martedì 29 marzo 2011

Sfascismo di sinistra. Alessandro Sallusti

Dopo anni, per la precisione otto, di spasmodica attesa l’opposizione ha ottenuto ciò che voleva, cioè vedere Silvio Berlusconi varcare la porta di un tribunale, quasi che da questo dipendesse il futuro del Paese. È accaduto ieri a Milano, udienza preliminare del processo Mediatrade, una complicata storia di diritti televisivi tra l’Italia e l’America. Berlusconi è accusato di essere socio occulto di un mediatore, anche se i conti non tornano. Il premier infatti non si è mai occupato direttamente di questa pratica e comunque appare bizzarro che abbia pagato tangenti a se stesso, come sostiene l’accusa. Sta di fatto che così si incardina il venticinquesimo processo contro di lui, un record italiano e probabilmente mondiale che la dice lunga in quanto ad accanimento giudiziario.

Finita l’udienza, Berlusconi si è intrattenuto in strada con un gruppo di simpatizzanti. Saluti e qualche battuta, una sorta di «predellino due» sulla giustizia. Ciò è stato sufficiente per innescare la protesta del solito Di Pietro, che evidentemente vorrebbe regolare per legge anche le apparizioni pubbliche del primo ministro. A Fini è permesso fare campagna elettorale da presidente della Camera, al premier dovrebbe essere vietato salutare i suoi sostenitori.

La verità è che l’opposizione ormai sa soltanto fare sfascismo. Se Berlusconi non va ai processi è scandaloso, se ci va è scandaloso uguale. Dalla crisi libica al problema dei clandestini, tutto è usato in chiave di polemica, direi guerra, politica. Basta infangare, distruggere anche ciò che di buono e utile si riesce a fare. E non soltanto per quello che riguarda il Cavaliere. L’altra sera, sulla Rai, tv di Stato, la trasmissione Report è riuscita a toccare un nuovo picco di antitalianità, facendo passare Sergio Marchionne,amministratore delegato Fiat, per un furbetto in cattiva fede e anche un po’ incapace. L’uomo che ha salvato la Fiat, il manager che il mondo ci invidia e che ha la fiducia del presidente degli Stati Uniti è stato ridicolizzato perché abita in una lussuosa villa in Svizzera (dove ha la residenza da anni), perché ha comprato casa all’ex moglie facendo sistemare il giardino da personale italiano che costa meno di quello svizzero e perché paga le tasse in quel cantone.

La Gabanelli e soci evidentemente la sanno lunga su come gestire la prima industria italiana. Si sono avventurati in calcoli ed analisi, hanno cercato di contare i giorni che Marchionne passa in Italia, perché se fossero più di 183 si potrebbe configurare il reato di evasione fiscale. Insomma, Marchionne è avvisato. Come tutti quelli che in Italia vogliono cambiare per modernizzare il Paese (il caso Berlusconi insegna), sta finendo nel tritacarne mediatico. Gli auguriamo di scampare a quello giudiziario, anche se non escludiamo che qualche zelante pm voglia vederci chiaro sui giardinieri e sul numero di giorni che passa in Svizzera. A sinistra, quando si tratta di fare male all’Italia, sono specialisti. (il Giornale)

venerdì 25 marzo 2011

Nota per i lettori di "Blog per i circoli della libertà"

Più di duemila post pubblicati su "centrodestra" e più di seicento su "Blog per i circoli della libertà".
E' il frutto della passione di chi si occupa solo "amatorialmente" di politica e vuole trasmettere e rilanciare un messaggio di libertà, trasparenza, chiarificazione e informazione.
Da settembre 2005, quasi quotidianamente, scovo dal web gli articoli vicini alle mie idee ed al al mio modo di concepire la politica e li "posto" sui due blog che ho ideato nella speranza di essere utile a chi non ha tempo o voglia di cercare spiegazioni o conoscere fatti che caratterizzano la politica e la cronaca di tutti i giorni.
All'interno del blog c'è un motore di ricerca che trova, in base alle parole chiave, gli argomenti che interessano andando anche a ritroso di sei anni.
I commenti dei lettori non sono stati cancellati, tranne quei pochi che rasentavano la denuncia penale.
Spesso, non trovando editoriali consoni, ho scritto di persona commentando ed esprimendo giudizi su temi di carattere generale cercando, ove possibile, di usare la massima obiettività.
Spero di andare avanti ancora per degli anni confortato da lettori fedeli ed anche critici che con le loro visite hanno reso "centrodestra" un blog che si colloca tra i primi cento blog politici in Italia.
Grazie, alla prossima.

Master, corsi e bufale futuriste sulla Santanchè

Come sono intransigenti quelli del Futurista, senza peli sulla lingua, senza sconti per nessuno, con quel moralismo intriso di perbenismo, della serie ‘noi siamo i buoni tutti gli altri i cattivi’. Peraltro in buona compagnia, cioè coi mastini senza paura de Il Fatto. Fare le pulci, sempre e comunque, meglio però se si tratta di Berlusconi, del suo governo e di ogni singolo esponente del Pdl che ha la sola colpa di essere del Pdl. E vai con la Santanché. Della fedelissima del Cav. il quotidiano on line diretto dal finiano più finiano di Fini, Filippo Rossi, ha scritto con una punta di soddisfazione che no, quel corso – o master – alla Bocconi era una “bufala” e come tale non poteva stare nel curriculum del sottosegretario all’Attuazione del programma.

