lunedì 31 gennaio 2011

Federalismo, i nuovi oppositori. Luca Ricolfi

«Item di tipo Thurstone». Nella disciplina alquanto esoterica che insegno all’università (Analisi dei dati) si parla di «item di tipo Thurstone» quando, su un certo tema, si può essere ostili a qualcosa per ragioni opposte. In politica, ad esempio, fascisti e comunisti erano entrambi ostili alla Dc, ma su sponde antitetiche. E oggi, per fare un altro esempio, chi è contro l’Unione europea può esserlo perché rimpiange gli Stati nazionali indipendenti, o viceversa perché vorrebbe un vero governo sovrannazionale, con più e non meno poteri dell’attuale Parlamento europeo.

Da qualche giorno questo genere di pensieri mi ronza nella mente, e non solo perché sto per iniziare il mio corso. È la traiettoria del federalismo che me li sta imponendo. Presi dal caso Ruby non ce ne stiamo accorgendo, ma sotto i nostri occhi si sta delineando un nuovo tipo di opposizione al federalismo. Un’opposizione diversa da quella classica, perché basata su argomenti non semplicemente diversi, ma del tutto antitetici a quelli degli anti-federalisti tradizionali. Il federalismo sta diventando un «item di tipo Thurstone».

Vediamo un po’. Finora il nucleo dell’opposizione al federalismo è sempre stato di matrice sudista-solidarista. I nemici del federalismo, più che combatterlo, cercavano di frenarlo, mitigarlo o temperarlo. Il timore era che il federalismo potesse funzionare fin troppo bene, con la conseguenza di spostare risorse dai territori attualmente privilegiati (Mezzogiorno e regioni a Statuto speciale del Nord) verso le grandi regioni del Nord, attualmente gravemente penalizzate dagli sprechi e dall’evasione fiscale di quasi tutte le altre.

Oggi non è più così. Da alcune settimane, accanto a questa opposizione classica al federalismo fiscale se ne sta costituendo una nuova, di segno del tutto opposto. Gli alfieri di questa nuova opposizione non sono i nemici storici del federalismo, ma alcuni fra i suoi più convinti sostenitori. Persone che da anni si occupano del problema, che hanno sempre difeso le buone ragioni del progetto federalista, ma ora vedono con raccapriccio che quello che si sta consumando a Roma, fra infinite riunioni, tavoli tecnici, negoziati non è l’ultimo passaggio di un lungo cammino, ma è una mesta, lenta e non detta agonia del sogno federalista. I dubbi degli studiosi sulla legge 42 e sui decreti delegati non sono una novità, e sono stati espressi più volte in questi anni nelle sedi più diverse (alcuni dei miei sono raccolti sul sito http://www.polena.net/). A tali dubbi, nelle ultime settimane, se ne sono aggiunti molti altri, e due in particolare hanno allarmato un po’ tutti: il timore che l’esigenza, tutta politica, di ottenere l’ok dell’Anci (l’associazione dei Comuni) porti a un ulteriore aumento della pressione fiscale; l’obbrobrio anti-federalista per cui i comuni si finanzieranno con tasse pagate dai non residenti (imposta di soggiorno e Imu sulle seconde case), con tanti saluti al principio del controllo dei cittadini sui loro amministratori. Un frutto avvelenato, quest’ultimo, dell’abolizione dell’Ici sulla prima casa, provvedimento demagogico voluto dal governo Prodi e completato dal governo Berlusconi.

Dunque oggi fra coloro che si oppongono ai decreti sul federalismo ci sono, è vero, i «soliti noti» di sempre, a partire dai partiti del Terzo polo, tutti insediati più al Sud che al Nord, ma ci sono per la prima volta anche i veri federalisti, coloro che al federalismo hanno sempre creduto più della Lega stessa. Politici, amministratori, studiosi, commentatori politici, il cui timore non è che il federalismo possa funzionare, eliminando ogni forma di parassitismo e assistenzialismo, ma che il federalismo possa non funzionare affatto, lasciando le cose così come sono, o addirittura peggiorandole, ad esempio con più tasse e più spese, o semplicemente con una selva di norme ancora più barocche e intricate di quelle che cerchiamo di lasciarci alle spalle. Oggi capita sempre più frequente di leggere e di sentir dire, non già «sono contro il federalismo, quindi mi oppongo al decreto sul federalismo municipale», ma piuttosto, «sono federalista, quindi non posso votare questo decreto».

Naturalmente mi rendo conto che, dietro all’appoggio come dietro all’opposizione al federalismo, ci possono essere e ci sono le ragioni meno nobili. I comuni possono approvarlo solo perché sono riusciti a strappare più quattrini allo Stato centrale, il Pd può affossarlo solo perché la cosa può aiutare a far cadere Berlusconi (come ha velatamente riconosciuto Sergio Chiamparino in un’intervista a Repubblica). E tuttavia vorrei fare presente che, accanto a chi strumentalizza la questione a fini politici, esistono anche i federalisti sinceramente, disinteressatamente e motivatamente preoccupati.

Preoccupati che la riforma non passi, ma anche preoccupati che non funzioni, o che dia frutti perversi. Perché la novità è questa: oggi chi è veramente federalista non può non chiedersi se sia meglio (meno peggio) che il federalismo «à la Calderoli» passi, o sia meglio che tutto venga affossato per l’ennesima volta. Io, che ho sempre difeso il federalismo, il dubbio ce l’ho. E vi posso dire che altri federalisti convinti, almeno in privato, confessano di augurarsi che tutto si blocchi, tali e tante sono le concessioni che gli artefici del federalismo sono stati costretti a fare alla rivolta degli interessi costituiti e alla miopia del ceto politico locale.

È una conclusione amarissima. Perché non è dettata da alcuna convinzione specifica pro o contro l’idea federalista, ma solo dalla constatazione che la classe politica non è capace di discutere una riforma così cruciale per il futuro di tutti noi sollevandosi, almeno un pochino, al di sopra dei propri meschini interessi di bottega. Pensando per un attimo solo al bene dell’Italia, di cui pure si appresta a celebrare il 150esimo anno dall’Unità.

No, purtroppo i nostri parlamentari non ce la faranno a guardare un po’ oltre. È inutile farsi illusioni. Sia il decisivo voto di giovedì sul federalismo municipale, sia gli appuntamenti parlamentari successivi, saranno governati dai calcoli del governo per restare in sella, e da quelli delle opposizioni per disarcionarlo. È triste ammetterlo, ma anche su questo, su una riforma che aspettiamo da vent’anni, siamo nelle mani di Ruby. (la Stampa)

giovedì 27 gennaio 2011

Dopo la Tunisia l'Egitto? Carlo Panella

Continuano le manifestazioni dell’opposizione in Tunisia e intanto il contagio della “rivolta dei gelsomini” di Tunisi coinvolge il Cairo, Alessandria, Ismailia, Port Said e altre città egiziane (200.000 i manifestanti in tutto), mentre il “giorno della collera” proclamato dal premier libanese spodestato porta in piazza decine di migliaia di manifestanti a Beirut e a Tripoli (con forti scontri). Il mondo arabo si ritrova così, all’improvviso, percorso e sconvolto da una rabbia popolare che la crisi economica ha inasprito e che i regimi affrontano con timore e paura del peggio. Identiche le motivazioni dei manifestanti (voglia di libertà e soprattutto di lavoro, rigetto dei raìs corrotti che mal governano), simile e sorprendente la forza delle mobilitazioni di massa, ma anche diversi gli scenari. In Tunisia Ben Ali è stato costretto alla fuga non solo dalla forza del movimento di protesta, ma anche dalla stupida rigidità del suo regime e della sua vorace famiglia che hanno impedito riforme, concessioni democratiche e economiche indispensabili. Diverso il quadro dell’Egitto che ha visto ben 30.000 manifestanti affollare la piazza Tahrir, chiamati non tanto dai partiti storici dell’opposizione (Fratelli Musulmani, i Liberali e lo storico Wafd, oggi guidato dal Nobel El Baradei) quanto dalla “rete” (Twitter e Facebook, subito oscurati dal governo) che sta dimostrandosi un formidabile strumento per organizzare la rabbia dal basso. Slogan contro Mubarak (“Dimissioni subito!”), parola d’ordine generale: “La Tunisia è la soluzione” e scontri con le forze dell’ordine che al Cairo hanno lanciato lacrimogeni e abbondantemente manganellato (come peraltro a Ismailia), con svariate decine di arresti e, pare, un poliziotto morto, calpestato dalla folla. Ma il regime di Mubarak e la società egiziana, sono molto diversi da quelli della Tunisia. Nonostante le leggi di emergenza in vigore dal 1982, in Egitto ci sono elezioni parlamentari, non libere (i Fratelli Musulmani, l’ultima volta, ma non la precedente, sono stati esclusi), ma che permettono una certa rappresentanza delle diverse componenti sociali. La stessa economia egiziana ha visto timide riforme liberalizzatrici sostenute dal figlio (e probabile successore, di Hosni Mubarak) Gamal. Un quadro che fa ipotizzare –salvo rapida verifica- che il regime possa rispondere alla piazza con flessibilità, con riforme, senza farsene travolgere. Ancora diversa la situazione in Libano, là dove i manifestanti sono stati chiamati in piazza per la loro “giornata della collera”, dal premier del governo uscente, Saad Hariri, per rispondere al colpo di mano mandato a segno da Hezbollah che l’ha fatto dimissionare e –grazie all’ennesimo voltafaccia del druso Walid Jumblatt- lo ha ieri sostituito con il tiycoon sunnita Najjb Mikati, premier di un governo completamente nelle mani di Hezbollah che si prepara a rigettare gli ordini di cattura contro dirigenti di Hezbollah che il Tribunale speciale dell’Onu per il Libano emetterà tra pochi giorni per l’assassinio nel 2005 di Rafik Hariri, padre di Saad. Un governo che riporta il Libano sotto il controllo politico della Siria (e dell’Iran), e che si prepara ad uno scontro frontale contro il fronte antisiriano libanese guidato da Saad Hariri, dopo che le mediazioni dell’Arabia Saudita e della Turchia sono fallite. Pessimi segnali non per una possibile rivolta libanese “alla tunisina”, ma per qualcosa di molto simile ad una nuova guerra civile (e anche per la ripresa di una, politica di aggressione contro Israele). (Libero)

