venerdì 28 settembre 2012

Note sulla Costituzione - X - Arte e risparmio. Gianni Pardo

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Art. 41, art.42, art.47. Se qualcuno, guardando fuori dalla finestra, dice: “Non piove!” non significa soltanto che non sta cadendo acqua dal cielo; significa che quel signore si aspettava che piovesse. Oppure che prevedeva continuasse a piovere. Anche le semplici constatazioni sono rivelatrici.
Quando per esempio, nell’art.33, leggiamo che L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento” non possiamo evitare di ripensare al realismo socialista e a Lysenko. Ci accorgiamo di averla scampata bella e ringraziamo la Costituzione che ha voluto essere tanto buona da lasciarci questa libertà.
Nello stesso modo, quando all’art.41 leggiamo che “L'iniziativa economica privata è libera”, dobbiamo essere lieti che la Costituzione abbia rinunciato ad imporci il capitalismo di Stato ed abbia spinto lo scrupolo fino a sentire il dovere di chiarircelo.
In realtà, un Paese liberale codifica solo i divieti, non i permessi. Sulla carta dell’Oceano Pacifico si scrivono solo i nomi delle isole, non si scrive dappertutto, parallelo per parallelo, “oceano, oceano, oceano, oceano...”. Analogamente, scrivendo così spesso in Costituzione le parole “libero” e “libertà”, si contraddice uno dei principi fondamentali dello Stato liberale.
Come se non bastasse, l’articolo 41 prosegue: “[L’iniziativa economica] Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Lasciamo da parte queste ultime tre cose, cui provvedono i codici, e chiediamoci: qual è l’utilità sociale della filatelia, della pornografia o del culturismo? E se essi non sono socialmente utili, solo per questo bisognerebbe vietarli? In realtà nello Stato liberale ognuno ha il diritto di intraprendere qualunque attività che non sia in contrasto con la legge e corrisponde soltanto agli interessi di produttori e consumatori.
Per fortuna questo articolo tra il sovietico e il teocratico è stato placidamente dimenticato. Il buon senso degli italiani ha prevalso sull’ideologismo balordo dei Catoni. E non ha neppure applicato la conclusione: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. L’Italia ha disobbedito alla Costituzione e non è divenuta uno Stato totalitario.
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Inutile dire che considerazioni analoghe valgono per l’art.42 cpv quando statuisce che “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Già nella Russia sovietica era permesso possedere la casa di abitazione: siamo dunque stati a un pelo di battere l’U.R.S.S. sul suo terreno?
Ma soprattutto, che funzione sociale ha la proprietà di un canarino, di un corno rosso o di libro pornografico? A meno che queste cose non servano a far sì che si possa dire che la proprietà “è accessibile a tutti”: chi possiede un corno rosso fa felice l’art.42.
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Art.47, primo comma: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito”. Parole chiare, nette e inequivocabili. Peccato che siano bugiarde.
Facciamo l’ipotesi che un tizio non spenda tutto quello che guadagna e tenga da parte un po’ di denaro. Lo Stato naturalmente non gli bada. Se invece volesse incoraggiarlo dovrebbe diminuirgli le tasse, aumentargli la paga, dargli una medaglia, insomma fare qualcosa per lui: questo è “incoraggiare”. Se al contrario gliene rubasse una parte, chi potrebbe dire che lo incoraggia e lo tutela? E tuttavia è proprio ciò che avviene. Non solo lo Stato tassa il ricavato degli eventuali interessi (perfino quelli, miserrimi, dei conti correnti bancari, che non compensano nemmeno l’inflazione), ma la mentalità del Paese va in direzione opposta, dimostrando che l’art.47 è una presa in giro. Ogni volta che ci sono difficoltà di bilancio mezza nazione invoca la patrimoniale. Ultimamente la Presidente del Pd ha proposto di andare a togliere agli abbienti una parte di ciò che hanno senza altra giustificazione che il fatto che lo hanno. In base alla teoria economica degli analfabeti frustrati secondo cui se alcuni hanno di più, è perché hanno rubato a quelli che hanno di meno. Infatti la ricchezza – sempre per gli analfabeti economici – è una quantità fissa i cui spostamenti sono a somma zero.
E questo vale anche per il risparmio che la Costituzione “tutela e favorisce”. L’imbecille al contrario dice: se qualcuno ha dei risparmi, è segno che ha potuto mettere qualcosa da parte. Io non ho potuto. Dunque date a me il suo denaro.
Per la sinistra la megapatrimoniale è la soluzione per i problemi economici della nazione, Non solo gli applausi non le mancano, quando ne parla, ma forse con questo programma vincerà le elezioni del 2013.(il Legno storto)

mercoledì 19 settembre 2012

Così Diego lo Scarparo e Sergio il Carrettiere fanno baruffa al mercato. Alessandro Giuli.