Quando ce vo ce vo, e giù con le sottolineature al fiele – “Daniela tacco 12, la sboccata Santanchè nazional-popolare, la vestale più grintosa di Silvio Re non è mai sembrata con una laurea in tasca e un master da vantare – con le frecciatine sulla sue “preziose abilità” o “l’inconsapevole e tenera comicità” che non le “sono servite a coprire la magagna. Alla segreteria dell’Università milanese non c’è traccia del master conseguito dalla pretoriana di Silvio. Una bufala, ecco. La Bocconi ha deciso di smentire le pubbliche velleità curriculari di Signora Santanchè, procurandole un dispiacere sincero, spontaneo come la sua esuberante verve linguistica”. La chiosa contiene la sentenza futurista su “nostra signora volgarità”, o ancora la “ninja del vaffa”, “invidiatissima samurai dell’offesa personale”.

Il tono è solenne, il giudizio definitivo: “L’ignoranza è questione più profonda di un master. Riguarda una certa nobiltà intellettuale. E su quella, Daniela, ha davvero poco da dichiarare”. L’invettiva dei finiani puri e duri, però, ha le gambe corte. Perché a confermare che sì, la Santanchè quel corso alla Bocconi l’ha frequentato è direttamente il prof che lo ha tenuto. Carlo Brugnoli dichiara che la signora Santanchè prese parte al Progetto Gemini per neo-imprenditori nel ’92-’93 e “ricevette l’attestato di frequenza”.

A chiudere il caso arriva anche la nota della prestigiosa università milanese che precisa e conferma la “frequenza del corso di formazione imprenditoriale in aula e su progetto della Sda Bocconi ‘Gemini’, Progetto Nuove Imprese”.  Il Futurista parla di master, qui invece si tratta di un corso; quanto basta per declassare già in partenza la nobiltà del progetto. Ma è lo stesso prof a spiegare che “i master oggi hanno requisiti diversi. Il progetto Gemini però era importante, visibile, impegnativo, ricevette i contributi del fondo sociale europeo e la Sda Bocconi lo organizzò per diversi anni. Era diviso in due parti, formazione in aula con moduli a tempo pieno e lavoro sul progetto”.

Basterà al Futurista per fare l’unica cosa possibile, se si è onesti intellettualmente e corretti fino in fondo ? Cosa? Semplicemente chiedere scusa per la vagonata di accuse e veleni lanciati in faccia alla Santanchè, per aver affondato il coltello su una questione fatta passare per scandalo e poi rivelatasi non vera. Una bufala, ecco. Ma questa volta tutta futurista. (l'Occidentale)

Un nuovo patriottismo. Ernesto Galli Della Loggia

L'anniversario dell'Unità ha messo in luce un cambiamento importante dell'Italia di questi anni: il patriottismo è diventato anche di sinistra (mi riferisco, com'è chiaro, a quella sinistra di ascendenza marxista da molto tempo maggioritaria nella sua area; non già all'altra, ultraminoritaria, di ascendenza repubblicana e democratica, che invece patriottica lo è sempre stata).

Naturalmente anche prima di oggi moltissimi italiani appartenenti alla sinistra suddetta hanno nutrito un forte sentimento della patria, e in moltissime occasioni lo hanno manifestato con le parole e coi fatti. Tuttavia mai prima d'ora il patriottismo era entrato nel bagaglio ideologico di tale sinistra, nel suo orizzonte emotivo e culturale. Addirittura per gran parte della Prima Repubblica quella sinistra, lo si ricorderà, di patrie non nascondeva di averne due (l'altra essendo, ahimé, l'Unione sovietica). Oggi, invece, le cose per fortuna appaiono (se non altro appaiono) ben diverse.

I motivi del cambiamento sono molti. Innanzi tutto il fatto che la tradizionale inquilina dello «spazio patriottico», e cioè la destra, intralciata politicamente dalla presenza della Lega, si è fatta stupidamente paralizzare dai suoi veti lasciando libero il campo che un tempo era tipicamente suo. Pur avendo i voti di tanti italiani che un reale e forte sentimento della patria lo hanno, eccome!, essa, tuttavia, non è riuscita a dare a tale sentimento dei suoi elettori alcuna efficace rappresentazione politica. È accaduto invece che, essendo la destra alleata politica di una forza così sguaiatamente «antitaliana» come per l'appunto la Lega, questo solo fatto abbia subito trasformato il patriottismo in un'arma efficace contro il governo e la maggioranza, e perciò assai appetibile da parte della sinistra. La quale così ha trovato anche un modo per riempire almeno in certa misura il vuoto prodotto nel suo bagaglio ideologico dalla fine del comunismo.

Si aggiunga un ultimo fatto decisivo. E cioè che da oltre una decina d'anni il patriottismo, insieme al culto della Costituzione, è ormai diventato l'ideologia ufficiale della presidenza della Repubblica. Ciò è accaduto in coincidenza con un andamento delle cose che ha fatto del presidente della Repubblica il vero dominus virtuale del sistema politico-istituzionale, determinando, di pari passo, anche una forte crescita simbolica della sua immagine. Si è trattato di un processo che, iniziato con Pertini, è divenuto - dopo i settennati molto divisivi di Cossiga e Scalfaro - sempre più pronunciato con la presidenza di Ciampi e di Napolitano. Il progressivo discredito della politica, la sua rissosità inconcludente, la sua perdita di orizzonte ideale, insieme alla pochezza del personale di governo hanno avuto il risultato di esaltare sempre di più, per contrasto, la figura politica sì, ma istituzionalmente super partes e circondata di un apparato cerimoniale intrinsecamente nobilitante, del capo dello Stato. In breve, questi è diventato l'unico protagonista della scena ufficiale capace (perché credibile) di un discorso pubblico «alto», il solo in grado di parlare al Paese del suo passato e del suo futuro. Facendo uso, naturalmente, di toni e contenuti patriottici: gli unici consentiti dalla specificità del pur grande potere presidenziale.

