venerdì 28 marzo 2008

I pasticci di Prodi e Ferrero. Antonio Maglietta

Il Fondo per l'inclusione sociale degli immigrati è incostituzionale

Il comma 1267 dell'articolo 1 della legge n. 296 del 2006 (Finanziaria 2007) dispone l'istituzione, presso il ministero della Solidarietà Sociale, del Fondo per l'inclusione sociale degli immigrati, per il quale è stanziata la somma di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009. Il Fondo è altresì finalizzato alla realizzazione di un piano per l'accoglienza degli alunni stranieri, anche per favorire il rapporto scuola-famiglia, mediante l'utilizzo, per fini non didattici, di apposite figure professionali madrelingua quali mediatori culturali.

La Regione Veneto, nell'ambito di un ricorso alla Corte Costituzionale (iscritto al n. 10 del reg. ric. 2007) che ha toccato più di una norma della Finanziaria 2007, ha obiettato che il Fondo concerne materie che riguardano le politiche sociali di stretta competenza regionale e non statale, con la conseguente violazione degli articoli 117, quarto comma, 118 e 119 della Costituzione. In subordine, comunque, la Regione ha osservato che, tenuto conto delle possibili interferenze tra la suddetta materia e le materie diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea (articolo 117, secondo comma, lettera a) e immigrazione (articolo 117, secondo comma, lettera b), attribuite alla potestà esclusiva dello Stato, vi sarebbe in ogni caso la lesione del principio di leale collaborazione, come desumibile dagli articoli 5 e 120, secondo comma, della Costituzione, nonché dall'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001. La Regione Lombardia, con ricorso depositato il 7 marzo dello scorso anno (iscritto al n. 14 del reg. ric. 2007), ha impugnato anch'essa una serie di norme della Finanziaria 2007, tra cui il comma 1267 dell'articolo 1, obiettando che non riserverebbe nessuno spazio a forme di partecipazione e collaborazione nella determinazione degli interventi in un settore in cui le Regioni hanno indubbia competenza.

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 50, depositata il 7 marzo scorso, ha messo subito in evidenza che il legislatore ha voluto perseguire, come risulta anche dalla stessa denominazione del Fondo, una chiara finalità di politica sociale, prevedendo uno stanziamento di risorse finanziarie al fine di assicurare l'adozione di una serie di misure di assistenza. Partendo da questa premessa, i giudici della Corte Costituzionale hanno sancito che: «La norma in esame, non prevedendo un intervento pubblico connesso alla programmazione dei flussi di ingresso ovvero al soggiorno degli stranieri nel territorio nazionale, non rientra nella competenza legislativa esclusiva statale in materia di immigrazione, ma inerisce ad ambiti materiali regionali, quali quelli dei servizi sociali e dell'istruzione (sentenza n. 300 del 2005, nonché, sia pure con riferimento ad una fattispecie diversa, sentenza n. 156 del 2006). Del resto, lo stesso legislatore statale ha attribuito alle Regioni il compito di adottare misure di "integrazione sociale" nell'ambito "delle proprie competenze" secondo quanto previsto dall'articolo 42 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante "Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero"».

Pertanto è stata dichiarata la illegittimità costituzionale della norma impugnata per violazione degli articoli 117, quarto comma, e 119 della Costituzione. La Corte ha comunque precisato che, vista la natura sociale delle provvidenze erogate, le quali ineriscono a diritti fondamentali, dovrà essere garantita, in ossequio ai principi di solidarietà sociale, la continuità di erogazione, con conseguente salvezza degli eventuali procedimenti di spesa in corso, anche se non esauriti (sentenze n. 423 del 2004 e n. 370 del 2003). I soldi, in estrema sintesi, se ci sono, devono essere assegnati alle Regioni.

Dopo due settimane dal deposito della sentenza, un affranto Ferrero, venerdì scorso, ha così commentato: «Le risorse, che erano destinate ad interventi di aiuto agli immigrati, andranno ora alle Regioni senza vincoli di destinazione d'uso. Considero questo amaramente perché se un paese che ha bisogno di immigrati per il lavoro non ci mette le risorse il rischio è poi di avere dei problemi». Probabilmente Ferrero non ha letto bene la sentenza, visto che la stessa Corte ha precisato che dovranno essere garantiti anche i procedimenti di spesa in corso. Ma il problema è un altro ed è tutto politico. Il centrosinistra al governo, calpestando anche la Costituzione e cercando di scavalcare anche le fastidiose (per loro) competenze regionali in materia, ha tentato di usare denaro pubblico per finanziare un demagogico impianto sull'immigrazione che si basa sul principio del «porte aperte per tutti» e su un costosissimo welfare, aperto praticamente a chiunque, ma pagato esclusivamente dalle tasche dei cittadini italiani. Ed è proprio grazie a questo assurdo sistema che nascono i problemi, perché si usano i soldi degli italiani per finanziare un welfare costoso ed inefficiente, con il rischio di fomentare un pericoloso sentimento anti-immigrati, senza cercare di responsabilizzare gli stessi stranieri con l'introduzione, ad esempio, della immigration tax, fatta pagare a chi arriva per finanziare i servizi pubblici che usa, così come proposto ultimamente in Gran Bretagna dal governo laburista di Gordon Brown. (Ragionpolitica)

martedì 25 marzo 2008

Baccini, Ciocchetti e il trasformismo. L'Occidentale

Dice Casini in una dichiarazione di oggi che il “trasformismo è il vero male dell’Italia” e che se uno è di destra deve pretendere il voti a destra, se è di sinistra a sinistra se è di centro al centro. Questa raffinata analisi è servita a Casini per spiegare perché non ha accettato di sostenere il governo Marini in cambio di una “importantissima” carica ministeriale.