                                   

Nella comune terra medioadriatica si sarebbe detto un tempo che lo Scarparo e il Carrettiere hanno preso a fare baruffa al mercato. Diego Della Valle contro Sergio Marchionne. Il padrone di un calzaturificio divenuto negli anni il florido marchio per le élite di massa (Tod’s) contro il grande manager di un impero immiserito in patria e rinato negli Stati Uniti (Fiat). Dicendo che “la Fiat è un bersaglio grosso, più delle scarpe di alta qualità e alto prezzo che compravo anch’io fino a qualche tempo fa: adesso non più”, Marchionne si tradisce ingenuo e stizzito, lui stesso preda di quello “starnazzare nel pollaio più provinciale che c’è” sdegnosamente denunciato per richiamare la volgarità delle accuse di Della Valle. Certo, a sua parziale discolpa c’è che nell’arco di tre giorni il patron della Fiorentina gli aveva dato di “furbetto cosmopolita” e rappresentante cadetto di una famiglia (gli Agnelli) avvezza a “spararla grossa” salvo poi andarsene “alla chetichella”. Dunque uomo dalla mancata parola, Marchionne, nell’impeto accusatorio del suo antagonista. Ma sopra tutto cittadino del mondo, déraciné, traditore di un malriposto orgoglio per la stanzialità patriottica: non più un figlio degli Abruzzi natii (Chieti, città degli antichi Marrucini, guerrieri dal dialetto osco-umbro presto romanizzati), ormai soltanto un rampollo qualunque del melting pot italo-canadese (con residenza in Svizzera, peraltro).
E’ anche questo il sottotesto implicito nella requisitoria di Diego Della Valle da Sant’Elpidio a Mare (Sallupijo, in dialetto locale, Marche rivierasche). In realtà pure l’uomo delle scarpe coi pallini non scherza quanto a irraggiamento internazionale, diversamente non sarebbe il commerciante che è, come lo è Marchionne. Ma, a differenza di quest’ultimo, Della Valle sembra voler insistere sguaiatamente su una differenza di status (io sono un padroncino, tu resti un salariato) che vela appena la dissimiglianza dei caratteri. Perché la bottega di Della Valle è rigonfia di quattrini (in gergo: liquidità) e lui ci tiene da morire a farlo sapere. Lo si arguisce dalle sue parole – è diventato un urlatore nei salotti che gli fanno fare anticamera, eppure ha tirato giù Geronzi dalla vetta di Generali e ora vuole fare stragi omeriche in Rcs – e più ancora dalle sue movenze, dai tic e dalle smorfie in cui solitamente si manifesta l’ego di una persona (dall’etrusco Phersu=maschera). Ecco, quello di Diego lo Scarparo è un ego impaziente di riconoscimenti che si condensa nella capigliatura ravviata di continuo, nei braccialetti seriali ai polsi, nei gessati da paesano metropolitano. “Guardami – sembra sempre gridare anche quando è muto – sono tanto ricco da poterti fare la lezione di vita”.
E così è andata con Marchionne, che di suo ha scelto un’altra teatralità non meno egolatrica ma più efficace. Stessa sprezzatura, magari, però espressa con il profilo basso di uno che può vestirsi di stracci (costosissimi) e di barba penitenziale perché tanto, quando gli va, alza il telefono e dall’altra parte risponde Barack Obama. Sergio il Carrettiere è a modo suo uno che ha fatto fortuna in “Ammerica” e poi è diventato famoso grazie alla prima industria manifatturiera italiana, quella Fiat che ha deciso di spiantare dal giardino inaridito di un’Italia di cui non ha bisogno né rimpianto. Pur sempre noblesse de robe, quella di Sergio, ma sciacquata nell’Atlantico, aristocratizzata dal marchio sabaudo di cui è espressione, distante quanto basta dall’attuale coda di cometa del vecchio stile Agnelli; e fin troppo luccicante se messa a paragone di certa arrembante foga bottegaia. Se vuole fare rumore, discolparsi, contrattaccare, minacciare o promettere pace, Marchionne ha un direttore come Ezio Mauro a fargli da interlocutore e un’intervista baritonale assicurata in prima pagina su Repubblica. Della Valle, quando è mosso da un attacco di moralismo politico, deve acquistare le pagine interne ovvero, per conquistarsi le copertine, prendere a scarpate un Marchionne al giorno e poi attraversare con cura sulle strisce per non finire investito dal suo carretto.
Leggi Corriere e Stampa, due grandi ossessioni del capitalismo italiano - Leggi I perché della strategia flemmatica di Palazzo Chigi su Fiat di Alberto Brambilla - Leggi La carta a sorpresa di Marchionne ora si chiama modello Canada
 