Ma sia Ciampi che Napolitano non venivano dal nulla. Venivano entrambi da un retroterra ideologico di sinistra, sia pure di due sinistre diverse. La loro biografia personale e il prestigio del loro ruolo hanno avuto dunque l'effetto ovvio di accelerare ancora di più la corsa al patriottismo di una sinistra orfana di tanti ismi ormai annientati dalla storia. (Corriere della Sera)

giovedì 24 marzo 2011

L'atomo fuggente

La moratoria sul nucleare decisa dal governo è un gesto di responsabilità. L’incidente di Fukushima cambierà, e in parte ha già cambiato, la percezione sociale di questa tecnologia. In più, è doveroso analizzare con calma – quando i fatti saranno chiari e le urgenze risolte – la vicenda giapponese, per imparare dagli errori. Le nuove centrali avrebbero tenuto botta a sisma e maremoto? I nostri protocolli di sicurezza sono adeguati? Sono domande a cui è impossibile rispondere sull’onda della paura, ma che nondimeno meritano attenzione. L’importante è che l’esecutivo sia trasparente sugli obiettivi, e cerchi – anche con l’accordo dell’opposizione – di disinnescare la bomba referendaria. Non c’è motivo di chiamare un voto ideologico e sanguinoso su un programma che, per ragioni esterne ed evidenti, deve essere quanto meno ripensato.

Perché la manovra sia efficace, il governo deve enfatizzare tre passaggi. Primo: la pausa di riflessione è una pausa (non una retromarcia) per riflettere, cioè per esaminare razionalmente l’accaduto. Secondo: nel frattempo, va costruito e rafforzato un presidio di competenze pubbliche, a partire dall’Agenzia di sicurezza, che diventi un interlocutore affidabile sia quando parleremo del deposito per le scorie (necessario a prescindere dalle future ambizioni energetiche), sia, a maggior ragione, se e quando si discuterà delle centrali. Terzo: l’Unione europea deve avere un ruolo primario, come avevano intuito i padri fondatori con il progetto dell’Euratom, poi arenatosi per i diversi egoismi nazionali.

La sicurezza delle centrali nucleari riguarda tutti gli europei: se non altro perché, nel caso di un incidente, comuni saranno le conseguenze e comune dovrà essere la reazione per mitigare i danni. Quindi servono più coordinamento e più poteri a Bruxelles. Ed è giusto che sia un paese come l’Italia a chiederlo, perché a differenza di altri non abbiamo altri interessi se non quello di sviluppare un sistema elettrico nazionale e comunitario efficiente e competitivo. La “pausa di riflessione” non deve essere l’espressione in politichese per “abbandono del nucleare”. Il tempo che ci prendiamo dobbiamo usarlo, non sprecarlo.

lunedì 21 marzo 2011

Guerra fra europei. Davide Giacalone

Siamo risucchiati in una guerra nel corso della quale, se ci va bene, riusciremo a salvare quel che abbiamo già. Non possiamo fare altro che combattere, ma avremmo dovuto costruire la politica estera per tempo, cosa sulla quale abbiamo fatto cilecca. Nel frattempo non vorrei che sfuggisse il dato più rilevante: nel deserto libico affonda l’Unione Europea, che espone la propria bancarotta politica. Non si tratta di non essere stati capaci di una posizione comune, ma del fatto che i Paesi che la compongono sono in guerra, economica e geopolitica, fra di loro. Insomma: i francesi puntano a fregarci. Non basta avere in tasca la stessa moneta per far finta di avere gli stessi interessi.

Ci sono sempre stati un milione di buoni motivi per cancellare Muammar Gheddafi dalla storia. Ma pensare di far credere che lo si fa fuori in nome della rivolta popolare e della democrazia in Libia è una di quelle scempiaggini che grida vendetta al cospetto del cielo. Se uno dei missili sparati, se una delle bombe sganciate non lo prenderà in pieno, se la sua morte non è questione di ore, non potendo continuare a far la guerra dall’alto e sostenere che la si conduce per proteggere quelli che stanno sotto, si dovrà imboccare la soluzione diplomatica, che, a quel punto, prevederà la divisione della Libia: in Tripolitania resta la famiglia del colonnello; in Cirenaica vanno al governo quelli che i francesi hanno già riconosciuto, e di cui noi sappiamo poco e nulla; mentre nel Fezzan resta la sabbia e le tribù. Il che significa: dalla Tripolitania non becchiamo più nulla, piuttosto vendono tutto ai cinesi; dalla Cirenaica smezziamo con gli altri vincitori, vedendo crescere i francesi, consolidarsi gli inglesi e dimagrire gli italiani; dal Fezzan proviamo a prendere i datteri.

Nicolas Sarkozy s’è buttato a fare il promotore di questa guerra perché non poteva capitargli di meglio. I francesi hanno combinato disastri, sulle coste mediterranee dell’Africa, e si sono intrattenuti in affari con le peggiori dittature del continente. Storie di ordinario cinismo e post colonialismo. Solo che ora buttava al brutto, visto che le rivolte facevano fuori gli amici e gli americani s’imparentavano con i nuovi governanti. Gli inglesi avevano pasticciato alla grande, prima umiliandosi con Gheddafi, in cambio di piattaforme petrolifere, poi facendo beccare i propri agenti intenti ad alimentare la rivolta contro di lui. Per i francesi è stata l’occasione di aprire un fronte sul quale non hanno da perdere.

Gli americani hanno temporeggiato troppo a lungo, con il Pentagono fermamente contrario ad ogni intervento. Poi Gheddafi è riuscito a dir quello che ha messo la Casa Bianca con le spalle al muro: appena arriveremo a Bassora massacreremo gli oppositori. Ciò nonostante, le parole di Barak Obama sono chiare: parte un’operazione “limitata”, di cui noi statunitensi non abbiamo la guida. Chiaro, mi pare.

