lunedì 30 novembre 2009

Uno snodo politico decisivo. Gianteo Bordero

Ammettiamo - ma non concediamo - per un istante che sulla questione della magistratura italiana Silvio Berlusconi esageri, in quanto direttamente coinvolto nelle inchieste. Ammettiamo - e non concediamo - che anche il Popolo della Libertà esageri, in quanto arroccato nella difesa del suo leader. Che cosa dovremmo dire, allora, del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che venerdì ha dichiarato che «quanti appartengono all'istituzione preposta all'esercizio della giurisdizione debbono attenersi rigorosamente allo svolgimento di tale funzione» e che «nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare»? Se usassimo lo stesso metro di giudizio utilizzato dalla sinistra forcaiola e giustizialista, dovremmo dedurne che anche il capo dello Stato è stato colto da allucinazioni ed è rimasto vittima della «sindrome di Berlusconi», cioè di quel pericoloso virus che porta a mettere in dubbio il dogma della sacralità e dell'infallibilità della magistratura...

La verità è un'altra, ed è che chiunque non abbia la mente offuscata dalla furia ideologica del giacobinismo può benissimo constatare senza troppi sforzi come oggi, nel nostro paese, alcuni giudici e pubblici ministeri tentino non di rado di trasformarsi in soggetti politicamente attivi e di decidere così le sorti delle istituzioni democraticamente elette dal popolo. Tale tentativo, in realtà, non nasce ora come un fungo: esso si protrae in maniera evidente dagli inizi degli anni Novanta, cioè da quando, nella crisi dei partiti democratici della Prima Repubblica, la magistratura pensò di poter assumere il ruolo di arbitro (non imparziale) della vita politica, mandando al macero un'intera classe dirigente e preparando il terreno per un nuovo assetto di potere nel quale l'ultima parola spettasse a quello che è stato chiamato «partito dei giudici»: un contenitore che raccogliesse i graziati dalle inchieste di Mani Pulite, il partito postcomunista, pezzi delle élites economiche e culturali che avevano sostenuto a spada tratta l'azione delle toghe milanesi, il «popolo dei fax», alcuni pubblici ministeri passati alla politica. Tale partito sarebbe stato l'unico legittimato a governare grazie al beneplacito delle Procure e sotto la loro protezione.

Se questo progetto non andò in porto fu soltanto grazie alla decisione di Berlusconi di entrare nell'agone politico e alla vittoria del centrodestra alle elezioni del marzo 1994. Nonostante ciò, quello che Lino Jannuzzi ha definito il «disegno di potere» di certa magistratura non fu accantonato. Tant'è vero che fu proprio Berlusconi, dopo la sua «discesa in campo», ad essere preso di mira dagli inquirenti, con una costanza e una regolarità che si protraggono ormai da quindici anni, a partire dal clamoroso avviso di garanzia a mezzo stampa del novembre del '94, mentre il Cavaliere presiedeva un importante summit internazionale sulla criminalità. Da allora per il leader del centrodestra è stato un susseguirsi di accuse di ogni genere, sospetti, perquisizioni, inchieste, processi, da cui egli è sempre uscito a testa alta, senza nemmeno una condanna una. Eppure il tentativo continua. Anzi, negli ultimi mesi esso si è intensificato, tanto più dopo la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale.

Solo gli immarcescibili pasdaran dell'antiberlusconismo, i giustizialisti in servizio effettivo permanente, gli eterni nostalgici di Mani Pulite, i dipietristi d'assalto e i micromeghisti bigotti possono oggi negare che esista un accanimento giudiziario nei confronti del presidente del Consiglio. Chi non è accecato dall'odio viscerale per il Cavaliere sa come stanno le cose, e la stragrande maggioranza degli italiani ha ormai compreso - ed è qui la grande differenza tra i tempi attuali e gli anni di Tangentopoli, quando l'onda emotiva suscitata dai processi e il battage mediatico di glorificazione delle gesta del pool di Milano avevano creato attorno ai magistrati un consenso popolare molto diffuso - che parlare di persecuzione giudiziaria ai danni di Berlusconi non è dire una bestemmia, ma prendere atto di una realtà.

In questo contesto ben vengano le parole di Napolitano, che hanno il merito di porre la presidenza della Repubblica in una posizione ben diversa da quella che essa invece assunse, con Oscar Luigi Scalfaro, dapprima nel periodo di Tangentopoli e poi nei confronti di Berlusconi nei suoi primi anni di attività politica. Il messaggio che oggi proviene dal capo dello Stato è chiaro: se qualcuno cercasse al Quirinale una sponda per abbattere il governo e far fuori dalla scena politica il presidente del Consiglio ha sbagliato indirizzo. Ciò offre alla maggioranza uno spazio di manovra reale per poter portare avanti una riforma che miri alla «definizione di corretti equilibri tra politica e giustizia», per riprendere un'espressione usata dallo stesso Napolitano e contenuta anche nel comunicato diffuso al termine dell'Ufficio di presidenza del Popolo della Libertà, riunitosi giovedì a Roma: «La democrazia si fonda su un corretto e giusto equilibrio fra i diversi poteri e ordini dello Stato». E' dentro a questo snodo decisivo per la tenuta del nostro sistema istituzionale che va inquadrata la questione della difesa di Berlusconi da un'offensiva giudiziaria che mette sulla graticola non soltanto un premier, ma la stessa vita democratica della Repubblica. (Ragionpolitica)

giovedì 26 novembre 2009

In cattive acque. Davide Giacalone

Le privatizzazioni sono una gran bella cosa, ma a forza di farle male si finirà con il rimpiangere lo statalismo. Quando ho letto i gran lamenti per la privatizzazione dell’acqua, con i soliti bau bau sulla logica del profitto, che presto ci asseterà, ho pensato, non avendo seguito la cosa, che al governo ne avevano azzeccata una. Non c’è ragione al mondo per cui i privati non possano gestire efficientemente un bene pubblico e limitato, con beneficio collettivo, tanto più che l’attuale gestione pubblica ha messo in tandem gli sprechi ed il clientelismo. Studiando la faccenda, però, mi sono accorto che, se non ci sbrighiamo a fare il necessario, si sono poste le premesse per un bel pastrocchio.
Attualmente la gestione dell’acqua è affidata a delle società che sono animali misti. A2A, Acea, Acegas, Aps, Enia, Hera e Iride, sono società a partecipazione privata, il cui controllo è nelle mani dei municipi (per giunta con un fenomeno di fagocitazione dei grandi sui piccoli). Non sono né pubbliche né private, mentre è totalmente pubblica la pugliese Aqp, ma pur sempre una società per azioni. Anziché conciliare l’interesse pubblico con un’amministrazione profittevole, questi strani animali finiscono con l’essere il trionfo del conflitto d’interessi, favorendo la convivenza dell’influenza della politica sulle nomine e l’interesse dei privati nell’azionariato. Roba da manuale, di come le cose non si devono fare.
Il decreto del ministro Andrea Ronchi (che si occupa di affari comunitari, quindi non c’entra niente, se non fosse che di tutto questo stiamo parlando perché l’Unione Europea ci aveva, anche in tema di acqua, messo in mora), prevede, da una parte, che gli animali misti potranno tenersi i contratti che hanno, e, dall’altra, che la quota pubblica deve scendere sotto il 40% entro il 30 giugno 2013 e sotto il 30% entro il 31 dicembre 2015. Il manuale del buon compratore dice, nella sua prima pagina: acquista da chi è costretto a vendere. Il manuale del buon venditore, di converso, avverte: non metterti nelle condizioni d’essere costretto a vendere. E’ quello che abbiamo appena fatto.
E questo è niente, perché, nel merito, le cose si fanno ancora più preoccupanti. Il primo problema delle acque italiane consiste nel fatto che ne perdiamo troppe, ben prima di arrivare ai rubinetti. Le trasportiamo con gli scolapasta, ed il resto è facile immaginarlo. In Puglia si arriva a perderne la metà, senza neanche irrigare i campi. Al tempo stesso, però, paghiamo l’acqua assai meno degli altri, in Europa e nel mondo. La privatizzazione (della gestione, ovviamente, non dell’acqua) si accompagnerà, pertanto, ad un aumento del prezzo. Non è un bel biglietto da visita, ma si potrebbe sopportarlo se i privati acquirenti fossero tenuti a precisi investimenti per migliorare la rete ed anche la qualità dell’acqua. Chi stabilirà, controllerà e sanzionerà? Non si sa. E non è un dettaglio.
La legge stabilisce che chi investe nella gestione delle acque non può guadagnare più del 7% del capitale investito. Al tempo stesso, però, le tariffe (amministrate) non possono crescere più del 5% ogni anno. Tali vincoli inducono al sospetto che i privati possano acquistare e non investire, lucrando nel tempo e senza sborsare altri capitali. E’ l’esatto contrario della logica di una sana privatizzazione, che si basa sulla chiamata del capitale privato a rischiare investimenti per rendere un servizio migliore, naturalmente traendo profitto, ma a valle del beneficio pubblico.
Infine (ma ci sarebbe dell’altro) chi sono i privati che possono comprare? Anche qui, si procede nella nebbia. Alcune partecipazioni sono acquistate da soggetti imprenditoriali che producono sistemi per la gestione delle acque. Benissimo, se si tratta di sinergie, ma malissimo se, invece, il profitto si sposta dalla gestione del servizio alle forniture alla società cui si partecipa. Taluni si spaventano per l’ingresso di operatori stranieri, io, invece, temo quelli non esportabili.
Morale: o ci sbrighiamo a dar vita a controllori efficienti e con poteri reali, in modo da sciogliere tutti questi nodi, o abbiamo messo in moto una macchina infernale, che, presto, ci precipiterà in cattive acque (come è capitato a Parigi, dove prima si è privatizzato ed ora si rimunicipalizza). Inoltre, la politica da seguire dovrà essere nazionale e non affidata alle spinte degli interessi locali, quindi tocca allo stesso governo che ha varato il decreto muoversi, ed in fretta.Se non lo si farà, andrà a finire che, come nel caso di Telecom Italia, si prenderanno beni collettivi e li si affideranno a dei piranha privati, che, dopo averli spolpati, diranno: che, per caso, volete bere? In questo caso tocca scucire soldi pubblici per rifare la rete, giacché quella che gestiamo noi è peggiore, se possibile, di quella che ci lasciaste. Ed a noi, poveri cultori del mercato in un Paese di mercanteggiatori, si rivolgeranno sguardi torvi e severi, additandoci l’ennesimo fallimento di quel che, invece, non avremmo mai voluto. Quindi lo dico prima: così andando, finisce male.