martedì 18 settembre 2012

A scuola d'Italia. Davide Giacalone

  

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Venite a scuola, per capire il perché l’Italia è inchiodata e non riesce a muoversi. Entrate in segreteria o nelle classi, e toccherete con mano cosa la tiene ferma: non sono le forze oscure della reazione in agguato, e neanche i potenti interessi delle lobbies, è il non credere che si possa cambiare, la paura, la pigrizia, l’assenza di direttive chiare e inderogabili, le iperboli ministeriali che non diventano realtà. A scuola, come in tanti altri posti, si registra il trionfo dell’Italia burocratica su quella che ha voglia di crescere.
Sono anni che si parla di scuola digitale, però si va indietro anziché avanti. Si lamenta l’assenza di soldi, ma il problema è che se ne spendono troppi. Male. Da tre anni è già disponibile, per tutti gli studenti, tutte le famiglie e tutte le scuole il servizio d’interazione digitale. Valeva per le assenze, come per le comunicazioni, le pagelle, i programmi e via discorrendo. Era anche gratis, nel senso che si era fatto un accordo con i gestori di telefonia mobile, in modo da non far pagare né le famiglie né le scuole. Solo che non lo si rese obbligatorio (come opportunamente, invece, si fece con le dichiarazioni dei redditi). Il governo di allora (Berlusconi) accettò, sbagliando, di far convivere il digitale con l’analogico. Risultato: la risacca porta via anche il buono che c’era e si ricomincia sempre da zero. Senza memoria.

Dicono dalle scuole: per avere il registro digitale ci vuole un computer o un tablet per ogni professore. Non è vero: basta che il bidello raccolga i dati e in segreteria li introducano nel computer. Se vogliono un’indennità speciale, per questo lavoro, meritano il licenziamento. Per mandare l’uomo sulla luna s’impiegò meno elettronica di quel che c’è in una segreteria scolastica. Siccome lo usano solo per approntare gli stipendi è ovvio che la macchina rincula. Ora il ministro dell’istruzione annuncia: un computer per ogni classe (spesa 24 milioni) e un tablet per ogni insegnante del sud (spesa 32 milioni). Non sanno come spendere i soldi dei fondi convergenza, di provenienza europea, sicché la gara è a chi li spende prima. Ma male: comprare computer significa attrezzare un parco che presto sarà tecnologicamente arretrato e progressivamente danneggiato. Soldi che evaporeranno, ammesso che riescano a spenderli veramente. Se si vuol far crescere un mercato e puntare all’innovazione questa roba si esternalizza, chiedendo ai fornitori servizi, non l’ennesima overdose di computer da buttare, magari ancora incartati.

Neanche ci si è liberati dei libri di testo. Ogni anno ne compriamo un quintale (e chi scrive ama i libri, ma quelli veri, non i manuali o le raccolte d’esercizi che cambiano numero per giustificare la diversa edizione). Quest’anno le famiglie spenderanno un centinaio di euro in più rispetto all’anno scorso, come se i soldi abbondassero. Con quei quattrini si potrebbe tranquillamente dotare ogni studente di un computer e dei testi (sempre esternalizzando), senza differenze di reddito e classe sociale. Però si dovrebbe rendere obbligatoria l’adozione dei testi digitali e non si dovrebbe cedere alla misera lobby degli stampatori, che frenano l’innovazione e lucrano su una rendita di posizione che impoverisce l’Italia. Risultato: ancora una volta si adottano testi sia stampati che digitali, con il risultato che in classe entrano solo i primi. Eppure l’Eni aveva già messo a disposizione, due anni fa, la propria piattaforma di e-learning, per far nascere veramente la scuola digitale. Era gratis. Forse per questo si dimentica.