In tutto questo noi italiani avremmo dovuto chiarire che i casi erano due: o si percorrono solo vie diplomatiche, fissando la non ingerenza militare, oppure, se si passa alle maniere forti, siamo noi, i più esposti, quelli che hanno più affari e investimenti in corso, che abbiamo il diritto di sparare il primo colpo e di trattare la lista dei bersagli. Fra l’altro: in Libia ci sono molti italiani. Invece siamo riusciti a pasticciare, prima apparendo come gli ultimi amici di Gheddafi, poi schierandoci per la guerra, poi guardandola con il naso all’insù e arrivando anche, per bocca del ministro della difesa, a sostenere che gli aerei italiani ancora non volano, ma lo faranno presto. Cos’è, il festival dell’incapace?

Quella cui assistiamo è la guerra fra gli interessi diversi dei Paesi europei, condotta sul terreno libico. I tedeschi si chiamano fuori, perché intuiscono che potrebbe divenire una guerra lunga, ingestibile e, soprattutto, non sono loro a guadagnarci o rimetterci. Noi, invece, siamo risucchiati, in gran parte come corpo isolato e inerte.

E veniamo alle nostre cose interne. Questa è una guerra, condotta in area di rilevanti interessi economici e nel mentre la popolazione civile di altri Paesi viene massacrata con ben maggiore intensità. Chi scrive è stato favorevole alla guerra in Iraq, a quella nel Kossovo e a quella in Afghanistan, senza ipocrisie buoniste, ma per vitali interessi dell’occidente. Nessuna di quelle guerre mi pose un problema di regolarità costituzionale.
Questa mi impone molti dubbi in più, anche perché ho visto sparire il fronte pacifista, assorbito dalla posizione del Presidente della Repubblica.

Avevo sperato che Gheddafi fosse eliminato già nel 1986, per mano degli americani, allora guidati da Ronald Regan. Ma la politica estera non è una faccenda per questioni personali. Ballano gli interessi dell’Italia. E ballano male, in questo momento.

mercoledì 16 marzo 2011

L'ossessione di Travaglio si chiama Ferrara. Filippo Facci

Ma che gli ha fatto Ferrara a Travaglio? Perché l'accorato giornalista torinese, al solito così equilibrato e benevolo, si mette a smadonnare ogni volta che Ferrara torna alla ribalta? Eppure i due hanno moltissimo in comune: ecco, forse la più classica delle spiegazioni potrebbe essere questa.  Entrambi, a pensarci, possono vantare la stessa autorevolezza e la stessa considerazione presso gli opinion maker e la classe dirigente: sono entrambi molto ascoltati per la loro cultura e la loro morigeratezza, la loro influenza e il loro prestigio sono assolutamente paragonabili. Entrambi, di conseguenza, possono vantare un pubblico egualmente raffinato e istruito, la crema del Paese, la parte che conta: mai andrebbero a titillare il bassoventre dell’Italia arruffona e neo-qualunquista, mai si presterebbero alla demagogia da strapazzo di certi cabarettisti col verbalino in mano, gente - roba da pazzi - che sfotte l’avversario per i suoi difetti fisici.
Entrambi hanno degli importanti trascorsi a Torino (entrambi amici di Giancarlo Caselli, in periodi diversi) ed entrambi, a modo loro, hanno complementari problemi di peso. Ma ad accomunarli è soprattutto l'amore per le cause perse: Ferrara è un ex comunista che ha sostenuto Craxi anche nella disgrazia, Travaglio, per recuperare, è passato dal «Giornale» alla «Voce»: e la «Voce» ha chiuso; è passato al «Borghese»: e il «Borghese» ha chiuso; è andato da Luttazzi: gli hanno chiuso il programma; ha promosso Raiot della Guzzanti: non è mai andata in onda, e lo stesso vale per i programmi di Oliviero Beha e Massimo Fini; ha sostenuto Santoro, e subito dopo Santoro è mancato dalla tv per un il periodo più lungo della sua vita; ha sostenuto la candidatura di Caselli all’Antimafia e hanno fatto una legge apposta per non farcelo andare; ha sostenuto il pm Woodcock e plof; ha sostenuto la Forleo e De Magistris: una tragedia; ora tremano Beppe Grillo e Di Pietro (già in discesa nei sondaggi) mentre Antonio Padellaro è stato avvistato a Medjugorie. Insomma, non è chiaro che cosa divida Travaglio da Ferrara: eppure, non appena Giuliano si riaffaccia alle cronache, Marco perde ciclicamente la sua nota moderazione.
In passato gli aveva dato di «donna cannone» e «donna barbuta» e «Platinette barbuto», oltre a dargli di menagramo, di perdente e di stupido. Ieri è risuccesso: «pallone pallista», «lo pagano a peso», roba così. Ora: fuor di ironia (i seguaci di Travaglio potrebbero non capirla), quando uno scrive il milionesimo articolo contro la stessa persona, beh, qualcosa vorrà anche dire. Quando uno per svilire il nemico giunge a negare anche le evidenze più condivise (Travaglio scriverebbe persino che Ferrara è anoressico, se gli servisse) viene il sospetto che il dente non sia dolente a caso. Lo sanno tutti che Ferrara è autorevole e ascoltato, che il suo giornale è influente e non misurabile a copie vendute: ma Travaglio ieri ha scritto che «Il Foglio non lo compra nessuno». Lo sanno tutti che Ferrara è berlusconiano ma indipendente, se ne fotte, non le manda a dire: ma Travaglio ha scritto che non è indipendente e che «quando proprio ha un attacco di temerarietà, scrive che Berlusconi ha sbagliato cravatta».
Lo ricordano tutti che l’Otto e mezzo di Ferrara, su La7, era una tribuna prestigiosa e importante: ma Travaglio ha scritto che «non lo guardava nessuno». Ecco: viene il sospetto che la nostra vedova montanelliana, per quanto sia un giornalista di indubbio successo, non perdoni a Ferrara di avere senza fatica tutto quello che lui - Travaglio - non ha.  Perché Ferrara, appunto, è autorevole e ascoltato: Travaglio è tanto se lo ascolta Grillo. Ferrara ha un pubblico di un certo spessore: quello di Travaglio parla coi verbi all’infinito, e compra i grossi tomi di Marcolino anche perché sono utili a spaccare vetrine. Ferrara si assenta, non va in tv, è di una pigrizia storica e ogni tanto riottiene tutto senza far niente: Travaglio s’ammazza a scrivere e presentare libri, fa spettacoli teatrali, dvd, girotondi, kermesse satiriche, comizi di Grillo, convegni vari, centocinquanta articoli al giorno pagati a insulto, è sempre in tv o su internet. E però intanto, a Ferrara, hanno offerto lo spazio che fu di Enzo Biagi. Brutto ciccione schifoso. (Libero)