mercoledì 25 novembre 2009

GOVERNO: ROTONDI, CHI VUOLE RINUNCI A PAUSA PRANZO ED ESCA PRIMA

Roma, 25 nov. (Adnkronos) - ''Il governo e' sempre dalla parte dei lavoratori. Il lavoratore deve essere libero di decidere se fare la pausa pranzo o andarsene un'ora prima. Dico di piu': dobbiamo organizzare sempre di piu' il lavoro a misura delle esigenze dei lavoratori e della famiglia''. In una conferenza stampa a palazzo Chigi il ministro per l'Attuazione del programma di governo, Gianfranco Rotondi, rilancia la sua proposta sulla pausa pranzo. Insomma, insiste, il ministro, ''non ho mai proposto di abrogare il diritto dei lavoratori alla pausa pranzo, semmai ho proposto il diritto a rinunciarvi per uscire un'ora prima dal lavoro''.

martedì 24 novembre 2009

Sostanza, non puntiglio. Davide Giacalone

Il governo si trova in uno stato di progressiva decomposizione, dovuto ad una sottovalutazione delle condizioni oggettive dell’Italia, accompagnata da una sopravalutazione del truschinare politico. Si tende a credere che siano gli equilibri politici a determinare il corso delle cose e non il contrario. Il che è anche vero, quando la politica è forte, ma capita l’opposto, quando è fiacca e miope.
Non devono spaventare, o eccitare, gli scambi verbali fra esponenti della maggioranza e del governo. Ciascuno ha il proprio stile, ma non è questo un utile ed interessante argomento di discussione. Ciò che colpisce è che le scudisciate fischiano per aria, ma dopo che si sono abbattute il cavallo resta fermo. Ligneo. Alla durezza del linguaggio non sembra corrispondere alcuna conseguenza reale, come se si fosse paghi d’averlo detto e taluno abbia goduto ascoltando.
Il presidente della Camera ha scelto una platea di bambini per offrire loro una solidale parolaccia. Escluso che avesse uno scopo educativo, e posto che il problema del razzismo lo si solleva fra quanti non devono praticarlo, non fra quanti non dovrebbero subirlo, è evidente che stava sfruculiando dei suoi alleati. Chi mai è razzista, in un Paese in cui siamo tutti buoni? C’era la destra, ariana e favorevole all’“Europa nazione”, che forse Fini ricorda, e c’è la Lega, che ne dice di variopinte. La prima è, giustamente, relegata nel museo delle ridicolaggini pericolose, la seconda non solo è al governo, ma il suo fondatore e capo ha dato, assieme a Fini, il proprio nome alla legge che regola l’immigrazione. Sia Fini che Bossi dicono che quella è una buona legge. Epiteti e sparate, pertanto, son buoni per conquistare un riflettore.
Fra domenica e lunedì è sembrato doversi festeggiare la riapertura di due scuole di pensiero, ispirata una a Quintino Sella e l’altra ad Amintore Fanfani, una per il rigorismo e la lesina, l’altra per il lassismo e la spesa in deficit. Sarebbe anche intrigante, se non fosse semplicemente fuori dal mondo: abbiamo un tale debito pubblico, accumulato negli anni e senza ulteriori spese anticongiunturali, che supporre imminente una stagione di grandi spese, in assenza d’innovazioni profonde, è impossibile. Ho letto l’intervista di Renato Brunetta (di cui, avverto, sono amico e collaboratore, pur restando diverso il nostro modo di vivere la politica), ma il passaggio spendaccione non ce l’ho trovato, anzi, ho letto che egli condivide le scelte di politica economica fin qui fatte, al punto che non si capisce perché altri abbiano voluto dire: erano dettate da Silvio Berlusconi (o lo fanno per indispettire il ministro dell’economia?). Certo, che i rapporti con Giulio Tremonti non siano improntati alla continua ansia di darsi reciprocamente una mano era chiaro, ed i due non fanno nulla per nasconderlo, ma a noi non importa poi molto se si fanno le boccacce, né vogliamo essere chiamati a stabilire chi ha cominciato per primo. Neanche, però, facciamoci distrarre dalla sostanza.
Mettiamo che il governo riesca a fermare la decomposizione e che il Consiglio dei ministri non degeneri in un format, tipo: Isola dei focosi. Mettiamo (per pura ipotesi) che la legislatura vada avanti. Ci aspetta un 2010 con una leggera ripresa produttiva, inferiore a quella di altri Paesi, che non si accompagnerà a riassorbimento della disoccupazione. La pressione fiscale resta elevatissima e lo sconto sull’acconto Irpef è una partita di raggiro. A questi problemi non si può rispondere né dicendo “non spenderemo un doblone e saremo rigorosi”, né “spenderemo tanto ed a casaccio”. Se sfondassimo i parametri del deficit il nostro debito comincerebbe a costarci maggiormente (e già ci strangola), ma se non muoviamo foglia salirà la febbre sociale. Sono quindici anni che cresciamo meno dei concorrenti, il che segnala cause strutturali. A queste non possiamo opporre un: “in tempi di crisi non si fanno riforme” (quando, allora?). Ma neanche un gattopardismo per poveri di spirito. Insomma, se il governo dura occorre che abbia qualche cosa di convincente da dire, e non solo qualche cosa di colorito da dirsi.
Dalle pensioni al mercato del lavoro, dalla scuola alla spesa sanitaria, passando per la giustizia, cincischiando si prepara il peggio, restando immobili si verrà travolti, muovendosi alla cieca ci si schianta. E non basta che si faccia questa o quella cosa, né che si stanzino dei soldi affermando che da quelli discenderà più sviluppo e non più sperpero, perché è necessario che ciascuna azione, ciascuna spesa, ciascun cambiamento, e anche ciascuna conservazione, rispondano ad un’idea di futuro. Non alla paura di fare i conti con il presente. Si chiama politica, e consiste nel costruire il consenso attorno a modelli ed interessi, cercando di prevenire e non solo d’inseguire. Il consenso tutela la democrazia, e le idee di futuro evitano che il dibattito continui giù in cortile.