Finché c'è lui. Filippo Facci

Certe uscite infelici però evitiamole. Da una parte c’è Ruby che mercoledì sera si è lasciata scappare questa: «Ad Arcore ho aperto bocca e l’ho riempita con le prime cose che mi sono capitate». Poi ci sono quelli de Il Fatto che ieri hanno titolato: «Finchè c’è lui si mangia», sottotitolo «la frase preferita di Ruby è il manifesto dei berluscones». Eh no cari, «Finché c’è lui si mangia» e il manifesto di una mensa di cui siete voraci commensali. La dissoluzione di Silvio manderebbe in malora un formidabile indotto editorial-politico: provate a togliere dal vostro giornale i riferimenti diretti o indiretti a Berlusconi, è tanto se vi rimangono le previsioni del tempo, anzi neanche, perché non le avete. Togliete a Marco Travaglio i trenta e passa libri che ha dedicato al Cavaliere: gli rimangono due stupidari sul calcio e un libro-intervista a Valentino Castellani. E Grillo? E Di Pietro? E Micromega? E Raitre? E Santoro? E tutta la sinistra, in un modo o nell’altro? È come togliere il bisonte agli indiani, il sangue ai vampiri, le carni alle sanguisughe. Berlusconi nel 1994 promise un milione di posti di lavoro: ne ha procurati ben di più, per quanto alcuni dei relativi stipendi - elargiti a maitresse con l’auto blu, attricette in quota Rai, deputate ed elette varie - li paghiamo noi, e a noi andrebbe affidata la conseguente risoluzione dei rapporti: a calci nel culo. (Libero)
 

Sono libero, ma solo se non scrivo sul Giornale. Marcello Veneziani

Dimostra di essere libero, smetti di scrivere. Mi stropiccio gli occhi e ri­leggo quel che da sinistra mi viene sug­gerito. A Capodanno avevo auspicato il ritorno a un giornalismo più sobrio, graffiante ma elegante, alla Montanelli. Molti, su giornali, in radio, sul web e in giro, hanno condiviso l’auspicio. Ma da sinistra e finiani continuano a dirmi: be­ne, allora lascia Il Giornale e affini. Però nessuno ha la faccia di aggiungere: pas­sa a tal giornale. Sanno che per queste idee non c’è posto altrove; vedete cos’è successo a Ostellino al Corriere . Perciò mi scrivono: lascia, smetti di scrivere. Per esempio Peter Gomez, ottimo com­militone di Travaglio, dice: «Veneziani potrebbe permettersi di non scrivere nel momento in cui registra questo im­barbarimento ». La stessa cosa mi han­no scritto sul web. Provate a dire la stes­sa cosa a Santoro, a Lerner, a Travaglio, a Mosè d’Avanzo che scrive dieci co­mandamenti al dì: visto che c’è un im­barbarimento, smettano di scrivere o andare in tv, possono permetterselo. Stampa, giudici e ordine dei giornalisti vi accuserebbero di censurare le voci li­bere... Ma non è più onesto e coerente scrivere quel che si pensa, nel proprio stile, senza compiacere nessuno, nean­che il tuo editore, e rispondere alla pro­pria coscienza e al tribunale dei lettori? Invece, per voi, in nome della libertà do­vrei smettere di esercitarla. Se domina­no i barbari e il clima è brutto, ai civili tocca sparire, chiudersi in casa... Ma che razza di bestia è per voi la libertà? Infine c’è Pigi Battista del Corsera che come sempre bacchetta e divide il mon­do in due: i faziosi di ambo le parti e gli equidistanti, i cerchiobattisti come lui, saggi e virtuosi. Pigi, il mondo non si ri­duce alle due razze suddette, c’è pure chi rifiuta le divise, critica ambo i ver­santi ma non condanna tutti allo stesso modo e distingue tra puttanate e disa­stri. Faccio un esempio positivo dal ver­sante opposto: Ilvo Diamanti su la Re­pubblica . So che non ti è comodo am­metterlo, perderesti il tuo Alto Magiste­ro o Cerchiobattistero; ma sforzati di pensare che si può essere onesti e intelli­genti senza far le vergini neutrali. (il Giornale)

martedì 25 gennaio 2011

Dopo Priapo verranno le mezzeseghe. Marcello Veneziani

Quando Berlusconi mollerà, tirerò un sospiro di sollievo perché il sesso non sarà più organo di Stato, non andrà più in viva voce nel pianeta, non servirà più per abbattere i governi e far scattare allarmi costituzionali, ma riguarderà so­lo intimi piaceri e vite private. Quando Berlusconi mollerà, tirerò un sospiro di sollievo perché i magistrati mammasan­tissima non avranno più alibi per deci­dere sui governi, la tv, la vita e il voto de­gli italiani. Dovranno occuparsi di giusti­zia e non origliare sesso, dovranno far funzionare i tribunali e non sfasciare i governi.

Quando Berlusconi mollerà, sarò feli­ce perché Di Pietro, l'Italia dei livori, i media e gli altri dovranno trovarsi un mestiere, avendo perso la loro unica ra­gione pubblica d'esistere. E in tv non ve­dremo più Porca a Porca. Quando Berlu­sconi mollerà, sarò felice perché la sini­stra non potrà più campare sulle erezio­ni del premier satiro. Quando Berlusco­ni mollerà, sarò felice perché le Tre Gra­zie Gian Pier Fran, indossatori del Nul­la, dovranno dire da che parte stanno e non potranno più gufare sugli errori e sulle zoccole altrui. La satiriasi è una ma­­lattia ma non vale una crisi al buio che inguaia l'Italia intera. Se Berlusconi è il male, i suddetti sono nell'ordine il Peg­gio, il Vuoto e il Nulla. Il Peggio è il Paese che odia, il Vuoto è la sinistra che man­ca, il Nulla è il terzismo che affumica.

Dicono in coro che ci vuole decoro. Giusto. Ma il decoro è una categoria eti­ca, in parte politica, per nulla giudizia­ria. Non sono i giudici a sanzionarlo. Mi­sura il contegno, non la fedina penale. Se è in gioco la morale si esprimano con­danne morali, non penali né politiche. Perfino Kant diceva «la legge morale dentro di me», mica invocava magistra­ti, gendarmi e parlamento. Il priapismo è un male antico del potere e non è tra i più gravi. E il decoro dei politici non ri­guarda solo i peccati di sesso, ma il ri­spetto dei ruoli e del popolo sovrano, l'uso e l'abuso delle risorse pubbliche, la lealtà. Quando resteranno i decorosi, i decorati, i decoratori, capiremo cosa ci siamo risparmiati in questi anni. Dopo Priapo verranno le mezzeseghe. (il Giornale)

Il Re Leone. L'uovo di giornata

Se si leggono i giornali di oggi cresce la sensazione che anche questa volta Silvio Berlusconi avrà la meglio su chi lo vuole morto (politicamente s’intende). I sondaggi non registrano smottamenti per il suo partito; nell’indagine si allargano crepe vistose come le contraddizioni di Nadia Macrì o le strane intercettazioni del Prefetto Ferrigno, a sua volta sotto inchiesta per reati sessuali; l’opposizione sembra sempre più confusa e irresoluta; la Lega non sembra avere tentennamenti riguardo le sorti dell’alleanza. Si capisce perché Berlusconi non abbia poi tanta voglia di fare il famoso “passo in dietro”.
Sembra di rivivere, sotto altre spoglie, la vigilia del fatidico 14 dicembre, quando in molti – anche nel Pdl – suggerivano al Cav. di dimettersi per evitare il peggio e lui, tra lo scetticismo generale, giurava che ce l’avrebbe fatta. Anche stavolta poi, ci sono i terzo-polisti che come allora, prima presentano una mozione di sfiducia (contro Berlusconi prima, contro Bondi adesso) e poi fanno di tutto per evitare di arrivare al voto. Tutti sono bravi a tramare, ma poi allo scontro frontale con il Cav. nessuno ha il coraggio di andare fino in fondo. Se non fosse per i magistrati e per le loro particolari condizioni di potere e irresponsabilità, Berlusca potrebbe dormire sonni tranquilli finchè campa.
Il Cav, la sfanga soprattutto perché il panorama politico non offre un’alternativa che sia una. L’opposizione - terzo polo compreso – è un club di vecchi leoni in gabbia, che ruggiscono all’ora del tg e si aspettano pasti gratis dalla politica. Anche il Cav. è un vecchio leone ma almeno è riuscito a non farsi ingabbiare: è braccato, inseguito ma resiste, si batte a suon di zampate, va a caccia e si gode la vita: preferisce essere il re di quel poco di foresta che rimane piuttosto che finire in gabbia.
Per questo la gente alla fine lo vota. Meglio lui, azzoppato, ferito, stanco, sporco, che quei damerini addomesticati dello zoo. (l'Occidentale)

Putin e Medvedev colpiti da un terrorismo che non combattono nel mondo ma solo -e male- in Cecenia. Carlo Panella