In compenso, dicono al ministero dell’Istruzione, si farà un concorso per assumere gli insegnanti. Solo che si attinge alle graduatorie del passato, con il risultato che i nostri insegnanti sono vecchi. Nella scuola primaria (con i bambini) il 77,2% ha più di 40 anni, con il 39,3 che ne ha più di 50. Nella secondaria gli over 50 sono la metà. Medie nettamente superiori sia a quelle dell’Ocse che a quelle dell’Unione europea. Sono i più bravi? Non lo sappiamo, perché i concorsi non si fanno da lustri. Moltissimi sono bravissimi, tanti sono ciuchissimi, altrettanti non gliene frega nulla. Ma li trattiamo tutti allo stesso modo. Si dice: hanno diritti acquisiti. E i diritti dei ragazzi? Il diritto a stare in una scuola seriamente formativa? Non contano, questi diritti. Salvo poi, con i test Pisa e Invalsi, misurare la desertificazione culturale e lo svantaggio concorrenziale.

La spesa pubblica per l’istruzione, in Italia, ammonta al 4,7% del prodotto interno lordo, mentre la media Ocse è il 5,9. La quota di spesa pubblica destinata all’istruzione è il 9%, meno di noi spende solo il Giappone. E’ povera, la scuola italiana? Sì, è povera, ma non è povera la spesa totale, perché le famiglie spendono un botto. Solo che è la qualità a essere bassa, perché i cittadini spendono senza potere scegliere, senza che siano pubblicati i dati con cui orientarsi. E’ la meritocrazia a essere stata espulsa. Prima dalle cattedre e poi dai banchi. Risultato: i giovani economicamente svantaggiati non hanno ascensori sociali, mentre noi tutti perdiamo la qualità dei migliori.

Ci fermano miserrime resistenze che, però, non trovano davanti a sé governi (plurale, perché sono anni che non si schioda) e politiche degni dei loro nomi. Solo annunci e superficialità, quindi rassegnazione esibizionista. Adesso la digitalizzazione è stata inserita nella spending review e nelle varie “agende”, ma la cruna dell’ago resta vergine: la si smetta di considerare tutto “sperimentale”, perché non c’è un bel niente da sperimentare, e si passi all’obbligo. Fuori da questo c’è solo il parolaismo inconcludente, sicché prende corpo l’abominio di un Paese che dovrebbe essere eccellente nella cultura (e che diamine, se non riusciamo neanche in quello!) e invece affoga nel rivendicazionismo miserando. Alla fine produciamo meno laureati degli altri paesi Ocse.

Venite a scuola e guardate in faccia quel che ci affonda. Poi facciamo pure gli auguri ai nostri figli che, in questi giorni, tornano a scuola. Studiate, non accontentatevi. Protestate.

lunedì 17 settembre 2012

Note sulla Costituzione - VII La salute. Gianni Pardo

  