La paura e la ragione. Angelo Panebianco

Non sappiamo ancora se i giapponesi riusciranno a impedire la fusione del reattore di Fukushima salvando il loro Paese da un disastro che sarebbe incomparabilmente maggiore di quello provocato dal terremoto e dallo tsunami. Tutti però abbiamo almeno potuto constatare un fatto: il contrasto fra l'ammirevole compostezza del popolo giapponese così duramente colpito e le assai meno composte reazioni occidentali. «Il paradosso del progresso materiale e tecnologico - ha scritto il Wall Street Journal in uno dei migliori commenti che si siano letti sulla vicenda - è che noi sembriamo diventare tanto più avversi al rischio quanto più il progresso ci rende maggiormente sicuri». Per un verso, è proprio grazie agli sviluppi tecnico-scientifici che abbiamo raggiunto eccezionali livelli di benessere e anche (proprio così) di sicurezza: fingiamo per lo più di non saperlo ma la vita quotidiana nelle società pre-moderne era infinitamente più insicura, brutale e breve, di quanto non sia oggi nelle società industriali. Per un altro verso, raggiunti tali livelli di benessere e di sicurezza sembriamo voler rifiutare anche i rischi che pure sono intrinseci allo sviluppo tecnico-scientifico.

È giusto interrogarsi sull'atomo e sui suoi pericoli, pretendere che si faccia tesoro delle esperienze dolorose e che si correggano gli eventuali errori, che i controlli siano esigenti, che la ricerca e le applicazioni della tecnologia della sicurezza siano sempre meglio sviluppate. Ma è anche necessario non smarrire il filo della razionalità. Senza rischi e assunzione di rischi non ci sarebbe mai stato alcun progresso tecnico-scientifico: quel progresso grazie al quale, nelle moderne società industriali, ad esempio, è crollata la mortalità infantile e gli uomini vivono assai più a lungo di un tempo. Non c'è dinamismo sociale possibile che non porti con sé pericoli.
Perché non è possibile rinunciare all'atomo? Perché, anche se non potremo liberarci ancora per lungo tempo dalla dipendenza dal petrolio, è vitale diversificare le fonti di energia e quella atomica resta, dopo petrolio e gas, la più importante.

Si noti che, nonostante l'aggravamento che ha fatto registrare nelle ultime ore la situazione nella centrale di Fukushima e l'allarme delle opinioni pubbliche, i governi dei Paesi occidentali che dispongono di centrali si sono impegnati, con vari accenti, ad innalzare i livelli di sicurezza, non certo a sbarazzarsi della energia nucleare. L'atomo comporta rischi? Certamente, ma si può agire, e si agisce in tutto il mondo per ridurli. D'altra parte, la controprova è data proprio dal Giappone: la schiacciante maggioranza delle centrali giapponesi ha resistito benissimo sotto l'impatto di un terremoto di violenza devastante.

Ci si potrebbe addirittura spingere a sostenere che la dipendenza dal petrolio (a parte i pesantissimi costi economici che impone a chi non lo possiede) comporti pericoli maggiori delle centrali, ossia dell'uso pacifico dell'energia nucleare. Dipendere, per i rifornimenti energetici, da aree ad altissima instabilità politica è infatti causa di rischi immensi. Immaginiamo che una nuova guerra scoppi prima o poi in Medio Oriente e che, come tanti paventano, vi vengano impiegate armi nucleari. Il petrolio mediorientale diventerebbe improvvisamente indisponibile. Che accadrebbe allora a tutti noi? Discutere i pro e i contro dell'atomo va benissimo. Ciò che non va è l'irrazionalità di chi, pretendendo l'impossibile, ossia eliminare il rischio, rinuncia semplicemente a vivere. (Corriere della Sera)

giovedì 10 marzo 2011

Per un liberale (ma non solo) le quote rosa sono "una boiata pazzesca". Antonio Mambrino

Passata la festa è arrivato anche il regalo. Oggi la Commissione finanze è riuscita a ricomporre il conflitto tra il Governo ed i parlamentari di maggioranza e di minoranza in merito all’approvanda disciplina legislativa che renderà obbligatoria la presenza di una quota di donne pari ad almeno il 30% nei consigli di amministrazione delle società italiane quotate (pubbliche o private che siano).

