venerdì 29 aprile 2011

Due pesi, due misure. Caino Mediatico

Mi tocca tornare su Napoli. Per una ragione spiacevole. Il consigliere regionale campano Corrado Gabriele, ex Pci, ex Rifondazione Comunista e attualmente nel Pd, già assessore, è stato condannato a 4 anni e 3 mesi di reclusione per presunti abusi sulle figlie della sua compagna. Il consigliere si è autosospeso dal Pd. Non lo conosco e non lo voglio attaccare per responsabilità che sono eventualmente solo personali. E’ un fatto bruttissimo e spero, per lui come per tutti, che possa scagionarsi in successivi appelli. Né intendo speculare sul fatto che il suo avvocato difensore Marinella De Nigris, che mi dicono ottima professionista di chiara fama, sia una delle supporter più accese di De Magistris.
Però… Eh sì, un paio di cose le vorrei spiegate. Come mai su questo consigliere non si è esercitato con tanta intensità come su altri il ruolo di watchdog della stampa, locale e nazionale ? Come mai non stava costantemente nel repertorio dei Santoro, dei Travaglio, dei Telese (che proprio ieri sul suo blog sfotteva Paniz perchè avvocato di una specie di Lande del Nord)? Come mai nessuno dei responsabili del Pd – Amendola, il segretario regionale, Orlando, il commissario, Bassolino o altri – ne hanno mai chiesto le dimissioni? Perché non hanno attuato quella pulizia etnica che oggi pretendono da ogni singola lista che sostiene Lettieri? Corrado Gabriele alle ultime elezioni regionali ha raccolto 10.000 preferenze, forse è per questo che non valeva la pena parlarne? O perchè nella sua carriera ha forse fatto anche delle buone cose.
A volte ci si è dovuti difendere da accuse ingiuste, come è avvenuto per Bassolino, ma sempre senza alcun dubbio di interessi personali. Continuo a difendere quelli che si difendono. Ma perché quelli che vogliono ridurre Lettieri a Cosentino, non si sono occupati di un loro consigliere già eletto, indagato di accuse così gravi? Sapevano già prima delle accuse a suo carico e lo hanno candidato ugualmente? Se sì, forse hanno valutato che non c’era base, che non era giusto condannarlo prima di un tribunale: allora hanno fatto bene. Ma dovrebbero smetterla di impancarsi e applicare due pesi e due misure: da un lato la presunzione di innocenza, dall’altro quella di colpevolezza. Curiosamente oggi la Repubblica.it, dopo la condanna, parla ancora di “presunte molestie”. Garantista come sempre!
Orlando, Amendola, Morcone, tutti dovrebbero applicare agli altri la stessa misura che applicano a sé stessi e rifiutare qualunque omologazione di Gabriele Corrado e delle sue eventuali (noi garantisti diciamo così fino alla fine) colpe a tutto il partito, alle liste o allo schieramento. Per sé e per i rappresentanti dello schieramento opposto. Tanto più che finora sono stati tutti molto fortunati, perché il circo mediatico ha risparmiato a Corrado quello che non ha risparmiato a Nugnes o all’ex assessore Felice Laudadio, indagato e assolto, che loro hanno definito trasformista. Dovrebbero scusarsi per questo modo di procedere e rifletterci su. E’ l’occasione per riconsiderare quello che più volte abbiamo sostenuto: la politica dello scandalo, del doppiopesimo, colpisce la democrazia e la credibilità di chi la manipola . Non si fonda nessuna prospettiva seria su questo. Non utilizzerò aggettivi come vomitevole. Ma un po’ di nausea sì, e non per il condannato in prima istanza. (the Front Page)

Ingroia ha un vizio: interrogare pataccari. Filippo Facci

Pare che alla procura di Palermo si stiano specializzando in pataccari da sfruttare soltanto sinché servono, salvo arrestarli o farli sparire quando la situazione si compromette.
 È stato così per Massimo Ciancimino, portato in palmo di mano per più di tre anni e poi preservato - con le manette - dall'intervento di altre procure; ora spunta anche un vecchio interrogatorio del pentito Vincenzo Scarantino - già protagonista di balle clamorose e purtroppo accreditate nel processo per la strage via D'Amelio - del quale Antonio Ingroia ha dapprima raccolto alcune deposizioni ai danni di Bruno Contrada e Silvio Berlusconi, ma poi puf, quando si è accorto che mancava ogni riscontro non ha riversato i verbali dai fascicoli processuali, ma, soprattutto, non li ha riversati neppure nel fascicolo del pubblico ministero, sottraendolo così a ogni valutazione della difesa e omettendo ogni indagine a riguardo.  Il bello è che è lo stesso Ingroia a raccontare l'episodio. Nel suo recente libro «Nel Labirinto degli Dei», a pagina 81, si legge questo: «Avevo interrogato Vincenzo Scarantino, che si era autoaccusato di avere organizzato il furto della Fiat 126 usata come autobomba in via D’Amelio. Indagini più recenti della Procura di Caltanissetta sembrano, comunque, aver definitivamente smascherato Scarantino come depistatore e falso pentito».
 Esattamente come per Massimo Ciancimino, individuato come mistificatore a Caltanissetta ma dapprima sfruttato a Palermo per più di tre anni. Ingroia continua: «Interrogai Scarantino una sola volta... era stato lui a mettere sul piatto due temi di prova apparentemente appetitosi: nuove accuse a carico di Bruno Contrada, all’epoca già inquisito e in custodia cautelare per concorso esterno in associazione mafiosa; e, addirittura, dichiarazioni che coinvolgevano il già allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in oscure vicende di traffico di stupefacenti».
Roba pesante, dunque: c'era da indagare, dato il calibro dei personaggi interessati, sia per verificare la fondatezza delle dichiarazioni e sia per verificare, se infondate, quale manovra o depistamento fosse in corso. Ma la procura di Palermo si fermò al primo caso: «Le dichiarazioni a carico di Contrada erano apparentemente riscontrabili, quelle che riguardavano Berlusconi, invece, erano generiche e sostanzialmente indimostrabili... L’esito fu sconfortante... Non era stato acquisito alcun riscontro che si potesse considerare individualizzante a carico di Contrada». E di Berlusconi, ovviamente. Che fare? Ingroia nel parlò col contitolare del processo Contrada, il pm Alfredo Morvillo, e poi anche col capo della Procura Gian Carlo Caselli: «Decidemmo di non servirci delle sue dichiarazioni accusatorie. Esse pertanto non furono mai utilizzate né per il processo Contrada né nei confronti di Berlusconi».
Una buona ragione, evidentemente, per farle sparire. Al punto che anche Bruno Contrada  e il suo legale, Giuseppe Lipera, nel gennaio scorso hanno appreso l'esistenza dell'interrogatorio di Scarantino direttamente dal libro di Ingroia: «Quanto ho letto mi destato stupore e sbigottimento», ha dichiarato Contrada, «poiché nel processo che mi riguarda non si parlò mai di accuse che Scarantino avrebbe rivolto nei miei confronti, né mai seppi di questa circostanza; ricordo benissimo che nel fascicolo del pm non c'era alcun atto riguardante un interrogatorio a Scarantino né successivi accertamenti della polizia giudiziaria». Ecco perché i due hanno deciso di presentare un esposto. Nel libro di Ingroia oltretutto si legge che quelle dichiarazioni «non erano convincenti, come non lo era il teste», ma a quanto pare non fu fatta nessuna indagine per capire il motivo delle false accuse: chi le suggerì, e perché? A quando risalgono queste dichiarazioni? Perché non furono riversate nel fascicolo? Ingroia, nel libro, scrive di accertamenti negativi «sconfortanti» operati dalla polizia giudiziaria: che fine hanno fatto? E perché - come fece Falcone col pentito Pellegriti - non si è proceduto per calunnia contro il ballista?  Senza contare che, nel caso di Contrada, stiamo parlando di un iter processuale che ha ribaltato di continuo sentenze di condanna e di assoluzione, laddove non c'è dichiarazione o testimonianza che non abbia pesato complessivamente sul piatto della bilancia: «Sarebbe stato un tassello importante per scoprire chi complottava nei miei confronti», si legge nell’esposto, «ma così si ha impedito alla difesa di esercitare tutte le azioni che avrebbero potuto chiarire il contesto in cui è maturata la vicenda giudiziaria che mi riguarda». Probabile che Ingroia avesse troppo da fare, in quel periodo: perso nel «labirinto degli dei» prima ancora di perdersi in quello di Ciancimino. (Libero)

mercoledì 27 aprile 2011

Il Paese dell'odio: un libro svela i segreti della macchina del fango. Marco Zucchetti