lunedì 23 novembre 2009

Scalfari ridotto agli insulti ma i suoi sono chic. Alessandro Gnocchi

Se qualcuno volesse verificare l’esistenza del famoso complesso di superiorità della sinistra, non avrebbe che da recuperare l’editoriale firmato ieri da Eugenio Scalfari su Repubblica. Lo riassumo per i lettori del Giornale. Gli italiani sono un popolo «senza qualità». Al massimo possono essere «servili» e «buffoni di corte». Perbacco. Il giudizio, per quanto avvalorato da dotte citazioni di Diderot, Rilke e Dostoevskij, pare un po’ troppo duro e qualunquistico, soprattutto per un filosofo della portata di Eugenio Scalfari. (Di recente paragonato dalla critica, che un malizioso potrebbe ritenere ossequiosa, a Nietzsche, Montaigne, Croce, Cartesio, Socrate, Eraclito, Parmenide, Leopardi, Proust, Rilke, Hölderlin, Arendt, Valéry, Rabelais, Nerval, Eckhart e Pascal). Per fortuna il Fondatore fa qualche distinguo tipico del pensiero complesso tanto apprezzato dai progressisti (Michele Serra docet) e incomprensibile ai rozzi conservatori. Non tutti gli italiani sono incapaci di separare il bene dal male, per carità. Solo quelli allevati come polli di batteria da Silvio Berlusconi. Veri e propri beoti che «avendo bisogno di una fede profana, l’hanno trovata e se la tengono stretta». Con analisi sempre più incalzante, Scalfari passa dal generale al particolare. All’interno del pollaio berlusconiano alcuni polli sono più polli degli altri: «Sto parlando della sua truppa, della corte palatina che lo circonda, lo protegge, esegue i suoi ordini e anticipa i suoi desideri». Fuori i nomi, direbbe Pierluigi Battista, al quale la reprimenda scalfariana, come vedremo, sembra indirizzare una fosca profezia. Ed ecco, appunto, i nomi. «Vi pare che in un paese normale uno come Schifani diventerebbe presidente del Senato?». E uno. «Gasparri ministro prima e capogruppo dei senatori poi?». E due. «Bondi ministro e coordinatore del partito? Con le poesie che scrive?». E tre. Ma che diavolo avranno mai combinato i mazzuolati? In fin dei conti in Italia è stato ministro perfino Pecoraro Scanio e le rime di Bondi non sono certo peggio dei romanzi di Veltroni, anche se non godono delle stesse prone recensioni su Repubblica. I tre hanno una sola colpa: sono di destra, come la maggioranza degli italiani. E di conseguenza non possono che mostrare «furbizia nell’elusione delle regole» e «cortigianeria». Ma ce n’è ancora. Ce n’è per Tarantini, «amico di casa», tirato in ballo quasi fosse parte dell’esecutivo. Ce n’è per Cosentino, per il quale non vale la presunzione d’innocenza. Ce n’è per giornalisti come Augusto Minzolini del Tg1, l’unico direttore a cui è vietato esprimere la linea della testata per volontà della sinistra, in tutti gli altri casi strenua sostenitrice della libertà d’espressione. Ce n’è per Maurizio Belpietro, direttore di Libero, a cui è riservato un insulto puro e semplice: «alano da riporto». Ce n’è per Pierluigi Battista, vicedirettore del Corriere, il quale aveva fatto notare in un articolo che la scomparsa (politica, sia chiaro) di Berlusconi toglierebbe il pane di bocca a un sacco di commentatori. Scalfari, toccato nel vivo, rassicura i neutrali «terzisti» (che Battista sia tra loro?): un posto a tavola per quelli che sanno scrivere si trova sempre, magari una rubrichetta. Però, che classe questa sinistra. Meno male che alla qualità, in questa Italia che ne è priva, ci pensa Eugenio Scalfari. (il Giornale)

domenica 22 novembre 2009

Avvocati, di se stessi. Davide Giacalone

Il corporativismo togato dilaga fra i magistrati, ma anche gli avvocati non scherzano. Non si può riformare la giustizia seguendo i pronunciamenti dei primi, ma anche le parole dei secondi non portano lontano. Il dato sconfortante è che quando i penalisti si riuniscono a convegno, per parlare del processo, espongono tesi in larga parte condivisibili, tutte proiettate a farlo funzionare ed a difendere gli interessi dei cittadini, ma non appena si riuniscono gli organismi unitari, prendendo a parlare della professione forense, la musica cambia, e suona gradevole solo alle loro orecchie.
Noi italiani spendiamo per la giustizia, pro capite, quanto e più degli altri cittadini europei, avendo un numero di magistrati superiore alla media europea. Anche gli avvocati sono tanti: 230 mila. Il tutto, messo assieme, e ciascuno per quel che gli compete, ci restituisce la peggiore giustizia d’Europa. Gli avvocati, naturalmente, non hanno alcuna responsabilità nell’amministrazione della giustizia, ma ne hanno nella dequalificazione della professione. Riuniti in assemblea non lesinano applausi a quanti ricordano che sono troppi, ma credo lo facciano solo perché non ne vogliono altri. Non è pericoloso il numero, invece, ma l’assenza di un mercato realmente aperto alla concorrenza, non trasparente, non premiante il merito. Le cose che gli avvocati chiedono, ed è questo il punto, servono a conservare il peggio.
Dice Maurizio De Tilla, presidente dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura, che, finalmente, dopo settanta anni, gli avvocati si sono messi d’accordo su alcuni punti. Evviva. Quali sono? Cito: “l’inderogabilità dei minimi tariffari, il divieto di patto quota-lite, l’esclusività della consulenza legale”. E’ roba pessima, farebbero meglio a riprendere le liti. I minimi tariffari servo a fregare i giovani di talento, imponendo loro di non patrocinare a favore di cause difficili, con soggetti poveri, ma con una posta molto alta. Mentre il divieto di partecipare del successo (patto di quota-lite), vale a dire di concordare un pagamento assai consistente in caso di vittoria ed uno magari simbolico in caso di sconfitta, serve ad evitare che quegli stessi giovani superino gli affermati maestri troppo in fretta. Dicono gli avvocati, invece, che i minimi tariffari servono a tutelare i deboli ed i divieti di patti a tutelare l’onore della categoria. Ma non prendiamoci in giro: i giovani lavorano per anni, gratis e facendo i portaborse, senza alcuna tutela, mentre i grandi studi patteggiano eccome i compensi extra, lucrosissimi, sotto forma di consulenze ed altri incarichi.
Sulle consulenze l’avvocatura vuole l’esclusiva, bloccando il lavoro di persone competenti quanto e più di loro, ma assunte dalle aziende e, pertanto, non più avvocati. Robetta protezionista, insomma.
Dice Guido Alpa, presidente del Consiglio Nazionale Forense, che nelle proposte degli avvocati “non ci sono solo privilegi, piuttosto alcuni sacrifici. Per esempio l’obbligo di un’assicurazione a copertura degli errori professionali, un accesso più difficile e selettivo, un più stringente obbligo di aggiornamento professionale”. E quale sarebbe, il sacrificio? Non ne vedo neanche uno: l’assicurazione è un’opportunità, la selettività (sempre benemerita) qui serve a proteggere i numerosissimi già entrati nell’albo, in quanto all’aggiornamento professionale, che qualcuno lo consideri un “sacrificio” la dice talmente lunga da essere imbarazzante.
Non ci siamo proprio. La maggioranza parlamentare ed il governo, che sono andati a prendere applausi, devono stare assai attenti. Prima di tutto perché, a confronto di quel che oggi si sente dire, le riformine varate da Pierluigi Bersani, quando era ministro, sembrano una rivoluzione liberale. Secondo, perché il compito della politica è quello di ascoltare tutti e non seguire nessuno. Terzo, perché se si cede all’idea che l’avvocatura possa “autoriformarsi” non si vede come si possa sostenere, come io sostengo, che l’idea stessa di un’autoriforma della magistratura, sostenuta dall’Associazione Nazionale Magistrati, è eversiva dell’ordinamento democratico.
Qualcuno ricordi che il corporativismo non porta mai nulla di buono, e che due corporativismi contrapposti servono solo a riconoscere due torti. Qualcuno, inoltre, provi a ricordarsi che la giustizia non la si riforma al servizio né dei magistrati, né degli avvocati e neanche dei cancellieri, ma dei cittadini.