Sono passati dieci mesi dal sanguinoso attentato di due donne kamikaze nella metropolitana di Mosca del 29 marzo scorso che provocò 39 morti e una settantina di feriti e per la prima volta nella storia della Russia il terrorismo ceceno è riuscito a portare a segno un terribile colpo in un aeroporto. Le decine di morti di ieri provocati dall’attentato nella zona arrivi dell’aeroporto di Domodedovo, vicino a Mosca, non dimostrano solo che l’ala legata ad al Qaida del movimento indipendentista ceceno, diretta da Doku Umarov, capo dell’Emirato islamico del Caucaso, è attivissima, ma anche che il governo russo non è in grado di esercitare le dovute misure di sicurezza. Una prima valutazione indica l’impiego di una dose di esplosivo, vicina ai 10 chili, quindi ingombrante, collocata nella sala del ritiro bagagli (quindi nel recinto di protezione) e che avrebbe dovuto quindi sicuramente –ma non lo è stata- essere intercettata dalle forze di sicurezza. Il premier russo Dimitri Mdvedev, a caldo, ha annunciato che “occorre instaurare un regime speciale per garantire la sicurezza”, ma per intercettare un carico simile di esplosivo non è necessario un “regime speciale”, bastano e avanzano le misure operanti in tutti gli aeroporti del mondo che però, con tutta evidenza, a Mosca non sono rispettate. Grave sotto il profilo psicologico e gravissimo sotto il profilo della sicurezza, l’attentato di ieri dimostra l’incapacità del governo russo, vuoi sotto gestione di Vladimir Putin, che sotto quella di Dimitri Medvedev, di sconfiggere un terrorismo ceceno che ha mille vite. Inutilmente, la Cecenia è da anni governata col pugno di ferro dal console di Mosca Kadyrov, che, nonostante la fortissima repressione e anche i forti investimenti economici, non riesce evidentemente né a disarticolare la frazione indipendentista che si limita a continui attentati in Cecenia contro obbiettivi militari (in primis i convogli, all’esterno delle città e quindi più facili da colpire), né quella di Umarov, collegata alla internazionale terrorista araba di al Qaida, che privilegia le clamorose operazioni in Russia. Naturalmente, nel mondo è stata unanime la condanna per quest’ultima strage, così come la solidarietà al governo e al popolo russo, ma non si può non notare come Putin e Medvedev accompagnino l’inefficienza nel contrasto al terrorismo caucasico interno, con una posizione più che ambigua nei confronti degli stessi referenti internazionali dei terroristi ceceni. Non c’è scacchiere del contrasto occidentale ad al Qaida (Afghanistan, Pakistan Iraq, Yemen, Libano, Sudan, Palestina) in cui la Russia di Putin non giochi un ruolo quantomeno ambiguo, se non di più: appoggia la Siria che arma Hezbollah e Hamas, commercia con il Sudan di Omar al Beshir che ha appoggiato al Qaida e in sede Onu contrasta o tratta al ribasso tutte le risoluzioni che puntano ad azioni di contrasto del terrorismo. Infine, ma non per ultimo, fornisce le attrezzature nucleari ad un Iran che di tutte le organizzazioni terroriste islamiche (anche di al Qaida), è un fornitore massiccio di armi e appoggi (in Afghanistan, Pakistan, Libano e Palestina). Una politica miope, che punta a godere dei frutti dell’indebolimento della forza degli Usa e di Israele, nel solco della pessima tradizione sovietica di appoggio esplicito a tutti i terrorismi del mondo. L’ennesima prova della mancanza persistente al Cremlino di una visione strategica globale, se non la velleitaria rincorsa di un ruolo di superpotenza ormai definitivamente declinato. (Libero)

lunedì 24 gennaio 2011

Cuffaro e le sentenze. Davide Giacalone

La sentenza della cassazione chiude un processo a Salvatore Cuffaro (che ha un altro procedimento in corso), ma apre un problema politico e istituzionale gigantesco. Siamo arrivati ad un tale livello di follia collettiva, si sono così intricati i rapporti fra politica e giustizia, che si può assistere allo spettacolo del partito in cui Cuffaro milita, un partito d’opposizione, l’Unione di Centro, assieme al quale si schiera la maggioranza di centro destra, che solidarizzano con il condannato, pur affermando di rispettare la sentenza. Come se il rispetto delle sentenze possa consistere nell’eseguirne il dispositivo e considerarne falso il contenuto. Già, perché se si giudica, come la sentenza fa, Cuffaro un politico che, approfittando della sua posizione, ha favorito la mafia, allora quel giudizio ricade sul suo partito e sui suoi amici, che, oltre tutto, si trovano in Parlamento grazie al determinate contributo dei voti cuffariani. Insomma, la via dell’“umano dispiacere”, scelta da Pier Ferdinando Casini e Marco Follini, non sta in piedi. La solidarietà espressa da Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliarello non può essere letta se non come un contrasto totale con il merito e il dispositivo della sentenza. Da ieri definitiva.

E’ molto, ma non basta. Perché la via della condanna è stata scelta dalla Corte di cassazione, confermando la sentenza di secondo grado, dopo che il procuratore generale, ovvero colui il quale rappresenta le ragioni della sentenza di merito e, quindi, la pretesa punitiva dello Stato, aveva sostenuto, argomentando nel dettaglio, che l’aggravante mafiosa non era affatto provata. Insomma: è vero che Cuffaro passò delle notizie a Michele Aiello, e vero che aderì ad alcune sue raccomandazioni, ma lo fece pensando di rendere piaceri ad un uomo potente, non di favorire gli interessi della mafia. Che Cuffaro fosse consapevole di questo, secondo il procuratore generale, non era stato accertato dal processo e, quindi, aveva invitato la Corte a rinviare la posizione dell’ex governatore siciliano, ora anche ex senatore. Ma i giudici, appunto, sono stati di diverso avviso. E qui si apre una questione: è il procuratore generale, Giovanni Galati, ad aver preso lucciole per lanterne, o le due sentenze di merito ad avere indotto la cassazione a non indebolire l’impianto accusatorio? La vedo così: se l’accusatore riconosce alcune ragioni, importanti, dell’accusato è segno che si tratta di un procuratore onesto e coraggioso, ma se la sentenza gli dà torto, affermando che la pena da scontare è superiore a quella da lui richiesta, allora è un incapace. Qualcuno ha sbagliato, ed è bene che si sappia.

Il nostro discorso civile si è così corrotto, ci si è così abituati a vedere politici che cercano di evitare il processo e assassini che fanno marameo da lontano, che sembra accettabile esprimere un rispetto formale e un dissenso sostanziale. Invece no, non si può. Io posso ben dire che una sentenza è sbagliata, posso giudicarla malissimo, possono dire che i giudici non ci hanno capito niente, senza per questo far venire meno il rispetto per la giustizia. Qui, invece, si è ribaltato tutto: quelli che invocano sempre le toghe ti danno del delinquente anche dopo che ti hanno assolto e quelli che sono amici dei condannati si dicono solidali, ma rispettosi. Non ha senso. Gli uni e gli altri testimoniano la morte della giustizia.

Gli amici politici di Cuffaro non hanno scelta: o lo rinnegano, oppure affermano, a chiare lettere, che le sentenze (primo e secondo grado più cassazione) sono sbagliate. Chinano il capo davanti alla pena da scontarsi, come saggiamente ha fatto il diretto interessato (con anche un toccante riferimento alla propria cultura e ai figli), ma tengono la testa alta al cospetto di un giudizio che condanna anche loro, contrastandolo. La via scelta, invece, è un codardo sgattaiolare. Che è inguardabile dal punto di vista della stoffa personale, ma anche cieco da quello politico.

Difatti, il successore di Cuffaro alla Presidenza della Regione siciliana, Raffaele Lombardo, è attualmente in carica grazie all’appoggio del Partito Democratico, che alle elezioni lo aveva avversato. Lasciamo perdere i trasformismi. Lombardo provvide, fin dall’inizio, a mettere in giunta magistrati della procura di Palermo (anche colui il quale sostenne l’accusa contro il carabiniere Carmelo Canale, avendo tre volte torto), ma non per questo è riuscito a controllare il fronte giudiziario, tanto che si ritrova indagato per mafia. Posto che Lombardo è innocente, posto che il Pd applica a intermittenza il principio delle dimissioni cautelari, che succede se, per malaugurata ipotesi, fosse condannato? Gli manifestano solidarietà umana, rispettando quelli che ne hanno accertato la mafiosità? Ci arriva un cretino a capire che è assurdo, ma non ci arriva una classe politica che se le fa sotto e non è degna d’essere considerata classe dirigente.

venerdì 21 gennaio 2011

La procura dà i numeri. Davide Giacalone

E va bene, siamo un Paese incivile, facciamo i processi in piazza e ce ne freghiamo delle leggi. Nessuno che abbia sale in zucca crede più nella giustizia, ma ciascuno può cogliere le opportunità che sorgono dal suo disfacimento. Ad esempio: telefonare ai protagonisti di un’inchiesta, alla gente intercettata, e chiedere chiarimenti e particolari. Magari si può chiamare solo per insultare, o, più caritatevolmente, per manifestare solidarietà. I numeri di telefono? Non c’è problema, li fornisce la magistratura, come tutto il resto del materiale nel quale rotolarsi con guardonesca lussuria.

I numeri possono essere utili anche nel caso si sia depressi e solinghi, senza neanche avere il privilegio di conoscere direttamente Lele Mora e la sua prestigiosa agenzia. Sebbene, occorre riconoscerlo, in questo modo la procura fa concorrenza sleale a quotidiani come il Corriere della Sera, che monetizzano la diffusione di numeri personali e di agenzie intente a intessere “relazioni sociali”, senza beninteso, che ciò abbia nulla a che vedere con il mercato della prostituzione. Magistrati disintermediatori, una chicca.

Siccome tale modo d’amministrare la giustizia mi fa ribrezzo, neanche leggo i testi delle intercettazioni. Rifiuto d’allinearmi alla barbarie. Ma mi hanno inviato i documenti, scaricati dalla rete e non sottratti nottetempo in procura, facendomi osservare che accanto ai nomi della fauna parlante c’è, puntualmente, il numero di telefono. Non volevo crederci e ho controllato: è vero. Gente non indagata (e se anche lo fosse, non cambierebbe nulla) di cui è gettata sulla piazza non solo la vita, ma anche l’indirizzo e il numero di telefono. Il tutto allo scopo, ufficiale e mendace, di documentare la necessità di effettuare una perquisizione, laddove, all’evidenza, la richiesta è totalmente inutile, perché dopo questo pandemonio, ammesso che ci fosse qualche cosa da perquisire e acquisire, a questo punto non c’è più. Quindi, inutile essere ipocriti, falsi e bugiardi, lo scopo era uno solo: imbandire, subito, il processo in piazza.