Giampaolo Pansa rilegge la "guerra civile" tra giornali. Nel 2008 Berlusconi vince le elezioni e Repubblica si vendica con il caso Noemi. Incendiando il clima

Sarà perché - come scriveva Balzac ­«non si esce puri dall’infernodella stam­pa », che Giampaolo Pansa ha dato alle stampe questo «libraccio da vera caro­gna » sul giornalismo italiano. Oppure sarà perché, dopo mezzo secolo passato nella categoria, ormai si è fatto un’idea chiara delle ipocrisie che scorrono sotto la palta dei titoloni. D’altronde, sempre per rimanere in metafora infernale, nel fango della palude Stigia erano puniti gli iracondi.E l’odio è decisamente il peccato favorito della stampa italiana.

È il livore politico e personale la linfa che tiene in vita il quarto potere. Pansa ne segue il fluire in « Carta straccia- Il potere inutile dei giornalisti italiani », terza sua fatica sul mondo dei media, edita da Rizzoli e in libreria dal 4 maggio. Parte da lontano, dalle sorgenti dell’egemonia giornalistica di area Pci, Potere Operaio e Lotta Continua a fine anni ’70. E seguendo il corso della cattiveria settaria di sinistra, approda all’ultimo triennio, al delta di quel fiume che è l’anti-berlusconismo mediatico.

E come in ogni foce che si rispetti, ecco tornare il fango. Quello che da mesi viaggia in tandem con Il Giornale nei monologhi di Saviano, nelle surreali denunce per stalking di Bocchino e negli anatemi della stampa progressista: la «macchina del fango» di cui saremmo spregevoli inventori. Pansa, che nel brago è stato sommerso per aver osato raccontare le ombre della Resistenza, affronta l’argomento senza manicheismi, perché mettere il dito nelle piaghe gli è sempre piaciuto.

Tutto prende il via tra 2008 e 2009, dopo la vittoria elettorale di Berlusconi, offesa inaccettabile che causa una furia isterica nell’opposizione.

Tutte le armi per deporre il Cav sono buone, e Repubblica usa l’intero arsenale nella campagna ossessiva sul caso Noemi. Intercettazioni, foto, interviste, 2.200 citazioni dell’ affaire : una nube velenosa che invade i media. E che incendia il clima fino agli odiosi e inquietanti episodi dell’attentato di Tartaglia, delle scritte contro Marchionne, del pestaggio a Capezzone, dei petardi a Bonanni, dei raid contro Schifani e Dell’Utri.

All’attacco del quotidiano di Ezio Mauro, che cavalca lo scandalo di «papi» Silvio anche per recuperare copie, replicano le tre testate di centrodestra, Il Giornale, Libero e Il Tempo : «Tre mosche bianche su fondo rosso, isolate nel coro imponente dei media anti berlusconiani ». Ad azione, reazione. Solo che,se l’inchiesta parte da destra, subito diventa killeraggio, dossieraggio, insulto, servilismo, chiacchiera da bar, «neogiornalismo» da ultrà. È l’«avversione rossiccia» per il lavoro altrui, quella supponenza elitaria da Migliori, unici con diritto di cittadinanza nel mondo dorato degli eroi della libertà stampata. Sono Repubblica , «quotidiano di guerriglia», e Il Fatto , «setta infuriata » capitanata da Beria-Travaglio. Sono loro a imbarbarire il clima, salvo poi urlare al crucifige per il «caso Boffo», per Pansa uno scoop che ogni direttore avrebbe pubblicato.

Fatto sta Il Giornale finisce nel tritacarne, messo all’indice come una Spectre di fascistoni. La furia cieca dilaga in maniera grottesca nel caso del presunto «dossier Marcegaglia », occasione in cui Bocchino conia il termine «macchina del fango»: «Chi è prigioniero di una nevrosi- e secondo Pansa l’antiberlusconismo ormai è patologico - non ragiona più». E quindi aprite le gabbie, ognuno dia fondo al peggio: credere, obbedire e combattere il Cav. E pazienza se anche giornalisti avversi al premier come Antonio Padellaro riconoscono che l’inchiesta sulla casa di Montecarlo è «eccellente ». Ogni cosa pubblicata dalle «mosche bianche» è automaticamente feccia, linciaggio, ventriloquio del Padrone.

Campione di queste tesi pre-fabbricate, secondo Pansa, è Repubblica , che dall’esplodere dei sexy-gate berlusconiani ha guadagnato decine di migliaia di copie. Ripetere di continuo un unico concetto, secondo Pansa, giova: «Il pensiero unico ( ma modesto) funziona ».E in questo disco rotto gorgheggiano un po’ tutti, dall’Ingegner De Benedetti, arcinemico del Cav, fino all’antipatico Gad Lerner; dai «sultani Rai» Santoro e Fazio fino a D’Alema; da Floris a Di Pietro. Tutti smaniosi di bisbigliare parole d’ordine violente alle pericolose frange lunatiche della sinistra.
Insomma, Berlusconi causerà anche imbarazzo con il suo comportamento non consono a un presidente, ma è obiettivamente vittima di una persecuzione gonfia di eccessi da parte di certi giornalisti militanti: «Hanno svenduto la loro libertà a un settarismo incontinente, prigionieri inconsapevoli della faziosità». Eppure, conclude Pansa, «lo hanno battuto come un materasso, ne hanno assassinato la figura pubblica, ma non lo hanno sconfitto». Il loro potere è «inutile », la loro carta è «straccia». E il sangue del Cav non è ancora quello dei «vinti». (il Giornale)