Tutto bene e tutto giusto, ma un dubbio su questa storia del trasformismo ancora ce l’abbiamo. Un elettore romano che volesse un sindaco di centro per chi dovrebbe votare? Per Luciano Ciocchetti, candidato del l’Unione di Centro, con tanto di scudo crociato e nome di Casini nel simbolo? O per Mario Baccini, ex ministro Udc che si candida con la Rosa Bianca?

La domanda è lecita viste le recenti vicissitudini del centro e dintorni. Baccini aveva infatti lasciato l’Udc sbattendo la porta, e assieme a Tabacci e Pezzota aveva fondato la Rosa Bianca proprio in polemica con le gestione un po’ egocentrica di Casini. Poi dopo lunghi pensamenti, trattative e votazioni, hanno tutti fatto marcia in dietro e Rosa Bianca e Udc sono tornati una cosa bianca sola, l’Unione di Centro (così si risparmia sull’acronimo).

Tutti tranne Baccini che a Roma dell’Udc, di Casini e del suo candidato non ha voluto sapere.

Così a Roma Baccini e Ciocchetti incroceranno le spade, innalzeranno i loro vessilli, non svenderanno i loro valori centristi, l’uno contro l’altro armati.La cosa strana però è che i due sono anche al secondo e al terzo posto nella lista dell’Unione di Centro alla Camera nel Lazio, subito sotto Casini. Nemici a Roma, uniti nel Lazio. Si saranno nel frattempo trasformati? (l'Occidentale)

giovedì 20 marzo 2008

Il capitalismo responsabile. Francesco Giavazzi

Per quindici anni, dal 1992 al 2006, l’economia del mondo è cresciuta soprattutto grazie alla domanda che proveniva dagli Stati Uniti. I 18 milioni di nuovi posti di lavoro che l’Europa ha creato fra la metà degli anni Novanta e oggi sarebbero stati molti meno se gli Usa non fossero cresciuti a un ritmo tanto veloce. In questi anni gli Stati Uniti hanno importato di tutto, non solo beni e servizi ma anche persone: sedici milioni di nuovi immigrati ufficiali e nessuno sa quanti clandestini. Si capisce perché: gli Stati Uniti sono il Paese nel quale il tempo medio tra il giorno in cui un immigrato arriva e il giorno in cui può acquistare una casa è più breve: meno di dieci anni.

Certo, anche grazie all' eccessiva facilità con cui le banche concedevano i mutui, e oggi alcuni di quegli immigrati perderanno la casa, ma se fossero arrivati in Europa il sogno di possedere una casa propria sarebbe rimasto tale, un sogno. Quando ci lamentiamo per gli effetti che la crisi americana ha sulla nostra crescita e sui nostri risparmi non dovremmo scordare i benefici di cui abbiamo goduto. E tuttavia, per crescere tanto più rapidamente del resto del mondo, gli Stati Uniti hanno accumulato ampi squilibri: la crisi di questi mesi è il modo violento in cui essi oggi stanno rientrando. Il primo è l’enorme differenza fra il volume di importazioni e di esportazioni, che ha fatto crescere rapidamente il debito estero americano. Oggi questo squilibrio si sta riassorbendo grazie alla caduta del dollaro. La debolezza della moneta americana non è l’effetto delle turbolenze finanziarie di questi mesi: per riportare in equilibrio la bilancia dei pagamenti Usa il dollaro dovrà rimanere debole a lungo (fortunatamente le nostre imprese più accorte lo hanno capito da tempo e si sono attrezzate, spostando gli acquisti verso l’area del dollaro e le vendite verso Europa, Cina, India e Brasile).

L’unica cosa che l'Europa può fare è rimuovere gli ostacoli alla crescita che limitano consumi e investimenti: più crescita in Europa accelera la correzione del deficit americano e significa meno anni di dollaro debole. Il secondo squilibrio è il prezzo delle case che dal 2001 a oggi, negli Stati Uniti, come in Gran Bretagna, Spagna e Irlanda, è stato trainato da una vera e propria bolla speculativa. Sull’onda dell’aumento del valore della loro casa molte famiglie americane si sono indebitate e hanno aumentato i consumi. Ma, ancora una volta, prima di puntare il dito contro il sistema finanziario che ha consentito loro di farlo, non dimentichiamo che senza quei consumi le nostre economie sarebbero cresciute molto più lentamente. Oggi la discesa del prezzo delle case mette in difficoltà quelle famiglie e chi ha prestato loro denaro. Il problema è serio, ma limitato. Nel bilancio di Bear Stearns c'erano 33 miliardi di mutui, ma solo 2 miliardi di mutui subprime.

Un’ulteriore caduta del 20% del prezzo delle case (finora i prezzi sono scesi del 10% circa) metterebbe a rischio altri 10 miliardi di quei mutui: cifre sempre limitate considerando la dimensione del bilancio di Bear Stearns. E allora perché domenica la banca è arrivata sull'orlo del fallimento? Non perché fosse insolvente, ma perché era diventata illiquida. Aveva urgentemente bisogno di liquidità ma nessuno era disposto ad acquistare i suoi mutui, neppure quelli a basso rischio, neppure a prezzi di svendita. Come al mercato, quando si diffonde la voce che nelle cassette di un venditore di arance c’è qualche frutto marcio: nell’incertezza nessuno più si avvicina a quel banco, anche se la maggior parte dei frutti è buona e il banco è disposto a fare uno sconto. L’asimmetria informativa è un caso tipico di fallimento del mercato, che richiede l’intervento delle autorità. Non perché la banca centrale o il governo siano meglio in grado di riconoscere i mutui buoni da quelli «marci», ma perché solo le autorità tengono conto di quanto costerebbe alla società il fallimento di una grande banca. E per evitarlo sono disposte a correre rischi che un privato non ha interesse ad assumersi.