A questo punto, allora, posto che la maggioranza politica non ha la lucidità e la forza di riformare la giustizia, la minoranza di sinistra è schiava del peggiore giustizialismo, e quelli che amano il diritto e le garanzie parlano, da anni, con il muro, non resta che prendere atto della realtà e cercare di razionalizzarla: scriviamo il codice del processo incivile, descriviamo il rito dell’udienza in cortile. L’avviso di garanzia è sostituito con la notifica di sputtanamento (absit iniuria verbis). L’indagato viene inizialmente sbudellato in pubblico, a cura di un pubblico ministero nei confronti del quale non si può usare il medesimo sistema, perché, in quel caso, s’incorre nel reato di “macchina del fango”. Sicché il pm può accusarti di furto essendo ladro, di turbe psichiche essendo pazzo, di perversioni sessuali praticando il genere anche in toga e ai giardinetti (roba vera, non crediate che stia inventando). Il pubblico accorso è tenuto ad un “ooooooh” di stupore e ad una smorfia d’indignazione. Le mamme copriranno gli occhi dei pargoli.

Il modo in cui sono condotte le indagini, senza lesinare in intercettazioni e buchi delle serrature, offre la possibilità di ricorrere a competenze e professionalità esterne. Uno come Fabrizio Corona, ad esempio, lo vedo messo bene. Non solo porta anche le foto, ma, all’occorrenza, e seppure con rammarico, è pronto a pagare per gli errori commessi. Laddove, com’è noto, le toghe sono, a ciò, corporativamente riluttanti.

A quel punto la parola passa alla difesa, che non sosterrà l’innocenza dell’indagato, tanto è inutile, perché nessuno crede minimamente nella sentenza, quindi si concentrerà nel prenderne le parti innanzi all’unico giudizio che conta, quello dell’audience: che cacchio volete? perché, voi non fate lo stesso? L’efficacia dell’arringa si misurerà con l’imbarazzo dei convenuti. Se in molti faranno finta di rispondere al telefono e si allontaneranno dalla piazza giudiziaria, è segno che l’avvocato ha fatto centro. Se il cliente coltiva vizi minoritari, ci dispiace: è fottuto.

I giornali, naturalmente, daranno ampio spazio all’unica cosa capace di divertire: le accuse. Dopo di che, come si diceva all’inizio, grazie alla portentosa innovazione della procura di Milano, ciascuno potrà telefonare ai coinvolti, anche non indagati, in modo da farsi un’idea più precisa. Anzi, suggerisco che l’intera faccenda sia sponsorizzata dai gestori di telefonia mobile, i quali vedranno crescere il fatturato.

Qui, attenti, arriva l’innovazione: basta con l’andazzo turpe fin qui in voga, non è giusto che dopo il clamore delle accuse e il colore delle prime difese si passi tutto al dimenticatoio. No, se in piazza è cominciata, in piazza deve finire. La “P3”, ad esempio, che fine ha fatto? E Ottaviano Del Turco? E’ doveroso interessarsi alla sorte di ciascuna storia, accompagnandone i protagonisti nella vecchiaia. Non è giusto essere accusati in piazza e poi assolti in un angolino buio, sottovoce, con il diritto di comunicarlo solo agli intimi. Insomma, siamo seri, se si trova lo spazio per ospitare in televisione un Francesco Nuti che piange a dirotto e sbava è bene che, in nome della civiltà e della trasparenza, tornino sullo schermo le vite massacrate dalla malagiustizia, come anche gli assassini che se la godono ai tropici, pronti a farci la morale.

Quel che sostengo, insomma, è che data per assodata la degradazione incivile del diritto trasformato in rovescio, almeno si sia coerenti e si trasmetta lo spettacolo fino in fondo. Così a qualcuno verrà in mente che, forse, non sarebbe così male un sistema nel quale chi accusa è responsabile di quel che fa e di quel che spende, e chi è accusato, se colpevole di reati reali e gravi, si accomodi a scontare la pena.

giovedì 20 gennaio 2011

Ma il gioco (delle intercettazioni) vale la candela? Dimitri Buffa

Tempo addietro “Il Messaggero” ammoniva che in Italia circa i due terzi del bilancio statale sulla giustizia venivano assorbiti in costi per le intercettazioni telefoniche. E molte aziende, private, che su delega delle procure si occupano di ciò, battono sempre più spesso cassa a via Arenula per arretrati a sei zeri.
Ora, se a a causa della carta mancante non è stato invece possibile scrivere in quattro anni una sentenza che spedisse definitivamente in carcere un boss di ‘ndrangheta condannato all’ergastolo, determinandone invece la scarcerazione per decorrenza dei termini, molti si chiedono, compresi i ministri Alfano e Rotondi, dove la procura di Milano trovi tutti questi soldi per fare intercettare le utenze di un centinaio di persone per un anno per incastrare Berlusconi.
Il tutto per un reato, quello di essere “l’utilizzatore finale” della prostituzione minorile di Ruby Rubacuori, che nella fattispecie prospettata può portare alla pena massima di tre anni e a quella minima di sei mesi. E considerata l’incensuratezza della persona, la pena comminata dovrebbe essere sicuramente più vicina al minimo che al massimo.
Volendo ci sarebbe anche la concussione, ma in una fattispecie talmente aleatoria, che non ne fa il vero oggetto dell’indagine in atto. E poi per questo reato non risultano disposte intercettazioni, almeno da quel che emerge dalle carte sui giornali. Insomma, se vogliamo, la domanda è retorica: i milioni di euro finora utilizzati per intercettare Ruby e le altre presunte meretrici di Babilonia, la procura di Milano non deve fare molta fatica a trovarli, perché li anticipano gli operatori che fanno le intercettazioni salvo poi questi ultimi presentare il conto allo stesso Alfano.
Ma questa prassi riporta di attualità la famosa riforma sulla disciplina dell’ascolto delle conversazioni dei privati cittadini e non già per motivi di privacy, quanto per i costi. In America se un investigatore dell’Fbi andasse dal procuratore distrettuale di New York e chiedesse, ad esempio, sei milioni di euro per piazzare cimici e microspie per smascherare un giro di prostituzione di alto bordo che porterà come risultato solo lo “sputtanamento” di qualche politico e di un po’ di vip sui giornali, riceverebbe in risposta un “ma lei è pazzo o cosa?” In Italia, invece, siccome la meritocrazia delle inchieste si basa sul clamore mediatico e non sui reali effetti per la collettività, un qualunque pm otterrebbe carta bianca.
Da noi nel 2007 le intercettazioni sono costate dieci milioni di euro, nel 2008 sedici milioni e nel 2009 più di ventitré milioni, circa il 67% rispetto al totale generale delle spese sostenute nel grande comparto Giustizia. Ne vale la pena in queste condizioni? Se il risultato è quello che vengono scarcerati i boss perché non si possono pagare le risme di carta per fare estendere ad alcuni giudici le sentenze che li seppellirebbero sotto i meritati ergastoli, da una parte, e, dall’altra, godersi lo spettacolo di tutte queste “cocotte” che parlano a ruota libera del premier, ci sarebbe da discutere.
Quando alcuni giorni fa il ministro Alfano diceva a “Ballarò” che, almeno nel caso “Rubygate”, “c’è stato un uso delle intercettazioni straordinario e sproporzionato, neanche si trattasse di una retata per un narcotrafficante” e che “è stata usata l’attività di indagine più invasiva, con un impiego di risorse straordinario, un uso spropositato dei mezzi”, diceva una cosa difficilmente contestabile.
Forse gli italiani saranno contenti di pagare sempre più tasse anche per queste esigenze di sputtanamento dei potenti, ma - visto che i vantaggi vanno soprattutto ai quotidiani - di destra e di sinistra, che utilizzano i brogliacci delle intercettazioni per riempire anche dieci pagine al giorno (vedi ieri “Libero”), risparmiando sui costi e raddoppiando le vendite, un’idea potrebbe essere anche quella di presentare ai loro editori il conto di queste attività investigative a carico di Berlusconi.
Così si potrà constatare, anche dal loro punto di vista, se il gioco vale ancora la candela. (l'Opinione)

mercoledì 19 gennaio 2011

Meglio un capo del Governo puttaniere che una magistratura golpista. Antonio Mambrino

Diciamo la verità se la campagna di sputtanamento in danno di Berlusconi fosse corrispondente al vero ci sarebbe da rimanere disgustati. Intendiamoci, è ben vero che ciascuno, anche il Presidente del Consiglio, ha un diritto inviolabile alla sua riservatezza. E’ ben vero che lo slogan il privato è politico è la traduzione sessantottina di una concezione politica totalitaria che sacrifica la libertà e l’autonomia dell’individuo sull’altare di un malinteso “primato della politica”. E’ ben vero che un uomo politico si giudica sulla base delle scelte politiche, delle posizioni politiche e delle iniziative politiche (di governo o di opposizione che siano). E’ ben vero tutto questo. Ma rimane il fatto che in un sistema democratico quando i vizi privati di un uomo politico diventano di pubblico dominio nasce un problema che inevitabilmente diventa politico. Si tratta di un fatto inevitabile perché nell’arena della politica le qualità personali ed i vizi privati dei protagonisti giocano un ruolo decisivo, spesso anche più importante rispetto alle qualità politiche ed alle virtù pubbliche.

Ma tutto ciò presuppone che l’ondata di fango contro Berlusconi sia fondata su fatti veri. Il che non è dimostrato ed anzi è negato con forza dal diretto interessato.