venerdì 20 novembre 2009

Montezemolo scende in politica. Anzi, è sceso. O forse no. L'Occidentale

Ora il dilemma è scendo o non scendo. Scendo o non scendo. La discesa nell’agone politico del presidente della Fiat Luca Cordero di Montezemolo sembra esser diventata più che un tormentone politico, una barzelletta. Sono mesi che l’ex presidente di Confindustria fa associazioni, tesse legami, lancia proclami, dà indicazioni su cosa deve o non deve fare il governo. Sentendosi ancora appieno nel vecchio ruolo di presidente di Confindustria, non manca occasione di intervenire sui grandi temi del momento: sì alla riforma della giustizia ma condivisa con l’opposizione, e attenzione a non cedere alla trappola della legge ad personam, altrimenti il tema non si fa solo scottante ma anche pericoloso. E poi ancora: “è necessario che le riforme sociali non siano disgiunte da quelle economiche, pensioni e fisco in primis”.

Quanto all’esecutivo, Montezemolo ha le idee chiare: non è una questione di numeri ma di volontà: “la maggioranza ha un grande programma ma una grandissima difficoltà a realizzarlo”. E guai anche solo paventare l’idea di elezioni anticipate, è come la minaccia di una pistola scarica”. Una pistola, viene da pensare, che potrebbe colpire in primis proprio l’ex presidente di Confindustria, il quale sa bene che semmai dovesse decidere di compiere il grande passo, gli servirebbero tempi ben più lunghi di quelli da qui a primavera.

Non c’è che dire. La quasi discesa in campo di Montezemolo continua a lasciare molti dubbi e mezze certezze. Tra le mezze certezze quella che si sta consolidando un fronte moderato, che da Montezemolo potrebbe arrivare direttamente al Fini restyled, passando per Rutelli, da cui non si sa se la politica italiana guadagnerebbe sul fronte delle idee si ma certamente in stile e bellezza. (Ma ve lo immaginate Montezemolo mentre fa le corna nella foto di gruppo di un summit internazionale?).

Non tutti hanno la fortuna di nascere con la camicia o con il doppio cognome o di avere origini nobili. Lui sì e quando, lanciando la sua Italia Futura, l’abbiamo sentito ammettere che la sua generazione aveva fallito, sulla nostra schiena è corso qualche brivido. Sarà perché in fondo la storia la fanno gli uomini con le loro azioni o perché maliziosamente pensiamo che “Montezuma”, qualche colpa ce l’ha eccome. Se la FIAT è entrata in crisi è successo per colpa di dirigenze allegre e poco lungimiranti e di sovvenzioni statali a pioggia (che Luca non risulta abbia mai disdegnato) ma che ne sarebbe stato dell’azienda senza un buon risanatore come Sergio Marchionne? Sarà un caso che la Fiat si sia risollevata grazie a un manager vero, così diverso da un presidente che è anche manager ma che sulla coscienza ha il fallimento della Cinzano, dei mondiali ’90 (in quegli anni Luca dirà che il problema è totalmente della classe politica, respingendo ogni responsabilità per tutti i soldi da lui usati inutilmente, quindi sulle spese pubbliche centuplicate), di una gestione schizofrenica di Confindustria, etc, etc, etc?

Il 2012 sarà l’anno della riscossa, o, come racconta il discusso film di Roland Emmerich, l’anno della catastrofe? Se facessimo parlare Montezemolo, non avremmo dubbi: nella sua Italia immaginaria “qui è già domani”. Un monito importante per il futuro. Anche se lascia non qualche preoccupazione sul nostro povero presente.

P.s. Consentiteci una nota di banale chiacchiericcio giornalistico: chi lavora a Viale dell’Astronomia non ha ancora capito perché mai Montezemolo abbia voluto a tutti i costi un’entrata separata per i dirigenti rispetto ai comuni lavoratori. E che dire dei tavoli dell’Associazione degli Industriali? Sono dell’azienda che fa capo a lui, la “Frau”, come le poltrone del settimo piano, quello riservato alle cariche più alte. Ma questo in fondo è solo gossip…

Europetta. Christian Rocca

Un pigmeo belga e una baronessa inglese a capo dell'Europa. Scelte di grande spessore, complimenti. Avrebbero potuto scegliere, per dire, anche Rosy Bindi e Scalfarotto. Ma perlomeno abbiamo evitato la tragedia D'Alema. (Camillo blog)

mercoledì 18 novembre 2009

Politici & poltrone. Ugo Arrigo

I politici si dividono in quattro categorie (o gironi) sulla base del mezzo su cui stanno viaggiando nella fase attuale della carriera:
1. Nel primo gruppo i politici che viaggiano ormai solo sulle auto blu. Consapevoli di essere pervenuti a un ruolo molto superiore alle loro mediocri capacità si accontentano dei privilegi dello status acquisito e ne difendono la conservazione. Il massimo dell’ambizione è un posto al sole, un bel consiglio di qualche impresa a controllo pubblico o di Autorità pseudo indipendente.
2. Nel secondo gruppo i politici che viaggiano sulle idee del passato, altrimenti dette anche ideologie. E’ un gruppo in declino, sia numericamente che per successo personale ottenuto. Quando i membri si accorgono che le idee del passato hanno capacità propulsiva decrescente traslocano rapidamente al gruppo uno o al gruppo tre.
3. Nel terzo gruppo i politici che viaggiano sulle poltrone attuali nel tentativo di conquistarne di più ambite. La competizione si svolge in una specie di autoscontro nel quale le automobiline sono sostituite da poltrone e consiste nel disarcionare chi occupa le postazioni migliori per impossessarsene.
4. Nel quarto gruppo i politici che viaggiano sulle idee del futuro, dotati di visione e capaci di prevedere le dinamiche sociali e di incidere su di esse. Consapevoli di essere leader non adottano la strategia di precedere di poco gli elettori della propria area sulla loro stessa strada ma pretendono di sceglierne una anche molto differente, certi di poterli convincere a seguirli.
Peccato che il quarto gruppo sia un sottoinsieme vuoto. (Chicago-blog)

