lunedì 30 dicembre 2013

Matteo Rodomonte. Gianni Pardo

 
Enrico Letta è un politico difficile da difendere. Ha delle qualità: è distinto e di bell’aspetto; parla almeno due lingue straniere; è certamente un politico di lungo corso. Ma i difetti non mancano. In mesi di governo non ha fatto niente di notevole: è riuscito a galleggiare, aumentare le tasse e rinviare la soluzione dei problemi. Per giunta affetta costantemente un ottimismo urticante che giorni fa definivamo disneyano. Insomma trasuda doppiezza e perbenismo democristiani. E tuttavia, c’è qualcuno più insopportabile dell’ignavo tronfio. Un personaggio di cui l’umanità ride da tempo immemorabile, senza riuscire a liberarsene. Cominciò Plauto, col Miles Gloriosus. Ne presentò un caso Tucidide, raccontandoci la storia di Cleone. In seguito abbiamo avuto Rodomonte, il modello per antonomasia, e tanti altri casi: per esempio il Mario Monti che nell’autunno del 2011 sputava veleno su Berlusconi dicendo: “Se fossi al suo posto, vedreste”. Infatti abbiamo visto.

Oggi il personaggio di turno è Matteo Renzi. Il giovanotto è simpatico e sembra spontaneo, ma ciò non basta per assolverlo. Come non si poté assolvere Mario Monti in nome della sua aria di compito professore. E tuttavia bisogna sgombrare il terreno da un errore: Rodomonte non realizza le prodezze di cui si dichiara capace ma ciò non esclude che altri possa farlo. L’uomo eccezionale è raro ma esiste. Dunque non si può liquidare il nuovo segretario del Pd con un’alzata di spalle. Bisognerà vederlo all’opera.

Per il momento, la prima cosa che bisogna concedergli è di essere un grande comunicatore. Ha accumulato una lunga serie di successi d’immagine perché si esprime con un linguaggio piano, da amico in pizzeria, senza avvolgersi nelle circonlocuzioni fumose dei professionisti della politica. Inoltre, pur essendo espressione di un partito che per molti decenni fu il più militarizzato, è riuscito a farsi percepire come antisistema. Essendo giovane, invece di farsi prendere sottogamba, è riuscito a ribaltare il pregiudizio fino a far sentire se stesso come “nuovo” e gli altri come “vecchi” da rottamare. Ha sparso a piene mani la retorica dell’ottimismo e del coraggio, fino a farsi eleggere segretario del Pd, ed oggi, a meno di un mese da questo successo, si presenta come il più risoluto innovatore. Ma proprio qui, cominciando ad esagerare, rischia di rompersi il naso.

Le sue parole sono divenute arroganti e proterve. Rifiuta altezzosamente di essere appaiato ad altri “giovani” come Letta o Alfano: loro frutto degli apparati, lui munito di un’investitura popolare diretta. Come De Gaulle. Dichiara che sosterrà Letta soltanto se “farà le cose” che dice lui, il che corrisponde a minacciarlo di morte se non le farà. Secondo le stesse parole del suo accolito Davide Faraone: “Non basta un ritocco, un ‘rimpasto’, o si cambia radicalmente o ‘si muore’ ”. E il portavoce allinea gli errori che il Primo Ministro ha collezionato, soltanto dall’8 dicembre ad oggi, per dimostrare che è un inetto, uno che non ne azzecca una, uno che “fa marchette”, come una puttana.

Retorica da basso comizio elettorale, dirà qualcuno: ma retorica compromettente. Renzi infatti avalla le parole di Faraone anche a proposito di “grandi riforme per il paese, con tempi certi di realizzazione” e rilascia mazzi di cambiali con scadenza marzo o aprile. Questo Rodomonte promette di fare, in pochi mesi, quello che nessun Presidente del Consiglio è riuscito a fare dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: riforma costituzionale, riforma della legge elettorale “condivisa”, riforma del lavoro ed altro ancora. Dimentica quanti, prima di lui, si sono accostati con altrettanta fiducia al nodo di Gordio e ne sono usciti scornati. O non sa quante resistenze incontra chi prova a cambiare qualcosa, o il successo della sua infantile retorica lo ha completamente ubriacato. Fino a poco fa ha avuto l’abilità di tenersi sulle generali, ma ora si compromette sul piano della concretezza e non basteranno a salvarlo i jeans e l’assenza di cravatta. Il popolo italiano è disperato, ha già votato per Grillo e a momenti voterebbe per il Diavolo, ma una volta che il suo uomo sarà al potere vorrà vedere i risultati. E come potrà il sindaco realizzare la metà di ciò che ha promesso, nel momento in cui irrita i pochi alleati di un governo in bilico e si mette contro il suo stesso partito? Probabilmente l’astro in ascesa era troppo sfavillante per essere esaminato attentamente, ma quando si pesano i risultati la bilancia non si lascia abbagliare. Promettere troppo è comunque un errore. Chi compie il miracolo di realizzare la metà di quanto ha promesso si vedrà ancora rimproverare di non aver realizzato l’altra metà.

Se questa diagnosi sia accurata o no, lo dirà la realtà. E dal momento che sono stati promessi “tempi certi e brevi”, prima che sia passato qualche mese tutti i dubbi saranno chiariti.

pardonuovo.myblog.it

domenica 29 dicembre 2013

Dividendo della (in)stabilità. Davide Giacalone

 

L’incantesimo delle parole, con il loro autocompiaciuto illusionismo, sta svaporando. Criticare il governo è divenuto sport diffuso. Un po’ tutti se ne attendono la fine, sebbene non sappiano a cosa si darà poi inizio. Ma c’è un punto sul quale il ragionare di Enrico Letta non può essere eluso: egli sostiene che c’è un dividendo della stabilità, valutabile in più di 5 miliardi risparmiati, nel pagare gli interessi sul debito pubblico. Sono numeri, reclama, non parole. Ha ragione: se fosse vero e se fosse merito del governo sarebbe cosa di non poco conto e merito significativo. Ma non lo è. Cosa che è interessante capire non tanto per togliere agli stabilisti quest’ultima illusione, quanto per aver chiaro quale lavoro resta (tutto) da fare.

Il governo Monti aveva previsto di spendere, nel corso del 2013, 89 miliardi per il pagamento degli interessi sul debito pubblico. Il governo Letta afferma che se ne sono spesi poco meno di 84. Più di 5 miliardi risparmiati. Molto bene. Se si domanda a Letta quale scelta, quale taglio o quale legge hanno provocato tale risultato, egli risponderà a lungo, fisserà punti immaginari e inquadrerà il vuoto con ampi gesti delle mani, ruggirà, ma, alla fine, vi dirà: è il dividendo della stabilità. Invece è il dividendo della recessione. La paura che consumi e investimenti crollino, nell’incapacità dei governi di varare misure poderosamente correttive, ha spinto le banche centrali a portare nei pressi dello zero i tassi d’interesse. Ciascuna banca centrale l’ha fatto secondo le regole della propria area di competenza, ma è quel che s’è visto dagli Usa al Giappone, passando per l’Unione europea. Ciò non di meno i tassi di mercato, compresi quelli sui debiti pubblici (plurale), non ne vogliono sapere di radere il suolo, benché beneficino della liquidità affluente. Per dirne una: i tassi a breve (3 mesi – 1 anno) sui Bot sono stati mediamente superiori a quelli che Letta trovò.

Se glielo dite vi risponderà che la vostra è solo invidia politica, giacché un altro numero va preso in considerazione: il calo dello spread. Lo dice lui, perché non mi sarei permesso d’usare un argomento polemico così sciocco. Lo spread tende a fregarsene di chi governa e di quel che fa. E’ un gioco in grande, nel cui mirino c’è l’euro. Nel novembre del 2011 cambiammo urgentemente governo, perché era troppo alto, sopra 500. Qualche mese dopo, in era di morigeratezza dei costumi e multilinguismo obbediente, era ancora sopra 500. A spezzare le gambe allo spread provvide Mario Draghi, nell’estate del 2012. Da allora i differenziali, rispetto al costo del debito tedesco, sono scesi pressoché ovunque. Segno che i meriti non sono nazionali. Ora, però, quella rischia di essere una trappola. E le parole di Letta tornano utilissime.

