martedì 23 settembre 2014

Giustizia Carogna. Davide Giacalone


Se il cittadino Gennaro De Tommaso, meglio noto alle cronache come “Genny ‘a carogna”, fosse stato arrestato il 3 maggio scorso, quando scavalcò il reticolato che divide il pubblico di uno stadio di calcio dal campo di gioco, sfoggiando una maglietta in cui s’inneggiava a chi aveva ammazzato un poliziotto, trattando con le autorità sportive la possibilità di far iniziare, o meno, la partita, dopo che dei tifosi s’erano accoltellati e sparati a vicenda, il tutto sotto gli occhi dei rappresentanti del governo e delle istituzioni, se, dicevo, lo avessero arrestato in quel momento, anziché considerarlo interlocutore di una trattativa, avrei scritto: che lo processino subito, che si difenda secondo i suoi inviolabili diritti e, se condannato, che sia assicurato alle patrie galere. Genny, invece, divenne una star. Ove mai qualche tifoso non avesse ancora capito il suo ruolo di capo e caporione, a quel punto il dubbio gli sarebbe passato. Lo arrestano adesso, invece. Sicché non so chi me lo fa fare, ma ho il dovere di osservare che questo è un ulteriore sfregio al diritto.

Le prove non le può inquinare. Intanto perché sono in gran parte filmate, poi perché se avesse voluto intimidire qualche testimone avrebbe già provveduto. Che scappi all’estero non è fra le cose imminenti. E anche questo, del resto, se lo avesse voluto fare, lo avrebbe già fatto. Reiterare il reato gli risulta difficile, perché s’è beccato un Daspo di 5 anni. Si dirà: ma può sempre incitare gli altri tifosi alla violenza. Certo, così ragionando però, in galera andiamoci tutti, perché è sempre possibile che ciascuno sia preso dalla voglia di scuoiare quello che continua a ciucciare la caramella, standoti accanto, che si cada nella tentazione di rubare, che si coltivi un pensiero lascivo su questa o quel passante.

Da maggio a settembre, con quel genere di prove, con quel tipo di condotta, si dovrebbe già essere a processo. Concluso. Le accuse sono evidenti. I precedenti penali si raccolgono in pochi minuti. Gli si da il tempo di trovarsi un avvocato e si va davanti a un giudice. E questo non è un film, ma, per reati di questo tipo, il minimo che si dovrebbe pretendere. Ma da noi no. Da noi partono le indagini, dopo cinque mesi si scopre che il soggetto potrebbe anche essere pericoloso, si applica la misura cautelare, così che chi in galera è probabile ci debba stare per scontare ce lo si sbatte da innocente. Un capolavoro. Qualcuno osserverà, rivolgendosi a chi qui scrive: faccia poco il sofistico e la smetta con questo garantismo assai mal riposto. Già, chi me lo fa fare? Me lo fa fare il fatto che il diritto si difende proprio con gli indifendibili, perché con gli innocenti e con le vergini è piuttosto banale lanciarsi nell’esercizio. E sarà pur vero che ‘a carogna potrebbe meritare una carognata, ma sono io a non meritarmi l’incarognimento di una giustizia fuori tempo e capace di capovolgere l’ordine naturale delle cose, talché la prigione precede e non segue il processo, facendo da companatico all’indagine.

Pubblicato da Libero


venerdì 12 settembre 2014

Ci sarebbe l'Emilia rossa da rottamare... Fabrizio Rondolino


L'Intraprendente - Il problema di Matteo Renzi in Emilia Romagna non è la magistratura, ma il Pci. E il modo in cui si concluderà la partita delle primarie aiuterà a misurare il tasso di rinnovamento e quello di continuità in una regione d’Italia amministrata ininterrottamente da settant’anni dal Partito comunista e dai suoi eredi diretti. È caduta Livorno, è caduta Perugia, e quando Berlusconi ancora faceva politica cadde persino Bologna: ora è bene che cada l’Emilia rossa.

In un Paese normale, il compito di garantire il ricambio della classe dirigente spetterebbe all’opposizione. E il centrodestra, sulla carta, avrebbe molti buoni motivi per provare a fare dell’Emilia la base di partenza della propria ricostituzione: basterebbe che capi e capetti facessero un passo indietro, e che si scegliesse (con le primarie) un candidato capace di rappresentare la voglia di discontinuità e di aria fresca che attraversa tanta parte della società emiliana. Ma siccome (e purtroppo per la democrazia italiana) non sarà così, il compito del ricambio spetta anche in questo caso a Matteo Renzi. Il partito emiliano sta da sempre con il segretario: e quando il vecchio segretario non c’è più, ordinatamente si allinea dietro a quello nuovo. È sufficiente ricordare i risultati delle primarie: nel 2012 Bersani ottiene il 60,8% e Renzi si ferma al 39,2%; l’anno successivo Renzi incassa il 71,03%. È per questo motivo che praticamente tutti i candidati – ancora in gara e già ritirati, probabili e improbabili – sono convintamente “renziani”. Salvo eccezioni marginali, in Emilia tutti i gruppi dirigenti e gli apparati, i gruppi consiliari, gli amministratori locali, i cooperatori e i sindacalisti sono diventati renziani – dopo esser stati bersaniani, veltroniani, fassiniani, dalemiani, occhettiani, nattiani, berlingueriani, longhiani e togliattiani. È il Pci che dalla fine della guerra, e senza altri cambiamenti che non siano l’insegna della Ditta, amministra, governa e controlla l’Emilia Romagna. Non è qui in discussione il “modello emiliano”, che nel panorama nazionale può ben dirsi orgoglioso dei risultati raggiunti: ricchezza e benessere, un welfare efficiente, pochi conflitti e corruzione al minimo. È in discussione, invece, il principio della permanenza incontrastata e incondizionata al potere di una stessa classe dirigente. E poiché la rottamazione è precisamente il rovesciamento di questo principio, ci si aspetta da Renzi che a guidare l’Emilia Romagna vada non l’ennesimo post-comunista, ma una donna o un uomo espressione di una cultura politica diversa, nuova, lontana e alternativa.