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Art. 32 – Lo Stato italiano, per come lo vedevano i nostri costituenti, doveva essere una sorta di educatore, di padre amorevole e perfino di tenera madre. Non è strano che essi l’abbiano immaginato trepidamente preoccupato della nostra salute. Scrissero infatti, ottimisticamente (art. 32): «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».
Bella formulazione che tuttavia non riesce a sfuggire alla retorica e al linguaggio immaginifico. Che senso ha dire che la salute è un “fondamentale diritto”? La salute sarà un fondamentale interesse, magari una fondamentale speranza e perfino un fondamentale vantaggio, se la si ha: ma un diritto? A chi ricorrere, se non si ha? Naturalmente i costituenti, ancora una volta, non parlavano in termini giuridici. Intendevano, piuttosto che un diritto alla salute, un diritto a quelle cure che la salute possono assicurare, o almeno migliorare. Ma anche in questo caso: gratuitamente? Perché se le cure non sono gratuite, neanche questo diritto esiste. E se sono a pagamento (anche in parte) si ha tanto diritto ad ottenerle quanto si ha il diritto di ottenere il cono gelato che si è pagato alla cassa.
L’ambizione era forse quella di offrire gratis tutto a tutti ma l’esperienza ha mostrato che la Repubblica questa generosità non se la può permettere. Ha per esempio provato un paio di volte ad abolire il contributo per i farmaci ed ha dovuto fare marcia indietro: perché la gente sprecava i medicinali e il costo diveniva insostenibile. Insomma ci si è scontrati con la realtà.
La regola del buon senso dice che tutti devono essere assicurati e che tutti devono poi quanto meno contribuire alle spese per le loro cure: solo questo permetterà alla sanità di Stato di sopravvivere, pur rimanendo sempre deficitaria. Le stesse cure gratuite agli indigenti devono essere concepite solo in caso di necessità, e in ospedale. Per non dire che rimane sempre il problema di determinare chi sono gli indigenti. Insomma “il diritto alla salute”, come altri famosi “diritti” della nostra Legge Fondamentale, non esiste.
Il secondo comma «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Che nessuno, salvo il caso del pazzo furioso, debba subire cure mediche non volute, è giusto. Ma come mai non si permette che una persona normale rifiuti preventivamente l’accanimento terapeutico o la nutrizione forzata, nel caso rimanga in coma irreversibile? Come mai non si permette l’eutanasia? Come mai non si considera doveroso il rispetto del cittadino quando vuole decidere della propria vita? Questo non oltrepassa i “limiti imposti dal rispetto della persona umana”? Se dal punto di vista giuridico e morale è sacrosanto il diritto alla vita, come mai non si sancisce anche il diritto alla propria morte? La legislazione è fondamentalmente un mezzo per regolare i rapporti fra gli uomini, non il modo come ciascuno deve comportarsi con sé stesso, e queste norme scavalcano un limite del diritto: la sua fondamentale “alterità”.
Le difficoltà che le leggi italiane hanno frapposto all’esercizio dei poteri sul proprio corpo – pure teoricamente sanzionati dalla Costituzione – non dipendono da motivi giuridici ma dall’idea (cristiana) che l’uomo non può disporre della vita che gli ha dato Dio. Questa rispettabile dottrina appartiene però solo ai credenti ed è ingiusto applicarla ai non credenti. Fra l’altro quando già si permette una pratica, come l’aborto, che riguarda, oltre la donna, un altro essere umano, se pure in fieri.
Ancora una volta la mentalità della società prevale sul diritto. Ecco perché la Gran Bretagna non ha una Costituzione. Gli inglesi, gente pragmatica, hanno capito prima di altri che quella Carta è di fatto il riassunto del livello sociale e giuridico raggiunto da una nazione. E dunque è inutile scriverla. Se un certo principio (il divieto dell’eutanasia) è sentito come giusto, sarà applicato anche se non è inserito in un testo magniloquente. E se non è sentito come giusto, anche se è inserito in quel testo, non è applicato. Per esempio in Italia le regole per lo sciopero non sono state applicate per più di quarant’anni. (il Legno storto)