Ma non è questo il punto. Il fatto è che quandanche si appurasse, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il nostro Presidente del Consiglio è un "puttaniere" , noi ci sentiremmo di difenderlo perché l'attacco che punta a disarcionarlo rapresenta un vero e proprio golpe giudiziario. Il Rubygate rappresenta null’altro che l’ultimo capitolo dell’incredibile storia di aggressione giudiziaria che il premier subisce da 17 anni, ciò esattamente dal giorno dopo aver deciso di abbandonare il suo ruolo di imprenditore e di “scendere” in politica (ma forse visti gli attacchi subiti e gli ostacoli incontrati sarebbe meglio dire “salire” in politica).

Dal 1994 Berlusconi è stato imputato in 24 processi con i più vari capi di imputazione. Nello scorso autunno abbiamo assistito financo ad un presunto pentito di mafia - spalleggiato da un giovanotto figlio di un politico mafioso che gira per le televisioni del Paese per impartire lezioni di antimafia - che lo accusava di essere (non si capisce per quale oscura ragione) nientemeno che il mandante delle stragi mafiose del 1993. Le iniziative giudiziarie, provenienti in grande maggioranza dalla Procura della Repubblica di Milano, hanno però riguardato sempre ipotesi di reato commesse in qualità di imprenditore o di privato cittadino e mai in qualità di uomo di governo, di pubblico ufficiale. Il che è molto strano. La storia dell’umanità è piena, sin dall’antichità, di reati commessi da uomini di governo. Ma normalmente si tratta di fatti commessi da uomini politici che approfittano del potere pubblico loro conferito per conseguire utilità private (accrescere la propria ricchezza o il proprio potere). Il fatto che Silvio Berlusconi imprenditore fosse (giudiziariamente) immacolato e che una volta sceso in politica gli vengano contestate variegate ipotesi riferite al periodo in cui faceva l'imprenditore, tanto numerose da configurare  Silvio Berlusconi come un criminale abituale, fa nascere più di un sospetto sulla strumentalità politica delle iniziative giudiziarie. Certo nella vicenda Ruby  a Berlusconi viene contestato anche il reato di concussione (reato tipico dei pubblici funzionari). Ma i fatti sono di tale inconsistenza che quella della Procura milanese appare come una classica azione giudiziaria temeraria (buona per ottenere titoloni sui giornali ma destinata a sbriciolarsi in sede processuale).

Ma nell’ultima vicissitudine processuale di Berlusconi c’è un altro profilo che non convince. Dopo aver setacciato tutti i più remoti anfratti dell’attività del gruppo imprenditoriale di proprietà di Silvio Berlusconi (gruppo di enormi dimensioni), con centinaia di perquisizioni, sequestri di libri contabili, rogatorie internazionali per avere contezza dei movimenti bancari, ora i magistrati milanesi, visti anche gli scarsi risultati ottenuti, hanno deciso di scandagliare la vita privata del Premier. Ma c’è qualcosa che non torna. Che giornalisti, paparazzi o cercatori di scoop si mettano sulle tracce di un vip o di un uomo politico per scoprirne i vizi privati, le abitudini sessuali da dare in pasto al famelico pubblico di voyeur e pettegoli, fa parte del gioco. Non fa però parte del gioco il fatto che sia una Procura della Repubblica (ed una fra le più importanti d’Italia), con grande dispiegamento di uomini e risorse, con decine e decine di intercettazioni telefoniche, con decine di pedinamenti, con una capillare attività di identificazione delle persone ricevute nella dimora privata del Presidente del Consiglio, a cercare di costruire l'ipotesi accusatoria (del tutto marginale rispetto ai problemi di ordine pubblico e di legalità del Paese) di aver avuto un rapporto sessuale a pagamento con una ragazza di diciassette anni e sei mesi. Ora mettiamo pure un attimo da parte il fatto se il rapporto sessuale c’è stato, se Berlusconi ha pagato per la prestazione, se era consapevole della minore età della ragazza (che in realtà sono macigni che gravano sull’inchiesta), è normale tutto ciò? E’ un Paese normale quello in cui un pezzo del potere giudiziario si mobilita in massa scandagliando i risvolti più intimi della vita privata del Capo del Governo per incastrarlo su una faccenda morbosa e squallida ma che certo non genera alcun allarme sociale? La verità è che la Procura di Milano indaga su Silvio Berlusconi a prescindere, nella convinzione che, ingaga indaga, intercetta intercetta, pedina pedina, prima o poi troverà qualcosa per incastrarlo. E' un po' il metodo co il quale gli inquirenti americani riuscirono ad incastrare Al Capone. Ma vi è la piccola differenza che Al Capone era un notorio criminale Silvio Berlusconi un Capo di  Governo eletto dai cittadini!

In altri tempi, in altri contesti,un fatto del genere avrebbero fatto gridare al complotto, al golpe. Oggi i cantori della legalità democratica salutano tutto ciò come atto di coraggio, di eroica difesa della trasparenza e della democrazia, come riscatto morale. Stiano però attenti perché una volta legittimato culturalmente il metodo dell’inquisizione e dello spionaggio giudiziario in danno del potere politico sarà poi difficile sradicarlo in futuro. Del resto, quando si predica la purezza e si pratica l’epurazione c’è sempre qualcuno che si crede più puro di te e ti epura! (l'Occidentale)

martedì 18 gennaio 2011

I moralisti che godono a gettar fango. Vittorio Sgarbi

Possiamo ripartire da Travaglio che, finalmente, conviene sulle mie posizio­ni: «Come scrive Sgarbi, non c’è alcuna differenza tra fare un pompino e fare una confe­renza». 

Dunque nel suo pompino quotidiano, Travaglio si af­fanna a giudicare, senza pau­ra del ridicolo «la violenza fi­sica e psicologica... dei vec­chi malvissuti che sbavano nei bunga bunga di Arcore». Chissà cosa avrebbe detto delle innumerevoli ragazze che stavano con Agnelli, o di Jacqueline Kennedy che sta­va con Onassis. Così come ro­mene, moldave, russe, ucrai­ne individuano il loro matu­ro allocco per farsi mantene­re. Una novità?

Eppure anche Bersani non riesce a trattenersi: «Una mi­norenne dovrebbe andare a scuola e non a cena, per così dire, da vecchi ricconi». È evi­dente infatti che Ruby ha bi­sogno di essere tutelata da Bersani e che, come nel Me­dioevo, occorre tenerla lon­tana dal peccato. Perché Ru­by è ingenua, lei come tutte le ragazze di 17 anni non ha nessuna idea del sesso e del­la seduzione. Bersani non ha mai letto Lolita , Bersani non ha mai letto Il diavolo in cor­po di Radiguet e ha stabilito che l’attività sessuale comin­cia a 18 anni, come sanno tut­ti i ragazzi e tutte le ragazze. Però sappiamo che Pasolini fu cacciato dal Pci perché tro­v­ato a masturbare dei suoi al­lievi di 15 anni. Ma erano al­tri tempi.

Dal momento che la si but­ta in politica chissà se il futu­ro leader della sinistra Nichi Vendola non ha mai avuto rapporti sessuali con ragazzi di 17 anni perché dà per scon­tato che essi si configurino come prostituzione minori­le. A nessuno viene in mente che una ragazza di 17 possa stare con un uomo maturo per libera scelta, per piacere, attratta dalla personalità e dal potere. Fattispecie non considerata né dai magistra­ti né dai commentatori ma ben presente a quelle donne e a quei genitori, compresi quelli di Noemi Letizia, che alla domanda su un ipoteti­co fidanzamento con il pre­mier hanno risposto: «Maga­ri! ».

Uno strano mondo dove scopare, con tutto quello che si è visto, è diventato un reato. Dichiara Vendola: «Questo Paese ha bisogno di decoro». Il decoro, evidente­mente, è nella pratica omo­s­essuale manifestata pubbli­camente senza che nessuno se ne preoccupi o glielo rin­facci. Può davanti alla sua co­scienza, Vendola affermare che è impossibile l’amore e il piacere erotico fra un adole­scente e un uomo maturo? Ciò che era consentito a Pa­solini è vietato a Berlusconi. Così la magistratura ha pen­sato bene di farci conoscere conversazioni e confidenze di ragazze anche maggioren­ni prive di ogni interesse e di ogni autonomia di scelta, pressoché schiave. E final­mente liberate dalla magi­stratura che, senza intimidir­le, le ha identificate, convo­cate in questura e interroga­te per ore. Reato? Avere ac­cettato un invito ad Arcore.

Una materia formidabile perché il premier possa riferi­re al Copasir, davanti a D’Ale­ma e denunciare di non cor­rere rischi per le sconosciute invitate. Tanto sono state puntualmente identificate dalla polizia inviata dai magi­strati con evidente intimida­zione. Questa è l’unica mi­naccia per Berlusconi e an­che un insopportabile avvi­so tra moralismo e abuso di potere: «Guarda che se vai da Berlusconi noi lo sappia­mo, ti intercettiamo e possia­mo fermarti e interrogarti». Con questa procedura non è difficile trovare dei perfetti ideologi nei due comici di Re­pubblica Piero Colaprico e Giuseppe D’Avanzo i quali, senza ridere, scrivono per commuoverci: «Si legge di ra­gazze madri che si offrono al Drago per bisogno. Sono donne giovanissime, 20, 22 anni... molte di loro non han­no avuto una vita felice, in­volgarite dal mestiere, eppu­re fra di loro c’è chi non ne ha voluto più sapere di torna­re».