venerdì 22 aprile 2011

Fiat Usa. Davide Giacalone

Fiat s’avvia ad essere statunitense. E’ un bene per la Fiat ed è un bene per l’Italia, meglio ancora se dalle esperienze fatte si sapranno trarre insegnamenti. L’acquisto di un ulteriore 16% di Chrysler, di cui già possedeva il 30, con il diritto a salire di un ulteriore 5, quindi giungendo alla maggioranza assoluta e al controllo totale, segna la trasformazione di Fiat in una “fabbrica globale”, per usare le parole scelte ieri da Sergio Marchionne. Sarà più chiaro dire: statunitense. Quando una società o un marchio italiani vengono acquistati da compratori stranieri capita che taluno, dalle nostre parti, vesta il lutto. A sproposito, perché gli acquisti sono valorizzazioni e se quelle migliori non vengono fatte da capitali nostrani è segno o che non ci sono, o che chi li maneggia non è in grado di pensarne lo sviluppo, o che, infine, non crede possibile trarre maggiore ricchezza da quella determinata impresa. In tutti questi casi il mercato sposta i beni, compresi quelli immateriali, nelle mani di chi è disposto ad osare di più. Sarà il mercato, sempre lui, a stabilire se la scommessa è stata sensata. Va bene così. Va ancora meglio quando sono soggetti italiani a scommettere sulla valorizzazione di marchi e imprese altrui, così dimostrando la capacità di pensare, e osare, in termini globali. Riassumendo: se capitali stranieri comprano marchi italiani è segno che attribuiscono loro maggior valore di quanto non ne vedano i nostri connazionali; se un’impresa italiana compra marchi e fabbriche straniere è segno che il management e la proprietà contano d’essere più bravi degli altri. Evviva.
Veniamo alle note dolenti. Per riprendere la via della competitività Fiat ha dovuto rompere tutta quanta l’imbracatura che assiste e immobilizza le imprese italiane. La disdetta del contratto metalmeccanici s’è accompagnata all’uscita da Confindustria. Minimizzata, mimetizzata, ma evidente come un elefante coperto da una margherita. Marchionne s’è rivolto direttamente ai lavoratori, scavalcando i sindacati e proponendo dei referendum. Gli operai si sono schierati con Fiat. Un segnale che solo la folle superficialità del dibattito politico italiano non ha ancora utilizzato per rivedere, nel profondo, la legislazione del lavoro e la struttura del salario. Il tutto, però, si reggeva su un delicato equilibrio: si accettano le nuove condizioni in quanto necessarie a mantenere in vita gli stabilimenti italiani. Lo scrivemmo anche a suo tempo: non è necessariamente vero. Diventando “globale”, o “amerciana”, Fiat dovrà valutare ciascun stabilimento secondo i parametri della produttività e redditività. E’ vero che il mercato italiano è, per la casa automobilistica, il più importante (come quota percentuale), ma è anche quello in maggiore crollo: la quota Fiat diminuisce più delle vendite complessive. Quindi, inutile farsi illusioni, i nodi verranno al pettine. Marchionne continua ad alzare l’asticella, quasi ansioso che qualcuno si decida a dirgli di no. Durante il referendum a Mirafiori fece di tutto per favorire il fronte del rifiuto, ma vinsero i sì. Quanto tempo ancora può durare l’equivoco?
Secondo elemento da tenere presente: va benissimo che una società americana diventi di proprietà italiana, ma ho l’impressione che presto sarà la società italiana a divenire americana. Nel senso che sarà conveniente spostare la sede sociale oltre Atlantico, con questo facendo riferimento ad un sistema di regole che funziona meglio del nostro. E credo che sia anche necessario, perché così si troverà integrata in quel mercato dal quale ha tratto maggiori finanziamenti pubblici.
La notizia delle azioni comprate, e di quelle opzionate, è positiva. Ciò cui prelude non è detto. O, meglio, è naturale che un’impresa vada a collocarsi dove è più conveniente, ma non è affatto bello che il resto del sistema-Italia si rassegni da essere il luogo della non competitività, dell’arretratezza giuridica, della non protezione globale e della rigidità salariale. Sono questi i punti sui quali la politica, tutta, dovrebbe riflettere. Non ha senso pensare di mettersi a fare il lavoro di Marchionne, discutendone le scelte, sarebbe più sensato provare a fare quello del legislatore e del regolatore, con l’occhio rivolto non solo agli interessi immediati, consolidati in cordate elettorali e appiccicati con il collante corporativo, ma guardando anche agli interessi collettivi di un sistema che arranca e scivola, facendo fare agli imprenditori più fatica d’altri loro colleghi e coccolando solo quelli che s’accomodano nelle rendite. Tanti auguri alla Fiat americana, purché non significhi coltivare, in casa, la rassegnazione all’italiana.

martedì 19 aprile 2011

Il Colle e i magistrati. Roberto Bianchi

Personalmente non mi entusiasmano le prese di posizione che il presidente Napolitano assume con discreta regolarità. L’ultima in ordine di tempo è stata originata, sembrerebbe, dall’iniziativa privata, esageratamente audace e fuori luogo, di un cittadino milanese inquisito ed arrestato prima di essere assolto da ogni accusa: l’assoluzione non gli è bastata a ricostruire il pezzo di vita che l’uomo si è trovato a vedere disintegrata da cinquanta giorni di galera ingiustificati. Se rimangono inaccettabili le parole scritte sui manifesti, quindi, certamente alla luce della vicenda privata del suo estensore possono acquisire un significato nuovo. Un estensore comunque non anonimo che con dei manifesti firmati ha esercitato, in maniera certamente rozza, un diritto di critica costituzionalmente riconosciuto.
La riflessione del Presidente, tuttavia, non si è fermata alla solidarietà all’ordine dei magistrati, ma ha riservato qualcosa di più. Quando ha affermato: «Nelle contrapposizioni politiche ed elettorali, e in particolare nelle polemiche sull’amministrazione della giustizia, si sta toccando il limite oltre il quale possono insorgere le più pericolose esasperazioni e degenerazioni. Di qui il mio costante richiamo al senso della misura e della responsabilità da parte di tutti», appare evidente a chiunque come l’obbiettivo della sua reprimenda siano le parole che il Presidente del Consiglio ha recentemente riservato ad una parte della magistratura.
Evidentemente uno scatto di sensibilità finora sopito. Mi chiedo, infatti, come mai il Presidente così attento nella difesa della magistratura che è un ordine dello Stato non sia stato altrettanto sensibile verso il Presidente del Consiglio, che dello Stato è la quarta carica. Come Presidente del Csm avrebbe potuto dire qualcosa sulle garanzie da riservare a qualsiasi indagato (anche a Silvio Berlusconi), sulla liceità delle intercettazioni telefoniche non autorizzate (anche se si è tentato di scavalcare abilmente la norma sostenendo che si stessero intercettando le persone con cui l’on. Berlusconi chiacchierava al telefono e non lo stesso B.), sulla barbarie di atti d’indagine sbandierati di qua e di là, messi addirittura in rete per chi magari li avesse persi sulla stampa. Su quel tema il silenzio è stato totale , così come sul tema della carcerazione preventiva, una barbarie indegna di uno Stato civile.
Invece, in questa circostanza, le parole ci sono state e ciò che ne emerge indiscutibilmente è un rilievo al solo Silvio Berlusconi: almeno in teoria, infatti, le “contrapposizioni elettorali” non dovrebbero riguardare i magistrati. Non dovrebbero.
Allora è forse legittimo pensare che la presa di posizione del presidente Napolitano, in presenza di quelle “contrapposizioni elettorali” di cui sopra, possano essere interpretate come una presa di posizione su un attore di quelle “contrapposizioni elettorali”. Non so se questa possa essere una prassi del tutto corretta. (the Front Page)