Note sulla Costituzione - VI - Il carcere - La famiglia. Gianni Pardo

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Secondo l’Art. 27, terzo comma, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Questa norma, indiscutibile per i “trattamenti contrari al senso di umanità”, è allarmante per le ultime parole.
Nell’Italia attuale fanno pensare a biblioteche all’interno delle carceri, a corsi di storia o di informatica per i detenuti, o al coinvolgimento dei carcerati nell’amministrazione della comunità, ma esse potrebbero essere applicate in modo ben diverso da un governo divenuto autoritario ed ideologico. Lo Stato potrebbe prima emanare leggi contro il dissenso e poi mettere in carcere le persone che criticano l’autorità. La nobile finalità del miglioramento morale del condannato potrebbe portare, come in Cina, ai “campi di rieducazione”: “Non solo starai in carcere ma, dal momento che tendo a rieducarti, dovrai studiare la dottrina del partito e dire che ne sei convinto”. Nessuno nega che ne siamo lontani, ma quando si tratta della libertà di parola e ancor più di pensiero, è meglio soffrire il solletico.
Finché si vieta di percuotere il carcerato o di tenerlo in galera senza un ordine del magistrato, sia lode alla Costituzione: ma perché concedere allo Stato il diritto di porsi a maestro di etica? Perché consentirgli di insegnare la morale, mentre tiene qualcuno in galera? È già molto che, per fini di ordine pubblico e di sicurezza, gli si consenta di tenere rinchiuso il corpo di un cittadino: non deve in nessun caso essergli permesso di rinchiuderne anche l’anima. Non molto tempo fa gli avrebbe insegnato che è male essere omosessuali, che è vietato essere atei o infine, come nella Cina di Mao, che non è ammesso essere anticomunisti.
Un liberale ha paura dei moralisti e di una Costituzione che tende chiaramente “al bene”. Ancor più se pensa che il tentativo di insegnarlo, quel bene, sarà poi affidato ai singoli magistrati e ai singoli carcerieri.
La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. In realtà l’art.27 avrebbe dovuto rinunciare all’indicazione di ciò cui deve tendere la reclusione. La pena costituisce un “pagamento” delle proprie colpe e la società “creditrice” dovrebbe accontentarsi di esso, senza pretendere che il debitore si cosparga inoltre il capo di cenere.
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L’Art. 29, secondo comma, statuisce che: "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”.
Nel primo comma si fa riferimento alla società naturale, prevedendo con essa solo la coppia eterosessuale. Ma l’omosessualità non è meno naturale dell’eterosessualità. Anche chi volesse considerarla una deviazione rispetto alla normalità non può negare che essa sia naturale, come sono naturali l’albinismo o l’alluce valgo. Paradossalmente dunque, con l’accenno alla società naturale, la Costituzione non vieta affatto il pur inutile matrimonio degli omosessuali. Se si fosse scritto “i diritti della famiglia fondata sul matrimonio”, senza parlare di società naturale, non avremmo rimpianto le parole mancanti. Poi il legislatore avrebbe potuto regolare l’istituto nel modo meglio rispondente alla sensibilità collettiva e nel testo ci si sarebbe risparmiata una delle tante tracce di discutibili ideologie.
Più criticabile è il secondo paragrafo, lì dove parla di limiti all’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi: limiti che, ci scommetteremmo, quando esistenti sono a favore dell’uomo e contro la donna. Prova ne sia che un tempo nei reati di adulterio e concubinato per la donna bastava un congiungimento carnale con una persona diversa dal marito (l’art.559 parlava soltanto della moglie adultera) mentre per l’uomo il reato di adulterio era previsto esclusivamente a querela del marito dell’amante, e non della sua propria moglie! Quanto al concubinato, per essere punibile era necessario che il marito tenesse (art.560) la “concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove”. Se l’altra donna non era nella casa coniugale, o se il fatto non era di pubblico dominio, il reato veniva meno. Bisognava proprio che la mancanza di rispetto per la moglie fosse conclamata e scandalosa: sempre che l’articolo non proteggesse in realtà più l’onorabilità della famiglia che della moglie.
Poco importa che queste norme siano state cancellate (anche se parecchi anni dopo il 1948): esse servono almeno a mostrare come la Costituzione sia tutt’altro che quel testo di sovrumana saggezza che molti pretendono sia. (il Legno storto)
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giovedì 6 settembre 2012