Poi legge i nomi: Maria Esther Garcia Polanco, che io ho conosciuto alla Pupa e il secchione, e che mi ha invi­tat­o a uscire con lei con gran­de libertà e divertimento, Na­talia Bush alta un metro e 90 sveglissima, Raissa Skorkina («Berlusconi lo adoro»), Bar­bara Guerra che ha avuto una vita felicissima, ha parte­cipato alla Fattoria 4 , è stata fidanzata con Mario Balotel­li e così via. L’unica che pren­de le distanze ma non è mai stata invitata è Barbara D’Ur­so. Ma Colaprico e D’Avanzo non si trattengono, non han­no il senso ­del ridicolo e vivo­no nell’ipocrisia senza accor­gersene. Cosa ha detto qua­lunque maschio, compresi D’Avanzo e Colaprico, da­vanti a una bella ragazza che passa davanti al bar? «Che bella f...». E si può dire di una bella ragazza che è «fichissi­ma »? È una fattispecie mera­mente linguistica che rien­tra nella figura retorica della sineddoche, la parte per il tutto. Eppure Colaprico e D’Avanzo non sentono ragio­ni. La povera Ruby è vittima: «Ruby racconta come agli oc­chi del Drago lei non è nean­che un corpo ma una parte molto precisa di un corpo». Una semplice consuetudine linguistica infinitamente dif­fusa, ma don Colaprico e monsignor D’Avanzo non ci stanno: «Nel suo infantili­smo e nella sua cinica ambi­zione Ruby non si sente nem­meno umiliata da questo. Quella parte del suo corpo, in fondo non è anche la sua fortuna?».

Difficile leggere un commento più insensa­to. Ne esce che la marocchi­na Ruby c­onosce meglio l’ita­liano dei due famosi giornali­sti. Ma tutto questo perché ac­cade? Perché noi siamo co­stretti a leggere le intercetta­zioni di storie vecchie come il mondo che hanno a che fa­r­e con un uomo ricco e poten­te che ha intorno donne gio­vani e belle che sono attratte da lui per il suo potere o per interesse. Come è sempre stato, come è. Come è giusto che sia. Così fan tutte e non si può dire che la storia del mondo non lo dimostri. E una donna povera che sposa un uomo ricco cos’è?Per Co­laprico, D’Avanzo e Trava­glio una puttana. Io ne ho co­nosciute tante ma non ho mai pensato che non fossero consapevoli e artefici del lo­ro destino. Dovrò ricreder­mi. (il Giornale)

lunedì 17 gennaio 2011

Quella in Tunisia non è stata una rivoluzione ma un colpo di stato. Marcello Inghilesi

Nel 1970, all’inizio del Ramadan, il Presidente tunisino, Habib Bourguiba, si presentò in televisione con un bicchiere di latte: “Chi vuole , si alimenti; Allah sa che per lavorare e vivere ci si deve alimentare; chi vuole faccia il digiuno coranico, totale durante il giorno; chi non ce la fa, si nutra quanto necessario, senza eccessi”; e bevve il bicchiere di latte. Bourguiba fu il Presidente che lottò e trattò con i francesi  per l’indipendenza tunisina , senza  che una  goccia di sangue fosse versata ( 1956). Mise in piedi uno stato moderno e laico, anche se… marginalmente  democratico.

Si dice che il generale  Ben Ali fosse ai vertice dei servizi segreti tunisini, quando Bourguiba lo chiamò al Governo (o gli fu consigliato di chiamarlo), a seguito di moti di piazza analoghi a quelli di questi giorni. Poco dopo Ben Ali chiese a Bourguiba di farsi da parte (aveva ormai 84 anni);  lo fece passare per demente, con tanto di certificato medico, firmato, tra l’altro, da due generali; lo mise in una villa a Monastir (dove morì a 97 anni); e prese il potere ( 1987). Ora Ben Ali è stato rovesciato; da chi?

I media dicono dalla rivoluzione dei “gelsomini”; la cosiddetta “sinistra” dice dal popolo. Possibile?  No. Si tendono a dimenticare alcuni piccoli fatti. Nel novembre 2009  alle elezioni Ben Ali prese 4.238.711 voti su 4.477.388 votanti ; dati falsi? Probabile , ma qualche tunisino, per ben cinque elezioni di fila dal 1989, Ben Ali lo ha votato; o no? e le elezioni stavano nell’immaginario collettivo tunisino o no? Non solo: in Tunisia ci sono una decina di Partiti rappresentati in Parlamento ( 214 deputati ); tutti commedianti , per 23 anni? C’è anche un sindacato dei lavoratori , la UGTT, che ora  è scesa in piazza; e prima ? Ben Ali “dittatore”, con un Parlamento, dieci partiti , milioni di voti e rappresentanze sindacali. 

Insomma è vero che c’è sempre una prima e forse unica volta, per fare una rivoluzione. Ma questa non pare proprio una rivoluzione; pare semplicemente un colpo di Stato contro un presidente eletto, non un “dittatore”. Qualche giorno fa , prima che ci fossero le manifestazioni di piazza, gli avvocati tunisini fecero sciopero, contro Ben Ali; attenzione, gli avvocati (non i diseredati ), cioè quelli che avevano votato in massa Ben Ali appena un anno prima.  Chi aveva detto loro che potevano farlo (o addirittura “dovevano” farlo),  senza scontrarsi  con un potere assoluto, come quello del presidente tunisino?

Il 14 gennaio  pomeriggio Ben Ali si è presentato alla televisione facendo grandi “concessioni” e promettendo che se ne sarebbe andato nel giro di tre anni (ripetendo un gesto che 25 anni prima aveva fatto anche Bourguiba). La mattina dopo con la gente in piazza , con tutti in piazza , guidati dal sindacato filo governativo  UGTT, Ben Ali decide di scappare: decide? O qualcuno è andato a trovarlo, dicendogli che era tempo delle valigie; come lui stesso aveva fatto con Bourguiba, 23 anni fa? 

Come allora,  probabilmente si sono mosse le forze armate tunisine; esse sembrano lealiste; non sembrano politicizzate e sembrano essere sempre state   fuori da giochi di potere sporchi. E allora perché lo fanno? Ci sono diverse possibilità , riassumibili in due  filoni di cause, non in contraddizione tra loro: il primo riconducibile a problemi di corruzione del potere oltre ogni limite di tolleranza ( e sembra che con Ben Ali e famiglia questo limite fosse stato passato ormai da tempo ); il secondo su spinta di forze alleate straniere (occidentali ? islamici ? ), con interessi assai complicati.

Quello che pare intollerabile è l’ipocrisia generale , che consente a tutti (media, partiti, intellettuali, opinionisti ) di scatenarsi addosso al leader tunisino, come sciacalli; fino a ieri  nessuno parlava del “dittatore”; oggi tutti gli sono addosso, tunisini e non. Ma non sarebbe meglio dire la verità? In Tunisia è stato fatto un colpo di Stato ( probabilmente a ragion veduta ); e ora? Ora dobbiamo preferire il ricordo del  laico Bourguiba , che ha strutturato la Tunisia in Paese civile; piuttosto che quello di  Komeini, che fu riportato in Iran da Air France al posto del deposto  (e anche lui scappato) sha in sha; e  che fece un governo con laici e liberali, per poi scaricarli , a volte ammazzarli e dare tutto in mano a sistemi di stato clerico-medioevali. Attenzione : il pericolo ci può essere non tanto nel popolo dei gelsomini, quanto in alcuni interessi  strategici  internazionali ; e siamo in pieno Mediterraneo, a pochi chilometri dalle coste italiane ed europee! (l'Occidentale)

venerdì 14 gennaio 2011

Il turismo politico di Vendola. Orso Di Pietra

Nulla da dire se Niki Vendola punta a fare le scarpe a Pierluigi Bersani. Fatti loro. Niente da contestare se Niki Vendola cerca di far crescere Sinistra e Libertà a spese dei Partito Democratico. Strafatti loro. Zero da eccepire se Niki Vendola tenta di assorbire i dipietristi, il popolo viola e quello arcobaleno di verdi e rossi a diverse gradazioni.
Il nostro ha tutto il diritto di giocare le proprie carte politiche come meglio crede. Usando la zeppola, l’orecchino, le narrazioni, la diversità sessuale ed ogni altro mezzo intenda utilizzare a maggior gloria propria e dei nostalgici della falce e martello. Compreso quel turismo politico che lo vede saltabeccare dalla Quinta Strada di New York ai cancelli di Mirafiori per meglio e sempre apparire sui giornali e sulle televisioni.
Ciò che lascia semmai perplessi è che tutta questa frenetica attività viene realizzata da Vendola nella sua qualità di governatore di una delle più importanti regioni italiane e con i mezzi messi graziosamente a disposizione dalla presidenza regionale. Il chè significa che Niki fa campagna elettorale perenne.
E i pugliesi pagano! (L'Opinione)

mercoledì 12 gennaio 2011

Jurassic Fiom. Filippo Facci

Lo scontro tra Fiat e sindacati per certi aspetti è storico, come no. La trasformazione del lavoro e la sua possibile delocalizzazione sono temi centrali, senz’altro, sono legati ai discorsi sulla mobilità e sulla globalizzazione e tutte quelle cose lì. A Mirafiori si sono forgiate generazioni di italiani che si sono affrancate dal bisogno, che si sono riscattate da una condizione di immigrazione disperata, è vero anche questo: ma vogliamo chiederci lo stesso perché la questione campeggia furiosamente sulle prime pagine dei giornali? Le ragioni sono due, in realtà.