Questo spiega perché la Fed domenica sera ha assicurato l’intero magazzino mutui di Bear Stearns. Si tratta di capitalismo responsabile, non della fine del capitalismo come qualcuno vorrebbe interpretarla. Se la Fed ha compiuto un errore è aver atteso troppo a lungo, in questo ripetendo l’errore compiuto in settembre dalla Banca d’Inghilterra. Ma la cautela della Fed ha una spiegazione istituzionale. Negli Stati Uniti vige dal 1934 una separazione netta tra banche commerciali e banche di investimento. La Fed può prestare denaro alle banche commerciali, non alle banche di investimento: in cambio esse non sono sottoposte alla sua vigilanza. E’ anche per questo motivo che la Fed è intervenuta attraverso una banca commerciale, Jp Morgan. Da domenica quella separazione è di fatto sparita e le nuove regole pubblicate dalla Federal Reserve di New York (pur lasciando ancora ampie zone di incertezza che dovranno essere chiarite) aprono la strada al superamento della crisi.

Il modello europeo della banca «universale» non distingue fra banche commerciali e di investimento e quindi è più pronto a garantire liquidità: questo forse spiega perché nell'area dell’euro non vi siano stati finora casi altrettanto critici. Salvando Bear Stearns attraverso Jp Morgan (e azzerando la ricchezza degli azionisti della banca, a cominciare dai dipendenti e dai manager, il che dimostra che i loro tanto criticati compensi non sono sempre al sicuro) la Fed ha fatto un grande regalo agli azionisti di Jp Morgan, il cui prezzo in Borsa è salito in due giorni del 20%. A Londra in settembre, Gordon Brown, di fronte a una scelta analoga, decise di nazionalizzare Northern Rock: «Se lo Stato si assume un rischio deve anche godere dei potenziali vantaggi». La nazionalizzazione di Bear Stearns era una delle opzioni sul tavolo domenica sera a Washington, ma l'amministrazione Bush l’ha subito bocciata. E’ interessante chiedersi se un presidente democratico avrebbe deciso diversamente. (Corriere della Sera)

mercoledì 19 marzo 2008

Nota per Travaglio e i momenti magici per la giustizia. Christian Rocca

Marco Travaglio, in polemica con chi crede che i processi si facciano in tribunale e non in televisione, cioè con le persone normali, da tempo va scrivendo che in America pubblicano tranquillamente le intercettazioni dei politici senza che nessuno si indigni, come dimostrano il caso del governatore di New York Eliot Spitzer coinvolto in un giro di prostituzione e del sindaco di Detroit Kwame Kilpatrick che scambiava sms amorosi con la sua capo di gabinetto. Come sempre, Travaglio la racconta a modo suo.
Caso Spitzer. Intanto non è un’inchiesta politica, fatta per abbattere un avversario, ma è cominciata grazie al sistema di controllo automatico che scatta ogni volta che le banche registrano operazioni sospette (Spitzer aveva inviato soldi a una shell company e chiedeva alla banca di non far apparire il suo nome nel bonifico). Durante l’inchiesta, sui giornali non è uscito niente di niente. Idem quando è finita l’indagine. Niente di niente, né le intercettazioni né la notizia. A inchiesta chiusa e quattro persone arrestate, il governatore è stato avvertito dall’Fbi di essere stato identificato come “il cliente n. 9”. Ed è stato avvertito quattro giorni prima dello “scoop” del New York Times. Spitzer ha avuto tutto il tempo di passare il weekend in famiglia e di sistemare per quanto possibile la situazione. Ancora, in questi quattro giorni, sui giornali non è uscito niente di niente. Non solo. Dell’inchiesta sull’Emperor Club si sapeva già da cinque giorni e non con una soffiata dei magistrati a cronisti-buche-delle-lettere, ma con un comunicato stampa ufficiale della procura di New York e dell’Fbi, con tanto di numeri di telefono dei rispettivi uffici per le relazioni pubbliche. Un comunicato che, peraltro, si conclude così: “The charges contained in the Complaint are merely accusations and the defendants are presumed innocent unless and until proven guilty”, “le imputazioni sono mere accuse e gli imputati sono presunti innocenti a meno che, e fino a quando, non sarà provata la loro colpevolezza”. Per gli americani, evidentemente, il momento magico della giustizia non è quello delle manette.
Inoltre, fate attenzione, i quattro arrestati erano già apparsi in tribunale alcuni giorni prima dello scoop del Times. E i magistrati avevano già reso pubblici i documenti comprendenti le intercettazioni che coinvolgevano il “cliente numero 9”, cioè il governatore Spitzer. Il New York Sun si era chiesto come mai in tribunale, a seguire un caso di prostituzione ci fossero magistrati specializzati in corruzione di pubblici ufficiali. Così ha chiesto alla procura se per caso tra i clienti ci fosse un politico. La procura ha risposto con un “no comment”. Lo scoop del Times è stato di identificare “il cliente n. 9” con Spitzer. Non si sa come ci sia riuscito, ma si sa che la notizia è comparsa soltanto dopo che l’inchiesta fosse conclusa, gli imputati arrestati, i coinvolti avvertiti, la prima fase del processo cominciata e i documenti pubblici.Il caso del sindaco di Detroit è ancora più lontano dalla visione travagliesca.
Il sindaco e la sua capo di gabinetto avevano detto più volte e sotto giuramento, in un processo di cinque anni fa dove erano imputati per aver licenziato due poliziotti, di non avere una relazione sessuale. Gli sms che provano il contrario, pubblicati due mesi fa, non sono atti giudiziari, ma documenti pubblici secondo una direttiva dello stesso sindaco che considera tali tutte le comunicazioni elettroniche inviate con apparecchi del Comune. A consegnare al giornale i testi degli sms non è stata una talpa in procura, ma un dipendente comunale di cui si conosce il nome e il cognome anche perché non ha violato nessuna legge, nessun segreto, nessuna privacy.
Ora paragonate questi casi a uno qualsiasi di quelli che mandano in estasi Travaglio. (Camillo)

lunedì 10 marzo 2008

Ciarrapico, il "fascista" amico di Israele che ha salvato La Repubblica di De Benedetti. Carlo Panella

