motivo di imparare le regole della lotta politica.” Ineccepibile.

Se non fosse chiaro, ci uniamo, stonanti, al coro censorio contro quei “squadristi cattivoni” del tavoliere, benché pdiellini, che osarono disturbare il meritato sonno del governatore. Ben prima dell’assalto belluino di Arcore, insomma, sta il “precedente pugliese”. Chiunque si sarebbe aspettato un po’ di solidarietà, toh, pure un tantino di comprensione nei confronti del Cav. Macché. Valla a trovare un’agenzia con una dichiarazione di Vendola con la stessa dose di supponenza paternalistica nei confronti di quei “pacifinti” che si sono impossessati della quieta vita della cittadina lombarda. Neanche mezza.

A pensar male, il silenzio di Vendola dà l’impressione che Berlusconi, l’assedio dei “bruti liberati” e violenti, se lo meriti. Tanto poi a lui non capita niente (intanto il Duomo di Milano sui denti se lo è già preso…) e i calci li incassano i poliziotti, così tanto per fare i pasoliniani un tanto al chilo. Comunque durante gli scontri di Arcore il presidente Berlusconi non è caduto dalle scale, sennò lo avremmo saputo con largo anticipo dalla procura di Milano. Non si è fatto male, né si è lamentato, almeno ufficialmente (certo non gli avrà fatto piacere). Così, ci parrebbe un atto di generosità, oltre che un bel favore, invitare Vendola a unirsi al nostro di coro e a solidarizzare con Berlusconi. Mieux vaut tard que jamais, M. le gouverneur…(l'Occidentale)

martedì 8 febbraio 2011

Così lo scrittore-attore vince il derby dei piacioni. Marcello Veneziani

Roberto Saviano è un modello positi­vo per i ragazzi del sud e non solo. Esorta agli ideali, all'impegno civile, alla voglia di sognare, denuncia la criminali­tà, si espone, offre la sua faccia, fin trop­po. Ma in lui c'è qualcosa che non convin­ce, e forse disturba. E non è il fatto che si sia schierato, pur senza esserlo, con la si­nistra giacobina e la repubblica giudizia­ria. No, è che Saviano soffre della sindro­me di Petrolini. Ricorderete la sua satira cesarista quando recitava «per fare Ro­ma più superba e pria », il pubblico gli gri­dava «bravo» e lui rispondeva «grazie». Poi, visto il successo dell'enfasi la ripete­va, il ritmo saliva, il meccanismo incalza­va e appena lui accennava la frase scatta­va il «bravo» e lui subito «grazie». Ecco, ho l'impressione che Saviano pa­tisca la sindrome dell'istrione. Non era di parte, aveva buone letture, anche di destra, ma alla fine è rimasto prigioniero del suo pubblico, del suo giornale e del suo successo. C'è in lui qualcosa di recita­to, di finto, di faziosetto nel senso di Fa­zio, che lo porta a fare la madonna pelle­grina, il mito vivente. Simula quel che Adorno chiamava «il gergo dell'autentici­tà ». Fa l'Icona, recita il ruolo di Giovane Indignato, parla a nome del sindacato Trentenni Puri e Sognatori, aggravato dallo status di napoletano, che da casti­go si trasforma in santità. Compiace il suo pubblico evocando il mondo miglio­re anche se lui non ci crede. E in questo passaggio alla fiction, dimentica la real­tà. Trascura che chi ha davvero combat­tuto con i fatti la criminalità organizzata, suo nemico principale, è stato proprio il vituperato governo in carica. Quando di­ce che in Italia c'è odio e non c'è libertà, dimentica che finora le persecuzioni e le intercettazioni, le maggiori campagne di fango, gli interdetti e le perquisizioni, non le hanno subite i nemici di Berlusco­ni. Chi scrive sulla principale industria di fango del paese, non può accusare le fab­brichette di fango concorrenti di inqui­nare il Paese... Non lo sfiora il dubbio che chi non la pensa come loro possa avere idee diverse e non loschi interessi. Savia­no è prigioniero del suo piacionismo, co­me un berlusconi qualsiasi.(il Giornale)

Quale democrazia d'Egitto. Davide Giacalone

Le cancellerie democratiche e occidentali annaspano nella crisi egiziana e gli Stati Uniti vi si giocano il loro ruolo globale. Ancora non è stata detta la cosa decisiva: non è accettabile alcun indebolimento della già precaria sicurezza d’Israele. Meglio essere ruvidi e diretti, segnalando che un ritorno dell’Egitto al nazionalismo nasseriano, per non dire del progressivo scivolamento verso il fondamentalismo islamico, sarebbe una tragedia. Per la pace nel mondo e per i nostri interessi.