La prima è che la politica sonnecchia ancora, non ci sono grandi notizie in giro. La seconda è che la nostra classe giornalistica, i cui vertici si sono formati negli anni Settanta e Ottanta, mostra un ritardo culturale pazzesco e tende a giudicare centrale un mondo che non è più centrale per niente. A non esser più centrali, per essere chiari, sono gli operai e la grande contrattazione sindacale: quel Paese lì non c’è più. Non sono operai i milioni di disoccupati che circolano in Italia e in Europa, e i milioni di precari, i licenziati, quelli che il lavoro manco lo cercano, quelli frantumati in contratti collettivi ormai atomizzati. Non sono operai, e di Mirafiori tutto sommato se ne fregano, anzi, osservano l’attenzione spasmodica rivolta a una minoranza e si chiedono soltanto perché non li riguardi. (Libero)

martedì 11 gennaio 2011

Scontro generazionale, ora ragazzi svegliatevi: bisogna darsi da fare. Mario Giordano

Visto che ultimamente va as­sai di moda parlare ai giovani e dei giovani, avrei anch’io una co­sa da dire: cari giovani, cercate di muovere le chiappe. Datevi da fa­re. Alzate per un attimo lo sguar­do da Facebook, spegnete la Play­station, scendete dal pero e rim­boccatevi le maniche. È vero che siete il futuro, come tutti vi ripeto­no in questi giorni, facendo a ga­ra a blandirvi, dopo che il presi­dente Napolitano ha dedicato a voi il suo messaggio di Capodan­no. Ma il futuro non piove addosso a nessuno. Il futuro va conquistato. E tutte le generazioni prima di voi se lo sono conquistato, sputando sangue e sudore. Mica dormendo tra guanciali di alibi confortevoli, vezzeggiati dalle coccole degli editorialisti e dalla melassa del Quirinale... Sarà che ormai l’età avanza inesorabile anche per chi continua a mostrare una faccia un po’ da bambino, ma non ne posso davvero più di tutto questo giovanilismo a buon mercato che sta rincitrullendo il Paese: poveri giovani di qua, poveri giovani di là, «dobbiamo pensare ai giovani», «dobbiamo lavorare per i giovani», «dobbiamo spendere per i giovani », «l’Italia non è un Paese per giovani» e «la società che inganna i giovani». C’è il rischio che tutto questo compatimento a reti unificate diventi una giustificazione a buon mercato per una generazione di bamboccioni, che così si convincono che sia un loro diritto trovarsi sempre nel piatto la pappa fatta. Anziché doversela conquistare come hanno fatto tutte le generazioni che li hanno preceduti. Per carità, la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli da far paura. Se un ragazzo su tre non riesce a trovare lavoro, c’è di che preoccuparsi. Ma perché un ragazzo su tre non riesce a trovare lavoro? C’è la crisi, certo. Ma sul sito di Repubblica ieri mattina campeggiava un sondaggio sulla domanda chiave «Qualsiasi lavoro meglio di niente?». Ebbene a metà pomeriggio l’87 per cento delle persone avevano risposto «no», cioè non sono disposte ad accettare «qualsiasi lavoro» perché «il primo lavoro è troppo importante», perché «non ha alcun senso sprecare anni di studio» o perché «le condizioni a volte sono svilenti». Disoccupati sì, ma con la puzza sotto il naso. Un dirigente di una grande azienda mi ha raccontatodi essere rimasto senza segretaria lo scorso mese di agosto: su dieci giovani disoccupate interpellate per occupare quel posto nessuna ha accettato. «Dobbiamo andare in vacanza», «Proprio in agosto dovevate chiamarmi?», «Sto partendo per il mare». Alla fine come segretaria ha assunto una albanese, bravissima, che parla quattro lingue e ha una voglia matta di darsi da fare. E allora forse il modo migliore per aiutare davvero i giovani è provare a dare loro una scossa. Smettere di ricoprirli di giustificazioni, di fornire pretesti alle eventuali pigrizie, di attutire con abbondanti dosi di bambagia la naturale tendenza al poltronismo. Altrimenti si incentiva una Generazione S, cioè generazione smidollati, gente che si ritiene in diritto di bivaccare alle spalle dei genitori fino a trent’anni perché «poveri noi, che ci volete fare? È colpa del mondo, della società, dei tempi duri. Ed è così difficile trovare lavoro...». Ma le avete viste le carte d’identità di quelli che vengono presentati come «giovani »? L’altro giorno su Repubblica ne hanno intervistata una: aveva 30 anni. Nel gruppo di dodici universitari saliti al Quirinale per contestare la riforma Gelmini c’erano un ventottenne, un paio di ventisettenni, tre ventiseienni. Ora vi pare possibile che a ventisette anni si possa essere ancora studenti fuori corso a Scienze politiche? O a Filosofia? E vi pare possibile che a 30 anni si possa essere intervistati come «giovani disoccupati» da Repubblica ? A me vengono i brividi quando leggo sul Sole 24 Ore che le Regioni, proprio in nome del giovanilismo imperante, decidono di distribuire più di un miliardo di euro a pioggia, in programmi come «Giovani sì» della Toscana, o «Principi attivi - giovani idee per la Puglia», che probabilmente finiranno solo per finanziare qualche cooperativa di amici con iniziative assurde, dal corso di formazione per tutori del coniglio nano al contributo a fondo perduto per aprire un coiffeur specializzato in clienti calvi. Vi stupisce? Macché. Ne abbiamo viste di tutti i colori negli anni passati: più che ad aiutare i giovani questi fondi normalmente aiutano quelli che sul malessere dei giovani ci sguazzano. Sono gli stessi, probabilmente, che contribuiscono ad alimentare tutta questa retorica che ha obnubilato pure il Quirinale. Dicono: bisogna essere comprensivi,perché nessun’altra generazione si è mai trovata a vivere una situazione così difficile. Ma stiamo scherzando? Se in Italia oggi possiamo permetterci certi lussi, compreso quello di buttare un miliardo di euro in progetti regionali finalizzati all’inutilità, è perché c’è stata una generazione che ha ricostruito il Paese nel dopoguerra, quando la situazione era difficile davvero e per strada c’erano le macerie reali, non quelle immaginate dagli editorialisti. E quando il problema dei giovani era quello di avere o no la pagnotta a fine giornata, mica quello di accendere l’iPad. E dunque, cari ragazzi, se ce l’hanno fatta loro, i ragazzi del dopoguerra, coraggio, ce la potete fare anche voi. Purché la smettiamo, noi padri e fratelli maggiori, di trattarvi da bambinetti viziati. E cominciamo a prendervi, come meritate, a calci in culo. È l’unico modo in cui si riesce ad arrivare davvero lontano. (il Giornale)

martedì 4 gennaio 2011

Battisti e Pietrostefani. Davide Giacalone

Le reazioni politiche e culturali al caso di Cesare Battisti mettono in evidenza una debolezza inquietante del nostro pensare collettivo. Non c’è memoria, non c’è riflessione, sperando che il tutto possa essere nascosto sotto lo stuoino dell’indignazione. Una domanda, tanto per capirsi: perché nessuno parla di Giorgio Pietrostefani? E’ stato condannato, in via definitiva, a 22 anni di carcere, quale mandante dell’omicidio Calabresi. Gli altri due, Adriano Sofri e Ovidio Bompressi, sono andati in galera (e ne sono usciti), ma lui è andato in Francia, dove immagino si trovi ancora. La Francia ha un governo di destra, è un Paese dell’Unione Europea, c’è libera circolazione di ogni cosa e persona e, da qualche tempo, c’è anche il mandato di cattura europeo. Ma Pietrostefani vive libero e tranquillo. Cos’è, se i giornali non ne parlano, quelli al governo non se ne accorgono?

Ho letto un lungo pezzo di Claudio Magris, pubblicato dal Corriere della Sera, provando disagio e imbarazzo. Tribuna e tribuno indicano il parlare della nostra intelligenza, la quale, però, è ottusa nel sostenere che le Brigate Rosse e i Pac (proletari armati per il comunismo), cui aderiva Battisti, erano affini. E’ come sostenere che i fascisti assassini dei Nar (Fioravanti e Mambro) siano stati affini a quelli del Fronte Nazionale (Freda). Facendo confusione si finisce con il non capire che è in libertà, in Italia, per mano italiana, un agente dei servizi dell’est, pluriassassino: Mario Moretti. Cui la Francia non avrebbe riservato alcuna accoglienza, al contrario di quel che fa con gli amici di Oreste Scalzone. Forse è il caso che i nostri intelligentoni provino a studiare e capire la storia italiana negli anni della guerra fredda, così scopriranno cose ancora utilissime.

Battisti, come Pietrostefani, s’è giovato della “dottrina Mitterrand”. Era un amico dei terroristi, il presidente socialista francese? No, era un amico dei propri agenti e infiltrati, come era un amico di quella corrente di pensiero che considera la Francia superiore all’Italia perché da noi la magistratura non è al servizio delle leggi, ma della politica. Aveva torto? No, aveva valide pezze d’appoggio. Le lunghissime carcerazioni preventive, comminate per legge ai terroristi e per decreto (per decreto!) ai mafiosi, non sono sinonimo di severità, ma d’ingiustizia. Una giustizia funzionante condanna e fa scontare, non mette i ceppi al posto del processo. La cosa straordinariamente mentecatta è che non lo vedono per gli altri quelli che lo denunciano per sé stessi. La radice delle deviazioni giudiziarie di oggi affonda fino agli anni di piombo. Avevamo le nostre ragioni, noi italiani, perché subivamo una guerra interna con infiltrazioni esterne, ma non siamo stati capaci di chiuderla e risolverla, sicché, oggi, non ci serve a nulla prendercela con i francesi e i brasiliani. Dobbiamo, semmai, chiudere l’infetta piaga emergenziale e riformare la giustizia rendendola normale. Come nel resto del mondo civile.

Anche Pietrostefani, se è per questo, ha subito un processo ingiusto (assoluzione annullata a causa di motivazioni contraddittorie), ma la cosa più fessa del mondo è discutere oggi come se quel processo fosse aperto. Invece di cambiare musica continuiamo la guerra interna e nascondiamo i detriti esterni: di Battisti non possiano tacere, perché Lula ci ha mollato uno sventolane in faccia, ma di Pietrostefani e altri facciamo finta che neanche esistano.