Arthur Koestler -che tutti dovrebbero leggere- spiegò nella sua preziosissima biografia (edita in Italia dal Mulino), non solo i processi staliniani e l'essenza del comunismo (in ''Buio a Mezzogiorno'' il ''colpevole'' accetta la morte ''per il bene del partito''), ma anche principi della disinformatjia, da lui stesso praticata nei giornali tedeschi prima del 1933.
Si àncora la propaganda ad un dato di fatto facilmente verificabile, poi lo si distorce, estremizzandolo, nella direzione voluta e utile al ''partito''. Il dato di fatto -si badi bene- deve essere vero e facilmente riconoscibile come tale da chiunque. Non dunque invenzione pura e semplice della notizia, non propaganda facilmente riconoscibile, ma intelligente deformazione della realtà universalmente conosciuta.
Prova eccellente di disinformatjia è la mossa di oggi su Ciarrapico. Nella sua eccellente intervista su repubblica, Antonello Caporale mette sotto gli occhi di tutti una verità ovvia: Ciarrapico non si scandalizza se lo si definisce ''fascista''. Poco importa che Ciarrapico non si riferisca all'oggi -come chiarsice in una secca smentita all'intervista- ma alla sua biografia, a quello che è stato in gioventù.
Il trucco è tutto lì.
Da qui, l'ondata di fango, implicita, sapientemente istillata, per Berlusconi e tutti quanti si trovano in lista con questo ''fascista''.
Di nuovo il ''cavaliere nero'', di nuovo ''l'emergenza democratica''.
La cosa divertente, come nota Giuliano Ferrara, è che proprio a quel ''fascista'', non ad altri, si rivolse all'inizio degli anni novanta l'editore di Repubblica che, assieme al suo socio, Eugenio Scalfari, bussò alla porta del finanziere ciociaro per la definizione del ''lodo Mondadori'', che restituì a Debenedetti e Scalfari il controllo pieno sull'editoriale Espresso, che stavano rischiando di perdere, assieme a quello della Mondadori.
Gratitudine immensa quindi di Debenedetti e Scalfari nei confronti dell'amico di Andreotti che li aveva aiutati a uscire da uno scomodo pantano.
Mai, mai, allora avrebbero permesso la pubblicazione di un'intervista irriverente come quella di Caporale pubblicata stamane.
Ma ora, la disinformatjia urge, il nemico è di nuovo alle porte e tutto fa brodo, pur di aiutare ''l'amico Walter''.
Il bello è che poi Ciarrapico, oltre a essere indubbiamente stato fascista, è anche per tradizione un buon amico di Israele (sulle orme del suo amico Giulio Caradonna, il cui padre si oppose nel 1938 alle leggi razziali e che compì un viaggio con Kippah a Gerusalemme già nel 1973) tanto che nella sua casa editrice (Edizioni Ciarrapico), ha pubblicato eccellenti e utilissimi testi: l'autobiografia del premio Nobel Menachem Begin (La rivolta... e fu Israele), una storia della Haganah -il braccio armato dei sionisti, poi diventato Forze Armate Israeliane (L'Haganàh. L'armata segreta d'Israele).
Il mondo, insomma, è un po' più complicato di quanto non si creda e Ciarrapico è molto meno fascista di quanto Debenedetti di oggi -non quello di ieri- vuol fare intendere.

venerdì 7 marzo 2008

Onore al soldato Mastella, fucilato dall'intellighenzja post staliniana. Carlo Panella

Un inquietante legame unisce la tracotanza e arroganza di cui Veltroni ha dato prova nel trattare con socialisti e radicali, lo squallore sconcertante delle sue liste (con questa ineffabile bionda Madia che continua a teorizzare che per fare un mestiere è necessario non saperlo, ed è capolista nel Lazio!) e la fine politica di Clemente Mastella.
Oltre al cinismo, alla teoria ''della fuffa'' e al piglio staliniano, c'è di peggio, di molto peggio: la complicità prona dei media ''de sinistra'' nel favorire i voleri del ''prence'' e nel demonizzare l'uomo di Ceppaloni.
Assieme a Romano Prodi, infatti, non è caduto solo per la seconda volta -e ignominiosamente- un premier; è caduta anche quella strategia che D'Alema e Veltroni -assieme- hanno elaborato e praticato dal 1994 in poi, che ad un certo punto trovò proprio nel ''mastellismo'' il suo baricentro: il rassemblement ''democratico'' per combattere ''l'emergenza'' costituita da Berlusconi. Là dove il cavaliere era ''nero'' portava alla fine della democrazia e via stalineggiando. La baracca messa in piedi da Veltroni e D'Alema in questo quadro, si reggeva su due elementi: odio viscerale per Berlusconi e gioco di Palazzo, di corridoio.
Prima Dini -nel 1995- poi Mastella -nel 1998- sono stati i maggiori successi di questa strategia: il primo perché ha tradito Berlusconi non dimettendosi dopo pochi mesi per dare spazio alle elezioni; il secondo perché ha fornito a D'Alema -sotto la leadership del geniale Cossiga- quella quarantina di deputati trasformisti che hanno tradito il voto loro consegnato per contrastare l'Ulivo e hanno permesso al fallimentare Ulivo di reggere ancora per tre anni.
Ma nella logica staliniana, il traditore, anche se gioca per te, va eliminato, non te ne puoi fidare. Non solo, lo devi additare al pubblico ludibrio. Così, Mastella, ogni volta che non obbediva agli ordini -perché è pur sempre un centrista, e anche abbastanza garantista- si riceveva una bella dose di fango... dalla stampa filogovernativa -cioè: tutta, o quasi- sino all'epilogo drammatico delle sue dimissioni.
La magistratura, naturalmente, è stata in perfetta sintonia con questo andazzo culturale e ha in più fornito armi e plotone d'esecuzione per puntire il ''voltagabbana''.
Una operazione mediatico-politico talmente radicale che Mastella si è trovato nella inedita posizione -riscontrata da tutti i sondaggisti- di un valore addirittura negativo -meno 4-6%- per chiunque se lo mettesse in lista.
Alla fine, lui ha dovuto prenderne atto e ritirarsi.
Chapeau a un buon politico, che ha ha avuto essenzialmente il torto di pensare che gli ex comunisti -politici o giornalisti- fossero dei galantuomini.