La diga eretta dalla Banca centrale europea ha comprato tempo (prezioso), ma non ha risolto alcun problema. Su questo i tedeschi hanno ragione. Sia in Usa che in Cina hanno provato a dire che l’era dei tassi bassissimi, creata dalle scelte dei banchieri centrali, potrebbe anche finire. E’ bastato dirlo che i problemi sono esplosi, addirittura con i cinesi in crisi di liquidità. Sicché si sono affrettati a precisare che la cosa avverrà pian pianino. Ed è qui la trappola, perché se noi andiamo vantandoci di risultati che non dipendono affatto dalle nostre scelte, se non capiamo com’è fatto il mondo, se stabiliamo che i soldi risparmiati con i tagli (quando e se) ce li snifferemo via con altre spese, anziché destinarli tutti a ribassi fiscali, se adottiamo questa condotta non facciamo che pavoneggiarci nel mentre saliamo la scala del patibolo: vedi, come vado in alto? vedi, quanta gente mi guarda? Vedere vedo, ma mi par stolto compiacersene.

Dentro il tempo della diga (in gran parte già sprecato) si deve abbattere il debito, far scendere la pressione fiscale, cambiare le regole del mercato (lavoro compreso), e, da noi, spaccare l’ingessatura costituzionale che sembra farci monumentali, in realtà ci rende manichini. Letta è abbastanza tronfio dal continuare a elogiarsi anche dopo esser trapassato, ma il punto è: chi, per il dopo, ha consapevolezza del necessario? E chi, avendone consapevolezza, ne ha anche la forza? Nel Paese non mancano energie sane. Scarseggiano nella classe dirigente, affollata di gente che parla di decreti legge “ritirati” (analfabeti, siete degli analfabeti) e tace sulla Banca d’Italia. I nuovismi fanno ridere, la giovinezza porta male. Attendiamo le persone serie al tavolo dei problemi seri.

Pubblicato da Libero

domenica 22 dicembre 2013

ArchivioAndrea's Version

22 dicembre 2013

Mi piace un mondo dove la stretta di mano valga più di mille notai, dove la parola data conti mille volte l’accordo costruito a tavolino da cento azzeccagarbugli, cinquanta per me e cinquanta contro. Sono fatto all’antica, il matrimonio è il matrimonio, e i beni sono naturaliter in comunione, non è la precauzione nei confronti di un futuro dove l’altro potrebbe portarti via la casa, lo stipendio e le mutande. Inorridisco davanti ai contratti prematrimoniali, rifuggo dai codicilli e dalle sottoclausole, dove sarà il Tar del Lazio a decidere la tua vita, e non parliamo dell’orrore verso i contratti di lavoro dove l’assessore abruzzese (se è vero) pretende sesso, matematica alla mano. Detto questo, al posto di Alfano, pretenderei nero su bianco che non possano farmi il culo oltre le quattro volte a settimana.

venerdì 20 dicembre 2013

Le banche e lo Stato. Davide Giacalone


Il test che deve veramente preoccuparci non è quello cui saranno sottoposte le banche italiane, da parte della vigilanza europea, ma quello cui è sottoposta, anche in queste ore, la capacità di difenderci da chi è pronto ad appropriarsi della nostra ricchezza. Al vertice europeo di oggi non è in discussione solo l’unione bancaria, che è nel comune e nostro interesse realizzare, ma l’esistenza stessa dei beni italiani. Con la pessima vicenda di Telecom Italia, e con l’ancora peggiore gestione della rivalutazione di Banca d’Italia, abbiamo mandato segnali di totale cedimento, mostrandoci pronti a perdere partite decisive. Se non si reagisce parte l’arrembaggio, di cui è anticamera anche il declassamento di Generali, da parte di Standard & Poor’s.

Il governo italiano, con una lettera del ministro dell’economia, ha manifestato il proprio dissenso rispetto all’impostazione tedesca. Bene. Ma si deve essere capaci di farne comprendere i vasti confini politici ed economici, niente affatto limitata a una singola questione.

Non si creda che siano faccende per addetti ai lavori. E’ una partita assai più decisiva delle cose politiciste di cui tutti parlano e straparlano. Il punto falsamente tecnico, ma squisitamente politico, è come valutare i titoli del debito pubblico che si trovano nei portafogli di banche e assicurazioni: se li si considera privi di rischio, le nostre istituzioni finanziarie hanno bisogno di ricapitalizzarsi (che le proprietà o il mercato investano aumentando il loro capitale), ma in misura accettabile e praticabile; se li si considera a rischio e, per giunta, a rischio differenziato a seconda del Paese europeo che li emette, allora non c’è salvezza, ma solo una trappola nella quale si viene prima bloccati e poi spolpati.

Francesco Giavazzi ha osservato: una cosa sono i titoli negoziati ogni giorno, che hanno prezzo variabile, altra quelli che si tengono in attesa della loro scadenza, nel qual caso deve valere il valore garantito dallo Stato emittente. Giusto. Purtroppo c’è il decreto del 7 dicembre 2012, con cui si recepiscono le regole Esm (il meccanismo di stabilità europea), nel quale si stabilisce che, a partire dal primo gennaio 2013, lo Stato, ove sia in difficoltà, potrà rinegoziare il valore dei titoli emessi (norme CACs). Allora il governo (Monti) negoziò ed accettò l’idea che i titoli di Stato non siano sicuri. Il richiamo a quel decreto si trova in tutti i titoli emessi successivamente.

In realtà i nostri titoli non sono mai stati a rischio. Mai. Nel 2011 e nel 2012 abbiamo subito un’aggressione violentissima, a fronte della quale non solo non reagì l’Unione di cui facciamo parte (solo successivamente la Banca centrale europea varò le misure che arginarono le orde speculative), ma neanche reagì la classe dirigente italiana, approfittandone per regolare conti interni e promuovere qualche esecutore di ordini e servitore d’interessi altrui. Pur colpiti micidialmente, siamo stati capaci di resistere, a caro prezzo: a. il nostro debito pubblico è cresciuto assai meno di quello altrui, talché partivamo (per nostra colpa) in condizione patologica e ci troviamo in condizione fisiologica; b. abbiamo mantenuto gli avanzi primari, con i quali abbiamo pagato parte degli interessi (esosissimi), mentre gli altri, come i tedeschi, contraevano nuovi debiti; c. abbiamo di fatto nazionalizzato il debito pubblico (i conti fatti da Marco Fortis sono inesorabili). Ciò è decisivo: negli ultimi tre o quattro anni flussi d’investimento in titoli del debito pubblico hanno lasciato l’Italia e si sono dirette verso la Germania e la Francia (e altri). L’aggressione che subimmo ha portato ricchezza altrove. Il risultato, però, è che oggi abbiamo un debito pubblico di cui solo il 30% è detenuto da investitori esteri (dato della Banca d’Italia, cui va sommato il 5 nell’eurosistema e, se si vuole, il 5.2 detenuto da fondi esteri, ma riconducibili a italiani).

Per ottenere questo risultato è successo che i fondi messi a disposizione delle banche, dalla Bce, sono andati al debito pubblico. Potremmo dirla in questo modo: mentre tedeschi, francesi, inglesi e altri salvavano le loro banche con i soldi dello Stato, noi salvavammo lo Stato con i soldi della banche e delle assicurazioni. Ma aggiungendo un dettaglio: i soldi degli stati altrui erano in parte finanziati dalla fuga dei capitali dall’Italia, dovuta all’aggressione subita, nonché dal denaro liquido che abbiamo versato nel fondo per gli aiuti a chi era in difficoltà, quindi salvando le banche tedesche, che ne avevano acquistato i titoli. Più i soldi prestati ai greci, che agli italiani costano, mentre ai tedeschi rendono. Chiaro?

Se, ora, ci si viene a dire che i titoli pubblici nei portafogli di banche e assicurazioni non sono sicuri, anche in assenza di un ricorso all’Esm, vuol dire che dall’aggressione si passa al pestaggio e dal pestaggio all’esproprio di banche, assicurazioni, aziende, ricchezza. Il tutto mentre i tedeschi pretendono che le loro Landesbank (centri di potere bancario governati dalla politica) restino fuori dalla vigilanza Bce.