I ragazzi italiani. Dario Di Vico

C'è un nesso tra la rivalutazione del lavoro manuale e l'uscita dalla crisi? Penso di sì e proprio per questo motivo la riapertura di una discussione pubblica sulla (mancata) propensione dei giovani a misurarsi con la manualità ha senso. Di trimestre in trimestre, quando affluiscono i dati sulle esportazioni italiane si ha la netta sensazione che il modello di specializzazione dell'industria italiana abbia retto alla Grande Crisi. Non è poco e l'esito era tutt'altro che scontato, il pensiero corrente sosteneva che il manifatturiero avrebbe pagato alla recessione un tributo decisamente maggiore. Invece riusciamo a reggere e, checché ne dicano le improvvisate analisi dell'Economist, i nostri distretti hanno ripreso a vendere sia sui mercati tradizionali (Europa e Usa) sia su quelli emergenti, Cina in primis.
Ce la stanno facendo un po' tutti, non solo gli straordinari vini delle Langhe, del Roero e del Monferrato ma stanno reagendo anche distretti come quello dei casalinghi di Lumezzane, per i quali era stato già intonato il de profundis. Per dirla con uno slogan le nostre piccole e medie imprese si stanno ri-specializzando, stanno innovando in corsa e per farlo contaminano la cultura manifatturiera con quella dei servizi. Questo processo di modernizzazione richiede tanto lavoro, flessibile e allo stesso tempo creativo. C'è bisogno di sarti, falegnami, maestri vetrai, progettisti, manutentori. E per ciascuna di queste specializzazioni c'è bisogno del contributo di giovani che siano «nativi digitali» e aiutino i loro padri ad allungare le reti di impresa.
Non è vero, dunque, che tutto il lavoro nell'epoca della globalizzazione sia debole, anzi. Il made in Italy richiede una fusione tra vecchie e nuove professionalità ed esalta quindi il potere negoziale del tecnico-artigiano. Chi ha girato Milano in questi giorni del Salone del Mobile non farà fatica a capire di cosa stiamo parlando. La domanda e i dubbi, caso mai, riguardano il sistema formativo. Dai territori periodicamente arrivano notizie contraddittorie: troppi istituti tecnici legati ai distretti industriali soffrono di una crisi di vocazioni e questo avviene a Gallarate per l'aeronautica come a Manzano per la lavorazione del legno. Le scuole tecniche sono alla base del miracolo tedesco e da noi invece sono lasciate a se stesse. Non è un caso che i cinesi spingano per iscriversi in queste stesse scuole perché hanno voglia e fretta di apprendere il meglio della cultura manifatturiera italiana.
Però se vogliamo davvero riorientare le scelte dei nostri ragazzi non possiamo fare della retorica a buon mercato. È giusto che il governo, e più in generale la politica, su una materia come questa parlino chiaro alla società, ma allora si devono impegnare a fondo. Non si può solo deprecare la mancata virtù dei giovani, bisogna persuadere. In primo luogo le famiglie, le stesse che perpetuano una tendenza nociva alla licealizzazione e al successivo conseguimento di lauree deboli. Non è più tempo per poter sbagliare, l'orientamento scolastico deve far parte di un'efficace azione di governo. Poi bisogna parlare ai ragazzi e spiegare loro che una scelta giusta non solo va a vantaggio dell'inserimento nel mondo del lavoro ma contribuisce a rafforzare la loro personalità. Ad evitare quella «corrosione del carattere» dovuta al precariato, magistralmente descritta già dieci anni fa da Richard Sennett.
Per spiegare tutto ciò arruoliamo pure i testimonial più trendy. È un'ottima causa. (Corriere dellaSera)

lunedì 18 aprile 2011

A.A.A. Cercasi un po' di realtà nell'informazione. Marcello Veneziani

La verità non conta niente. La vera tra­gedia dell’informazione è questa, ri­spondo a Luca dopo un dibattito sul te­ma con Gad Lerner a Lugano. Dico l’in­formazione ma vale anche altrove, dalla politica alla vita. Però l’informazione è la casa dei fatti, è la vetrina della realtà. E invece. Se sparano a un ragazzo di destra il coro della stampa minimizza dicendo: se l’è cercata, è una faida interna; questo potrebbe dirsi con crudele verità per il fiancheggiatore di Hamas ucciso, ma guai a dirlo. Se chiamano tiranno Berlu­sconi è un diritto, se chiamano brigatisti i giudici è un delitto. Se fanno campagne su di lui è giornalismo d’inchiesta, se le fanno su Fini è macchina del fango.

Se preferisci i concittadini agli immigrati sei razzista, se dici che chi non la pensa come te sono gli italiani peggiori, sei illu­minato. Se Eco o Moretti fanno aborti, Galimberti o Augias plagiano, Benigni o Saviano dicono banalità, sono portati in trionfo; invece è condannato a morte ci­vile chi pensa diversamente, tra silenzio e disprezzo; e se protesta è accusato dai Lerner, ma anche dai Battista, di «vittimi­smo narcisistico ». Crepa, e non ti lamen­tare. Non conta ciò che è vero e ciò che è fal­so, ciò che è giusto o ingiusto. Non conta­no i meriti e i fatti, non conta il valore o la capacità. Conta da che parte stai, con chi stai, a chi puoi nuocere o giovare. Conta­no le collocazioni, le appartenenze. Eroi di cartapesta vengono innalzati sugli al­tari. C’è chi passa per morto già da vivo e chi passa per vivo pur non essendo mai nato. Non c’è rapporto tra persone, fatti e verità. Certo, la stampa non è la Verità (Pravda), ma se non ha passione di verità degrada.

Non si tratta dei fatti superati dalle opinioni, anzi sopraffatti; peggio, si tratta della scomparsa della realtà, più l’incapacità di distinguere tra valori e di­svalori. Disonestà intellettuale. Si rove­scia la realtà e il suo giudizio: atti d’odio passano per atti d’amore e viceversa, schiavitù passano per libertà e viceversa, menzogne passano per etica e viceversa. Non c’è corrispondenza tra parole e co­se, tra la vita e la sua rappresentazione. Omicidi col silenziatore. I delitti dell'in­formazione. (il Giornale)

Hamas però l'ha voluto morto. Christian Rocca

Non ho scritto una riga su Vittorio Arrigoni, il militante italiano pro-Hamas ucciso a Gaza. Tantomeno su sua madre Egidia Beretta, sindaco di sinistra di Bulciago. Di fronte alla morte la cosa migliore è stare zitti. Egidia Beretta, come i genitori di Carlo Giuliani e di tutti quelli che hanno perso un figlio, per me può dire tutto quello che vuole e tutto quello che dice è comunque giustificato dal dolore per la scomparsa del figlio.
Mi permetto soltanto di far notare una cosa, visto che Egidia Beretta è anche un rappresentante politico. Egidia Beretta non vuole che il cadavere di suo figlio, ucciso da due miliziani di Hamas,  passi per Israele: «Gli israeliani non lo hanno mai avuto in simpatia, lo hanno sempre considerato un soggetto pericoloso e lo avevano anche arrestato e malmenato – ha detto al Corriere oggi – Chi non l'ha mai voluto mio figlio da vivo, non l'avrà neanche da morto».
Sarà anche vero che gli israeliani non hanno mai voluto Arrigoni da vivo. Ma prima o poi Egidia Beretta si dovrà rendere conto che quegli altri l'hanno voluto morto. (Camilloblog)

