sabato 30 ottobre 2010

Vendolismo e qualunquismo. Giovanni Petrosillo

La sinistra, dopo anni di epica ricerca, ha forse trovato il suo grande condottiero. Poiché essa vive di parole la scelta non poteva che ricadere sul re delle iperboli verbali, sul sovrano degli aggettivi, sul presidente degli avverbi, sul gran maestro delle circonlocuzioni, sul signore delle metafore, sul monarca delle perifrasi, sul principe degli eufemismi nonché sull’acerrimo nemico dell’epitome, dell’ellissi e della concisione. Non che quest’ultime proprietà siano sempre positive, dipende dai temi e dal contesto, ma trattandosi di questa politica stracciona è come accendere una candela col lanciafiamme. Ma “Lui” intanto non conosce moderazione né limitazione. Il suo trono è la retorica, il suo scettro la demagogia, il suo abito regale la prolissità. Costui, in realtà, non parla ma decanta, non dichiara ma narra, non descrive ma favoleggia, il suo genere è epopeico, la sua mistica è letteraria, la sua fede è mitologica.


Per chi non lo avesse ancora capito stiamo parlando del Governatore della Puglia Nicola Vendola, detto “Nichi” dagli amici vezzeggiatori ma anche dagli avversari diffamatori e sessualmente corretti. La descrizione più aderente del probabile candidato Premier del PD, nella prossima era che si annuncia post-berlusconiana, l’ha fornita Vittorio Macioce su Il Giornale ed è forse il caso di riprenderne qui alcuni tratti salienti. Come sostiene il citato giornalista il Vendolismo, aggiungo io malattia patetica del leaderismo, è “… questo mix di retorica, nostal­gia, fede, popolo della Fiom, cattolicesimo, comunismo, ecologismo, glocalismo no global, zapaterismo molto più intelligente, berlusconi­smo antiberlusconiano, me­ridionalismo cinematografi­co, monachesimo laico, Sud Sound System, tammurriata nera, una spruzzata di obami­smo e il vecchio caro hard co­re marxista e la fede atavica sulla fine del capitalismo…Vendola è un romanzo, un’autobiografia, una parabola…un predicatore, un venditore di vangeli”.

Ma il vendolismo, attenti a non confondere piani e proiezioni, è più propriamente una sublimazione del berlusconismo e non la sua antitesi irriducibile. Vendola è un Berlusconi in salsa rosa, un arcorese di Terlizzi, un brianzolo del tavoliere, un pubblicitario senza doppiopetto, un venditore porta a porta di utopie, un mercante levantino senza capitali in Svizzera. Uno che passa da Marx alla Madonna con la stessa nonchalance con la quale il suo precursore vivente salta da una escort ad una subrettina. A ciascuno il suo modo di procurasi piacere. L’unica vera differenza tra i due sta nel fatto che il primo parla al cuore ed il secondo alla pancia. Questione di platee e di appartenenze. Ed è qui che Vendola si distanzia da Berlusconi più per necessità che per volontà. Le Platee di destra preferiscono ascoltare i rumori ventrali, quelle della sinistra i palpiti cardiaci. Sia in un caso che nell’altro il cervello non prende posizione e si rintana nel sonno della ragione.

Questo è solo l’ennesimo salto dequalificante che farà la politica nostrana nel prossimo futuro mentre intorno tutto continuerà ad andare inesorabilmente a rotoli. Sicuramente domani sarà anche peggio di oggi sia perchè il pugliese si metterà alla testa di forze di governo ancor più reazionarie ed antinazionali di quelle attuali, sia perché quando gli imbonitori occupano interamente la scena sociale significa che la ciccia è già finita e non restano che le ossa da spolpare. Soprattutto quelle dei poveri cristi e dei creduloni i quali sono sempre i primi a cadere nella trappola dei sogni predisposta dai dritti che parlano all’anima e alla coscienza per fottere loro le poche briciole rimaste. Il vendolismo, degenerazione intellettualoide del berlusconismo, sarà l’ultima parabola discendente di uno Stato in panne e politicamente a terra. (Ariannaeditrice.it)

Somma e totale. Davide Giacalone

A regolare l’equilibrio fra economia e politica ci sono, oggi, due addizioni. Per comprendere la ritrovata sintonia fra il ministero dell’Economia e la Banca d’Italia, come la convergenza con la mini riforma dei trattati europei, occorre valutare quelle due operazioni aritmetiche. Si potrebbe dire, con il principe de Curtis: è la somma che fa il totale.