Ripeto: i segnali che abbiamo mandato in giro sono estremamente controproducenti, ma se nessuno s’accorge del rischio, se lo si tace ai cittadini, se si fa finta che sia una questione contabile e se non si reagisce, allora finisce come “colui del colpo non accorto, andava combattendo ed era morto”. C’è una sola risposta che il capo del governo italiano può dare, a questa roba, già oggi: no.

www.davidegiacalone.it

mercoledì 18 dicembre 2013

Elogio del "bel gesto". Enrico Galoppini


 



Io non so chi sia Simone di Stefano, vicepresidente di Casa Pound Italia, e non m’interessa che per qualcuno sia solo un "fascista di merda".
So solo che quello che ha fatto avrei voluto farlo io e, certamente, molti altri italiani come lui e me.
Niente di delinquenziale, intendiamoci, se con ciò s’intende esporre l’altrui incolumità ad un grave pericolo, oppure devastare senza senso dei beni pubblici come invece capita di vedere durante le manifestazioni di certi alternativi.
Quello di Di Stefano è stato un classico "bel gesto". Di quelli che, complice la possibilità di mostrarlo e rivederlo attraverso un filmato, suscitano immediatamente consenso, s’imprimono nella memoria e infondono coraggio.
Il "bel gesto" è quell’atto che da tempo si vorrebbe veder fare, ma nessuno, per un motivo o per l’altro, si sente di compierlo. E chi lo fa diventa subito un eroe.
Un "bel gesto" è anche un simbolo. Mostra immediatamente, senza bisogno di minacciare nessuno né di devastare nulla, che al di là dei mille distinguo di cui questo popolo è capace esiste qualcosa su cui si è d’accordo in parecchi senza bisogno di chiacchiere o ideologie. Sempre che non si appartenga alla genia dei soddisfatti e degli arrivati; di quelli che sguazzano beati in quest’andazzo schifoso.
Non fa onore alle forze dell’Ordine andare a legnare chi, ostentando la sola bandiera nazionale - cioè quella di tutti quanti, e non un vessillo di partito - esprime il disagio dei propri connazionali sotto la sede italiana di un’istituzione senza volto e senz’anima come l’Unione Europea. Sono o non sono anche loro italiani?
Grazie Simone per averci fatto vedere quell’emblema della dittatura finanziaria volare giù dal balcone come un qualsiasi straccio qual è in effetti.
Dopo decenni di ‘tabu patriottico’ post-bellico, sono vent’anni che ci danno il permesso di esporre il tricolore dai palazzi istituzionali, ma a patto che venga affiancato, cioè esorcizzato, dalla bandiera blu con la coroncina di stelle. Era l’ora che qualcuno la togliesse di mezzo.
 
(ideeinoltre)
 
 

La trappola perversa. Francesco Giavazzi


In Europa talvolta occorre coraggio, fermezza e determinazione. È quanto speriamo abbia Enrico Letta domani sera nel Consiglio europeo di fine anno. Altrimenti le conseguenze per il nostro sistema finanziario potrebbero essere gravi. Domani a Bruxelles Letta troverà, nel suo dossier, una gran quantità di analisi tecniche relative all’unione bancaria, il tema della riunione. Sono perlopiù questioni secondarie rispetto al vero problema: come verranno valutati nel nuovo assetto di vigilanza europea, che verrà inaugurato il primo gennaio, i titoli pubblici posseduti dalle nostre banche (circa 400 miliardi, il doppio di due anni fa)?

Alcuni di questi titoli le banche li detengono per mantenere liquidi i mercati finanziari acquistandoli e vendendoli quotidianamente: questi titoli sono valutati, giorno per giorno, ai prezzi ai quali vengono scambiati. Possono quindi produrre perdite e perciò richiedono che la banca disponga di abbastanza capitale per assorbirle. Ma una parte dei titoli pubblici le banche li detengono con l’intenzione di non venderli fino alla scadenza: questi sono valutati al prezzo al quale saranno rimborsati. Non comportano rischi e quindi non richiedono capitale. Così infatti prevedono le regole internazionali. Tutto bene, a meno che non si metta in dubbio che alla scadenza essi vengano davvero rimborsati.

Alcune settimane fa il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha detto che è giunto il momento di smetterla di assumere che il debito degli Stati venga sempre onorato: Grecia docet . Le conseguenze di un simile cambiamento delle regole sarebbero esiziali per molte banche. Nessuna oggi disporrebbe di abbastanza capitale, soprattutto in Paesi come Italia e Spagna dove il debito è elevato e le banche ne posseggono una gran quantità. E se li vendessero per alleggerire la loro esposizione il mercato dei titoli pubblici affonderebbe.

Le dichiarazioni di Weidmann hanno già prodotto effetti concreti. L’agenzia di rating Standard&Poor’s si è chiesta che cosa accadrebbe al bilancio delle Assicurazioni Generali se lo Stato non rimborsasse i Btp che esse possiedono. E ha messo sotto osservazione la compagnia chiedendo che, per affrontare questo rischio, raddoppi il proprio capitale, richiesta evidentemente impossibile da esaudire, almeno in tempi brevi.
È curioso che S&P si sia posta questa domanda per una società di assicurazione e non (o non ancora) per le banche. Una banca infatti, se congela i titoli pubblici fino a scadenza, si espone ad un rischio di liquidità, che invece non corre una compagnia di assicurazioni la quale allinea la scadenza dei titoli che possiede a quella delle polizze vita che ha emesso.


Comunque sia, Generali non può raddoppiare il proprio capitale, né vendere, almeno in tempi brevi, i Btp che possiede (per lo stesso motivo per cui sarebbe pericoloso se lo facessero le banche). Quindi ha una sola scelta, trasferirsi altrove per evitare che l’Italia (nonostante conti meno del 25% nelle attività della compagnia) la trascini verso un downgrade .
Per la verità Jens Weidmann ha ragione quando dice che dopo la Grecia non si può più assumere che i titoli pubblici siano privi di rischio. D’altronde non c’era bisogno del caso greco, basta studiare la storia e i default dell’impero austro-ungarico, o più recentemente della Russia nel 1998 e dell’Argentina tre anni dopo. Ma il presidente della Bundesbank dimentica un fatto importante. In Paesi ad alto debito, come Spagna e Italia, possono verificarsi «equilibri multipli», cioè situazioni in cui un default è prodotto semplicemente dall’aspettativa che esso possa verificarsi. È come quando i depositanti si chiedono se la loro banca abbia abbastanza contante per far fronte ad un immediato ritiro di tutti i depositi in conto corrente. Certo che in quel caso la banca fallirebbe, ma perché i clienti dovrebbero chiudere improvvisamente e tutti insieme i loro conti? Solo se temessero che la banca fallisse, cioè se si verificasse un «equilibrio perverso». Per questo esistono le assicurazioni sui depositi (fino a centomila euro nei Paesi dell’eurozona).
Ma per i titoli pubblici non esiste un’assicurazione: solo l’impegno dei governi a rimborsarli. Se quell’impegno non è più certo, un equilibrio perverso diviene una possibilità concreta. D’altronde è proprio questo il motivo per cui diciotto mesi fa Mario Draghi introdusse il programma di acquisti condizionati di titoli pubblici (Outright Monetary Transactions, Omt) che è l’unico motivo per cui la crisi dell’eurozona per ora è rientrata. Grazie cioè allo scudo della Banca centrale europea contro perverse evoluzioni sui mercati.
Domani il presidente del Consiglio dovrebbe quindi chiedere che, coerentemente con l’Omt, il Consiglio europeo stabilisca che i titoli pubblici emessi dai Paesi dell’euro sono soggetti ad un rischio di mercato (perché il loro prezzo può fluttuare prima della scadenza) ma indenni da un rischio di default . Purché i Paesi stessi non si discostino dal percorso di risanamento concordato con la Commissione europea. Le istituzioni che intendono tenere titoli di Stato fino alla data di scadenza non devono accantonare capitale. D’altronde non è stato proprio il Consiglio europeo a dire, dopo il default di Atene, che «la Grecia è un episodio che non si ripeterà»?


(Corriere della Sera)

 

lunedì 16 dicembre 2013

Consigli non richiesti. Claudio Velardi

 

 
 


Il decalogo del bravo membro di segreteria.

1) Non andare in Tv. Mai.

2) Se proprio non puoi farne a meno, vacci una volta ogni due mesi.