giovedì 6 marzo 2008

IBL: un manuale di riforme per liberare l'Italia

In un paese in cui si avverte un drammatico deficit di idee, l’Istituto Bruno Leoni mette a disposizione un programma “chiavi in mano” per liberare l’economia e ridare slancio al paese. Il volume, disponibile online, “Liberare l’Italia. Manuale delle riforme per la XVI legislatura” (PDF), i cui contenuti sono anticipati oggi dal Sole 24 Ore, affronta le maggiori sfide di politica economica e offre soluzioni coerentemente liberiste.

Scrivono sul Sole il direttore generale dell’IBL, Alberto Mingardi, e Stefano Parisi, membro del board dell’IBL: “l’Italia ancor oggi sconta, nei suoi tassi di crescita continuamente corretti al ribasso, un grado insufficiente di libertà economica”. Quindi, per l’IBL, occorre promuovere una sostanziale apertura del mercato, attraverso la riduzione dell’intervento pubblico a partire da tasse e spesa, e un ampio piano di liberalizzazioni e privatizzazioni. Per mettere in atto queste misure non servono cambiamenti istituzionali: tutto ciò è nelle facoltà di un governo volenteroso. “Le proposte dell’Istituto Bruno Leoni per liberare l’Italia – scrivono Mingardi e Parisi – non sono un libro dei sogni. L’Istituto e gli studiosi che hanno collaborato con esso hanno cercato di dare organizzazione puntuale e pragmatica a una serie di necessità che la società italiana dimostra giorno dopo giorno di sentire, ma che per ora non sono state articolate in un catalogo di cose da fare”.

Alla redazione del manuale hanno collaborato: Ugo Arrigo, Rosamaria Bitetti, Filippo Cavazzoni, Giuliano Cazzola, Luigi Ceffalo, Giuseppe De Filippi, Piercamillo Falasca, Giampaolo Galli, Andrea Giuricin, Carlo Lottieri, Giuseppe Pennisi, Jacopo Perego, Francesco Ramella, Serena Sileoni, Carlo Stagnaro, Domenico Sugamiele, Michele Tiraboschi e Massimiliano Trovato.

Il testo integrare di “Liberare l’Italia. Manuale delle riforme per la XVI legislatura” è liberamente scaricabile qui: (PDF)

Partendo dal testo del Manuale (PDF), l’IBL propone 12 riforme per rimettere in sesto l’Italia nel primo anno di governo: un provvedimento al mese.

Le riforme più urgenti sono:

1. Abolire la legge Finanziaria
La legge finanziaria – e con essa il Dpef – oggi è un provvedimento omnibus, che manca di chiarezza e trasparenza. Bisogna trasformarla in una vera e semplice legge di bilancio, come negli altri paesi, facendo venir meno il clima da assalto alla diligenza che ne caratterizza la presentazione.

2. Semplificare il fisco
Il sistema fiscale è troppo pesante, complesso e progressivo. Per semplificare il rapporto del cittadino con l’erario e ridurre la pressione fiscale bisogna introdurre le seguenti aliquote: no tax area fino a 8 mila euro di reddito; 20 per cento fino a 20 mila, 25 per cento da 20 a 70 mila, 33 per cento oltre 70 mila.

3. Una no tax region al Sud
Bisogna sostituire gli aiuti a pioggia con esenzioni fiscali per attrarre investimenti. In primo luogo, si tratta quindi di azzerare le imposte sul reddito delle imprese che investono al Sud. Flat tax del 10 per cento per gli stranieri che decidono di porre la loro residenza in una regione meridionale.

4. Legge Biagi nella PA
Estendere la legge Biagi al settore pubblico vuol dire garantire la flessibilità che è premessa indispensabile dell’efficienza. Applicare la Biagi alla PA risponde anche a un principio di equità: non v’è ragione di trattare i dipendenti privati e pubblici in modo differente.

5. Un testo unico sul lavoro
Bisogna procedere a una massiccia serie di abrogazioni che portino a un testo unico sul lavoro che disegni una modulazione delle tutele secondo l’ottica dei cerchi concentrici (a partire da un nucleo fondamentale di diritti applicabili a tutti i rapporti di lavoro).

6. Abolizione dell’Inail
La sicurezza può essere affrontata solo in un’ottica. Premi assicurativi basati su una classificazione dei rischi sono cruciali per favorire le imprese virtuose e penalizzare quelle che espongono i dipendenti a rischi elevati. Bisogna aprire i servizi Inail e privatizzare l’ente.

7. No al valore legale del titolo di studio
L’abolizione del valore legale del titolo di studio è il primo, indispensabile passo verso una vera concorrenza nel sistema universitario. Il valore legale ha favorito la proliferazione delle sedi universitarie e il parallelo abbassamento della qualità.

8. Finanziamento dell’educazione
Per costruire una scuola di qualità, è prioritario restituire libertà di scelta alle famiglie: a ogni studente va assegnato un valore medio annuo, che sarà trasferito dallo Stato, alla sede scolastica o universitaria effettivamente frequentata, sia essa pubblica o privata.

9. Concorrenza nella sanità
Si propongono meccanismi di compartecipazione e di articolazione dell’impegno dei soggetti pubblici e privati, in forma individuale e associativa, superando le strozzature di una regolamentazione inefficace e mobilitando così risorse finanziarie e organizzative.

10. Privatizzazioni
Si propone di procedere alla totale cessione delle abitazioni di proprietà pubblica e al blocco di ogni iniziativa diretta degli enti pubblici nell’ambito dell’edilizia residenziale; utilizzando le risorse ottenuto dalla cessione degli immobili per distribuire aiuti monetari per le famiglie in difficoltà.