La prima addizione riguarda gli addendi della disoccupazione. La percentuale d’italiani che cercano lavoro e non lo trovano è dell’8,5. Un risultato che il governo sbandiera come positivo, visto che è al di sotto della media europea. La Banca d’Italia, però ha messo in fila altri addendi, spiegando che questa è la condotta seguita in Europa: i disoccupati, più i cassintegrati, più gli scoraggiati. Quindi non solo chi cerca lavoro e non lo trova, ma anche chi aveva un lavoro e oggi riceve un sussidio per non lavorare, cui si aggiungono quanti neanche lo cercano più, avendo perso la speranza. E si arriva all’11%. Come la Francia, meno del Regno Unito, più della Germania, ma addio al risultato inferiore alla media eruopea. Il governo reagì bruscamente, definendo “ansiogeni” quei dati. Noi criticammo la reazione, perché non ha molto senso prendersela con i numeri. Semmai è nella composizione della somma che si deve cercare la via d’uscita. E’ vero, infatti, che gli ammortizzatori sociali hanno funzionato, ma è anche vero che non possiamo permetterci di ballarci sopra ancora a lungo senza scassarli, o senza farne ricadere il costo sulla fiscalità generale (e da qui si va alla seconda addizione, ci arrivo).

Il barometro segnava burrasca, nei rapporti fra governo e Banca d’Italia. Ma somigliava alla tempesta in un bicchier d’acqua. E lo scrivemmo. Ora Giulio Tremonti ha rimesso le cose in ordine: quella somma è del tutto legittima, piuttosto si dovranno considerare anche altri elementi, come i posti di lavoro che l’artigianato offre e nessuno copre. Si dovrà mettere nel conto anche il lavoro nero, aggiungo. Ma più si vuol allungare la lista degli addendi più cresce l’elenco delle riforme strutturali da farsi, da quella dell’istruzione a quella fiscale. E questo è un tema politico, non contabile.

La pace fra governo e Banca d’Italia ha sullo sfondo l’appuntamento europeo per la verifica dei conti nazionali. Scadenza delicata e rilevantissima, cui i giornali, colpevolmente, annettono meno importanza che alle divagazioni tribali. Dobbiamo arrivarci con un governo nella pienezza dei suoi poteri e con la massima compattezza nazionale, altrimenti saranno dolori. Eccoci alla seconda addizione.

Al vertice europeo di Bruxelles si è varata una mini riforma dei trattati. Una cosa assai più blanda di quella che avrebbe voluto l’asse franco-tedesco, e che per noi sarebbe stata rischiosa. La partita non è conclusa, e l’aria che tira è piuttosto gelida. La riforma consiste nell’istituzione di un Fondo permanente, destinato ad aiutare chi, dei 27 Stati membri, si trovi in difficoltà finanziaria. Tedeschi e francesi, ma prevalentemente i primi, i più forti, avrebbero voluto che alla generosità (animata dall’egoismo di difendere anche se stessi) si accompagnasse la punizione: chi chiede aiuto perde il diritto di voto. Una proposta ruvida, ma non priva di ragionevolezza, visto che chi è sano dovrà continuare a seguire decisioni prese con il voto dei malati. Angela Merkel aveva chiesto di equiparare il non rispetto dei parametri di stabilità alla violazione dei principi fondamentali dell’Unione. Come a dire che l’economia deve avere lo stesso peso dei sacri pilastri. Vista la condizione dei mercati e il rischio connesso al finanziamento dei debiti nazionali, non si può sostenere che il pilastro economico sia secondario.