3) E quando ci vai, non presentarti con l’aria di chi ha conquistato e meritato un posto al sole. Piuttosto dici una cosa del genere, che sia il tuo mantra: “E’ un compito difficilissimo, non so se sarò(saremo) all’altezza. Mi sento impreparato/a di fronte alla massa di problemi che dobbiamo affrontare”. E non dire che cambierete il mondo perché siete giovani, bravi, puliti, nuovi: questo devono dirlo i telespettatori. E non dire che il tuo leader fa bene anche quando fa un rutto. E non prendere parte alle polemiche e alle risse verbali, non interrompere, non rimbeccare, non schiamazzare. Quindi, in sostanza, non andare in Tv.

4) Non andare alla radio. Quasi mai.

5) Se proprio non puoi farne a meno, evita zanzare, giorni da pecora, etc…

6) Non dare interviste ai giornali. Se non per parlare strettissimamente delle cose di cui devi occuparti. Mai per parlare di politica. Dice “E allora di che parlo?”. Dovresti saperlo. Ti ha dato dei compiti da svolgere, lui.

7) Usa Twitter per comunicare sobriamente la tua attività. Rispondi sempre educatamente a chi entra nel merito; rispondi due volte o anche tre, educatamente, a chi ti rompe i coglioni, poi banna. Non usare Facebook. Non saresti all’altezza, e ti impegnerebbe troppo tempo.

8 ) Studia. Studia. Studia.

9) Nelle pause gira il paese. Prendi un’auto che non sia quella di Calvani, guidatela tu (se non hai la patente, corri a prenderla) e vai dovunque. In incognito. Niente manifesti, annunci e manifestazioni. Vai per vedere, ascoltare, capire. Ti è consentito un accompagnatore/collaboratore. Uno e uno solo (sono banditi per sempre codazzi di ogni tipo).

10) Fai tutto questo per qualche anno, senza sgarrare mai, e diventerai classe dirigente.

PS. E, alla prossima riunione di segreteria, ricorda a tutti che i dati ufficiali delle primarie, a quattro giorni dal voto, ancora non ci sono.

(the FrontPage)

sabato 14 dicembre 2013

W la plebe. Lanfranco Pace


Il forcone è arma primitiva. Serve a tenere a bada il nemico, a impedirgli di avvicinarsi troppo. E’ un gradino sotto la falce che richiede quanto meno un passo in avanti, una mezza voglia di conoscere chi c’è davanti e comprenderne le intenzioni. E’ due gradini sotto il fucile, arma decisamente urbana che non lascia spazio a equivoci. E’ il forcone il simbolo che hanno scelto questi nuovi sanculotti che con formula molto azzeccata Aldo Bonomi ha definito i “non più”: non più agricoltori, non più pastori, non più commercianti al dettaglio, non più piccoli imprenditori, non più artigiani, non più padroncini di camion.

Oggi italiani nel nulla. Ieri capitalismo molecolare che aveva attecchito nel deserto, nicchie di reddito che avevano contribuito a rendere meno pesante la crisi della grande fabbrica. Una fioritura avvizzita e morta per l’eccessiva pressione fiscale e la troppa austerità. Nemmeno se volessero, potrebbero cambiare se stessi e l’ambiente che li circonda, mai potrebbero innovare, reinventarsi, solo modo per sopravvivere a questa crisi: provateci voi a creare valore aggiunto sulle bancarelle. Sono molto più numerosi di esodati, cassaintegrati, pensionati a rischio di povertà. Sono milioni ma invisibili a sindacati e partiti. Il Cav. aveva deciso di ricevere una loro delegazione ma poi si è tirato indietro quando gli hanno detto che i ceti produttivi tradizionalmente vicini al centrodestra non avrebbero gradito. Sono milioni: plebei, per lo meno ruspanti, esprimono rivendicazioni di difficile decifrazione, parlano in modo confuso, non sembrano riconducibili a precise caselle ideologiche, sono stati un po’ di tutto nella loro vita civile. Decisamente non piacciono.

In televisione li mostrano per dovere di cronaca, nei talk-show li tengono nel freddo a battere i piedi, fondali di cartapesta in rappresentazione della realtà. Li lasciano parlare per pura cortesia, pochi minuti in cui loro si aggrovigliano, si vede che sono emozionati né hanno i leader naturali che spuntano di solito in ogni movimento. Allora i giornalisti lasciano planare il sospetto che siano diretti da altri, infiltrati da camorra e mafia o dalle più visibili estrema sinistra ed estrema destra, centri sociali, Forza nuova, Casapound. E siccome abbiamo un senso del nostro mestiere da quarto mondo, ecco che ci mettiamo a fare la lezioncina, la protesta va bene per carità è legittima, sacra ci mancherebbe. Ma la violenza no.

E’ incompatibile con lo stato di diritto, espressione che ricorda il conte Mascetti quando dice al passante “posso dirle due parole… vice sindaco”. Perché i Floris le Gruber i Vespa non vanno a dirle in America fregnacce del genere, lì sanno che non c’è democrazia senza conflitto e non c’è conflitto senza rischio di farsi male. Eppure benché siano milioni, questi non sono pericolosi. Almeno non ancora. Purché la si smetta di parlare di populismo, concetto di ardua definizione come una volta la “classe”. Ogni volta che autorevoli giornali lasciano intendere che chiunque non riconosca l’interesse generale, non accetti le decisioni di élite sovranazionali e cessioni di sovranità sia un populista, fabbricano eroi. I forconi sono popolo, una strana scheggia certo, ma popolo. Italiano. E come tutti gli italiani sono in diritto di aspettarsi qualcosa anche da un governo tutto chiacchiere e distintivo. Invece il ministro dell’Interno continua a coltivare l’orto del suo partito, sull’ordine pubblico fa la voce grossa quando non serve, dice che non permetterà mai che le città siano messe a ferro e fuoco, ci mancherebbe pure.

Il presidente del Consiglio va a Johannesburg ai funerali di Mandela, e come un arrampicatore venuto dalla provincia fa subito sapere che Obama gli ha chiesto notizie dell’Italia e gli ha consigliato di giocarsela all’attacco. Mah, nel discorso alla Camera in occasione del dibattito sulla fiducia, il terzo in otto mesi, decisamente troppi per un governo in così buona salute, non ha messo fuori nemmeno un orecchio dalla trincea. Ancora un po’ a fare le Marie Antoniette svampite, a parlare tanto per parlare e per non votare, e riusciremo a trasformare qualche decina di migliaia di donne e uomini che agitano un forcone in inflessibili rivoluzionari del Terzo millennio.

(il Foglio)


 

giovedì 12 dicembre 2013

A difesa del proprio status quo. Marco Cedolin

 
In questi giorni di blocchi e proteste, portati avanti da gruppi di cittadini, poco avvezzi ad occupare le strade, ma molto esasperati dalla mancanza della materia prima con cui imbandire il desco, mi è capitato di ascoltare una vera e propria ridda d'improbabili grida d'allarme provenire da un po' tutte le parti. Chi paventa il pericolo di un golpe militare, dimenticando di trovarsi nell'anno del Signore 2013 e non a metà del secolo scorso, nelle mani di banchieri assai più feroci di quanto i militari potrebbero mai immaginare di essere. Chi bolla come squadrista fascista chiunque partecipi ai blocchi, finendo per scontrarsi con la matematica ed il numero dei manifestanti, davvero troppo cospicuo per specchiarsi in movimenti dello 0 virgola. Chi è indispettito dal basso livello culturale dei manifestanti, "tutta gente ignorante che fino a ieri dov'era?" Chi vaticina intorno ad improbabili sodalizi fra poliziotti e rivoluzionari, intravvedendo una futura dittatura assai meno tangibile di quella attualmente in essere, targata Bruxelles e così via....

 Ma il meglio del meglio è offerto dai mestieranti della trimurti sindacale, targata CGIL, CISL e UIL, quelli degli accordi contro i lavoratori firmati senza fiatare, degli scioperi di un'ora che non diano fastidio a nessuno, dell'amore viscerale verso le banche ed il capitale, della genuflessione nei confronti della controparte, elevata a regola di vita. Quelli che proprio a Torino, dove stamani la protesta dilaga costringendo alla chiusura la maggior parte dei centri commerciali, non hanno più il coraggio di presentarsi davanti ai cancelli della FIAT, temendo di venire presi a calci dagli operai di cui avrebbero dovuto tutelare gli interessi.