E torniamo a Battisti (aggiungendo tra parentesi che è del tutto ovvio che si voglia far scontare la pena a questa feccia assassina). E’ stato protetto dai francesi, ora lo è dai brasiliani. Credete che accada per la sua bella faccia, o per i suoi romanzetti? Certo, lo difendono dei meschini che si credono intellettuali, pertanto autorizzati a dire sfondoni senza confini, ma quel che accade lo dobbiamo al coincidere della nostra cattiva fama giudiziaria, della nostra incapacità di porre, diplomaticamente, il problema in modo corretto, e del fatto che francesi e brasiliani fanno affari insieme, nel settore militare, cercando di tenerci fuori dalla porta. Noi, del resto, nel mentre facciamo ricorso alle corti internazionali (immagino per conquistarci il diritto di scarcerare Battisti, come abbiamo fatto cuoi i suoi fetidi colleghi, coperti da intellettuali nostrani che parlano del “pentimento” come fosse una categoria del diritto), c’industriamo a tentare d’arrestare i vertici dell’industria meccanica e militare. Provate a pensarci, e provate a capire l’effetto che fa, dall’estero, un caso come quello di Silvio Scaglia, che rientra volontariamente per farsi interrogare ed ancora al gabbio, da presunto innocente.

Certo, quella di Battisti è una vergogna. Lo è anche quella di Pietrostefani. Ma lo è di più un Paese che pur di non affrontare le corporazioni, pur di non mettere ordine al proprio interno, pur di non fare i conti con la propria storia, è disposto a farsi umiliare in mondovisione, pestando i piedi per inutile e impotente rabbia.

lunedì 3 gennaio 2011

L'anno del Cav. Francesco Blasilli

Qualcuno, naturalmente, storcerà la bocca dandoci degli asserviti, perché il titolo “L’anno del Cav” non piacerà a molti. Ci taccerano di berlusconismo acuto, ma forse è il caso di guardare le cose con obiettività. Chi è stato il grande protagonista del 2010? Berlusconi.
Nel bene e nel male. E, nel bene e nel male, è ancora in sella. Per di più, in modo saldo. Ha resistito ad ogni forma di intemperia. Ha resistito a nemici, ad amici e ad ex amici. Certo, ha commesso errori come tutti, ma ne ha commessi meno di quelli che gli vengono attribuiti e di certo i suoi nemici non ne hanno saputo approfittare.
Ha resistito a Gianfranco Fini che è partito da lontano, dalla direzione del Pdl per arrivare alla fondazione di Fli dopo mesi di guerriglia. Il Cavaliere ha superato indenne anche un partito di gente inadeguata. Nel Lazio va fuori la lista del Pdl? La Polverini vince lo stesso e il centro destra porta a casa quattro giunte in più rispetto alle precedenti regionali.
E mai come quella tornata elettorale è stata una vittoria personale di Berlusconi. Ha resistito a tutto, Berlusconi. A chi come Scajola si faceva comprare casa “a sua insaputa”, alle amicizie chiacchierate del sottosegretario (ormai ex) Cosentino e al piromane Calderoli che ha pensato bene di “bruciare” migliaia di leggi, comprese alcune utili.
Ha resistito, il Silvio nazionale, anche al “triplete” calcistico dei cugini interisti e al fuoco amico, di nuovo leghista, che gli ha piazzato Brancher come ministro. Una brutta figura, ma poi avanti tutta. Come sono state una brutte figure quelle relative a Ruby Rubacuori e alla “nipote” di Mubarack.
Come si potevano evitare le barzellette su Rosy Bindi, con tanto di bestemmia. Ma nessuno è perfetto. E così l’imperfetto Silvio ha fatto pure un passo indietro sul ddl intercettazioni, ma è andato dritto per la sua strada sulla riforma universitaria, nonostante gente che invece che in aula si assiepava in strada o sui tetti delle facoltà.
Per fregarlo, hanno provato a mettere spalle al muro il suo braccio destro più fedele (dopo Letta, naturalmente) Guido Bertolaso e il risultato quale è stato? Nullo. Tanta cacca addosso a Bertolaso, ma alla fine nessun reato contestabile all’ex Capo della Protezione Civile. Poi ci sono stati i rifiuti, che ciclicamente hanno provato a rovesciare sopra la testa di Berlusconi.
E poi c’è Report che si fa un giretto ad Antigua. Ce n’è per tutti i gusti. A sufficienza per mettere a tappeto chiunque, non Silvio Berlusconi. Perché nonostante tutto la fiducia è arrivata e seppur con una maggioranza meno ampia di prima (almeno per ora) si è liberato anche di quel rompiscatole di Fini.
E, alla resa dei conti, il Cavaliere è più forte che mai. Perché Futuro e Libertà già perde i pezzi. Perché Casini non sa da che parte andare. Perché Bersani è stretto in mezzo alla morsa ventennale formata da D’Alema e Veltroni. Perché Di Pietro fa i conti con i primi voltagabbana (e a lui sta cosa ha fatto veramente male) e con la prima opposizione (cosa che gli fa ancora più male).
Perché Vendola non sa che alleati trovare e, comunque, al massimo potrà puntare a vincere le primarie del centro sinistra (anche perché nel Pd sono abituati a perderle anche da soli), ma mai alla vittoria finale. Perché nonostante tutto, l’Italia è ancora in piedi, alla faccia di Grecia, Irlanda e Portogallo.
Perché, per quanto possa essere discusso, è la migliore espressione del popolo italiano. E lui, barcolla ma non molla. Rubando lo slogan anche al suo ex amico Fini. (l'Opinione)

Riforme di liberazione. Davide Giacalone

La riforma dell’università è il successo più recente del governo. Un passo in avanti che sarebbe sciocco considerare risolutivo, sia per il contenuto che per la necessità di diversi decreti attuativi, di là da venire e ancora in attesa di copertura. La riforma della pubblica amministrazione è alle spalle, e anche questa è un successo del governo. Ma nella sua parte succosa, relativa al premio per la qualità, subisce il rallentamento dovuto ai rigori del bilancio. Sono due esempi di cose fatte, che solo la propaganda ottusa può denigrare, ma che solo la parimenti insulsa, e opposta, propaganda può considerare il segno che si è girato pagina. Le riforme di cui ha bisogno l’Italia, che definirei più liberatorie che liberali, non hanno ancora preso corpo.
L’opposizione sostiene che non è stato fatto nulla. La maggioranza che è stato fatto molto. Un bilancino di cui ai cittadini interessa poco e niente. La metterei in modo diverso: è mancato il segnale del cambiamento profondo, restano sospese riforme indispensabili, che dovrebbero rispondere a un complessivo disegno di modernizzazione, riduzione dell’invadenza burocratica, alleggerimento della pressione fiscale, contenimento della spesa pubblica che sia frutto di cambiamenti strutturali e non di tagli lineari (conseguenza della necessità e di una cosa che molti tendono a dimenticare: ignoranza sulla reale composizione della spesa). La sinistra ha ben poco da reclamare, perché su ciascuno dei temi decisivi assume posizioni conservatrici, quando non direttamente reazionarie.
A cominciare dalla giustizia. Non esiste alcun Paese ove possa affermarsi lo Stato di diritto nel mentre i tribunali vanno in bancarotta. Qualche volta fa capolino, sulle prime pagine, la notizia del criminale scarcerato per decorrenza dei termini, perché il giudice ha impiegato anni a scrivere la sentenza, ma è solo una punta del problema. Nei tribunali italiani s’incenerisce la certezza del diritto, che è certezza dei diritti. Se non so quando verrò pagato, se non ho la certezza che chi non rispetta i patti sarà punito, semplicemente vado ad investire altrove. Non si tratta, quindi, di una riforma destinata a regolare i conti fra giustizia e politica, ma a far tornare i conti nel mercato.
Servono: separazione delle carriere, tempi certi e sempre perentori, allontanamento dei magistrati che sbagliano, controllo di produttività. Si oppongono le toghe corporativizzate. Va detto chiaramente: la giustizia non è un affare delle toghe, ma dei cittadini. Se in questa direzione non ci si muove, e in fretta, si affonda nel pantano.
Il mercato del lavoro deve essere reso assai più permeabile. In uscita, che è doloroso, ma anche in entrata, che è virtuoso. La Fiat sta cambiando le sue relazioni industriali, mandando in soffitta la deleteria prassi della concertazione. Per farlo ha licenziato la Cgil, ma anche Confindustria. Andiamo avanti in questo modo, sotto la pressione degli investimenti che altrimenti non si faranno e delle fabbriche che altrimenti chiuderanno, o ci mettiamo, tutti, nella condizione di cogliere le opportunità offerte da mercati ed economie che crescono più che da noi? Farlo significa anche dire ai giovani che essi non sono degli esclusi destinati a pagare le pensioni degli altri, mentre non ne avranno una propria.
Abbiamo un fisco opprimente e dispotico. Paghiamo troppe tasse e troppi le evadono. Anziché rimediare, anziché alleggerire il peso fiscale sulla produttività, si continua a ritenere tutti i contribuenti disonesti, consegnando al fisco il diritto d’incassare subito anche quel che il cittadino contesta. Risultato: gli onesti pagheranno e saranno svillaneggiati, i disonesti se ne faranno un baffo. Non ha senso, oltre ad essere abominevole. Certo, esiste il debito pubblico, ma è follia pensare di soddisfarne i bisogni spremendo i produttori di ricchezza, laddove si dovrebbe essere capaci di strangolarne i dilapidatori. Lo Stato, insomma, deve partire dal riformare sé stesso e la sua spesa, se vuole avere credibilità.
La grande riforma di liberazione deve portare più mercato nello Stato e offrire più mercato a quei servizi pubblici che funzionano. Non si tratta (solo) di privatizzare, ma di far entrare la cultura della produttività e della economicità in ogni stanza pubblica, anche usando i privati.
Una catena non è composta da tanti anelli, ma da anelli legati fra loro, rispondenti ad una sola logica. Questa è la rivoluzione alla quale lavorare, anche per spezzare le catene del passato.