E così dopo l’indigestione di retorica politicamente corretta che dobbiamo puntualmente sorbirci ogni 8 marzo che il buon Dio manda sulla terra, dobbiamo anche fronteggiare l’entusiasmo unanime verso un provvedimento che aprirà anche il nostro Paese alle sorti magnifiche e progressive della parità sessista. E non si trova nessuno che abbia il coraggio di dire, o quantomeno di avanzare il dubbio, che quella approvata ieri in Commissione – come la corazzata Potёmkin – è una boiata pazzesca.

L’idea che per raggiungere una piena ed effettiva parità di genere sia di una qualche utilità introdurre quote di riserva in favore del (ex) sesso debole è il riflesso di quella cultura dirigistica, costruttivistica e statalista che opprime l’Italia e non solo l’Italia (visto che discipline del genere sono presenti anche in altri stati europei). Non siamo stati mai femministi in senso stretto, ma solo perché, per un liberale, la parità fra uomini e donne è un valore quasi scontato perché insito nel nostro codice genetico come conseguenza automatica del valore della libertà della persona. Nella nostra prospettiva il dovere dello Stato è puramente e semplicemente quello di rimuovere gli ostacoli normativi che (come accadeva fino a non molto tempo fa) impediscono alle donne di svolgere liberamente la propria personalità all’interno della vita sociale, politica, economica e culturale del Paese. L’introduzione di artificiose quote di riserva, oltre ad essere umiliante per le donne stesse, non fa fare un millimetro di progresso al percorso necessario per raggiungere una vera parità di genere, ed anzi lede gravemente i diritti di libertà di alcuni fra noi.

L’introduzione di quote rosa ci sembra sbagliata in via generale. Ci sembra la negazione della cultura del merito e della responsabilità individuale. Ma la cosa, se potrebbe essere tollerabile se riferita al funzionamento delle istituzioni politiche (es. formazione delle liste elettorali) o delle organizzazioni amministrative (es. riserva posti dirigenziali o posti a concorso), diventa addirittura incomprensibile se riferita al funzionamento di imprese private nella cui gestione lo Stato non dovrebbe intromettersi affatto. Il prezzo della brillante riforma decisa dal Senato sarà infatti sopportato dagli azionisti di quelle imprese i quali non saranno più liberi di scegliere a chi farla amministrare e potrebbero veder diminuito il rendimento del loro investimento.

Il fatto che dal 2012 le società quotate debbano avere nei propri CDA un numero minimo di donne si tradurrà in concreto, con ogni probabilità, nella proliferazione di mogli, fidanzate, amanti consiglieri di amministrazione. Con ciò saremo riusciti nella brillante operazione di indebolire la qualità della gestione delle imprese e al contempo consolidare l’idea di una donna la cui affermazione sociale dipende dalla generosità del maschio cui si accompagna. Nei salotti buoni della finanza sarà d’obbligo per ciascun maschio, che voglia ritenersi veramente affermato, poter esibire la propria consigliera d’amministrazione di fiducia un po’ come si portano in società gli animali di compagnia. Saremo anche riusciti ad indebolire ulteriormente l’autonomia delle donne (se va in crisi la relazione affettiva perdo non solo il marito o l’amante ma anche il lavoro!). Senza considerare poi che del beneficio di cui potranno godere alcune centinaia di donne “fortunate”, i milioni di donne che quotidianamente affrontano gli ostacoli della vita quotidiana, non sapranno proprio che farsene.

Il fatto è che come la rivoluzione anche la parità di genere non è un pranzo di gala. La parità non è oggetto di gentile concessione ma non può che essere il frutto di una dura conquista, di un lungo e faticoso lavoro. Un lavoro innanzitutto culturale. La verità è che se oggi, rimossi gli ostacoli normativi (dal diritto elettorale all’accesso alla magistratura, dall’ammissione all’esercito alla disciplina della maternità delle lavoratrici, dal divorzio all’aborto), la parità non è ancora pienamente realizzata la causa è essenzialmente nella cultura diffusa del Paese. Cultura diffusa soprattutto nelle donne, la quali crescono respirando ed assimilando un sistema di valori secondo il quale l’affermazione lavorativa, l’arricchimento, l’ambizione professionale non rientrano fra i valori prioritari dell’esistenza  femminile. Naturalmente ci sono molte donne ambiziose, desiderose di affermarsi sul lavoro e di arricchirsi, ma sarebbe molto ipocrita negare che, soprattutto in alcune aree del Paese, queste sono una minoranza. Una minoranza guardata per di più con sospetto dalle altre donne. E’ forse un caso che oggi in Italia il 78% degli insegnati, ovvero di coloro che esercitano un lavoro sottopagato che ha perso il proprio prestigio sociale e che viene ritenuto più conciliabile con i tempi della famiglia, sia donna? Questo dato è il frutto di un complotto maschilista o deriva dal fatto che molte ragazze, dopo l’università, si indirizzano spontaneamente verso questo tipo di lavoro?

Ma se tutto ciò è vero, allora è chiaro che le quote rosa non servono. Se il problema è culturale, è necessario da un lato dare il tempo ai processi di evoluzione culturale di compiersi dall’altro lo Stato deve impegnarsi per rimuovere, dopo gli ostacoli di tipo normativo, anche quelli di carattere amministrativo. Ci sarebbe molto piaciuto ad esempio vedere un corteo dell’8 marzo nel quale, invece delle retoriche e mielose rivendicazioni sulla dignità della donna offesa dal vituperato Silvio Berlusconi, si fosse gridato richiedendo a gran voce un piano straordinario di asili nido che agevoli le giovani donne madri ad entrare nel mercato del lavoro ed a restarci anche dopo aver partorito.