Studenti reazionari. Davide Giacalone

La gara sarà a lisciarli per il verso del pelo, a dire loro che hanno ragione, ma devono capire, che possono protestare, ma non per questo assaltare le sedi della pubblica istruzione. Invece, credo che nei confronti degli studenti universitari, o, meglio, di quelli che sono scesi in piazza ed hanno agitato le vie, occorre essere più onesti e diretti: sbagliate. Siete gravemente in errore.
Il problema italiano non è che manchi il diritto allo studio, ma che tutti hanno diritto d’accedere a studi che valgono poco, e talora niente. Il problema non è la selettività, ma il passaggio mandriano di tutti quelli che non si ritirano (alla fine ne laureiamo meno che altrove, ma li selezioniamo per abbandono, non per merito). Il problema non sono i pochi soldi a disposizione, ma i troppi buttati per finanziare cattedre assegnate per meriti non accademici. Il problema non è la libertà culturale di chi organizza i corsi universitari, ma l’anarchia irresponsabile di chi inventa corsi e cattedre per sistemare amici e parenti.
Gli studenti dovrebbero ben protestare, ma contro quest’andazzo dequalificante di cui faranno le spese. E dovrebbero protestare anche contro il ministro, se questo li eccita, contro il governo e contro chi pare a loro, ma rimproverando a governanti e legislatori di avere fatto poco e lentamente, non troppo ed in fretta. In Germania s’agita la protesta degli studenti, come da noi, ma lì reclamano più meritocrazia e più qualificazione, quindi anche più soldi per corsi di alta qualità. Che il cielo li benedica. Che cosa ne ho letto, in italiano? “La rivolta degli studenti secchioni”, così è stata data la notizia delle proteste tedesche. E ci vuol poco a capire che utilizzare “secchioni” al posto di “bravi” comporta un giudizio che già racconta il disfacimento culturale della vita pubblica.
Non solo non mi preoccupa, ma trovo normale che gli studenti protestino contro chi governa. Rientra fra le cose ovvie, come il cambio delle stagioni. E’ inquietante, invece, che lo facciano non per reclamare il nuovo ma per proteggere il vecchio, come se il conservare il passato possa rispondere ad un qualche loro interesse. E’ vero l’esatto contrario.
Mi preoccupano i gesti forti, che ancora viaggiano dietro la soglia dei violenti, non accompagnati da idee pesanti, da proposte, da suggestioni per il futuro. Alla fine tutto si scarica in un odio ideologico, in un’avversità politica che punta tutto sugli schieramenti e lascia sospesi i contenuti. E non mi basta l’osservazione consolatoria secondo cui quelli in piazza sono una minoranza, mentre la maggioranza sta altrove, perché questo non spiega e non dimostra nulla. Sono le minoranze, spesso, a dar voce ai sentimenti diffusi. Quelle che, un tempo, si chiamavano “avanguardie”. E quelle di oggi hanno un’idea mitica e fasulla del passato, non ne hanno nessuna di futuro e vivono il presente come antagonismo senza contenuti.
Vogliono l’università che hanno conosciuto, solo con più soldi? Se la godano, come moltiplicatore d’ignoranza e baccanale per clientele. A restarci fregati saranno i meritevoli non socialmente protetti, saranno i ragazzi che non vengono da famiglie ricche o professionalmente favorite, per ciò stesso condannati ad avere una cattiva istruzione e nessuna speranza d’incrementare significativamente il reddito familiare. Quelli tedeschi saranno studenti “secchioni”, ma quelli che vedo, da noi, somigliano troppo a classisti reazionari.

lunedì 16 novembre 2009

Battisti e l'interesse nazionale. Cesare Martinetti

Silvio Berlusconi incontra quest’oggi a Roma Ignacio Lula da Silva e sarebbe una bella cosa se il presidente del Consiglio italiano spiegasse al presidente della repubblica federale del Brasile che l’Italia è uno Stato di diritto dove Cesare Battisti è stato processato e condannato in base alle leggi approvate dallo Stato democratico. Leggi e procedure che sono state sempre in vigore, anche nei momenti più difficili, come negli anni del terrorismo, quando alcune di esse vennero adattate ai tempi e rese più severe. Ma pur sempre applicate da corti e tribunali ordinari.

Il presidente Lula potrebbe così serenamente disporsi a decidere sull’estradizione del terrorista italiano, un tempo pistolero dei Pac (proletari armati per il comunismo) da venticinque anni in fuga dalla condanna all’ergastolo presa per aver partecipato a vario titolo a tutti i quattro omicidi commessi da quel gruppuscolo sanguinario che ondeggiava tra l’autonomia e le organizzazioni terroristiche. Sentenze di primo grado, confermate in appello e in Cassazione. Processi veri, ai quali Battisti, latitante, non ha partecipato ma nei quali è stato difeso dai suoi avvocati da lui nominati con lettere autografe giunte ai giudici di ogni grado e giudizio.

Insomma, condanne seguite a procedure regolari.

Di cui Lula potrebbe essere informato da Berlusconi e dai suoi ministri in modo da superare le suggestioni del clima da carnevale che anche in Brasile, dopo i fasti gauchisti parigini, si è allestito intorno al carcere dove Battisti attende la decisione della corte. In quelle manifestazioni si leggono cartelli che ripetono slogan grotteschi come questo: «Estradare Cesare è modernizzare l’inquisizione». «Cesare Battisti siamo tutti noi», dicono i dimostranti. Liberi di pensarlo. Sarebbe importante che non lo pensasse il governo brasiliano che è apparso finora invece attraversato da sospetti ed esitazioni.

Per questo è importante il modo in cui il nostro governo farà sentire il peso dell’interesse nazionale italiano sull’affare Battisti. È un interesse di giustizia, nient’altro. Silvio Berlusconi non è certo il leader più indicato a far da garante del nostro sistema giudiziario, ma in questo caso il conflitto di interessi che lo contrappone ai giudici inquirenti deve cedere di fronte all’interesse politico. Lula deve essere bene informato su come si sono svolti i processi, delle accuse e delle sentenze. Deve sapere che nessun giudice italiano ha accusato Battisti di reati politici o di opinione. Ma di aver ucciso personalmente il capo della guardie carcerarie di Udine, Santoro, di aver partecipato all’omicidio del macellaio Sabbadin di Mestre mentre i suoi complici facevano il tirassegno sull’orefice di Milano Torreggiani; e infine di aver partecipato all’agguato mortale contro l’agente della Digos Campagna, colpevole soltanto di aver fatto da autista ai suoi colleghi in una retata di autonomi alla Bovisa. Azioni di atroce vendetta sociale istruite ed esaminate in un processo dove non sono stati messi sotto accusa i progetti politici di Cesare Battisti e dei suoi compagni, ma i loro delitti. Le condanne sono state decise in base a prove, testimonianze e alle confessioni dei complici.

Peraltro Battisti, fino a quando si è sentito protetto dal calore dello snobismo parigino non si era mai troppo preoccupato di negare le sue responsabilità («Mi sono macchiato le mani non solo d’inchiostro», disse in un’intervista), trasfigurandole anzi nel mito dell’intrepido sovversivo sociale che piace tanto agli intellettuali della riva sinistra della Senna. E il suo libro più noto («Dernières cartouches», le ultime cartucce) racconta con parafrasi ma anche una relativa precisione tutta l’avventura dei Pac, omicidi compresi.

Dopo averlo protetto per quindici anni, la Francia l’ha poi scaricato, a modo suo: i giudici hanno concesso l’estradizione, i servizi segreti (certo non per iniziativa propria) l’hanno aiutato a fuggire in Brasile, come lui stesso ha raccontato. La patata è ora nelle mani di Lula, l’ex operaio sindacalista diventato a sorpresa il leader del boom brasiliano. Ieri Massimo D’Alema lo ha incontrato, ma ha fatto sapere di non aver voluto parlare di Battisti con il presidente companheiro: «Non ne abbiamo parlato, perché la questione è nelle mani della magistratura che deciderà entro qualche giorno». È un peccato, perché nella cause di estradizione i giudici danno pareri giuridici, ma la decisione è sempre politica, dei governi. E D’Alema avrebbe potuto spiegare al Presidente brasiliano che la battaglia contro il terrorismo in Italia è stata combattuta da tutti, compresa la sinistra politica e sindacale. Speriamo lo faccia il governo in carica. (la Stampa)

giovedì 12 novembre 2009

I pubblici ministeri stanno stilando le liste per le regionali. Nuovo golpe strisciante. Carlo Panella

Ora tocca a Formigoni, ieri era toccato a Cosentino, presto toccherà a Vendola, è già toccato alla moglie di Mastella, Marrazzo è già agli atti; l'Abruzzo di Del Turco è già nella storia. Risultato: le liste elettorali e i candidati per le regionali del 2010 sono disegnate con largo anticipo e con sospetta contemporaneità dai pubblici ministeri in Puglia, Campania, Lazio e Lombardia. Voci anticipano provvedimenti pesanti anche in Calabria. La metà degli elettori chiamati alle urne la prossima primavera voteranno -o non potranno votare, perché esclusi dalle liste- candidati decisi -o esclusi- dall'iniziativa delle procure. Il tutto, mentre la Procura di Milano organizza di tutto e di più per provocare per via giudiziaria le seconde dimissioni di Berlusconi (25 sono i processi a oggi intentati contro di lui, di cui ben 24 conclusi con assoluzioni).
Se questo non è uno sconfinamento aperto e rivendicato (lo fa ormai con precisione e insistenza il procuratore Ingroia, ospite fisso di Travaglio e dell'Italia dei Valori) della magistratura nel processo democratico, gli asini volano.
In questo quadro si legittima sempre di più la decisione di Berlusconi di porre un argine politico alla decisione della magistratura di determinare la vita politica del paese e stupisce sempre di più la decisione di Fini di non ''accorgersi'' di questo progetto (che pure tocca con Bocchino e Landolfi uomini a lui vicinissimi) e di fare gioco di interdizione nei confronti di Berlusconi e anche quella del Pd di Bersani di fare finta di nulla.
Il protagonismo politico delle procure (che ormai ricilano episodi di 17 anni fa e lavorano esclusivamente su pentiti) è ormai ''il'' problema politico italiano.
Non intervenire oggi è pura follia politica.