Note sulla Costituzione - II, Art.3. Gianni Pardo


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Montesquieu
Art. 3 – L’uguaglianza
L’art. 3 è uno dei più importanti: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Dai tempi della Rivoluzione francese, il principio dell’uguaglianza è divenuto imprescindibile, nei Paesi democratici. Purtroppo, quando si passa dall’enunciazione teorica alla realizzazione pratica, quest’ultima non va esente da gravi problemi. Dunque l’art. 3 della Costituzione va applicato cum grano salis. Il buon senso non vuole che si conceda il voto politico ai ragazzini di dieci anni soltanto perché cittadini italiani come gli altri, tanto che sarebbe anticostituzionale discriminarli per età. Non si può pagare nello stesso modo il grande chirurgo e l’ultimo degli infermieri solo perché ambedue curano malati. Non si può pretendere che lo stratega di superiore competenza, in quanto militare come gli altri, vada all’assalto all’arma bianca insieme con i coscritti: infatti il Paese ricava una maggiore utilità dalla sua competenza che dalla sua morte. Viceversa è giusto che un capufficio donna guadagni quanto un capufficio uomo ed è giusto che, per l’omicidio, si applichi la stessa pena al bracciante e al miliardario.
L’uguaglianza dunque deve valere per tutti i cittadini nelle medesime condizioni. E dal momento che il Presidente della Repubblica è l’unico nella sua condizione, è comprensibile che sia trattato diversamente persino in materia di diritto penale (art. 90).
Il problema si riduce dunque all’identificazione “delle medesime categorie di condizioni”. E questa è un’operazione eminentemente politica.
Se si mette da parte un’irrealistica uguaglianza, è facile vedere che i ministri, i Presidenti delle Camere e gli stessi parlamentari non hanno, per la vita della repubblica, la stessa importanza degli altri cittadini. Essi non si limitano a votare una volta ogni cinque anni e per il funzionamento dello Stato: al contrario sono essenziali in ogni giorno della legislatura. Per questo vanno specialmente protetti, in particolare da accuse strumentali di uno degli altri poteri (il giudiziario). E infatti a questo provvedeva l’immunità parlamentare (art. 68) come era formulata prima del 1993. Ma poi ha prevalso la demagogia egalitaria.
Né meno preoccupante del primo comma è il secondo comma. Una volta che il sacro principio dell’uguaglianza si incarni nella “rimozione degli ostacoli” alla sua concreta attuazione, ciò può significare il sequestro di ogni bene ai Kulaki e all’occasione il loro massacro. L’operazione staliniana infatti tendeva all’“uguaglianza dei cittadini” e non tutti erano proprietari terrieri. Ecco perché bisogna temere le norme dal contenuto ideologico. L’Italia non ha massacrato i suoi Kulaki ma nel ’68 ha avuto gente che protestava contro la bocciatura negli esami universitari, sostenendo che era una discriminazione. L’uguaglianza dei cittadini richiedeva che si desse il 18 politico a tutti, magari con un esame di gruppo in cui parlava l’unico che aveva studiato.
Quando le norme sono vaghe ed elastiche a determinate categorie si possono attribuire più o meno diritti che alle altre. Un Parlamento maschilista potrebbe decretare che le donne, a causa della loro intrinseca debolezza, siano meno produttive degli uomini, sul lavoro, e dunque debbano essere pagate di meno; mentre un altro Parlamento, femminista, potrebbe decretare che le donne siano pagate di più perché a casa lavorano più dei loro mariti. L’art. 3 non è univoco. Dopo che l’art. 68 è stato modificato, la Consulta, pur di negare ai ministri uno scudo contro l’invadenza della magistratura (lodo Alfano, lodo Schifani), li ha ripetutamente dichiarati cittadini come gli altri. Per giunta con motivazioni sempre nuove, facendo pensare al proverbio per cui “chi vuole annegare il suo cane dice che è appestato”.
L’interpretazione dei grandi princìpi è sempre un atto politico e la Consulta è un organo composto di nominati che ha il potere di annullare la volontà dell’organo elettivo che esprime la sovranità del popolo: il Parlamento.
Ecco un ultimo esempio. La Consulta ha dichiarato incostituzionale che il PM non possa ricorrere contro la sentenza d'assoluzione, dimenticando che ogni cittadino deve essere condannato solo quando la sua colpa è certa; mentre il fatto che un giudice lo abbia assolto, se non prova la sua innocenza, prova almeno che qualche dubbio sulla colpevolezza ci sia. Ma la Corte Costituzionale aveva una sua idea (politica) al riguardo, e ad essa ha dato ascolto.
I grandi principi sono tanto nobili quanto pericolosi. (il Legno storto)

Note sulla Costituzione - artt. 1 e 2. Gianni Pardo


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Piero Calamandrei
La Costituzione Italiana è fatta oggetto di un ossequio così costante e devoto che a volte sbocca nel feticismo. Qualcuno la ritiene talmente perfetta da sentirsi in dovere di stramaledire chi osa criticarla o propone di cambiarla. Anche se essa stessa prevede con l’art.138 le modalità della propria riforma, per alcuni quell’articolo è come se non esistesse. Il testo è, come il Corano, espressione di una tale superiore saggezza da essere quasi divino. Poiché però già in materia di religione esistono gli atei, deve pure essere lecito che esistano gli empi in materia di Costituzione. È per dar voce a questi reietti che si commenteranno qui alcuni articoli dei Principi fondamentali e dei titoli I, II, III della Parte prima. E solo per questo servirà più di una puntata.