Sul piano strettamente culturale poi sarebbe essenziale dimettere quelle posizioni velleitarie di chi, aborrendo il rischio di un’omologazione all’odiato maschio, rivendica la razionalità femminile come portatrice di valori altri e superiori. Le differenze psicologiche fra uomini e donne sono reali, benefiche e da rispettare. Ma cionondimeno il desiderio di profitto, di soldi, di potere e di successo non sono profili esclusivi della psicologia maschile ma sono tratti propri di ogni organizzazione collettiva che in un sistema democratico e di mercato, se opportunamente regolati, sono altamente benefici per la società. Non esiste la politica rosa, come non esiste l’economia rosa. La politica e l’economia potranno essere buone o cattive ma lo saranno non perché a guidarle saranno uomini o donne. Le regole di funzionamento delle nostre organizzazioni sociali rispondono ad una logica che è del tutto indipendente dal sesso di chi vi partecipa. Mentre però gli uomini hanno pienamente assimilato tale logica perché guidano tali processi da oltre duemila anni, le donne che si sono affacciate alla ribalta solo negli ultimi cento anni devono ancora farlo. Ma, solo quando vedremo ogni giorno donne sporcarsi le mani con il lavoro sporco della società, tradizionalmente svolto dagli uomini, potremo ritenere che la parità di genere sia davvero diventata realtà.

P.S. Un’ultima notazione. La Commissione finanze del Senato ha licenziato il testo all’unanimità ed anche il Governo che aveva avuto un timido sussulto di dignità (dilazionare l’introduzione delle quote in più anni) ha dovuto piegare la testa. Il che conferma che le leggi approvate a larga maggioranza sono spesso le peggiori. (Per fortuna oggi sono assai poche!) (l'Occidentale)

mercoledì 2 marzo 2011

Giustizia: parliamone... Vincenzo Basso

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Diciotto mesi di reclusione che diventano dodici grazie al rito abbreviato è quello che mi stato “appioppato” dal Tribunale di Brescia lo scorso 25 febbraio per aver scritto sulla mia bacheca Facebook una frase contro il giudice Mesiano che loro hanno ritenuto istigasse alla violenza. Diciotto mesi, un privilegio che in Italia i magistrati riservano a pochi “fortunati” ma non a chi tira in faccia una statuetta al presidente del Consiglio (anzi, a Tartaglia loro hanno fatto i complimenti facendolo passare per pazzo) o a chi tira un petardo in faccia al leader della Cisl (guarda caso la figlia di un giudice): loro nemmeno indagati mentre a me per una frase su uno spazio privato hanno fatto sette mesi di indagini, ascoltato i miei amici, colleghi e persino la commessa del negozio che mi ha venduto la SIM con la quale mi connetto tutt'ora a Internet. Hanno chiesto rogatorie internazionali a Palo Alto, aperto archivi informatici e documentato tutto il mio traffico internet ma, evidentemente erano troppo affaccendati al tal punto che si sono dimenticati di mettermi al corrente o di ascoltarmi (privilegio che hanno dato a Mezzadri, coordinatore Pd di Vignola che sulla sua pagina Fb diceva di voler uccidere Berlusconi: lui è stato archiviato dopo tre giorni). Sono venuto a conoscenza ufficialmente lo scorso 7 giugno quando mi notificarono l'avviso di garanzia (ufficiosamente lo ero da ottobre 2009 quando sulla Prealpina uscirono le mie iniziali e la frase incriminata), poi dopo meno di due mesi mi è stato notificata per il 24 febbraio 2011 l'inizio del processo. E dire che sotto il tribunale di Brescia non ho visto i Popoli viola, le agende rosse e i rappresentati dell'Ordine dei giornalisti con i bavagli e le manette, cosa che hanno fatto in altre circostanze per una denuncia. In Liguria l'OdG si sarebbe offerto di pagare la consulenza legale al blogger che diceva di voler ammazzare Berlusconi, in Lombardia tutti tacciono nonostante siano stati avvisati all'indomani della sentenza. E dire che il famoso emendamento D'Alia e il DDL Lauro la magistratura ha sempre detto che non lo voleva perché minava la libertà d'espressione: evidentemente voler ammazzare Berlusconi è libertà d'espressione e di pensiero, scrivere male di un giudice è istigazione alla violenza. E poi la domanda è: chi avrei istigato? Forse i 190 amici ultrasessantenni che ho su Facebook? (Legno storto)