11. Liberalizzare i servizi pubblici locali
Vietare da subito l’affidamento in house e imporre il principio della gara. Gli enti locali devono privatizzare le imprese di cui detengono quote, spesso maggioritarie. Bisogna ridurre i trasferimenti erariali ai comuni azionisti, destinando il risparmio all’abbattimento del debito.

12. Certezza dell’autorizzazione
Introdurre un periodo di negoziazione obbligatoria tra imprese e stakeholder dopo il rilascio dell’autorizzazione. Poi saranno drasticamente limitate le possibilità di emettere sospensive, in modo da disincentivare ricorsi e ridurre il volume della litigation ingiustificata. Il testo integrare di “Liberare l’Italia.
Manuale delle riforme per la XVI legislatura” è liberamente scaricabile qui: (PDF)

martedì 4 marzo 2008

Quei candidati senza consenso. Lodovico Festa

Luca Cordero di Montezemolo ha presentato ieri il decalogo di Confindustria per il futuro governo. Sono proposte - ha detto - prima da cittadino che da leader degli industriali. In realtà ha ragione Sergio Romano quando spiega sul Corriere della Sera che chi è eletto per rappresentare le imprese, non dovrebbe vergognarsi del suo mestiere e uscire dal seminato. Il leader degli imprenditori si è concentrato, comunque, su consigli di buon senso: dall’energia (bravo sul nucleare), all’ambiente, alla ricerca, alle semplificazioni burocratiche, al Sud, alle infrastrutture (che cosa servono, però, le autostrade al Sud se non si fa il ponte di Messina? Una parolina poi su Malpensa forse andava detta) alla scuola e università. Fino ai temi più confindustriali, contratti e lavoro, su cui poteva sprecare qualche idea in più (anche se è perfetta la posizione sulla detassazione di straordinari e premi). In particolare sulla questione del salario minimo generalizzato per i lavoratori a contratto flessibile proposto dal Pd, Montezemolo poteva dire quello che ha già ribadito il suo antico collaboratore Massimo Calearo (pur capolista del Pd): non sono d’accordo.
Sulle tasse ha avanzato proposte pro business da valutare nel merito (altri interventi sul cuneo fiscale) ma anche un orizzonte: fino al 2010 la pressione fiscale deve diminuire dal 43 e passa di oggi al 42 per cento. Questa indicazione ribadisce l’elemento di cecità politica della recente gestione di Confindustria: l’idea che la pressione fiscale debba essere tagliata radicalmente solo per le imprese. Questa è stata la base dell’insensata intesa tra Romano Prodi, Guglielmo Epifani e lo stesso Montezemolo (che a un certo punto disse: meno tasse uguale meno sviluppo): l’idea che fosse possibile spremere i ceti medi per finanziare un’intesa tra grandi imprese e sindacati. L’Italia non accetta questa impostazione. La caduta di Prodi lo dimostra, il travestitismo sul fisco di Walter Veltroni lo rivela. E, infine, lo evidenzia la crisi del montezemolismo in Confindustria. Non è un caso che il suo pupillo Matteo Colaninno debba scappare sotto le ali di Veltroni perché, dopo averci provato, ha constatato che gli imprenditori-imprenditori non lo vogliono come vice nella presidenza Marcegaglia. Ancora più istruttiva è la vicenda di Calearo: uno che agli amici diceva «Sono monarchico e fascista», che nelle assemblee degli industriali affermava: «Sia ben chiaro io difendo l’autonomia di Confindustria, ma ho sempre votato a destra e non voterò mai a sinistra».
Calearo adesso fa il difensore dei «piccoli» ma la storia della sua resistibile ascesa è quella di uomo Fiat (per cui produce antenne) e del potere bancario vicentino, impegnatosi a stroncare un vero rappresentante dei «piccoli» come il leader dei «veneti» Nicola Tognana, pugnalato alle spalle per aprire la strada a Montezemolo. Ma dopo la gloria, sono venuti i dolori del fallimento della politica montezemoliana: la famosa sollevazione vicentina contro i vertici, le tasse di Prodi, i contratti criticati da Sergio Marchionne e così via. E con il fallimento della linea, il fallimento personale: niente presidenza della Camera di Commercio, la perdita del controllo dell’associazione vicentina (che ha fatto scattare l’amore per Veltroni) e quindi l’impossibilità dell’agognata vicepresidenza in Confindustria.
E così, via nel Circo Barnum veltroniano. Oggi l’atmosfera del Pd è da casting di Beautiful e di Dynasty più che da cupo tatticismo bolscevico. Le ciniche ma calzanti definizioni di Lenin sugli «utili idioti che aiutano a prendere il potere» sono adatte a tempi di tragedia. Resta la registrazione del fallimento del gruppo dirigente montezemoliano che porta candidati ma nessun consenso delle imprese alla confusa linea del Pd in affannata rincorsa del centrodestra. (il Giornale)

Bastasse candidare. Mario Deaglio

Le prime fasi della campagna elettorale, con la scelta di liste «bloccate» di candidati, nei confronti dei quali gli elettori non possono esprimere preferenze, sembrano dominate da due illusioni.

Le forze politiche sembrano spesso illudersi che sia sufficiente candidare personaggi variamente noti per motivi estranei alla politica per convincere un numero consistente di elettori a votare la lista per la simpatia del personaggio anche se di quella lista non condividono obiettivi e strategie politiche. La seconda illusione riguarda invece questi candidati noti, o addirittura famosi ed è la convinzione che sia facile operare efficacemente arrivando ai vertici della politica, ai seggi di Montecitorio e Palazzo Madama o addirittura alle poltrone di ministro, senza alcuna adeguata esperienza di decisioni pubbliche, di tipo politico e amministrativo; senza, quindi, una «carriera» politica nel senso di esperienze politiche precedenti.