Proprio CGIL, CISL e UIL, associazioni miliardarie parassitarie, interessate unicamente alla tutela del proprio status quo, hanno dichiarato di voler respingere e contrastare le manifestazioni dei cittadini, bollandoli come qualunquisti, evasori fiscali, mafiosi e via discorrendo. Il tutto nell'estremo tentativo d'innescare una guerra fra poveri, o meglio fra cittadini (partite iva, operai, impiegati) resi poveri da Bruxelles e dai suoi servi di cui la trimurti fa orgogliosamente parte.

Con un poco di pazienza si possono anche sopportare le grida dallarme lanciate dai cittadini spaventati che ancora sanno come imbandire il desco, ma ascoltare lezioni di "democrazia" da parte della trimurti sindacale che insulta i cittadini per tutelare il proprio patrimonio, questo no, mi sembra davvero troppo.
 
(il Corrosivo di Marco Cedolin)

 
 

Appello agli ex-giovani. Pietro Maggi


Mi chiedo come facciano i miei coetanei “di sinistra” a non essere contenti – in varie sfumature, dal sollevato all’entusiasta – di quanto accaduto al PD con la vittoria schiacciante di Renzi.

Loro, come me, erano convinti che noi fossimo i migliori del mondo, e che avessimo avuto la fortuna incredibile di non dover affrontare avversari seri, complessi e con dei contenuti, ma solo dei ridicoli pagliacci, antidemocratici, incarnazioni caricaturali del male.

Noi che avevamo Berlinguer, e l’Eurocomunismo, e Di Vittorio ed i sindacati tutti, noi con Moretti contro il Drive In, avevamo da sconfiggere Craxi-Andreotti-Forlani, e poi Berlusconi. Piece of cake, come dicono gli inglesi.

E noi siamo riusciti comunque a non governare mai questo paese.

Noi che avevamo la Verità, la Bontà, la Cultura, tutto in appalto esclusivo, e siamo diventati sempre più marginali nella società vera, quella che ci fa così schifo ma ci da da mangiare ogni giorno.

Noi che non rubiamo [inserire qui nome a scelta tra Penati, Greganti e mille altri], noi che siamo per la libertà (dimenticandoci di esserci arresi al maschilismo femminile dei se-non-ora-quando), noi che siamo per i diritti (dimenticandoci di esserci prostituiti alla Magistratura che decide tutto), noi che vogliamo che gli ultimi siano protetti (salvo donarci mani e piedi a dei sindacati che, legittimamente, proteggono i loro protetti, e basta).

Noi, oggi, abbiamo la possibilità di rompere con gli ultimi 25 anni di patetica incapacità della classe dirigente del centro-sinistra italiano, abbiamo la possibilità di impegnarci in politica senza, finalmente, doverci dichiarare veltroniani dalemiani pippini, franceschiniani…

Invece che facciamo noi: prendiamo per il culo un ragazzo, leggermente più giovane di noi che, invece unirsi a noi nel “farci i pompini a vicenda” (cfr. “Pulp Fiction”, Quentin Tarantino, 1994) ha deciso di metterci la faccia per cambiare, e pensiamo nostalgicamente a chi lo ha preceduto, combinando un cazzo (nella migliore delle ipotesi) o facendo il Bersani (nella peggiore).

Se continuiamo così, vorrà dice che ce li siamo meritati, i patetici inconcludenti che ci hanno regalato 25 anni di atrofizzazione del paese.

(the FrontPage)

martedì 10 dicembre 2013

Ritratto politicamente scorretto di Mandela. Marco Respinti

 
mandela
 
Alle “monache di Monza” che, a differenza di quella manzoniana, si risolvono a cambiar vita, i buoni confessori dicono che una lunga astinenza è come una seconda verginità. Sarà per questo che la sua “canonizzazione” in vita ha fatto scordare a tutti le vere origini di Nelson Mandela. Ma i giornalisti sono al mondo per questo.

Il suo vero nome era Rolihlahla Dalibhunga, ed era principe di un ramo cadetto dei thembu di lingua xhosa. È nato il 18 luglio 1918 a Mevzo, sulle rive del Mbashe, nel distretto di Umtata, nel Tembuland, capitale del Transkei, già Bantustan, nella Repubblica Sudafricana sudorientale, indipendente dal 1979 (a Qunu, che molti ritengono avergli dato i natali, la sua famiglia si spostò quando il padre, Gadla Henry Mphakanyiswa, perse la successione, alienandosi il favore delle autorità coloniali). Alle elementari un maestro, pastore metodista affascinato dall’eroe di Trafalgar, non riuscendo a pronunciare “Rolihlahla”, lo ribattezzò Nelson; per la cronaca, Rolihlahla, significa “piantagrane”. Il cognome, Mandela, era il nome di un figlio di un suo avo, re Ngubengcuka, passato in eredità come cognome. Nel 1940, 22enne, si ribella, assieme al cugino Justice, al matrimonio combinato dal capo thembu Jongintaba Dalindyebo, che lo aveva allevato come un figlio. Dopo di ché avrà tre mogli (suo padre quattro, lui era figlio della terza), la più nota delle quali è stata la seconda, Winnie Madikizela, la quale la sapeva lunga sui bagni di sangue degli anni 1980 e 1990, Soweto e giù di lì. Era così estremista, la Winnie, che un giorno il Nelson le preferirà la seconda verginità in panni democratici, ripudiandola.

All’università di Fort Hare, Johannesburg, Mandela studia Legge, si fa cacciare per tafferugli studenteschi, ma fa in tempo a conoscere il suo Pigmalione, Oliver Tambo, presidente (per lungo tempo) dell’African National Congress, la madre di tutte le rivoluzioni comuniste sudafricane, organizzazione finita fuorilegge nel 1960. Il Nelson vi entra nel 1942, nei suoi circoli stringe amicizia con Yossel Mashel “Joe” Slovo, futuro leader del Partito Comunista Sudafricano, nel 1952 diviene presidente dell’ANC per Transvaal e nel 1961 crea l’organizzazione Umkhonto we Sizwe (“Lancia della Nazione”), ovvero il braccio militare dell’ANC. Per le strade la gente comincia a farsi male. I neri che non si riconoscono nell’ANC e nel PC sudafricano finiscono con i copertoni al collo in fiamme. Nel Paese il problema razziale è enorme almeno da quel 1948 in cui il Nasionale Party, la formazione dei nazionalisti afrikaans, impone l’apartheid. Ma che il comunismo dell’ANC non sia mai stato la soluzione, anzi sempre parte integrante del problema, è evidente. Per esempio lo è all’Inkatha Freedom Party, guidato dal re zulu Mangosuthu Buthelezi, nero come la pece, nemico giurato del comunismo e dell’ANC. Del resto il compagno Slovo, di origine lituana, aveva la pelle bianca.

Un giorno, il 5 maggio 1962, Mandela viene arrestato a Howick, nel Natal, e condannato a 5 anni per reati minori. Alle sue spalle vi era però la serie di attentati che, dal 21 marzo al 19 aprile 1960, avevano ucciso 86 persone e ferite 424, tutti attribuiti all’ANC e alla sua ala scissionista, il Pan Africanist Congress. Poi l’11 luglio 1963 la polizia scopre a Rivonia, vicino a Johannesburg, l’alto comando, clandestino, dell’Umkhonto we Sizwe. Mandela finisce ancora sotto torchio e alla fine è condannato per cospirazione. Al processo vengono ascoltati 173 testimoni, ma è lo stesso Mandela ad ammettere apertamente che la sua organizzazione persegue scopi politici attraverso la violenza. In più, dice di avere personalmente progettato azioni di sabotaggio e di avere organizzato campi di addestramento militari all’estero, uno dei quali lo ha seguito pure lui in Algeria. Del resto aveva anche teorizzato la lotta armata di classe in manuali tipo quello intitolato Come essere un buon comunista, in certi documenti politici sul “materialismo dialettico” saltati fuori al processo di Rivonia e nell’opuscolo Operation Mayibuye (cioè “ritorno”) dove il precedente citato a esempio è la guerriglia comunista a Cuba, capace di vincere e di reggere. In uno dei testi sequestrati dalla polizia e presentati al dibattimento in aula, Mandela dettagliava quel suo cursus honorum rivoluzionario in nome del marxismo-leninismo per cui erano necessarie, fra l’altro, 210mila bombe a mano, 48mila delle famigerate mine antiuomo e 1500 timer per altrettanti ordigni. Il 23 agosto 1985, in un’intervista non firmata comparsa su La Stampa, Mandela la disse tutta: «Il bianco deve essere completamente vinto e spazzato dalla faccia della terra prima di realizzare il mondo comunista».