martedì 1 marzo 2011

La scuola e il nervo scoperto della sinistra. Nicolò Vergata

Bersani ha voglia di dichiararsi “schiaffeggiato”, ma la sua è la tipica reazione di chi è stato toccato nel nervo scoperto: infatti, sul degrado della scuola pubblica la sinistra ha enormi responsabilità. A partire dai moti studenteschi del’68, sobillati allo scopo di sostituire, in nome di una malintesa democraticità, alla tradizionale serietà degli studi e obiettività nelle valutazioni, un presunto diritto equalitario tra capaci e incapaci, tra bravi e lavativi, tra disciplinati e facinorosi. Tutti eguali di fronte ad un 6 o un 18 politico garantiti, in ossequio alla ideologia comunista. Nessun bocciato, perché la colpa rimbalzerebbe all’insegnante.
Il solito sistema per ingraziarsi il consenso dei giovani e poi strumentalizzarli.
Il rifiuto di qualsiasi forma di autorità, la libertà di marinare la scuola per rispondere ai frequenti inviti dei sindacati monopolizzatori della formazione giovanile a manifestare, su comando, in piazza contro chi non fosse gradito alla sinistra non era, per i sessantottini, una facoltà ma un obbligo sia per gli studenti che per gli insegnanti pena, per i primi, il ludibrio o la bocciatura e, per i secondi, il blocco della carriera, quando non la defenestrazione.
Si introdusse il “tu” dei discenti verso gli insegnanti, quasi che l’autorevolezza di questi fosse una qualità negativa dareprimere; abolito il dovere degli studenti di tenere in classe un comportamento confacente con la dignità dello studio e rispettoso verso i docenti, con conseguente trasformazione delle aule in veri e propri locali da sballo; si introdusse il principio secondo cui “lo studente ha sempre ragione” e se non studia, non rende, non è intelligente è sempre colpa iuris et de iure della incapacità degli insegnanti.
Questi ultimi, peraltro, sia che fossero della vecchia guardia sia che avessero vinto il concorso per suprema selezione sindacale o assunti con precariato clientelare, non avevano comunque, per le suddette ragioni, più alcun interesse ad esprimere valutazioni obiettive, per cui le promozioni divennero a gò gò.
Ma è nel merito che la sinistra ha compiuto i misfatti maggiori: come da tradizione totalitaria, la formazione dei giovani è stata sempre uno dei pilastri per l’affermazione e il consolidamento delle ideologie.
Ed ecco che ogni testo scolastico approvato dal collegio degli insegnanti, doveva rispondere ai rigidi canoni del minculpop. Gli Editori non di sinistra, per campare, dovevano adeguare i libri a queste inderogabili regole e così, soprattutto in materia di storia, si assisteva ad un totale travisamento della realtà : la seconda guerra mondiale fu vinta dai partigiani. Degli angloamericani nessuna traccia; i partigiani ? Eroi e patrioti. Nulla si dice che i più erano comunisti intenzionati a consegnare l’Italia a Tito e al blocco sovietico e che gli andò male per intervento degli alleati. E poi lo spettro del fascismo, senza alcun cenno alle “purghe” di Stalin e ai milioni di concittadini russi fatti ammazzare. Le Foibe? Alcun cenno e se proprio si legge ora qualcosa è che esse furono legittima reazione agli italiani invasori e cattivi. Non che fu vera e propria pulizia etnica. I centri sociali contribuivano al consolidamento del plagio collettivo. Ci fu anche chi scrisse un
voluminoso libro con tutte le falsità storiche dei testi di sinistra nelle scuole.
Ho parlato usando l’imperfetto, ma questa è ancora la situazione attuale.
Per farla breve, la riforma Gelmini si è dovuta scontrare con la realtà di una scuola pubblica fagocitata nel suo organico docente e deturpata dal plagio dei giovani studenti. Quindi, da molto tempo malata di ideologia e pervasa da una cultura monolitica di sinistra.
Ne sono riprova i recenti moti di reazione ad una giusta riforma diretta a reintrodurre i perduti valori formativi. Abbiamo, infatti, assistito a manifestazioni di studenti, in buona o cattiva fede ma palesemente indotti da una falsa rappresentazione del provvedimento, tanto da rivolgersi contro i propri interessi e in favore delle baronie, dei clientelismi e di quanto di più nefasto è stato introdotto negli ultimi cinquant’anni da una cultura ideologica e politicizzata.
Ulteriore prova è data dalla “indignazione” degli insegnanti alle parole del premier, con la quale si contesta l’ideologicizzazione della categoria, laddove la moltitudine di docenti e presidi presenti alle manifestazioni indette dalla sinistra contro la Riforma Gelmini attesta proprio il contrario.
Detto questo, può essere vero che le affermazioni di Berlusconi circa la valorizzazione della scuola privata, che è quasi tutta in mano alla Chiesa, risponda ad una esigenza politica e diplomatica di attenuare gli attacchi politici che i cardinali Bagnasco e Bertone, sia personalmente che attraverso la stampa vaticana, gli rivolgono quotidianamente, ma questa posizione è comunque quella da sempre sostenuta dal Presidente del Consiglio ed è la più banalmente razionale e fondatamente legittima.
Questo anche se Bagnasco ha immediatamente risposto con parole a sostegno della scuola pubblica, comprensibili solo se si tenga presente quanto sia grande l’interesse del Vaticano alla caduta del governo Berlusconi che impedisce la formazione di un Centro veterodemocristiano dominante e gestito da Casini.
In ogni caso, è la Costituzione che garantisce la pluralità delle scuole (art.33, comma 3°), per cui ci troviamo di fronte ad una contraddizione che non consente equivoci.
Chi si lamenta oggi delle affermazioni di Berlusconi, non può essere che la sinistra preoccupata di perdere il monopolio della formazione supportata da quegli studenti che non hanno voglia o capacità di studio, cui tuttora è garantita la promozione facile.
La sinistra teme, altresì che , oltre alla riforma Gelmini, oltre quella da venire sulla Giustizia e gli interventi sul taglio dei finanziamenti per cinema e teatri, produttori di cultura partigiana e diffamatori dell’Italia all’estero, si demoliscano uno per uno i pilastri su cui si regge il comunismo nostrano.
Ma, al di là di ogni considerazione, rimane e rimarrà ancora per molto tempo, una falsa possibilità di opzione : da un lato una scuola pubblica ideologicizzata e politicizzata, dall’altro una scuola confessionale.
Mentre si preannunziano le solite manifestazioni di piazza contro le parole di Berlusconi, io rimango ad accarezzare il mio vecchio sogno di una scuola laica e indipendente, col solo sostegno economico dello Stato, dove si possa studiare seriamente senza alcun indottrinamento da una parte o dall’altra e con l’unico fine di preparare i giovani sia dal punto di vista professionale, sia da quello della educazione civica e del rispetto dei valori fondamentali.
Solo così potremo competere con tutti gli altri Stati occidentali, dove l’assenza di ogni ingerenza politica o spirituale è garanzia di serietà e di professionalità. (Legno storto)