L’attrazione della politica è particolarmente forte per esponenti delle cosiddette «parti sociali», imprenditori e sindacalisti, la cui attività all’interno delle rispettive associazioni presenta - per il genere di problemi trattati e per le conseguenze pubbliche delle loro decisioni - caratteristiche non troppo dissimili da quella all’interno delle aule parlamentari e ha portato alla candidatura di due imprenditori molto noti nelle liste del Partito democratico.

In realtà, politica e impresa presentano numerosi punti di somiglianza ma, come molte cose assai simili, risultano poi difficili da conciliare alla prova dei fatti. Il declino della cosiddetta Prima Repubblica insegna che non si può ridurre l’impresa a un fatto meramente o prevalentemente politico e precisamente questo tentativo di riduzione ha prodotto una lunga serie di disastri industriali, dalle «cattedrali del deserto» del Mezzogiorno alle disavventure dell’Alitalia (che proprio nei giorni scorsi ha annunciato una drastica riduzione della liquidità disponibile). Per converso, le esperienze della cosiddetta Seconda Repubblica - e in particolare il primo governo Berlusconi - mostrano che non si può ridurre la politica a un fatto imprenditoriale senza compiere gravi errori.

Non è quindi sufficiente mettere insieme, all’interno di una forza politica, imprenditori e sindacalisti perché si abbia una sublimazione del conflitto sociale; al contrario, si potrebbe avere un trasferimento di tale conflitto all’interno di un partito o di un governo con un forte freno alla sua capacità di agire. Le vicende dell’attuale governo ne sono una chiara dimostrazione. Ugualmente insoddisfacente appare la soluzione di «affidarsi ai tecnici»: purtroppo è ormai divenuta quasi una tradizione in Italia quella di affidare a un «tecnico» il ministero dell’Economia. Il principale risultato di questa prassi è di aver contribuito potentemente a creare una generazione di politici che non sa leggere il bilancio dello Stato. Questo analfabetismo nei confronti dei conti pubblici, unito alla scarsa esperienza del funzionamento della «macchina» amministrativa, porta a una difficoltà a formulare proposte di governo coerenti con lo stato delle finanze pubbliche.

È quanto si evince da un’analisi pubblicata qualche giorno fa da Il Sole 24 Ore, relativa agli effetti sui conti pubblici delle promesse elettorali e con particolare riguardo al programma delle attuali forze di opposizione. Si alimentano così illusioni pericolose di poter risolvere in poco tempo qualsiasi problema con un pizzico di «buona volontà» e qualche breve articolo di legge. Nella foga della campagna elettorale rischiamo di ridurre i programmi alle promesse, in una sorta di menu gratuito mentre l’economia insegna che «nessun pasto è gratis».

Il ruolo della politica non dovrebbe essere quello di esprimere buone intenzioni ma quello di contemperare le «istanze» delle parti sociali, come il «decalogo» presentato ieri dal presidente di Confindustria, in modo da dar vita a programmi sostenibili, e non cedere all’illusione che le «istanze» si trasformino in programma quasi per un colpo di bacchetta magica.

Questa diversità tra istanze e programma chiarisce la diversità di ruoli tra parti sociali e forze politiche: sta alle prime segnalare ciò che non va, magari suggerendo le vie per eliminare le disfunzioni, alle seconde di predisporre meccanismi e risorse perché le disfunzioni siano eliminate davvero. Sta al sindacato denunciare l’inadeguatezza dei redditi di numerose fasce salariali, alle organizzazioni degli imprenditori chiedere semplificazioni amministrative e potenziamento delle strutture (due punti del «decalogo» sopra citato); sta invece ai politici dare risposte operative su questi punti.

La confusione tra istanze e programmi non può non rivelarsi un elemento di disordine: proprio quello che si vuole evitare perché l’Italia ritrovi la via dello sviluppo. (la Stampa)

lunedì 3 marzo 2008

Forcaiolismo elettorale. Orso Di Pietra

Si capisce che Filippo Pappalardi ha la faccia di quello che se lo incontri di notte in una strada scura ti prende un coccolone dal quale ne esci solo con sei-sette by-pass. Ma non è che solo per quella faccia da prototipo lombrosiano del lazzarone si può sbatterlo in galera con l’accusa di duplice omicidio e di occultamento di cadavere dei propri figli quando in realtà si merita solo una accusa per maltrattamenti. E si capisce che Salvo Riina in uscita dal carcere con il giaccone Moncler, il golf di cachemire, la camicia bianca fuori dai pantaloni, il sorriso del vincitore e la Mercedes da padrino che lo aspetta, fa girare le palle e suscita propositi da Mastro Titta in tutti i benpensanti. Ma nel codice non è prevista l“aggravante Riina”. E se la legge dice che chi rimane chiuso in galera per oltre sei anni in attesa della conclusione del processo deve essere scarcerato, il detenuto che è stato condannato ad otto anni e ne ha scontati sei deve essere messo in libertà. Si dirà che queste sono elucubrazioni garantiste. Ma com’è che queste istanze si risvegliano solo in campagna prima del voto? Forcaiolismo elettorale! (l'Opinione)