In prigione Mandela ci ha passato così 26 anni e mezzo, dal giugno 1964 all’11 febbraio 1990. Da libero, ha assunto subito la presidenza ufficiale del buon vecchio ANC, e il 10 marzo 1994 si è insediato come presidente democratico e osannato del nuovo Sudafrica postrazzista. Fra i suoi ministri c’era l’immarcescibile Slovo, il bianco rosso. Ispirato da Karl Marx e dai cappellani della “teologia della liberazione”, Mandela è stato paragonato al Mahatma Gandhi (che iniziò la carriera proprio in Sudafrica e che, guarda caso, ammirava pure lui il filosofo di Treviri). Dalle sue parti lo hanno venerato come “Madiba”, un titolo onorario adottato dai membri anziani del suo clan e mutato in nomignolo poi di successo mondiale. Nel 1993 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace, nonostante la guerriglia comunista, il tifo per Saddam Hussein e le amicizia con Yasser Arafat (terrorista, antisemita, pure lui Nobel per la Pace nel 1994), Fidel Castro e Muhammar Gheddafi. E pure nonostante avesse affermato ‒ in una intervista a John Lofton su The Washington Times, sempre dell’evidentemente assai produttivo 23 agosto 1985 ‒ che: «non vi è alternativa alla rivoluzione violenta, non vi è spazio per una lotta pacifica».

Sia scritto nero su bianco: l’apartheid è una schifezza, la segregazione pure, il razzismo peggio. Ma che Mandela sia stato un nero per caso?

Da L’Intraprendente

 

venerdì 6 dicembre 2013

ArchivioAndrea's Version

6 dicembre 2013

Le foto, chi le ha viste lo sa, impressionano davvero. In una, Dallas Wein è senza faccia, completamente senza, il suo viso è una parete di pelle piatta, con i fossi delle orbite vagamente accennati e coperti a loro volta di pelle. Niente bocca, niente naso, orecchie, niente. Un muro di epidermide cicatrizzata. Nell’altra foto, Dallas Wein ha una faccia completa. Non la sua vecchia, quella avuta da un donatore, con perfino con la barba. Lo si vede addirittura che sorride. Dallas Wein s’era ustionato nel 2008, nel 2011 ha iniziato le cure, e l’altro giorno i medici della Radiological Society of North America hanno mostrato il miracolo compiuto da un trapianto facciale completo, durato oltre trenta ore. Un miracolo della scienza che ha spinto i medici a invitare tutti, quando si muore, a donare non solo il cuore o il fegato, ma anche il viso. Sperando che molti rispondano all’appello. Questo fà altresì pensare che il più in là possibile, intendiamoci, ma quando arrivasse il momento, il dottor Saccomanni avrà il grande privilegio di poter donare, indifferentemente, sia la faccia che il sedere.

Porcellum arrosto. Buon appetito! Paolo Pillitteri



Quando la televisione, tutta, finge di essere presa di sorpresa - naturalmente erano tutte preparate le redazioni dei tg nella serata di mercoledì in merito alla fine, ingloriosa, del “Porcellum” - gli approfondimenti e i talk-show, persino quella “Gabbia” di matti (finti) di Paragone, ha fatto come quello che diceva “porto pesci”, cioè hanno svicolato. Arrostito ben bene dalla Corte Costituzionale, il Porcellum è stato servito in tavola alla politica smandrappata e ridicola di oggigiorno, che va a zonzo per le tv facendosi prendere per i fondelli dai loro nuovi padroni: i conduttori. Buon appetito.

Le facce dei condolenti sono tante e un po’ nascoste dietro formule trite e di rito, ma quelle viste l’altra sera in tv, subito dopo il botto, erano tuttavia di seconda fila, quasi sconosciute, dal Partito Democratico a Forza Italia, come se la cerimonia degli addii alla legge imbroglio del secolo – maggioritario, Mattarellum, Porcellum, malefatte alla Segni – dovesse tenersi sotto il segno dell’understatement, sia pure di serie b, col sottofondo di un De profundis biascicato. Ed era tutto un florilegio, a cominciare dal pur lucido Del Debbio, di “illegittimi, illegali, abusivi, decaduti!” senza neppure rendersi conto, i parlamentari della chiacchiera in tv, che parlavano di loro stessi: de te fabula narratur.

Qualcuno, con sadomasochismo, come quelli col mal di calli del callifugo Ciccarelli, smorfiavano consolandosi sul Parlamento decaduto perché illegittimo. Todos caballeros, delegittimados. Che consolazione! Ma a nessuno è venuto in mente che, se tanto mi dà tanto, anche la decadenza del Cav è illegittima. Invece, quella in tv, si domandava fra il lusco e il brusco se l’imminente votazione parlamentare per la Cassa Depositi e Prestiti avesse profili di illegittimità. Posti, poltrone, sottogoverno, pratiche usate oggi ancor più di ieri quando, i nuovi arrivati, le rimproveravano ai “vecchi arnesi partitocratici” che, almeno ci sapevano fare, e pure alla luce del sole. Che storia! Che film! E che finale! Adesso sarà facile incolpare il dottor Sottile, neo membro della Suprema Corte - ma allora anche Mattarella c’entra - e gli altri.

E sarà pure così, ma, diciamocelo, se la sono pure cercata. E l’hanno trovata, la sorpresa. Anche Renzi, l’ultramaggioritario un tanto al chilo che sbeffeggiava Alfano coi suoi trenta parlamentari dall’alto dei suoi trecento, dimezzati in un battibaleno dalla Sublime Corte. C’erano anche altre facce un po’ così, sui piccoli schermi assurti al Supremo Sinedrio Taumaturgico della politica “porcell-maggioritaria!” dove ogni politico, per dire, deve sorbirsi da un azzimato Floris un Crozza che lo fa a pezzi prima ancora di incominciare a dire quel poco che ha da dire. Chissà le loro facce, mercoledì prossimo.

E come infatti non notare nell’allarmato volto di Chicco che apriva il tg di La7 suonando il Dies irae, un che di disgustato, una smorfia di malcelato disappunto, come se anche con l’arrosto del Porcellum finisse bruciacchiato il margine di potere mediatico, quello che gli Usa chiamano “margin call”, ovvero la bolla speculativa che, per molti maitre a penser della tv della Seconda Repubblica consiste nell’essere riusciti a capovolgere il piccolo mondo antico della politica d’antan (l’immonda partitocrazia sentina d’ogni vizio!), rendendolo un loro tappetino senza che i cosiddetti “nuovi” se ne accorgessero, ma anzi, li ringraziassero. A parte, beninteso, il Cavaliere: il signore sì che se ne intende(va) di maggioritario, soprattutto di tv e l’abbinamento dei due fattori produsse questi vent’anni sotto il suo segno, pur governandone solo la metà nel bene e nel male.

E Grillo, col suo fasullo apriscatole, abbaierà ancora alla Luna col suo ringhio apoplettico? Quello che si vorrebbe qui dire è che, né più né meno, è finita la Seconda Repubblica, ko, kaput, the end: nel modo peggiore, cioè per sentenza di giudici, ancorché Costituzionali, ma anche e soprattutto, nelle forme più perfide giacché la sentenza precede lo sberleffo corale del buon senso italiano, finalmente in piedi dopo essere stato messo da parte in questo ventennio, sia dalla falsa rivoluzione giudiziaria che ha paralizzato, da allora, il Paese e la sua economia sia da un sistema elettorale ad usum delphini, ovverosia funzionale all’irreversibile annientamento dei partiti - su cui la ghigliottina selettiva s’era già abbattuta - costretti a schierarsi di “qua o di là, cinque anni di stabilità” come se la formula magica bastasse a creare due poli, due partiti, la vera alternanza, la democrazia matura, l’avvento del nuovo che avanza sul vecchio che resiste. Slogan d’accatto di venditori di fumo e di promesse mancate. E adesso? Ce la metteranno tutta a peggiorare il peggiorabile. Scommettiamo?