martedì 10 novembre 2009

Islam radicale e pedofilia. Dimitri Buffa

Quella che oggi si chiama “pedofilia” ha nel mondo islamico grosso modo le stesse radici “educative” che aveva il medesimo fenomeno, con un nome diverso, la “paideia”, in quello greco classico. Ed è vero, come ha detto con la rozza schiettezza che la caratterizza Daniela Santanchè, che questo fenomeno affonda le proprie radici nella storia leggendaria di Maometto e delle sue mogli, l’ultima delle quali Aisha, sposata a sei anni e “consumata” a nove. Tecnicamente parlando, quindi, c’è poco da eccepire da parte dei soliti imam fai da te d’Italia. Peraltro questa leggenda oggi, ma anche nei secoli passati, ha giustificato a guisa di una sorta di foglia di fico fenomeni molto gravi per la società dei paesi arabi: cioè la compravendita di spose bambine da parte di famiglie povere a ricchi (e tendenzialmente corrotti) magnati dei petroldollari. Soprattutto in Arabia Saudita, il paese la cui legislazione è rimasta più arretratamente vincolata non solo ai precetti ma anche alle storie e alle leggende del testo coranico. Quindi la pedofilia di derivazione culturale islamica soprattutto in Arabia Saudita è un’emergenza pari alle mutilazioni genitali femminili in Egitto o in Somalia, tradizione quella che arriva invece da feroci usi preislamici e di solito tribali. Naturalmente tanto alla Santanchè quanto ai pedofili che si nascondono sotto quello che sarebbe considerato lecito secondo il Profeta, può subito essere opposto un primo ordine di argomenti: nel Corano e nelle storie della vita di Maometto si parla di poligamia e della giovane, spesso infantile, età delle fanciulle che venivano date in sposa a maschi adulti, così come nella Bibbia si parla di gente come Noè ed Enoch che avrebbero vissuto oltre 900 anni. Ma noi possiamo prendere tutto questo alla lettera? Ovviamente no, come è ovvio che non si possano prendere alla lettera gli inviti alla jihad contro infedeli ed ebrei contenuti nel Corano e nella sunna senza contestualizzarli agli eventi accaduti tra Mecca e Medina nel sesto secolo dopo Cristo e tentare anzi di usarli oggi per fare la lotta armata come Bin Laden. Tutto questo gli arabi ragionevoli lo sanno e gli islamici cosiddetti moderati pure.

Recentemente proprio l’Arabia Saudita sta pensando di mettere mano alla propria legislazione in materia di diritto di famiglia per dare un taglio a questa infame usanza dei matrimoni con spose bambine che poi spesso copre solo lo sfruttamento intensivo, della prostituzione minorile. Si vende una bimba a uno solo per un sacco di soldi invece che a tanti clienti per cifre minori da concordare a prestazione con i cosiddetti “matrimoni a tempo” che esistono anche nell’Iran degli ayatollah. Dove lo stesso Khomeini ebbe una moglie giovanissima. Sulla stampa saudita sono apparsi recentemente alcuni articoli che hanno discusso del fenomeno dei matrimoni di bambini. In Arabia Saudita, dove viene applicata la Sharia, i matrimoni con le bambine come si diceva sono legali, dal momento che, secondo la tradizione mussulmana, il Profeta Maometto ha sposato sua moglie Aisha quando questa aveva solo sei anni. Nell’agosto del 2009 i giornali locali hanno riferito del caso di una bambina di 10 anni che era rimasta nascosta per 10 giorni nella casa della zia dopo che suo padre l’aveva fatta sposare ad un uomo di 80 anni. In risposta a questa notizia, un giornalista saudita ha argomentato che i matrimoni di bambini sono incompatibili con i valori dell’Islam e che violano la Convenzione sui Diritti del Fanciullo dell’ONU del 1989, che è stata firmata anche dall’Arabia Saudita. Più precisamente lo scorso 25 agosto un articolo che sollecitava le autorità a vietare questi matrimoni veniva pubblicato dal quotidiano “Okaz”. Ma’touq Al-´Abdallah, membro della Commissione Saudita per i Diritti Umani, aveva anche affermato che, “anche se il paese non aveva esplicitamente messo fuori legge i matrimoni con bambini, un rapporto del ministero della salute saudita, del Febbraio 2009, era giunto alla conclusione che questi matrimoni sono dannosi per la salute emotiva e fisica del minore e dannosi anche per la società”. Purtroppo però, di fatto, la legge sta ancora dalla parte del vecchio pedofilo, almeno in Arabia Saudita. Tanto che quest’ultimo, cioè il futuro marito della “sposa bambina”, intervistato dal medesimo quotidiano sapete che ha detto? Fondamentalmente “di non avere ancora compiuto 80 anni”. Ed ha accusato la zia della bambina di “interferire con la sua vita privata” ed ha affermato che, secondo la Sharia, “il suo matrimonio è legale dal momento che il padre era d’accordo”. Purtroppo a tutt’oggi la legge dà ragione al pedofilo da quelle parti e forse l’Onu, quando trova il tempo di occuparsi di altre cose oltre che di condannare Israele prendendo per oro colato il rapporto Goldstone sui “crimini di guerra” che sarebbero stati compiuti dall’esercito a Gaza durante l’operazione “piombo fuso” lo scorso gennaio, farebbe bene a interessarsi anche di questo non piccolo fenomeno che le autorità saudite da sole hanno dimostrato di non avere né la forza né il coraggio di mettere fuori legge. (l'Opinione)

Ritorno al passato. Orso Di Pietra

Una volta, quando tutti vivevano di grandi certezze, di bianco e di nero, di odi totali ed amori appassionati, nei giornali satirici figurava una rubrica figlia di queste convinzioni ferree. Quella della notizia del chi se ne frega. Chi la doveva realizzare, infatti, sapeva perfettamente dove pescare una notizia che non avrebbe mai interessato nessuno. Poi è arrivato il relativismo, si è scoperto che anche la notizia apparentemente più inutile può apparire interessante per qualcuno. Ed in nome del diritto di ognuno a pretendere la famosa completezza dell’informazione la rubrica è stata abolita. Ogni tanto, però, l’idea di ritornare al passato spunta in maniera prepotente. Prendi ieri, con l’annuncio dell’uscita di Bruno Tabacci dall’Udc. Altro che relativismo, completezza e diritto di qualche parente stretto del sullodato a conoscere la notizia ! Questo è un caso classico, inoppugnabile e si direbbe letterariamente perfetto di notizia del chi se ne frega! (l'Opinione)

lunedì 9 novembre 2009

Quando mezzo mondo cambiava classe dirigente il Pci cambiava nome. Giuliano Cazzola

Sabato scorso era il 7 novembre; oggi è il 9 novembre. Due date di calendario che stanno nello spazio di un week end, ma che indicano ricorrenze simmetriche ed opposte. Il 7 novembre del 1917 ebbe inizio la “Rivoluzione d’ottobre” (in Russia non era ancora stata applicata la riforma del calendario per cui erano indietro di qualche settimana rispetto al resto del mondo). Per oltre settant’anni, il 7 novembre, si festeggiava quell’evento con grandi manifestazioni a Mosca nella Piazza Rossa. Sfilavano le Forze Armate con tanto di missili, le strutture del partito e quant’altro significasse potenza e prestigio della “patria del socialismo reale”. Sull’enorme palco tutta la gerarchia dell’Urss e i vertici dei “partiti fratelli” di tutto il mondo, tra cui occupava un posto d’onore la delegazione del Pci, che era pur sempre il più grande partito comunista dell’Europa occidentale. C’era addirittura una Camera del Lavoro in Italia che per molti anni – prima che il processo unitario con Cisl e Uil prendesse forza e consistenza – nella giornata del 7 novembre chiudeva i battenti per festeggiare la ricorrenza.