L'Italia non è solo una parola. Ernesto Galli Della Loggia

Venti anni dopo il Psi di Craxi, il Partito democratico ha scoperto l'Italia. Nei suoi comizi Walter Veltroni non fa che evocarla, che parlare di Italia, di nazione (riecheggia di continuo sulla sua bocca «siamo un grande Paese, una grande nazione»), spesso di patria. E alla fine di ogni suo incontro è ormai d'obbligo l'inno di Mameli compuntamente intonato da tutti i presenti. Nulla da obiettare, naturalmente. Solo che parlare tanto di nazione, se non si vuole suscitare qualche sospetto di strumentalità, richiede pure che si traggano certe conseguenze. Per esempio che ci si interroghi circa lo stato di salute di quella nazione medesima. Dunque che si guardi oltre un'ottica banalmente politica legata all'attualità, bensì agli elementi di cui una nazione è realmente fatta; e cioè, per cominciare, che si cerchi di capire se il tessuto che lega un popolo a una storia e a uno stato, nel quadro di una determinata costituzione politica, è ancora sano, se tiene ancora. Quale occasione migliore, del resto, di una campagna elettorale, della prima campagna elettorale di un grande partito che mira a grandi traguardi? Tanto più che salta agli occhi che quel tessuto di cui dicevo si sta ormai logorando ogni giorno di più. Che gli elementi di cui è fatta la nazione Italia, che sono valsi a tenerla storicamente insieme e in cui essa consiste, stanno cedendo e sono forse sul punto di venir meno. Stanno forse venendo meno insomma parti decisive dello stesso progetto iniziale su cui fu edificato 150 anni fa lo Stato nazionale. Una visione troppo pessimistica? I dati di fatto dicono di no, mi pare. A cominciare dal dato in certo senso più simbolico perché consustanziale all'idea medesima di Stato, quello della giustizia. Secondo stime del Censis a fine 2005 erano oltre 5 milioni (5 milioni!) i procedimenti pendenti in tutte le sedi della giurisdizione penale, e oltre 3 milioni quelli pendenti nella giurisdizione civile. Giurisdizione che è sempre più disertata da chiunque ne abbia appena qualche possibilità. In pratica nessuno pensa più, in Italia, che lo Stato nazionale possa rappresentare lo strumento per riparare un torto di natura non penale: e per primi non lo pensano gli stranieri, i quali proprio in ciò vedono un motivo spesso decisivo per non avere rapporti qui con noi. Quanto alla giustizia penale, che cosa bisogna ancora dire che ormai non sia stato già detto mille volte? Che bisogna ancora dire del modo d'essere e dell'efficienza dei magistrati? Dell'esasperazione personalistica con cui i pm gestiscono perlopiù il loro ruolo? Del modo come opera il Consiglio superiore sulla base delle opinioni politiche prevalenti al suo interno? Del segreto istruttorio, delle amnistie? Semmai ci sarebbe da sapere che cosa ne pensa, e soprattutto che cosa ne dice, Veltroni. Se pensa che un grande Paese come l'Italia debba avere un sistema giudiziario come il nostro: ovvero che cosa di concreto bisognerebbe fare a suo avviso per averne uno diverso. Ma su questo tema non sembra che il segretario del Pd abbia fin qui voluto spendere una parola. Come non ha speso una parola, se non mi sbaglio, sulla voragine in cui sta precipitando il Mezzogiorno.

Eppure l'Italia è stata pensata a suo tempo come un paese intero, e forse è ancora una nazione sola. Invece, dal Volturno in giù, dopo che sono falliti tutti gli «aiuti», tutte le «industrializzazioni», tutti gli «sviluppi», ormai in un gran numero di casi, come dimostra la Napoli di Bassolino (difeso peraltro fino all'ultimo proprio dal segretario del Pd), sta fallendo anche l'autogoverno locale, cioè la prima espressione della democrazia. E sulle sue macerie signoreggiano sempre più le associazioni delinquenziali. Sentiamo ancora il Censis: oltre il 70% delle popolazioni di Campania, Puglie, Calabria e Sicilia (cioè il 22% circa dell'intera popolazione della penisola) vive in comuni dove dilaga «la forza pervasiva della criminalità organizzata ». A Napoli e a Palermo, le due storiche capitali del Sud, «quasi la totalità degli abitanti convive con le organizzazione criminali»: e si sa cosa ciò significa nei fatti. Ebbene cosa ne pensa Veltroni, il patriota Veltroni? Che cosa pensa che dovrebbe fare in circostanze del genere un ministro degli Interni «italiano», di una nazione che volesse ancora considerarsi tale? Non glielo abbiamo mai sentito dire. Alla fine però un Paese non è solo l'effettivo esercizio della giustizia e della sovranità su un territorio. E' soprattutto gli uomini e le donne che lo abitano, la loro mente e il loro cuore, la loro visione del mondo presente e di quello passato. Un Paese è dunque la sua scuola. Ebbene, ha un'idea Veltroni delle condizioni in cui versa il nostro sistema scolastico? A sentirlo ripetere rancide formulette sulla «creatività dei ragazzi», sulla necessità di andare «oltre i temi», per esempio facendo girare agli studenti un film, o altre «puttanate» del genere, come le ha definite Massimo Cacciari, si direbbe proprio di no. Che non abbia alcuna idea degli edifici scolastici vilipesi e sfregiati in mille modi che costellano quasi tutti i panorami urbani italiani; degli ultimi decenni di riforme ridicole e tutte regolarmente naufragate, volute da pedagogisti di regime convinti che l'educazione e l'istruzione fossero risolvibili essenzialmente nelle tecniche di apprendimento. Che non abbia alcuna idea degli insegnanti in grandissima parte demotivati o, più spesso, del tutto impari al loro compito; dell'incubo cartaceo-riunionistico in cui sono costretti a passare gran parte del loro tempo; di tutto il sistema disciplinare e del rapporto tra la scuola e le famiglie che sono ormai disintegrati. Che nulla sappia del vuoto spirituale (sì, usiamo le parole appropriate: spirituale. Perché lo spirito può prendere mille forme, ma senza di esso nessuna sostanza è mai possibile) che domina una scuola ridotta nella sua essenza a un'insulsa macchina burocratica. Veltroni se ne convinca dunque: l'Italia, il grande Paese, è ahimè questo, non altro. Una nazione senza giustizia, senza scuola, terra di conquista della malavita. Cioè una nazione che vive processi di decomposizione mortali: dai quali forse può salvarsi, sì, ma solo se chi si candida a governarla ha il coraggio di chiamarli per nome. Non di parlare d'Italia per parlare d'altro. (Corriere della Sera)