I nostri mezzi d’informazione s’innamorano subito delle piazze, del popolo in rivolta. Le piazze egiziane non sono colmate dai Fratelli Mussulmani, ma neanche quelle iraniane erano riempite dai seguaci del fondamentalismo. L’Egitto non è l’Iran, ma ci si ricordi che il primo governo succeduto alla rivoluzione era moderato ed equilibrato, nonché lestamente liquidato. Quello dello Scià era un regime, certamente, anche sanguinario, ma mollarlo fu, per gli Stati Uniti e per l’occidente, un errore. Fu il popolo a volerlo? Sta di fatto che oggi ci tocca solidarizzare con quello stesso popolo, contro il suo governo dispotico, medioevale e guerrafondaio. Attacchiamo le foto di una donna che rischia la lapidazione, decorando i palazzi governativi d’Europa, nel mentre altri vengono impiccati e sgozzati, nel silenzio. Quello di Hosni Mubarak è un regime, certo, ma è anche il sistema politico che ha allentato la presa sulla libertà politica, consentendo ai fondamentalisti di candidarsi e raccogliere voti assieme all’opposizione, e sulla libertà economica. Mubarak, del resto, giunse al potere perché il predecessore, Anwar al-Sadat, fu ucciso dai nemici della pace con Israele. Se si perde la sicurezza della posizione egiziana, in quanto a diritto all’esistenza d’Israele, il medio oriente esplode. Probabilmente è vero, non sono i Fratelli Mussulmani ad avere innescato la rivolta, ma possono essere loro a giovarsene.

George W. Bush ha lasciato una situazione nella quale la Siria doveva seriamente considerare l’ipotesi di trovare un accordo con l’occidente (in tal senso Bashar al-Asad è stato ricevuto anche in Italia, erede di una dittatura terrorista) e in Iran potevano immaginare di vincere i moderati che dissentono dalla linea aggressiva di Mahmud Ahmadinejad. Barak Obama ha da tempo esaurito il tempo del collaudo, se perde ruolo in quest’area porta a casa una sconfitta storica, destinata a pesare sul futuro del mondo. Senza contare che priva di un Egitto sicuro alle spalle l’Autorità Nazionale Palestinese tornerà ad essere occupata dagli estremisti di Hamas, rendendo non solo vana qualsiasi ipotesi di pace, ma aprendo la possibilità all’immediato ritorno alle armi. L’attentato al gasdotto del Sinai, del resto, è solo un assaggio.

Non metto in dubbio che fra chi protesta, oggi, ci siano molti egiziani desiderosi di maggiore ricchezza e libertà, ma non sarebbe la prima volta che la piazza propizia un risultato esattamente opposto. Il regime di Mubarak (esponente dell’Internazionale socialista, per chi avesse la memoria guasta) non ha futuro, ma il punto è: con chi negozia la transizione? Con le democrazie occidentali, garanti dell’equilibrio complessivo, o con i Fratelli Mussulmani, garanti di un diverso equilibrio interno? La Casa Bianca sembra a corto d’idee e desiderosa di risparmiare risorse, mentre l’Europa, ancora una volta, è assente. Posta la debolezza istituzionale del continente più ricco e con la storia più antica, siano i governi nazionali che contano (Francia, Germania, Inghilterra, con l’Italia che è stata capace di una posizione netta e giusta) a porsi il problema. La politica estera è un terreno ove le forze si confrontano e scontrano senza condividere comuni finalità, è, al tempo stesso, l’arena dei grandi principi e degli interessi concreti. Per questo è bene non perdere di vista la disciplina più utile: la storia.