giovedì 14 aprile 2011

Di Pietro: soldi e manfrine. Filippo Facci

Che scandalo terribile, l'ex tesoriere Ds Ugo Sposetti ha proposto una nuova legge sul finanziamento pubblico dei partiti già firmata da 58 parlamentari bipartisan: questa legge prevede anche dei rimborsi spese per le consultazioni elettorali & referendarie nonché un finanziamento statale per le fondazioni politico-culturali, e potrebbe fruttare ai partiti almeno 185 milioni di euro. Che scandalo terribile, appunto: nel Pd è il panico e si parla di sconfessare l'idea (troppo vicina alle amministrative, pericolo boomerang) e molti dei 58 firmatari si stanno sfilando, in primis l'imbarazzatissimo Augusto Di Stanislao dell'Italia dei Valori che ha dato la colpa al solito equivoco: «È stata una leggerezza della mia segreteria che ha ritenuto erroneamente di dare la mia adesione, la mia firma è stata già ritirata anche perché il mio partito non condivide assolutamente i principi di questa proposta». E questo ha ripetuto Silvana Mura, ventriloqua di Antonio Di Pietro sulle cose economiche: «Se si deve mettere mano ai costi della politica lo si deve fare per tagliarli, non certo per aumentarli. L'Italia dei Valori si è sempre battuta contro i costi della politica, non potrà mai dirsi favorevole ad una simile legge, anzi». Sicuri sicuri? No, perché ogni volta è sempre la stessa storia: Di Pietro, da almeno un decennio, si batte ufficialmente contro i soldi alla politica - anche quelli regolari - e poi ufficiosamente li incassa: e con quale determinazione. Quando battezzò la prima versione dell'Italia dei Valori, il 20 marzo 1998, il primo cavallo di battaglia lo montò al galoppo: in Senato si stava proprio discutendo una nuova legge sul famigerato finanziamento pubblico ai partiti, materia sua. Prese la parola, e fu drammatico. Disse: «Voglio protestare contro questa legge che è un'ipocrisia contro tutti, contro i cittadini, contro gli elettori e contro l'erario... Il contribuente ha già detto che non vuole aderire al finanziamento pubblico dei partiti... Ve ne siete infischiati... È tutto solo un'ipocrisia, e io non voterò contro questo provvedimento ipocrita». Ipocrita. Una settimana dopo Antonio Di Pietro incassò senza problemi 164 milioni e 348.215 lire per le spese elettorali sostenute nel Mugello, dove era stato eletto in quota Pds per disgraziata idea di Massimo D'Alema. Dopodiché fondò immediatamente il gruppo «Ulivo alleanza per il governo» così da avanzare formale richiesta di quello stesso finanziamento pubblico contro il quale si era svenato in Senato: altri 230 milioni che entravano in saccoccia mentre rilasciava interviste contro l'ipocrisia dei partiti. E questo è solo un esempio. Quello stesso anno, sempre nel 1998, precisamente il 26 maggio, la procura di Brescia gli notificò una richiesta di rinvio a giudizio per concorso in corruzione in atti giudiziari (vicenda Pacini Battaglia: seguirà un non luogo a procedere) e lui rilasciò un'intervista a Giuseppe D'Avanzo che ai tempi scriveva sul Corriere della Sera: «Berlusconi ha cercato di avermi dalla sua parte. Quando ho visto da che parte stava lui, ho preferito scegliere la strada opposta... Sa quando l'ho capito? Quando sono intervenuto al Senato contro il finanziamento pubblico dei partiti». Legge che, per inciso, era stata votata da un governo di sinistra.

Un paio d'anni dopo Di Pietro rifondò da capo l'Italia di Valori: e la sua «società personale», come la definì Marco Pannella, fece uno statuto con soli tre soci (quasi come oggi) e la prima battaglia politica fu subito sui soldi: minacciò ingiunzioni al gruppo dei Democratici - dai quali si era distaccato, meglio: fu cacciato - e fece fuoco e fiamme per la parte di finanziamento pubblico che reputava spettargli: dopo un po' di tira e molla trovarono un accordo. La seconda battaglia, il 25 ottobre, chiedeva formalmente ad Arturo Parisi la restituzione di 20 scrivanie, 16 armadi, 63 ripiani, 9 attaccapanni, 94 sedie, 7 poltrone, un divano, 21 telefoni, 2 computer e una fotocopiatrice. Di lì in poi a gestire l'intero finanziamento pubblico del partito saranno i coniugi Di Pietro più Silvana Mura: rimborsi per 250mila euro nel 2001, 2 milioni nel 2002, e poi 400mila euro ogni anno dal 2001 al 2005, più 10.726.000 euro nel 2006. Eccetera. Tutti soldi che, poveretto, Di Pietro è stato costretto a prendere. (Libero)

"Nessun effetto sul caso Mills e la sinistra specula sulle disgrazie". Intervista a Maurizio Paniz di Filippo Benedetti Valentini

L’approvazione del processo breve alla Camera è il segno della stabilità politica della maggioranza. Silvio Berlusconi, infatti, non ha nascosto la sua soddisfazione. E non l’ha nascosta neanche l’Onorevole Maurizio Paniz che è stato il relatore del testo di legge: "Il risultato è stato addirittura oltre le aspettative, infatti abbiamo incassato anche un certo numero di voti da parte di franchi tiratori della sinistra". Tuttavia il provvedimento, sia fuori che dentro il Parlamento, ha suscitato molte polemiche. In modo quasi unanime, il centrosinistra ha accusato il governo di voler garantire l’impunità al premier mettendo a repentaglio procedimenti in corso come quelli riguardanti i disastri di Viareggio e L’Aquila.
Onorevole Paniz, è così?
Tutto falso, sono speculazioni sulle disgrazie. Per quanto riguarda quegli avvenimenti, stiamo parlando di reati che non sono toccati dalla norma sul cosiddetto processo breve. Uno su tutti è il reato di omicidio plurimo, per il quale è prevista una prescrizione di 30 anni. Io non posso pensare che lo Stato, nell’arco di trent’anni, non riesca a decidere se una persona è colpevole o innocente e a dare il giusto risarcimento se qualcuno ne ha diritto.
Quali saranno gli effetti del provvedimento sul processo Mills?
Nessun effetto, perché è praticamente già prescritto. Non c’è alcuna possibilità che questo processo arrivi al risultato finale prima del 12 gennaio 2012, giorno in cui andrà comunque in prescrizione. Sfido chiunque a pensare che da oggi a quel giorno si possa arrivare fino al terzo grado di giudizio. Non arriverà nemmeno la sentenza di primo grado, posto che l’originario processo Mills, in primo grado, è durato due anni e devono essere ancora ascoltati molti testi e fatte rogatorie internazionali. E’ impensabile pensare che la sentenza arrivi prima del 12 gennaio prossimo.
Per molti il termine prescrizione è sinonimo di impunità. Dal punto di vista giuridico qual è la funzione di questo istituto?
Rappresenta il limite nel quale lo Stato considera di poter intervenire per decidere se una persona deve essere punita. Trascorso un certo periodo di tempo, nella maggior parte dei paesi civili, lo Stato si ferma: è una garanzia di certezza dell’azione giudiziaria e del rispetto nei confronti del cittadino.
Nel testo di legge c’è un emendamento con il quale lei intende porre una distinzione giuridica fra incensurati e recidivi. Secondo alcuni è un emendamento mirato ad accorciare i tempi di prescrizione per gli incensurati.
Mi è sembrato, piuttosto, un atto di giustizia e di civiltà nei confronti dei cittadini. In questo momento, in merito ai tempi di prescrizione aggiuntiva, esistono tre categorie di persone: ‘incensurati e recidivi’, ‘recidivi infraquinquennali’ e ‘delinquenti abituali’. Per ciascuna di queste categorie è previsto un aumento del termine di prescrizione, nella misura di 1/4 per la prima categoria, 1/2 per la seconda e 2/3 per l’ultima categoria. Io penso che non sia giustificato tenere nella stessa categoria incensurati e recidivi perché hanno una diversa prognosi delinquenziale.
Per differenziare le due categorie non poteva allungare i tempi della prescrizione per i recidivi?
Dovendo rispettare la proporzione che finora è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale, avrei dovuto allungare la prescrizione per tutte le categorie, legittimando un aumento della durata di alcuni processi fino a 40 anni. Le pare possibile che, in uno Stato democratico, un legislatore possa fare una cosa del genere?  
Ieri il Corriere della Sera ha affermato che la giustizia italiana sta vivendo un’incongruenza: da un lato si tenta di velocizzarla “tagliando” i processi, dall’altro si è incapaci di snellire un sistema carico di diritto, di fattispecie di reato e di tribunali. Approvato il processo breve da dove si dovrebbe ripartire?
Sono favorevole a intervenire sulle circoscrizioni giudiziarie, sulla distribuzione dei magistrati e all’eliminazione di alcune ipotesi di reato. Potremmo disperdere certamente meno risorse. Ma il prossimo passo è l’intervento sulla modifica della Costituzione annunciata dal ministro Alfano. (l'Occidentale)