Quella data non la ricorda più nessuno, neppure come evento storico. Tutti invece, a partire dagli ex comunisti, celebrano oggi la caduta del Muro di Berlino: il manufatto che spaccava in due una ex capitale europea, per decenni considerato come un baluardo che proteggeva la DDR dalle provocazioni e dalle penetrazioni del capitalismo e dal “revanscismo tedesco” come si diceva allora. Quel Muro, invece, non difendeva i cittadini-sudditi dell’Est; li teneva prigionieri. Fino alla caduta del Muro il Pci non aveva mai preso le distanze dai “partiti fratelli”, nonostante le critiche e i distinguo, sempre formulati con giri di parole caute e circospette (quando gli eserciti del Patto di Varsavia aggredirono la Cecoslovacchia l’Ufficio politico del Pci si limitò a parlare di “grave dissenso”). Eppure quelle espressioni caute ed ambigue venivano salutate dai corifei nostrani alla stregua di svolte epocali.

Nei giorni scorsi si sono incontrati Kohl, Bush padre e Gorbaciov, presentati dai media come i protagonisti della caduta del Muro. Niente di più falso: Gorbaciov la caduta del Muro la subì, non la volle né la sollecitò. Eppure Gorbaciov ha sempre ottenuto una grande audience in Europa perché, come Dubcek, era un “comunista democratico”, un leader che credeva nella riformabilità del regime comunista e quindi non voleva mettere in discussione le “conquiste” dei lavoratori (che poi tali non erano) derivanti dalla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio. I russi, invece, non amavano Gorbaciov, tanto che gli preferirono Eltsin, un alcolizzato che era stato comunista, ma che non aveva esitato a gettare alle ortiche l’ideologia.

Dopo l’’89 la storia del mondo cambiò. E i cecoslovacchi, tornati liberi, non andarono a cercare nelle catacombe i dirigenti dell’era Dubcek, ma mandarono al potere una nuova classe dirigente che nulla aveva da spartire con il comunismo, tanto dal volto umano quanto da quello disumano. Il Pci risolse i suoi problemi di identità mutando nome (lo ha fatto più volte). Quei passaggi suscitarono un intenso dibattito interno che venne imposto a tutti gli italiani mediante film, dibattiti e fiction televisive, come se tutti noi dovessimo patire le stesse pene di chi non voleva smettere di essere comunista. Come se dovessimo tutti correggere Benedetto Croce e la sua considerazione (“non possiamo non dirci cristiani”) nel modo seguente: non possiamo non dirci comunisti.

Insomma, la svolta del 1989 arrivò all’improvviso. E in modo immeritato per il Pci che non aveva mai rotto fino in fondo con l’Urss e i regimi dell’Est. Basti pensare che solo da pochi anni si ammette che Enrico Berlinguer, ai tempi del compromesso storico, subì un attentato in Bulgaria, dal momento che l’incidente automobilistico di cui fu vittima presentava troppi aspetti dubbi. E che dire del clima di freddezza e di sospetto con cui fu accolta l’esperienza di Solidarnosc in Polonia o, anni prima, l’idea di organizzare a Venezia una “Biennale del dissenso”, a cui invitare i dissidenti dell’Est europeo, allora considerati in Europa, dai comunisti e dai loro “compagni di viaggio”, alla stregua dei provocatori ?

Oggi gli ex comunisti nostrani rimproverano a Putin cose assai meno gravi di quelle che non avrebbero mai rimproverato a Breznev. E la Camera vota mozioni sul rispetto dei diritti umani in Russia che mai avrebbe votato con riferimento all’Urss. Per fortuna sono entrati a far parte dell’Unione i Paesi dell’Est che a quell’esperienze non vogliono più tornare. Per queste ragioni è sciocco e sbagliato l’atteggiamento che esiste nel centro destra contro migliori condizioni di cittadinanza da riconoscere agli stranieri, compreso il diritto di voto. Quelli che nei loro Paesi hanno avuto a che fare col comunismo (anche se ne hanno sentito solo parlare dai padri e dai nonni) non vorranno mai saperne degli eredi. (l'Occidentale)

mercoledì 4 novembre 2009

Buon Halloween Europa! l'Occidentale

Purtroppo questa Europa del Terzo Millennio ci lascia solo le zucche e ci toglie i simboli più cari.
Card. Tarcisio Bertone

martedì 3 novembre 2009

Le amnesie di Marrazzo. l'Occidentale

Dice Piero Marrazzo: "Mi è stato riservato un trattamento che non ha precedenti. Sono stato scarnificato dai media, si è lasciato che giornali, riviste e tv si cibassero di me, di questa storia. In altre epoche e per altri personaggi non sarebbe mai accaduto. Quello che mi è successo, del resto, ha fatto comodo a tanti."

Viene spontanea una domanda - come si dice in questi casi - ma Marrazzo ha mai sentito parlare di un "personaggio" che da quasi un anno, e non da una settimana, viene "scarnificato" dai media, i suoi incontri privati ripresi con i videofonini, le sue case prese di mira dai fotografi, i suoi ospiti ripresi nudi in piscina, il suo bagno fatto oggetto di sit-com, la sua vita privata scavata fino al sospetto di pedofilia, la sua famiglia, i suoi figli messi in mezzo dagli avversari politici, le "prostitute" che gli vengono attribuite che sono divenute star internazionali e dive della tivvù...

Gli amici dell'ex presidente della regione Lazio dicono che Marrazzo è scosso e confuso. Gli crediamo ma dovrebbero anche aggiungere: affetto da una grave amnesia selettiva.

La sinistra si desti. Davide Giacalone

Le sorti della sinistra mi stanno a cuore. Oggi si trovano nelle mani dell’accoppiata Bersani-D’Alema, antichi e collaudati professionisti cui, per incoraggiamento, dedico l’ordine alfabetico. Ma non sembra, nonostante l’indubbio mestiere d’entrambe, che, al momento, si veda altro che la gioia di esserci e la voglia di partecipare. Sembrano più sopravvissuti alla ricerca di collocazione, piuttosto che sopravvenuti con un’idea di futuro in testa.
La sinistra italiana non è mai stata bene, purtroppo. Siamo l’unica democrazia occidentale che ha avuto la disgrazia di un partito comunista elettoralmente più forte di quello socialista. Per tutto l’arco della prima Repubblica, quindi, la sinistra di governo è stata rappresentata da tre partiti (Psi, Pri, Psdi), inevitabilmente minoritari rispetto a quello di maggioranza relativa, la Dc. Ogni ipotesi di alternativa di sinistra era messa fuori gioco dal ruolo dominante che avrebbe avuto un partito, il Pci, nemico militare, politico e culturale dell’occidente e delle sue libertà democratiche. La sinistra è andata al governo, nella sua interezza, con la seconda Repubblica. Ma a che prezzo? S’è dovuta mascherare dietro i democristiani, ha perso voti e prodotto instabilità. Veniamo ad oggi.
Massimo D’Alema passa per essere un diabolico stratega. Credo la cosa gli faccia piacere. Sta di fatto, però, che il 17 ottobre sosteneva non esserci il “clima” per ragionare di riforme, quindi diagnosticava l’incomunicabilità con la maggioranza, e dieci giorni appresso ringraziava il governo per l’appoggio ricevuto in sede europea. Se lui è quello che guarda lontano, gli altri compagni leggono solo in braille. Pierluigi Bersani ha battuto Franceschini criticandone l’antiberlusconismo di bandiera e la suicida alleanza con Di Pietro. Non ha fatto a tempo ad incassare la segreteria del Pd, che già parla di colloqui con Di Pietro e rifiuto del “dialogo”.
Se Di Pietro gli piace, se s’acconcia all’alleanza con la destra giustizialista, se lo tenga. Continuate così, morettianamente dico, fatevi del male. Capisco anche che parlare di “dialogo” non significa molto, e ciascuno gli dà il significato che crede (il problema sarà dirlo a Napolitano), è sciocco, però, sostenere che il confronto si fa solo in Parlamento. E’ autolesionista lamentare che il confronto non può partire finché la maggioranza non avrà stabilito su cosa e con quali proposte. Prendiamo il caso della giustizia, le cose funzionano così: se la maggioranza trova un accordo interno, presenta un disegno di legge e lo approva con i propri voti, lasciando Bersani con il moccolo in mano e Di Pietro a strappargli le braghe. Se, come pure è possibile, la maggioranza si trastulla con i tamponi emostatici e non va da nessuna parte, anche Bersani se ne resta al palo, con Di Pietro che soffia sul fuoco sottostante. Oh, un gran disegno politico, non c’è che dire.
Luciano Violante, che di queste cose se ne intende, ha capito che giocando di rimessa non vanno da nessuna parte e, quindi, ha già buttato giù alcune idee di riforma, premurandosi di far sapere in giro che non sono condivise dalla corporazione dei suoi ex colleghi. Possibile che, con tutta la loro esperienza e con le inesauribili scorte di furbizia che si ritrovano, Bersani e D’Alema lascino al vecchio compagno inquisitore il ruolo di tessitore e risanatore? Questa sinistra può avere un ruolo se si decide a vestire i panni del riformismo, se prova a prendere la maggioranza in velocità, anticipando proposte concrete e ricette evolute. Questa sinistra può sperare di riscattare la propria sessantennale arretratezza culturale se si butta avanti sul terreno delle riforme costituzionali. Se non lo capiscono vuol dire che hanno lucidità e coraggio politico tanti quanti ne avevano occupandosi di finanza, quando gioivano per le scalate bancarie: lucidità zero e coraggio quel che basta per non nascondersi.