(l'Opinione)

 

giovedì 5 dicembre 2013

Somari e colpevoli. Davide Giacalone


Dalla scuola ci arriva una lezione su quali guasti azzoppano l’Italia. Ma anche su come sarebbe possibile e veloce, spendendo meno, recuperare. I test Pisa (Program for International Student Assessment), svolti in ambito Ocse, segnalano la solita tristezza: gli studenti italiani sono sotto la media. Leggendoli nel dettaglio, però, si scopre che molti luoghi comuni sono solo il riflesso dell’ignoranza e della rassegnazione. Ingiustificabili.

Per esempio: se si prendono i risultati dei ragazzi nel nord-est, specie in matematica, l’Italia si colloca sopra la media e fra i migliori; se si prendono quelli del sud, con la Sicilia che sprofonda, ce la giochiamo con i peggiori. Da qui è facile partire con la tiritera sull’arretratezza del sud, i guasti secolari, i retaggi del passato e così via delirando. Ma è falso: un secolo fa i “colti” erano in gran parte meridionali, con dominanza nelle professioni liberali, mentre il Veneto registrava il dilagare della miseria e dell’analfabetismo. Cosa è successo? Che la scuola, come tanti altri comparti pubblici, è divenuta una servizio a chi ci lavora e non a chi ci studia, e dove questo fenomeno è esasperato, quindi al sud, è divenuta mera spesa pubblica e volano d’ignoranza. Non tutta, non si deve generalizzare, si deve sapere distinguere e tutto quello che volete, ma i numeri sono spietati.

Altro luogo comune: perdiamo posizioni perché spendiamo poco, paghiamo male i docenti e diminuiamo le ore di presenza in classe. Falso, su tutta la linea: a. spendiamo male, per pagare personale e sedi, se spendessimo di più sprecheremmo di più; b. i nostri insegnanti (fra i quali ce ne sono di bravissimi, come di capre) sono pagati meno della media Ocse, ma se si va a vedere il loro costo per ora d’insegnamento ecco che va sopra, quindi sono troppi e l’organizzazione è penosa; c. i nostri ragazzi stanno a scuola più ore della media Ocse, poi sono quelli che hanno maggiormente bisogno di corsi di sostegno e ripetizioni private. Non credo sia necessario aggiungere altro.

Si può recuperare? Nel 2000, quando si fecero i primi test Pisa, la Germania era sotto la media, in quanto a capacità di lettura e comprensione, da allora, com’è capitato anche in campo economico, ha corretto il tiro e alzato il livello delle scuole professionali. Oggi è sopra la media. Proprio perché si ha a che fare con i giovani, e proprio perché parliamo di scuola, recuperare è possibile e veloce. Tutti gli indicatori ci dicono che il dramma della scuola italiana è la sperequazione (anche nella differenza fra maschi e femmine, con le seconde più brave in alcune materie e meno in matematica e scienze, l’Italia riproduce il fenomeno, ma allargando la forbice). Manca standardizzazione e misurazione. La risolviamo in pochi mesi, con la digitalizzazione. Obiettano: servono soldi che non ci sono. No, si risparmia. Il mostruoso costo dei libri di testo, largamente inutili e inutilizzati, che ogni anno le famiglie sopportano supera alla grande il costo del digitale. Con il quale è possibile non solo far emergere gli insegnanti migliori, mettere a disposizione di tutti i contenuti migliori, rendere esemplari le pratiche migliori, ma anche valutare in modo passabilmente oggettivo. Ci mettiamo un’estate a partire, un anno scolastico per mettere a punto la macchina e da lì in poi si comincia a risalire. Serve solo che la politica scolastica non sia né la politica per il personale scolastico, né il modo per finanziare gli stampatori di libri assurdi. Serve che la formazione professionale (regionale) non sia mangiatoia, ma il viatico per guadagnarsi da mangiare.

Un ultimo aspetto: la disciplina. In quanto ad assenze primeggiamo, assieme ai turchi, giordani e argentini. La scuola è un luogo di socialità, più che di studio e selezione. In quanto a quest’ultima: sono aumentati bocciati e rimandati. Attenzione: ne abbiamo ancora meno di Francia e Germania, ma più della media Ocse. Quindi: sotto la media in quanto a risultati culturali, sopra in quanto a bocciati e rimandati. Cosa significa, se non che manca la connessione fra qualità e selezione? Bocciare non è segno di rigore, ma di fallimento. Se un ragazzo non “è portato” va corretto il suo corso di studi, mentre la severità è solo apparente. In più l’Ocse calcola che un bocciato costa 48mila dollari in più, andandosene così il 7% della spesa complessiva. Ripete l’anno, costa e non migliora.

E’ un quadro nero. Ma la cosa più nera è l’incapacità di cambiarlo, fregando moltitudini di giovani e noi tutti. Non solo si deve, non solo si può, ma ci vuole poco tempo e servono meno soldi. Non è una riforma a costo zero, è una riforma a risparmio. Ma d’inestimabile valore. Basta liberare la scuola, così come va liberata l’Italia.