lunedì 7 febbraio 2011

Ecco quelle femministe che firmano appelli senza pudore e coerenza. Vittorio Sgarbi

Dispiace dovere ricordare a donne colte e scrittrici alcuni testi memorabili e inequivoci che indicano, in modo chiaro, volontà e decisioni della donna non nel tempo della liberazione sessuale ma nella storia. La Moll Flanders di De Foe ha idee molto precise, e faticherebbe a credere a una dichiarazione di dignità delle donne palesemente ipocrita. Dice Moll Flanders: «Donna che sia dalla rovina stretta, sugli uomini può sempre far vendetta». Ripensando a personalità e atteggiamenti come questi, finalmente una donna si è svegliata e ha restituito libertà e dignità a numerose donne che, desiderose di avere successo o fortuna, sono state sbrigativamente considerate «prostitute». Troppo facile parlare, come fa Dacia Maraini della «quotidiana offesa alla dignità femminile», per scelte e comportamenti da alcune non condivisi, ma assolutamente liberi, come appunto ci insegna la storia di Moll Flanders. Guardiamo con soddisfazione, dunque, alla presa di posizione di Luisa Muraro che invita a «non far scadere la politica nel moralismo» e, immagino, a non confondere la sfera pubblica con quella privata. Dacia Maraini, invece, non resiste, e non si rende conto che la sua indignazione, negli stessi termini, si sarebbe potuta sicuramente indirizzare ad Alberto Moravia e a Carmen Llera, a Pier Paolo Pasolini e a Pino Pelosi. Glielo dice in modo semplice Chiara Gamberale: «Un movimento non può nascere contro qualcosa come il comportamento delle ragazze di Arcore… come donna non mi sono mai sentita messa in discussione da chi usa la propria testa, il proprio corpo e il proprio cuore in modo diverso da come ho scelto di fare io».
Ma se nella Maraini è sbiadito il ricordo delle battaglie per la liberazione sessuale, senza moralismi, non lo è quello della cattiva abitudine di aderire a manifesti e documenti, come quello osceno contro Luigi Calabresi. Ancora oggi c’è una irresistibile tentazione a firmare appelli, senza pudore.
Oggi è la volta di quello risibile, se non fosse seriosamente proposto, dell’Unità contro il «sultano del Bunga Bunga». Leggo anche la firma di Lucrezia Lante della Rovere, e l’ho sentita vibrante di sdegno ad Annozero. Mi è venuto naturale pensare a Moll Flanders e al moralismo che avrebbe condannato anche lei sentendo parlare di «prostitute» per tutte le ragazze entrate ad Arcore (come ha affermato, fra le altre, la deputata del Pd Ferrante), in una intollerabile e letterale azione di «sputtanamento», scientificamente perseguita dalla procura di Milano, in nome del Popolo italiano. Una palese e violenta diffamazione, nel sostenere la quale sono state chiamate tutte le donne che ritengono bellezza e spregiudicatezza una colpa (per dire, la Maraini afferma che: «praticamente ogni anno ho scritto uno o due articoli contro lo spazio che la televisione dà al concorso di Miss Italia che per me è una delle forme della reificazione del corpo femminile»).
Oggi siamo alle prostitute «nominate» dalla Boccassini e alla richiesta (anche di molti uomini di sinistra) di un intervento della Chiesa, demonizzata quando si pronuncia contro il mondo gay, le unioni omosessuali e il Gay Pride, e invocata a pronunciarsi contro l'immorale Berlusconi. Ciò che accade (dimenticando che non è ostentato ma è rivelato, urbi et orbi, da una aberrante inchiesta giudiziaria) «addolora» anime belle, e corpi un tempo liberi come quelle della Melandri che giudica le notti di Arcore spettacoli indecorosi, osceni, umilianti per la donna (benché non fossero spettacoli ma «riti» privati).