domenica 1 novembre 2009

D'Alema, l'Europa, la sinistra. Davide Giacalone

La candidatura di Massimo D’Alema, a rappresentante della politica estera europea, è interessante per quel che la rende possibile e per quel che, a sua volta, renderebbe possibile. Vedo, però, che domina la superficialità, la totale amnesia, l’abitudine a scrivere tutti le stesse cose, con esclusivo riferimento ai giochini interni al mondo politico. Altro che lo sguardo rivolto al mondo, ne vedo tanti che non riescono neanche ad abbandonare il quartiere parlamentare, fatto di gran perdite di tempo, di chiacchiere inutili, e di passioni che s’accendono solo quando ti domandano: sai chi è chiappe d’oro?
La politica internazionale che D’Alema conosceva, come i contatti che coltivava ed i viaggi che faceva, erano, fino a non molto tempo fa, tutti interni al mondo comunista. E’ stato, per lungo tempo, un gran festeggiatore di dittature. In quelle condizioni, statene sicuri, nessuno avrebbe pensato a lui. Neanche per dirigere le relazioni esterne di un qualsiasi comunello dell’Europa democratica ed occidentale. Ma l’uomo è tenace, e seppe cogliere l’occasione per tradurre in politica vera la forza che gli veniva dall’essere la più riuscita espressione dell’apparato comunista italiano. La data che segna l’inizio del suo cammino, nella politica estera, è il 24 marzo 1999.
Un passo indietro. Crollato il mondo comunista, dissoltasi la Jugoslavia del maresciallo Tito, i nazionalisti serbi avevano avviato il genocidio degli albanesi kosovari. L’Europa era rimasta a guardare. Il governo italiano, presieduto da Romano Prodi, aveva fatto di più, consegnando sacchi di soldi a Slobodan Milosevic, da cui Telecom Italia aveva comprato Telekom Serbia (1997). Un mondo di fessi cercò le tangenti (che ci furono), lasciandosi sfuggire che lo scandalo era nell’affare, grazie al quale furono rifornite di soldi le truppe sterminatrici.
Fu Bill Clinton, presidente statunitense, a tagliarla breve: i serbi devono smetterla. Poco importa che il Vaticano li ami (essendo islamici gli albanesi kosovari) o che Mosca non gradisca. Fu attivata la Nato e si prepararono i bombardamenti. Che avrebbe fatto l’Italia, in affari con i criminali? D’Alema capì al volo e ne approfittò per seppellire Prodi e fare un gran favore agli americani. La cosa fu possibile grazie a Francesco Cossiga, che per favorire l’operazione fondò un partito, l’Udr, con Clemente Mastella. Furono Cossiga e Mastella a mettere D’Alema a Palazzo Chigi, con il compito di portarci in guerra contro la Serbia. C’è, in giro, troppa gente che dimentica. Il 24 marzo 1999 iniziarono i bombardamenti.
I lati comici, si fa per dire, furono due: a. i bombardieri Nato, compresi i nostri, tirarono giù, come prima cosa, le torri di telecomunicazioni che avevamo appena comprato; b. agevolato anche dallo scandalo di Telekom Serbia D’Alema favorì la scalata (irregolarissima) di Telecom Italia, che fu irrimediabilmente depredata e distrutta.
Il governo D’Alema durò poco e fece meno, ma quel posizionamento in politica estera (che condividevo ed ancora considero provvido) aprì una nuova strada all’allora presidente. La vicenda di Telecom, però, ed il modo zotico ed arrogante con cui fu gestita, consentendo affari oltre il limite dell’accettabile, lo azzoppò. Tornò al governo con Prodi, da ministro degli esteri. Questa volta la sua prova fu meno brillante, anche perché preponderante la forte debolezza di Prodi. Era il 14 agosto 2006 quando D’Alema se ne andò in giro, a Beirut, con quelli di Hezbollah, partito politico e gruppo terroristico, assassini di moltissimi israeliani e di civili innocenti. Sull’episodio D’Alema cincischia e minimizza, perdendoci. Inutile girarci attorno: quel gesto non può che essere letto alla luce dei molti anni di politica anti-israeliana, praticata dai comunisti e da D’Alema in persona.
Dieci anni dopo i bombardamenti in Serbia, cui si opposero i soli francesi, l’Europa potrebbe incaricarlo di curarne la politica estera. Con un particolare: la dottrina di Obama (per quel che è dato capire) è quasi opposta a quella di Clinton, più vicina a quella del suo successore, Bush. L’Europa che sceglie D’Alema lo fa per la fedeltà dimostrata agli interessi atlantici, o, al contrario, per la doppiezza di chi sa prenderne le distanze? Nei confronti di Tony Blair, leader di una sinistra europea che vedrei volentierissimo alla guida dell’Unione, tale dubbio non c’è, con D’Alema sì. Non è un caso, forse, che contro D’Alema ci siano gli unici di sinistra che sono ancora al governo, i laburisti di Gordon Brown.
E veniamo, brevemente, all’Italia. Silvio Berlusconi appoggia la candidatura, il che fa scrivere un sacco di cose scontate sulla ripresa del dialogo e la distensione interna. Evviva. Direi, però, che lo fa anche per difendere il rapporto con la Libia di Gheddafi e la Russia di Putin, il che, forse, è un tantinello più rilevante. Il pubblico ringraziamento di D’Alema comporta, nella sinistra, l’inevitabile rottura in tre pezzi: da una parte quelli che non vogliono finire sotto l’ala di un ex comunista, da un’altra quelli che campano di solo antiberlusconismo, da una terza quelli che vorrebbero essere altro, ma ancora non ci riescono. Ed è a tal proposito che dico un’ultima cosa, utile alla sinistra: non credo D’Alema la spunti, ma glielo auguro, come auguro a noi tutti che, almeno in questa circostanza, almeno vedendo la possibilità di una consacrazione europea, egli trovi il coraggio di dire, senza alcun margine d’equivoco, quel che sa benissimo: il comunismo fu una tragedia senza alcun lato positivo, una pagina di sangue e di merda, noi comunisti italiani siamo stati complici silenti o illusi irresponsabili e finanziati. Scusate.