Pubblicato da Libero

mercoledì 4 dicembre 2013

Lettera aperta a un commissario finlandese. Generale Desaix


 
Caro commissario finlandese,
ci rivolgiamo a te che sei un personaggio di fantasia, ma molto evocativo, per avere finalmente la risposta ad alcune domande che ci tormentano.
  1. Leggiamo sui dati di un istituto che si chiama Eurostat, dove il prefisso “euro” sta ad indicare il continente del quale si occupa, che nel 2012 la spesa per consumi finali, cioè la spesa per il funzionamento delle amministrazioni pubbliche, del paese dal quale ti scriviamo è stata il 20,1% del pil mentre quella dell’area euro, dove euro indica l’omonima moneta, è stata il 21,6%. Fra l’altro anche quel paese di cui ti dicevamo fa media e perciò l’abbassa. Tutto sommato quel paese spende una venticinquina di miliardi di euro in meno di quanto spenderebbe se fosse in media con gli altri. E allora, come mai ci scassi la uallera proprio a noi dalla mattina alla sera con la spesa pubblica che sale sparata come un razzo e bisogna tagliare di qua e di là?
  2. Sempre restando alla spesa pubblica, commissario finlandese, che è 800 miliardi di euro e cazzo ci vuole a tagliarne un pochino, lo sapevi che dentro quegli 800 miliardi ce ne sono una cinquantina di contributi sociali che le amministrazioni pubbliche pagano all’Inps per i loro dipendenti? E una quarantina di miliardi di irpef sulle pensioni, che sono calcolate al lordo, quindi l’Inps li paga allo Stato? E una decina di miliardi di Irap, perché l’Irap la pagano anche gli enti pubblici? E che se tagli questa roba qui la tagli anche in entrata, perché lo Stato li spende e lo Stato li incassa, e il deficit non cambia di un pelo? Ora, siccome ci dite tutti che 800 sono troppi e bisogna tagliarne 30, anzi 32, ci viene da pensare che se fossero 768 vi andrebbe bene. Adesso che sapete che non sono 800 ma meno di 700, non è che ricominciate a dire che sono troppi lo stesso?
  3. E ora, commissario immaginario, passiamo alle entrate. Sì, perché tu ci dici che hai ancora l’incubo del 2011. “A chi cazzo glielo dici”, ci verrebbe da esclamare. Non è che quando vai in visita in Indonesia gli dici che hai ancora l’incubo dello tsunami, e ad Haiti quello del terremoto, no? Ecco, il 2011, immaginiamo che tu ti riferisca a quello dopo Cristo, però cerca di specificare perché come pil è più o meno quello di quattromila anni fa. Sai cosa abbiamo scoperto rifacendo i conti? Che a suon di letterine segrete (a proposito, ma è vero che l’avete mandata anche a Zapatero? Ma dai, pensa che fino a che non lo abbiamo saputo ci stava sulle balle) ci avete fatto fare tre manovre in manco sei mesi che per il 2013 valgono 75 miliardi di euro: 26 di tagli di spesa e 49 di maggiori entrate. Insomma, gira che ti rigira, il 2013 è bello che finito ed i 26 miliardi di tagli ci sono tutti, mentre dei 49 di tasse ne mancano 42. Dovevamo fare il pareggio e siamo quasi al 3%. Qua da noi sul mediterraneo il 3% del pil fa circa 45 miliardi, indovina il quasi 3% quanto fa? Allora ti volevamo chiedere: come è possibile che uno che ci ha fatto fare il culo come un secchio per tornare esattamente al punto di prima, ma con un botto di tasse e disoccupati in più e un botto di produzione in meno, fa ancora il commissario finlandese invece di tornare a servire le aringhe in qualche trattoria di Helsinki?
  4. Poi riflettendo ci siamo detti: se uno mette 49 miliardi di tasse e gli arriva una recessione tale che ne incassa solo 7 e perde gli altri 42, allora se invece di metterli li toglie perde quei 7 ma gli altri 42 tornano indietro. Come lo vedi come ragionamento? Fila? E se invece di mettere quell’energumeno che ci hanno mandato dal fondo monetario a seviziare la gente provassimo a fare così? Tanto perso per perso…al limite vi diamo in pegno il Colosseo (a proposito, ma quei cialtroni dei greci han cominciato a smontarlo, il Partenone? Dov’è che lo mettete quando vi arrivano i container coi pezzi? Nella piazza di Tampere? Dai che siamo curiosi). Però sia chiaro che se volete il Colosseo vi dovete prendere anche Della Valle.
  5. Poi c’è il debito, caro seccatore che ci molesti dalla Scandinavia. Ecco, quella sì che è una rogna. Hai visto che roba? In percentuale del pil aumenta che pare la neve intorno al lago Ladoga. Siamo andati a controllare. Oh, non ci crederai, lo sai quant’era il pil nel 2008? Era 1.575 miliardi di euro! E nel 2013, con cinque anni di inflazione dentro, lo sai quant’è? 1.557! E’ di meno! Pensa quant’è sceso al netto dell’inflazione! Tu che dici, se ‘sto rapporto col debito non scende mai potrebbe essere per quello oppure sono i comuni che spendono troppo di bolletta dell’acqua per le fontane?
  6. Infine, caro il nostro bel commissarione, leggiamo che intendi candidarti alla presidenza della Commissione europea per l’Alde, che ci pare che sia un partito europeo, tipo i democristiani o i comunisti, giusto? Ma qual è di preciso? Quello dove vanno tutti quelli che nei loro paesi si atteggiano da statisti e poi arrivano sesti, tipo Monti da noi? Dai, non ti preoccupare, tanto dei voti che ti frega? Mica funziona così, altrimenti sarebbe una democrazia e , non te la prendere, a quest’ora tu saresti a scaricare casse di aringhe su qualche molo ricoperto di neve. Non è che ti sei confuso con altri posti di più provata solidità democratica, tipo la Russia, l’Iran o la Birmania? Ma secondo te, se il presidente della commissione lo votassero veramente lo farebbe da dieci anni Barroso? Ma lo hai guardato bene? Secondo te a fare il presidente come ha fatto, si è presentato alle elezioni europee contro Tony Blair e ha vinto lui? Ma dici sul serio? Per non parlare di quello che c’era prima, che veniva dall’Italia. Dall’Italia! Ma si può? Tranquillo, come puoi vedere dai tuoi predecessori i criteri per scegliere il presidente sono ben altri. Prima di tutto deve avere una personalità così anonima ed insignificante che dopo i primi tempi nessuno si ricorda che esiste. E poi deve essere una tale pippa da risultare totalmente inoffensivo. Se potessero a fare il presidente ci metterebbero una pianta oppure un comodino, quindi, dacci retta, tieni duro che hai ottime possibilità.  (the FrontPage)

martedì 3 dicembre 2013

ArchivioAndrea's Version

3 dicembre 2013

La situazione sembrerebbe questa. Che le fabbriche siano quasi scomparse, mentre qualche checca finta cuce ancora qua e là dei vestitini, risuola qualche scarpina e s’ingozza a kilometro zero, nel calduccio dei pannelli solari. Che i cortei non lancino più slogan, né combattive parole d’ordine, né marcino più col piglio di una volta, ma si trascinino piuttosto come una barbosa teoria di colleghi miei, sciancati dall’artrite e cigolanti di ruggine. Che i sindacati siano bianchi di tempo e di iscritti. Che perfino i comunisti, i terribili comunisti, vadano al Tartarughino degli anni Duemila ricordando Visconti, il primo Scola, e il loro Putin perduto nella dacia nei pressi di Stalingrado. Correndo di tanto in tanto al bagno per la prostata. La situazione sembrerebbe questa: che anche Berlusconi non c’è più, come Mussolini. Però il berlusconismo, come fù per il fascismo, saranno cazzi estirparlo. E Ciccio primo spopola, e Scalfari fanciullo a commentare il tutto. Un paese per vecchi? Errore. C’è un vispissimo Renzi in fondo al tunnel.

domenica 1 dicembre 2013

Per la sopravvivenza
de “L’Opinione”

di Arturo Diaconale
30 novembre 2013EDITORIALI
“L’Opinione delle libertà” rischia la scomparsa. Sul più antico giornale politico italiano, nato a Torino su ispirazione di Cavour nel 1848, grava il pericolo della marginalizzazione e della chiusura. La testata che negli ultimi vent’anni, grazie ad una delle poche cooperative vere esistenti nel panorama dei giornali di nicchia, ha rappresentato una delle pochissime voci, sia pure flebile, dell’area liberale e riformatrice, è ad un passo da un’amara uscita di scena. Le cause sono molteplici. C’è il crollo della pubblicità. La crisi generale del settore.

Ma, più direttamente, oltre la mancata erogazione del contributo pubblico previsto per il 2011 dalla legge per l’editoria che ci ha costretto a rinunciare all’edizione cartacea ed a puntare solo su quella on-line, è l’esistenza di una normativa che aiuta le piccole aziende editoriali rimborsando il cinquanta per cento di alcuni dei loro costi ma pone tali e tanti vincoli da rendere praticamente impossibile, a chi non abbia alle spalle ampi capitali e poteri forti, di raccogliere, con vendite e pubblicità, il restante cinquanta per cento capace di assicurare il pareggio di bilancio. Si dirà che un giornale di idee liberali non dovrebbe vivere di assistenza pubblica. Il ché è vero.

Ma è altrettanto vero che per farlo dovrebbe operare in un mercato di nicchia libero e non stravolto e condizionato da misure dirigiste che scambiano l’austerità dei conti con la progressiva riduzione del pluralismo. Se negli ultimi vent’anni i giornalisti de “L’Opinione delle libertà” si fossero legati ad un qualche carro politico od economico, uscire dalla logica dell’assistenza che uccide non sarebbe difficile. Ma il giornale, pur non cambiando la propria collocazione naturale nell’area delle libertà, ha sempre conservato una posizione autonoma ed indipendente.

Ed oggi, se vuole cercare di sopravvivere e di affrancarsi dal controproducente aiuto pubblico, non ha altra strada che rivolgersi ai propri lettori, a chi pensa che in democrazia il pluralismo delle idee vada tutelato, a chi può anche non condividere le nostre posizioni e battaglie ma crede che è meglio ascoltare più opinioni piuttosto che sentire solo quelle espresse dagli organi dei grandi interessi bancari, finanziari e industriali. Lanciamo, quindi, una sottoscrizione per “Salvare l’Opinione”. Chiediamo un contributo, di 10, 20, 50, 100 euro, a chi è interessato a farci sopravvivere. E proponiamo, a chi è interessato a partecipare all’avventura di continuare a dare vita ad un piccolo giornale autonomo ed indipendente, di entrare a far parte dell’associazione della “Comunità de L’Opinione” che partecipa in qualità di socio sovventore alla cooperativa “Amici de L’Opinione”, versando una quota d’iscrizione di 500 euro.

Il contributo può essere versato personalmente nella nostra sede di piazza dei Prati degli Strozzi 22 o attraverso bollettino postale sul c/c n. 44080323 intestato ad “Amici de l’Opinione soc. coop. giornalistica a r. l.”, oppure attraverso bonifico bancario sul conto corrente BancoPosta Iban: IT62R0760103200000044080323. La nostra speranza, ovviamente, è ottenere il consenso economico necessario alla sopravvivenza. Ma anche la spinta ad impedire che, all’inizio di una drammatica fase politica destinata a durare a lungo all’insegna dell’incertezza e delle tensioni, il pluralismo possa perdere una delle voci storiche dell’area delle libertà.