Mi viene in mente il vescovo di Caltanissetta che, mentre io gli opponevo l’innocenza dei rapporti sessuali di due persone libere, senza tradimenti di terzi, sotto il sole, sulla riva di un fiume, considerati peccati per la religione cristiana (mentre io avrei giudicato un peccato astenersi) mi disse: «Dio soffre». E io immaginai, come ora la Melandri e Lucrezia Lante della Rovere in collegamento dai loro eremi, Dio su una nuvola che, tra guerre, stragi, terremoti, catastrofi, violenze, crimini, malattie, incidenti si preoccupava e soffriva per due giovani che facevano l’amore sulle rive del Po o dell’Anapo. Allo stesso modo mi pare assurda la posizione di due, tre e più donne che credevo libere.
Alla Melandri ho urlato: «bigotta!»; alla Maraini ricordo Moravia, a Lucrezia Lante della Rovere ricordo l’innocenza libertina di sua madre e la reincarnazione, nelle scelte della sua vita, proprio della figura di Moll Flanders. E spero che un giorno una donna libera, anche la stessa Lucrezia Lante della Rovere, rinsavita e serenamente viziosa interpreti quel personaggio. Mentre oggi, forse, si è calata nei panni e nel pensiero di una Concita de Gregorio, dimentica del «culo in jeans» esibito da Oliviero Toscani. Lasciamole ora alla contrizione. E inviamo un pensiero libertino a Lorenzo da Ponte, a Mozart, a De Sade, a Bataille, a Balthus, a Klossowski, a Genet, per non impigliarci nel facile moralismo della letteratura d’appendice di Concita.
Ma consentitemi di chiedere ora a Lucrezia Lante della Rovere qualcosa sui suoi rapporti sessuali con Luca Barbareschi; e, per quanto io so, in che cosa la concezione della donna di Barbareschi si differenzi da quella di Berlusconi. Non dovrò essere io a rivelare che, con lei e con altri, Barbareschi ha sempre rivelato, amichevolmente e con complicità (e senza farne mistero), di avere rapporti liberi e plurimi, uomini, donne e trans.
Egli stesso mi ha presentato ragazze pronte a chiamare e a sedurre altre, le sue Nicole Minetti. Dovrò dirne i nomi? Con Lucrezia ha condiviso questa concezione di libertà sessuale senza sentirsi in colpa, felice del piacere e, soprattutto, senza pensare di compiere reati. In Italia, in Francia, in America, in Marocco, in Tunisia, e in molti luoghi dove gli incontri amorosi non sono, né a lui né a lei, mai apparsi crimini. Io conosco persone che possono confermare ciò che affermo. Ma, credo che, senza vergogna, potrà raccontarlo lo stesso Barbareschi. Ed è questa, ad evidenza, la ragione principale del suo riavvicinamento a Berlusconi. O dovremo immaginare che, prendendo le distanze da Berlusconi, Lucrezia Lante della Rovere le voglia prendere anche da Luca Barbareschi, e dal suo modo di vivere? Pentita? E pronta a rinnegare la «amorale» mamma?
L’esito della visione del mondo di queste donne che hanno scelto la Binetti (invece della Minetti) e Bindi come modelli di libertà femminile è nell’atteggiamento punitivo ed esorcistico di don Aldo Antonelli che ha listato a lutto alcune vie di Avezzano: «Lutto per il paese, umiliato da un premier immondo, affarista e licenzioso». A parità di comportamenti davanti a Dio lo farà anche per Barbareschi? (il Giornale)

martedì 1 febbraio 2011

Totò docet. Orso Di Pietra

Incontentabili. Se il Cavaliere chiede le dimissioni di Fini, attacca la Procura di Milano e se la prende con i comunisti che sognano la patrimoniale, lo accusano di essere un pericoloso estremista e gli intimano di dimettersi smettendola di badare solo ai fatti propri. Se poi Berlusconi smette di chiedere le dimissioni di Fini, smorza i toni con i magistrati milanesi, promette di non alzare le tasse ed offre la mano all’opposizione proponendo di concordare un patto per lo sviluppo, gli rimproverano di essere tardivo e impresentabile e tornano ad intimargli di dimettersi e togliersi finalmente dai piedi.
Insomma, agli occhi dei suoi avversari il Premier sbaglia sempre e comunque. E poi dice che uno si butta su Ruby! (l'Opinione)