mercoledì 13 aprile 2011

Porocan. Eugenio Benetazzo

Il Sig. Francesco è un pensionato di Vicenza che ha visto crollare del 30% il valore dell’appartamento residenziale che aveva acquistato con la liquidazione mettendolo tosto in affitto al fine di integrare la sua modesta pensione. Investire la liquidazione in obbligazioni o in titoli di stato ? Dopo Argentina e Parmalat, meglio un decoroso appartamento residenziale in Viale S. Lazzaro in prossimità del centro storico della città del Palladio, almeno affitto e controvalore dell’investimento sono sicuri e garantiti. I suoi sogni di serenità finanziaria sono ben presto svaniti dopo la trasformazione che ha subito il quartiere in pochi anni diventando un ghetto multietnico di nigeriani, marocchini, rumeni e cinesi, senza dimenticare una serie di servizi accessori (prima inesistenti) che arricchiscono notevolmente l’appeal del quartiere: prostituzione e spaccio di droga lungo ed in largo le strade e gli appartamenti.  Risultato ? Gli italiani hanno iniziato a svendere uno con l’altro le abitazioni con una gara al ribasso degna di un crollo di borsa. Adesso il Sig. Francesco si trova con un immobile deprezzato e non ci pensa proprio ad affittare ad extracomunitari (viste oltretutte le problematiche di riscossione in caso di inquilini morosi nel pagamento dei canoni). Destino beffardo ! Proprio lui che per decenni ha votato prima la sinistra e dopo il centro sinistra, appoggiando con etica cristiana i processi di integrazione a favore di etnie extracomunitarie. Porocan (in dialetto veneto significa poveretto) ! Pensare che ora è il primo nella fila a denigrare quelle scellerate e libertine politiche immigratorie senza alcun vincolo meritocratico.
In questi giorni i media nazionali continuano a concentrasi sugli sbarchi dei clandestini (e non migranti, non capisco perché in pochi giorni è stata cambiata anche la loro definizione) e su cosa deve o dovrebbe fare l’Unione Europea per aiutarci a risolvere questa situazione di emergenza. Nessuno tuttavia si è mai soffermato a raccontarci i fenomenali benefici economici che abbiamo ottenuto dall’immigrazione extracomunitaria. Sicuramente qualcuno che legge mi darà ora del razzista o del leghista, non me ne preoccupo il suo lamento rappresenta una voce statisticamente poco rilevante, infatti dagli ultimi sondaggi ormai oltre l’80% degli italiani è unanime nel pensiero: basta con gli extracomunitari !
Ce ne accorgiamo tutti a distanza di tempo: ci avevano promesso che sarebbero entrati tecnici specializzati, architetti, docenti, ricercatori e professionisti qualificati, invece ci troviamo con manovali generici, camerieri che parlano a mala pena l’italiano, badanti, prostitute e spacciatori. Persino il primo ministro inglese, David Cameron (forse il migliore primo ministro del pianeta al momento) ha sentenziato di recente la fine ed il fallimento del multiculturalismo. Questo non è razzismo, ma semplicemente buon senso, quello che avremmo dovuto avere tempo addietro clonando le politiche di immigrazione più severe al mondo come quella svizzera ed australiana.
Gli extracomunitari sono responsabili di rimesse verso l’estero dal nostro paese per miliardi e miliardi di euro (stima ufficiale tra i sei e sette miliardi ogni anno), hanno provocato ed indotto un abbassamento dei livelli medi salariali delle maestranze operaie italiane, hanno prodotto fenomeni di microcriminalità ove prima non vi era, hanno causato la decadenza e rallentamento dei programmi scolastici nelle scuole dell’obbligo (a causa della presenza di bambini e ragazzi che non sanno parlare e scrivere perfettamente la lingua italiana), hanno portato alla ghettizzazione dei quartieri residenziali: ovunque nel mondo ci si rende conto di questo, persino nei paesi scandinavi (con la Svezia in pole position) in cui la popolazione si è sempre dimostrata molto disponibile al diverso.
Tuttavia fin tanto che avremo ancora una minoranza della popolazione costituita da finti perbenisti (o dai loro figli che girano in Porsche, con vestiti firmati tipo Prada e Jeckerson) che rinnegano scioccamente quanto sopra, i prossimi “porocan” saranno tutti gli altri italiani, i quali a distanza di una dozzina d'anni si chiederanno di come sia stato possibile lasciar degradare il paese verso il basso senza opporre alcuna sensata resistenza. A quel punto aspettatevi anche un peggioramento del quadro macroeconomico per l’intero paese, ricordo ancora per chi non lo sapesse che la causa del collasso dei mutui subprime in USA è stata una scellerata politica di immigrazione affiancata da una fuorviante politica di assistenza finanziaria con sussidi di stato alle classe sociali più deboli (fatalità proprio quelle immigrate). Chi è causa del suo male, pianga se stesso. (ariannaeditrice.it)

martedì 12 aprile 2011

Ancora sulle intercettazioni. Nicola Porro

Alcuni affascinati da Travaglio continuano a pensare che la pubblicazione delle intercettazioni del Cav siano perfettamente legali. Ovviamente non è così. Vi riporto alcune frasi dell’ intervista fatta dal Giornale a Boato (che fece la legge), non esattamente un berlusconiano.

Marco Boato ride, poi spiega: «Peggio la pezza del buco. E così la dichiarazione del Procuratore di Milano, Bruti Liberati: dice che sulle intercettazioni indirette di Berlusconi è stata rispettata rigorosamente la legge Boato. Mi sembra un escamotage mal riuscito per coprire un errore clamoroso». Perché invece, secondo la legge del 2003 che prende il suo nome… “…è pacifico che non dovevano essere inserite nel fascicolo del processo Ruby intercettazioni che riguardano un parlamentare, il premier, che è imputato nel processo, senza aver ottenuto l’autorizzazione della Camera». Il Procuratore dice che non saranno utilizzate come prove contro Berlusconi, ma nel processo contro Minetti, Fede e Mora. «E allora perché sono agli atti del processo stralciato contro il premier? Non riesco a capire come queste trascrizione possano essere legittimamente depositate nel fascicolo. Non ci dovevano essere. La spiegazione della Procura mi sembra paradossale: una copertura giuridica per un probabile errore materiale. Non di cancellieri o poliziotti, ma dei pm che ne avevano la responsabilità». Solo un errore? «Credo che non ci sia un reato, ma una palese illegittimità sì. Non penso al dolo anche perché per la Procura questo è un boomerang. Se c’è sputtanamento per il premier, c’è ancor di più per i pm. Una castroneria così fa perdere credibilità. Inutile che adesso dicano di aver fatto tutto con rigore, scrupolo e pieno rispetto della legalità». Che cosa non la convince in particolare? «Se le quattro conversazioni con Berlusconi pubblicate dalla stampa non dovevano essere utilizzate come fonte di prova contro Berlusconi, perché sono rimaste agli atti, mentre moltissime altre sono state eliminate su ordine di Bruti Liberati? Non c’è nessuna spiegazione logica». E la sentenza della Corte costituzionale che nel 2007 stabili che le conversazioni indirette possono essere utilizzate contro terzi? «La sentenza modificò l’articolo 6, che impone al gip di richiedere l’autorizzazione parlamentare per utilizzare le intercettazioni come prova contro il parlamentare, mentre non serve contro i terzi. E allora le conversazioni semmai dovevano stare nel fascicolo che riguarda gli altri imputati, non Berlusconi». Che conseguenze può avere quello che è successo? «Lo stesso articolo 6 parla della inutilizzabilità degli atti in questione. Forse, in futuro si potrebbero prevedere sanzioni più dure». Ma non paga nessuno per questa illegittimità? «Come ho detto, non credo ci sia stato dolo da parte dei pm. Ma potrebbe arrivare una denuncia da parte dei legali del premier. O un esposto disciplinare al ministro o al Procuratore generale della Cassazione. Mi sembrano però ipotesi poco probabili e l’inchiesta non viene inficiata da un fatto del genere. Quello che si può fare è solo una denuncia pubblica». (zuppa di porro)