Per noi italiani è un guaio, visto che il nostro debito è, rispetto al prodotto interno lordo, il doppio del consentito. Ci siamo salvati grazie al fatto che una simile riforma deve passare con il consenso di tutti, il che equivale a fissare la pasqua con il consenso degli agnelli. Ma non può durare, ed è questa la ragione per cui il governo punta molto sulla somma fra debito pubblico e debito privato, il che ci riporta in equilibrio con gli altri, che pretendono (non a torto) di darci lezioni.

L’addizione della Banca d’Italia era lecita, lo è anche questa? Dal punto di vista dell’equilibrio finanziario sì, sotto altri aspetti no. L’idea che siano le famiglie a garantire per lo Stato può essere considerata suggestiva, come anche grottesca. Sta di fatto che ci conviene, che è la nostra ancora di salvezza, quindi è bene sincronizzare le calcolatrici nazionali. Quella della nostra banca centrale è autorevole, quindi meglio averla amica, anche se certi suoi risultati possono irritare.

Le due addizioni sono la forma contabile della sostanza politica. All’interno servono per non lasciare intendere che noi si stia meglio di altri, impedendo che ci si adagi su inesistenti allori. All’esterno per impedire l’istituzione di sanzioni automatiche, che darebbero al 2011 il colore di un anno doloroso. Su tutto, in ogni caso, grava il peso di un increscioso ritardo nel rimettere l’Italia in grado di scalare le classifiche della produttività, mentre oggi è inchiodata alla parete, con le mani rattrappite e la paura di guardare la realtà.

venerdì 29 ottobre 2010

Fascisti. Christian Rocca

E'stato aggredito Daniele Capezzone, portavoce del Pdl. Con un pugno. Anche il capo del Pdl è stato aggredito, con una statuina del Duomo di Milano. Al leader moderato dei sindacati, Raffaele Bonanni, è stato lanciato un candelotto che gli ha bucato e bruciato la giacca. Alcune sedi della Cisl sono state bruciate. Al presidente del Senato e a un senatore del Pdl è stato impedito di parlare. Il direttore della Stampa, Mario Calabresi, subisce minacce di ogni tipo perché non sufficientemente impegnato a combattere il regime. Il direttore di Libero Maurizio Belpietro vive sotto scorta, da ben prima del controverso attentato. Luciano Violante e sua moglie subiscono minacce delle Brigate rosse, per il solo fatto che l'ex presidente della Camera parla con i "nemici". Delle due l'una: o siamo davanti al primo "regime" al mondo che si autointimidisce oppure tra gli oppositori del cosiddetto "regime" ci sono numerosi vedi titolo. (Camilloblog)

giovedì 28 ottobre 2010

Berlusconi, Fini e il peso delle indagini. Ipse dixit

Di Gianfranco Fini che fosse indagato per la vicenda della casa di Montecarlo, si è giustamente saputo dopo la richiesta di archiviazione. Di Berlusconi, sulla minorenne marocchina, si sa che è indagato prima che sia vero. (l'Occidentale)

Il leader vuoto perfetto da riempire. Marcello Veneziani

Non sottovalutate Fini, ha un’arma micidiale che non avete preso in seria considerazione. Fini non ha un progetto politico o addirittura culturale, non ha una strategia, non ha spazi politici, non ha voglia di lavorare, non ha idee, non ha consistenza. Ma proprio quella è la sua arma micidiale: Fini attira perché è vuoto. Non è una battuta, è una valutazione politica che ha forti implicazioni. Fini è un recipiente vuoto e trasparente che ciascuno riempie come vuole. E può dunque diventare un punto di raccolta indifferenziata, una buca delle lettere o un cassonetto, se preferite, di notevole capienza. Fini può raccogliere tutti coloro i quali sono rimasti delusi per aspettative personali, carriere frustrate, dissensi politici, perfino divergenze ideali e filosofiche, perché è un medium freddo, inodore, insapore.