Esistono anche in Emilia molti trentenni che hanno incontrato la politica per la prima volta nel Pd, che non vengono da una famiglia comunista, che apprezzano il modello emiliano ma non ne sopportano più le incrostazioni, i limiti culturali, la chiusura continuista. Ed esistono emiliani adulti che non sono mai stati nel Pci, che anzi lo hanno politicamente avversato, e che oggi provano delusione nel vedere alla guida del Pd gli stessi di prima. Cambiare fa bene a tutti, e farà bene a Renzi non fermare la rottamazione ai confini emiliani.

(LSBlog)

 

mercoledì 3 settembre 2014

Il tramonto della fretta. Antonio Polito


Corriere della Sera - Il sogno di Filippo Turati era di cambiare la società come la neve trasforma un paesaggio: fiocco dopo fiocco. Il passo dopo passo di Matteo Renzi sembra dunque segnare la conversione del giovane leader «rivoluzionario» alla tradizione dei padri del riformismo: un’azione profonda e duratura, invece di una concitazione di hashtag su #lasvoltabuona.
Si tratta di una scelta saggia, oltre che obbligata. Saggia perché ristruttura il debito di promesse contratto con l’elettorato concedendosi più tempo per realizzarle, e insieme garantisce lunga vita ai parlamentari chiamati a votarle. Obbligata perché neanche Renzi sembra aver ancora trovato la bacchetta magica per cambiare i ritmi di produzione legislativa di un sistema lento, e non sempre per colpa del Senato.

Un solo esempio: ieri pomeriggio non risultava pervenuto al Quirinale il testo del decreto legge sulla giustizia civile approvato al Consiglio dei ministri di venerdì 29 agosto. Se pure arrivasse oggi, 3 settembre, c’è da calcolare almeno un’altra settimana per la normale attività di verifica prima della firma del capo dello Stato. Eppure si tratta di materia così urgente da finire in un decreto. Figurarsi che accade ai disegni di legge, o ai decreti attuativi. Di questo passo, passo dopo passo, i mille giorni passano in fretta.

Ma se è logico e serio prendersi qualche anno per portare a regime le decisioni assunte oggi, ne consegue che sarebbe molto pericoloso rinviare decisioni che vanno prese oggi, perché in questo caso i mille giorni diventerebbero millecinquecento, o duemila, e né l’Italia né il governo Renzi sembrano avere a disposizione tutto questo tempo. Il rischio, che al premier certo non sfugge, è che questa nuova tattica «normalizzi» un governo nato col forcipe proprio per fare in fretta ciò che ad altri non riusciva, con ciò togliendogli senso e consenso.

In due campi in particolare le decisioni non possono aspettare: la spending review e il mercato del lavoro. Qui sarebbe sbagliato prender tempo, sperando come al solito in una provvidenziale ripresina che eviti scelte impopolari. Se si vuole tagliare sul serio la spesa pubblica, bisogna cominciare a decidere subito se accorpare le forze di polizia, chiudere gli uffici periferici dei ministeri, tagliare le prefetture, sciogliere le società municipali, e così via. Se non lo si fa subito, per poi vederne gli effetti nei prossimi mille giorni, si finirà con i soliti tagli lineari in Finanziaria. Da questo punto di vista il governo è già in ritardo.

Allo stesso modo la legge delega sul lavoro, chiamata jobs act , non sembra contenere quello choc che Draghi avrebbe suggerito a Renzi per settembre; né arriverà a settembre, essendone prevista l’approvazione «entro la fine dell’anno» e l’applicazione entro la primavera del 2015 (dopo i decreti attuativi). La stessa svalutazione retorica dell’importanza dell’articolo 18 fa temere che si stia esitando di nuovo di fronte a un tabù della sinistra e del sindacato.

Chi fa oggi le riforme può contare su più flessibilità mentre producono i loro effetti: guardate la Spagna, ha un deficit del 7 per cento ma nessuno batte ciglio. Chi promette solo di farle, sarà trattato con più severità. Lo scambio proposto da Draghi in fondo è tutto qui: non premiare chi perde tempo, ma dare tempo a chi non ne perde più.