lunedì 11 aprile 2011

Giudizio scaduto. Davide Giacalone

Se passa il processo breve, e con quello l’emendamento che accorcia la prescrizione per gli incensurati, urlano quanti non sanno quel che dicono, migliaia di processi saranno affogati nell’estinzione, per decorrenza dei termini. Impressionante, vero? Peccato che questo accada quotidianamente, ma nessuno ci fa caso e a nessuno importa. Ogni tanto arrivano all’onore delle cronache procedimenti specifici, dotati di richiamo mediatico, come quello Parmalat. Ma, anche in questo caso, si deve saper leggere: il prossimo 18 aprile ci sarà la prima sentenza contro i banchieri che, secondo l’accusa, sono responsabili d’aggiotaggio, reato che si prescrive in sette anni e mezzo. Ciò significa che non esiste una sola possibilità al mondo che questi signori, qualora colpevoli, siano effettivamente condannati. Al più si potrà leggere la sentenza di primo grado, che, però, non ha alcun valore, non serve a niente e non determina alcuna conseguenza. Il tutto senza che la prescrizione breve sia ancora stata votata, a legislazione vigente.

Per i risparmiatori che investirono in Parmalat, e che attendono l’accertamento di responsabilità per poi puntare al risarcimento, per quanti, insomma, non hanno firmato accordi transattivi (arrendendosi) nel frattempo, inizierà una nuova beffa: estinguendosi, con il procedimento penale si estinguono anche le parti lese, che saranno indirizzate al procedimento civile, dove, come nel gioco dell’oca, si torna alla casella di partenza.

Questo non è un caso limite, è un caso normalissimo, nel nostro inferno giudiziario. Ed è l’ennesima dimostrazione che la lentezza della giustizia è una condanna per i deboli, per le vittime, per chi ha ragione, mentre una gran pacchia per colpevoli e profittatori. E non basta, perché è anche un costo, non solo in termini d’inefficienza, ma direttamente per i quattrini scuciti sotto forma di risarcimenti: dal 2002 al 2008 quasi 119 milioni, con una crescita geometrica, che promette di arrivare alle stelle, se non si pone rimedio.

E veniamo ai rimedi. Finché la giustizia sarà un campo occupato dalle tifoserie, dal corporativismo e dal dilettantismo, il rimedio non ci sarà. Continueremo a peggiorare. Se a questa corrida si riuscisse a porre un freno, le cose non sarebbero poi così difficili: rispetto rigoroso dei termini previsti dai codici, amministrazione manageriale dei tribunali, chiusura di quelli piccoli (che rallentano tutto con il proliferare delle incompatibilità) e digitalizzazione dei fascicoli e delle procedure. Basterebbe per guadagnare anni, e si potrebbe fare in meno di uno. Ma sarà difficile mettersi seriamente al lavoro finché la scena sarà occupata da chi scambia il processo troncato con quello abbreviato e chi minaccia sfaceli ipotetici ignorando quelli reali. La prescrizione breve, tanto per capirci, non è la prima esigenza che la giustizia italiana sente, e neanche la seconda. Ma cambia i tempi massimi solo di pochi mesi, mentre, come Parmalat dimostra, la lentezza accumula lustri di ritardo, cancellando processi e sprecando soldi pubblici.

La tragica verità è che la maggioranza di centro destra continua a dimostrare una già comprovata incapacità legislativa, mentre l’opposizione di sinistra vive e pensa solo ed esclusivamente in funzione dei processi a Silvio Berlusconi, nella non celata speranza che siano i tribunali ad abbattere colui il quale non riescono a battere. Gli uni e gli altri sembrano vivere fuori dalla realtà, avvalorando la diffusa convinzione che la politica ne sia la parte meno bella. Fa rabbia, è ingiusto, ma è quel che oggi passa il convento.

venerdì 8 aprile 2011

Casa di Lampedusa, e ora baci a tutti dal vostro immobiliarista di fiducia. Giuliano Ferrara

Al direttore - Questa storia della casa di Lampedusa acquistata e non acquistata da Berlusconi mi sembra un bel pasticcio. Vorrei capire se Mieli ha avuto ragione nell’affermare in tv che il premier ha detto una bugia, perché la casa non l’ha comprata.
Vincenzo Vicedomini, Salerno

Ieri mi era sembrato che Paolo Mieli avesse scambiato un pasticcio per una bugia, e che avrebbe dovuto essere più cauto e contegnoso, oggi dovevo ritrattare e scusarmi, visto che pasticcio e bugia sembravano tenersi la mano, e la responsabilità sembrava da attribuire a Silvio Berlusconi, che contegnoso non è stato. Poi sono arrivati atti di preliminare d’acquisto e tre assegni per la caparra, firmati addirittura dal presidente del cda della Foglio edizioni Giuseppe Spinelli, lo stupendo funzionario della Regina, intendo la nostra partner al 38 per cento Veronica Lario, che in caso di disavanzo di bilancio dovrebbe farci, come dire?, il pieno di benzina. Mi sento miracolato da tanta documentazione. Se poi la casa resterà ai proprietari, il Cav. dovrà comprarsi una casetta in Canadà, tutta piena di fiori di lillà. O altra capanna in Lampedusa. Baci a tutti dal vostro immobiliarista di fiducia. (il Foglio)

I veri nemici dell'euro. Francesco Giavazzi

Non sarà la crisi portoghese a determinare il fallimento dell'euro, così come non lo fu un anno fa la crisi greca, o in autunno quella irlandese. L'euro sopravvive a queste ricorrenti turbolenze (anzi si rafforza, in un anno il suo valore rispetto al dollaro è aumentato del 16 per cento) per due motivi. Innanzitutto perché una generazione di politici europei ha legato la propria credibilità al successo dell'unione monetaria. Angela Merkel, Nicolas Sarkozy, lo stesso Silvio Berlusconi sono pronti a tutto pur di non essere giudicati responsabili della fine dell'euro. I loro elettori non lo capirebbero, soprattutto i giovani, che neppure ricordano le vecchie monete nazionali, alcuni non le hanno mai viste nella loro vita adulta.

La Merkel, Sarkozy, Berlusconi non appartengono alla generazione di François Mitterrand, Helmut Kohl, Giulio Andreotti, i padri dell'unione monetaria. Anzi, alcuni di loro in passato la criticarono, spesso con violenza. Eppure oggi ne sono i difensori più strenui: basti pensare a come si è ribaltata la posizione di Giulio Tremonti nei confronti dell'euro.
Ha avuto ragione chi pensava che sarebbe stata la moneta unica a far crescere l'Europa politica, non viceversa. Il primo a sostenerlo fu Gustav Stresemanns, cancelliere della Repubblica di Weimar: a Ginevra, alla Lega delle Nazioni, nel 1929, disse: «Al congresso di Versailles abbiamo creato un gran numero di nuovi Stati europei. Ora ci vuole una moneta europea».