L’Art. 1 recita: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Che significa “fondata sul lavoro”? Esiste forse qualche comunità in cui i beni e i servizi non sono prodotti dal lavoro di qualcuno? Inoltre, dal momento che il lavoro è un’astrazione, evidentemente ci si riferisce ai lavoratori. E allora, vogliamo escludere da coloro su cui si fonda la Repubblica i bambini, i pensionati, gli inabili, le casalinghe? O forse i dirigenti e gli imprenditori, che spesso lavorano più degli altri? Fra l’altro non si può dimenticare che l’art. 3 stabilisce l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Se dunque la Repubblica sentisse una particolare preferenza per una categoria di cittadini rispetto ad un’altra entrerebbe in contrasto con sé stessa.
Né l’art. 1 potrebbe essere salvato dalle parole dette già sul momento da Amintore Fanfani: a parere di quello statista esso escludeva che la Repubblica potesse «fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui». Ma non era necessario escludere ciò per la buona ragione che una simile aberrazione non era venuta in mente a nessuno.
Oggi sembra che tutti conoscano quell’articolo della Costituzione, lo capiscano e lo approvino. Viceversa nel 1947 il grande Calamandrei si domandava: «Quando dovrò spiegare ai miei studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro, che cosa potrò dire?(1)». Ma forse era meno intelligente di tanti nostri contemporanei.
La verità è che ciò che alcuni costituenti avrebbero amato dire era che l’Italia sarebbe stata dominata dai proletari. Una versione edulcorata di “tutto il potere ai Soviet”. Solo che non s’è avuto il coraggio di scriverlo e il risultato è un articolo pomposo che non dice nulla.

L’art. 2 non è né meno pomposo né meno criticabile. Eccolo: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Il verbo “riconosce” implica che ci si riferisca a diritti noti e chiaramente formulati, e questa è mitologia. O forse semplice retorica. Infatti, in quale testo sono? E se non ci si riferisce a un testo chiaro e determinato, lo Stato potrà in ogni momento “riconoscere” un dato diritto e  non “riconoscere” un altro diritto, reputando che esso non sia “inviolabile”. La stessa inviolabilità è un concetto vago il cui ambito, in fin dei conti, è lasciato allo Stato stesso.
Forse anche più pericolosa è l’affermazione per la quale lo Stato «richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». In uno Stato moderno e liberale la solidarietà non è giuridicamente esigibile. Un tempo ai contadini si richiedevano le corvées, cioè prestazioni lavorative non retribuite ma obbligatorie in quanto dovute al feudatario, e il signore avrebbe potuto affermare che esse derivavano dalla necessità di dimostrare la propria solidarietà politica, economica e sociale. E nello stesso modo può agire uno Stato totalitario. Viceversa uno Stato liberale non esige l’adempimento di doveri morali tanto incerti quanto inderogabili. In esso il cittadino non ha doveri “positivi”: deve solo pagare le tasse (col permesso di odiare il fisco) e osservare le leggi. Per il resto può fare quello che vuole. In Inghilterra un tempo ciò si riassumeva con questo principio riassuntivo: «Non dire male della regina e non spaventare i cavalli per strada».
La mentalità di chi scrisse il testo di quell’art. 2 fu forse platonica, rousseauista, teocratica, sovietica, certo non fu liberale. (il Legno storto)

domenica 2 settembre 2012

2 settembre 2012

Di nuovo sollecitato in tv, Travaglio ha ulteriormente articolato la risposta alla domanda delle domande: che ha guadagnato Cosa nostra da questa ventennale trattativa? Stavolta la risposta è stata: tredici anni di latitanza per Provenzano. Tralasciamo la pur legittima chiosa su quali altre trattative – evidentemente rimaste impunite – avevano consentito i precedenti quaranta anni di latitanza.  Mi immagino la risposta e sono sostanzialmente d’accordo. Magari con qualche battaglia in più di Travaglio sull’argomento, ma solo per motivi d’età. Veniamo ai fatti. In quei tredici anni vengono arrestati i fratelli Graviano, Luca Bagarella, i fratelli Brusca. Il gotha dello stragismo. In meno di tre anni, dal ’94 al ’96. Pure loro consegnati da Provenzano? Sorgerebbe in ogni caso la controdomanda: e se pure? Ma non dev’essere nemmeno così se, mentre le ricerche continuavano, fioccavano le indagini patrimoniali su Provenzano e ne sa qualcosa proprio il dottore Ingroia che vide un finanziere suo aiutante più che sospettato di aver tenuto al corrente di quelle indagini gli amici del boss. Per la cronaca, il finanziere fu, insieme al dottore, gradito compagno di vacanza di Travaglio. Sta di fatto che Provenzano alla fine venne stanato e preso. Fine delle trattative? Neanche per idea. Ingroia ha aperto una indagine anche su quell’arresto. Non se ne esce.
di Massimo Bordin