Il secondo motivo per cui l'euro si salverà è che chi è davvero nei guai non sono i debitori (Grecia, Portogallo, Irlanda) ma chi li ha finanziati: soprattutto le banche pubbliche tedesche. Male amministrate e succubi dei loro padroni, i governatori dei Länder, queste banche hanno inseguito qualche decimo di rendimento in più senza chiedersi quale fosse il rischio cui andavano incontro. Hanno riempito i loro bilanci di titoli greci, irlandesi, portoghesi, anche di mutui subprime americani. Altro che superiorità dello Stato sul mercato, come alcuni si ostinano a ripetere! Lo aveva capito dieci anni fa Mario Monti quando, da commissario europeo, tolse alle banche pubbliche tedesche i privilegi di cui godevano: evidentemente non è bastato per sottrarle all'influenza della politica. Come sempre accade i debitori verranno tutti salvati, per salvare i loro creditori.

Ciò che mette a rischio l'euro non sono i debiti, per i quali si troverà una soluzione, ma la mancanza di crescita. Questo vale per la Grecia quanto per l'Italia. Se i cittadini identificheranno nell'euro la causa della bassa crescita e dell'alta disoccupazione, la generazione di governanti che oggi difende l'unione monetaria sarà rimpiazzata da politici che stanno costruendo la propria fortuna sulla critica all'euro. La tentazione dei liberali tedeschi di risollevarsi dal disastro elettorale cavalcando il populismo, e soprattutto la popolarità di Marine Le Pen in Francia, sono il maggior pericolo che corre la moneta unica. L'unico modo per evitarlo è ricominciare a crescere. (Corriere della Sera)

martedì 5 aprile 2011

5 aprile 2011. Andrea's version

Imbarazzo lacerante su cosa scribacchiare oggi, per quante ne succedono. Da una mucca transgenica, in Cina, mungono latte umano. Il computer portatile compie trent’anni. Il Viagra ne ha fatti quindici, nel pudore generale. Diffuso e incomprensibile stupore per il fatto che l’Amor nostro abbia promesso di cacciare una barcata di soldi, al fine di scongiurare l’invasione di caterve di giovani maschi. Si suppone ardenti. Montezemolo opta per la politica. Forse. Forse non opta. Forse Montezemolo opta solo se Marchionne opta per non dargli più lo stipendio. Sperando che, prima o poi, qualcuno si decida a optare. Riparte anche, in Parlamento, quello che Ezio Mauro chiama “il conflitto con i pm”, sarà una settimana di fuoco sulla prescrizione. A proposito, si comincia ad avvertire nostalgia per l’assenza di D’Avanzo. Ancora a proposito, domani si manifesta a tappe forzate, dalle 14 fino a notte inoltrata. Sempre a proposito, Gustavo Zagrebelsky ieri ha spiegato: “Dobbiamo evitare che le piazze si scaldino ancora. La democrazia non è il regime della piazza irrazionale”. Di conseguenza, ha concluso l’illustre giurista, boia chi non sarà in piazza oggi.

domenica 3 aprile 2011

La trappola. Davide Giacalone

Lunedì Silvio Berlusconi sarà in Tunisia, ad offrire soldi in cambio di un argine che fermi l’emigrazione. Saranno meno di quelli necessari a gestire gli arrivi indiscriminati, ma non sono la soluzione del problema. Anzi. Se il nostro capo del governo parlasse a nome dell’Europa, se portasse al nuovo governo tunisino decisioni e soldi comuni, si eviterebbe l’aprirsi di un mercanteggiamento poco edificante. Invece parlerà solo a nome nostro, con scarso potere deterrente. Dopo lo scombiccherato avvio e la scombinata gestione della guerra in Libia, questa sarà l’ennesima prova di quanto sia fallimentare l’Unione Europea.

L’immigrazione è un problema, ma anche un’opportunità. Per noi italiani è divenuta una trappola. Ci sono responsabilità nostre, per il lungo oscillare fra le prediche d’accoglienza e l’incapacità di far rispettare la legge, così rinunciando a fare le uniche cose che è saggio fare: regolare gli ingressi, scegliere le figure professionali necessarie e respingere i clandestini. Ma ci sono anche colpe non nostre. I governi europei hanno applaudito il crollo di quelli che, sulle rive del Mediterraneo, arginavano la marea umana, salvo poi considerare i disperati (fra i quali si trovano soggetti di tutti i tipi) un problema esclusivamente nostro. A Lampedusa i tunisini, che sono francofoni, dicono di non volere restare in Italia, ma di volere andare in Francia. Ma lì non li vogliono, li respingono. Con una differenza: se li respingiamo noi, se non li soccorriamo, affogano, se li respingono i francesi, invece, restano in Italia, al sicuro. Ecco la trappola: siamo scoperti a sud e chiusi a nord.

A Lampedusa non possono restare, difatti è in corso il loro totale prelevamento. Ma è come soffiare dentro un pallone bucato, se non si fermano i barconi, in gran parte gestiti da delinquenti. La Tunisia non li vuole indietro, o, meglio, non li vuole tutti e non in una sola volta. Grazie, anche noi li avremmo preferiti a poco a poco. Nel resto d’Italia non li vogliono. Non li vuole nessuno, perché ovunque vadano saranno un problema. Non si tratta del colore delle amministrazioni locali, perché l’intero arcobaleno politico li vuole lontani, anche se uno solo lo ha detto in modo esplicito. Egoismo? Razzismo? Ma non diciamo eresie! Quando scoppiò il problema degli immigrati a Rosarno, in Calabria, la notte di Natale furono gli abitanti a scendere in piazza e offrire la cena. Il rifiuto, che è netto, nasce dalla paura. E la paura nasce dalla consapevolezza che non si farà rispettare la legge, che non si saprà distinguere i profughi dai clandestini, che i delinquenti sfuggiranno al controllo, che i procedimenti penali si concluderanno, se si concluderanno, quando gli imputati si saranno dileguati, che i rimpatri non saranno totali e che i problemi indotti da una tale massa di gente, bisognosa di tutto e disposta a quasi tutto, saranno riversati sulle popolazioni locali. Ecco perché c’è paura. Ecco il perché del rifiuto.

Né c’entra la nostra storia di popolo d’emigranti, perché da nessuna parte gli italiani si sono mai presentati pretendendo d’essere sfamati e assistiti. Noi siamo stati un’opportunità per i Paesi dove siamo andati a lavorare, così come i migranti odierni dovrebbero esserlo per noi. Ma i presupposti sono: rispetto totale della legge e integrazione. Tenere torme di clandestini, o accogliere comunità che pretendono di restare autonome nel diritto e nei valori, è il modo migliore per creare il razzismo e la xenofobia.

Negli altri Paesi europei, che oggi ci guardano annaspare, ci sono forze politiche razziste che da noi non esistono. Il linguaggio leghista può piacere o meno, ma non è paragonabile a quel che avviene altrove. All’insieme degli europei dobbiamo porre una questione: se l’immigrazione è un problema solo nostro, la guerra alla Libia un affare solo francese e inglese, il rigore monetario un vantaggio tedesco, la politica energetica ciascuno la gestisce per sé, va a finire che l’unica cosa che ci tiene assieme è il debito: chi ne ha troppo per essere salvato, e chi possiede le banche creditrici per non finirci spiaccicato. Un’Europa che farebbe orrore ai suoi padri.