Se fate un viaggio tra coloro che si stanno avvicinando al suo partito trovate le motivazioni più disparate, in cui la stima e la fiducia verso Fini è una quota assai piccina. Fini diventa la discarica o il collettore di tutti i malesseri che si annidano nel centrodestra, di coloro che temono l’anagrafe di Berlusconi o di quanti non sopportano qualche colonnello. In più, mancando di qualunque contenuto, è un ottimo marsupio per depositare le proprie idee: c’è chi sogna con lui di rifare la destra e chi sogna di uscirne definitivamente, per alcuni è la promessa di tornare al passato e per altri è il futurista, c’è chi ritrova nella sua rottura con il premier l’indole d’opposizione del vecchio Msi e chi lo vede invece come una specie di ardito cercatore di terze vie, di incroci inediti con la sinistra, di trasgressioni politiche e culturali. C’è chi vede tramite lui la possibilità di essere finalmente legittimati a sinistra e chi vede nel suo partito una candidatura in un collegio già occupato da altri del Pdl. La sua vacuità è oggi la sua vera risorsa. Ma questo non vale solo in ambito interno. Fini attira i poteri forti, grandi e piccini, opachi e perfino occulti, perché non è portatore di un suo progetto, non ha punti fermi e non negoziabili, non ha un nucleo di pensieri suoi e di proposte forti; è la confezione ideale per essere riempita, veicolata e magari scagliata contro qualcuno (Berlusconi). Fini muta col mutare dei suoi utenti, assorbe le parole dell’ultimo che gli parla, è una specie di tassista della politica; la corsa e la destinazione la decidono i clienti. Studiava da duce, poi finì da conducente.

Fini è pure un buon involucro per avvolgere la sinistra, il centro e tutte le forme di antiberlusconismo, perché non portando nulla di suo, essendo un portatore sano e provvisorio di idee altrui, è utile alleato per qualsivoglia proposito. Fini non dispiace nemmeno a piccoli cenacoli intellettuali che non trovano collocazione nel presente quadro, vecchie nuove destre e vecchie nuove sinistre che da anni cercano spazi e visibilità e non la trovano: ora hanno trovato l’icona giusta su cui cliccare per accedere alla visibilità, hanno trovato il gadget politico per i loro discorsi e progetti; e sapendo che si tratta di un contenitore neutro e asettico, di un conduttore atermico, possono usarlo come credono. Quando si dice che Fini è il nulla in cravatta non si esprime disprezzo ma una rigorosa valutazione politica.

Di questa utile vacuità si accorse per primo Tatarella quando lo lanciò come erede di Almirante nell’87. Perché Fini consentiva per ragioni anagrafiche di saltare la generazione dei fascisti e dei colonnelli più anziani; ma soprattutto, Pinuccio confidava agli amici, Fini è multiuso, può essere usato per rifare il vecchio neofascismo, per tentare alleanze con la Dc o, aggiungeva preveggente, perfino per tentare intese con la sinistra. Perché non è portatore di sue idee, lui parla, dopo aver orecchiato; deve avere una chiavetta tra le scapole per caricarlo al punto giusto. Un carillon da piazza e da tv, una scatola vuota.


Se provate ad esaminare il suo linguaggio vi accorgete che la fonte principale delle sue riflessioni politiche e del suo successo mediatico sono i proverbi o comunque le frasi fatte. Dice con tono erudito «chi la fa l’aspetti» e la stampa lo esalta scrivendo: che statista. Poi dice come se stesse rivelando una verità nascosta: «La legge è uguale per tutti» e tutti lì a incensare il suo coraggio e la sua lucidità. Poi prosegue in tono scientifico: «Meglio soli che male accompagnati», e gli analisti osservano l’acume strategico delle sue scelte. Un giorno dirà: «Il lupo perde il pelo ma non il vizio» e inebriati dalla sottile allusione, gli osservatori diranno: abbiamo finalmente un vero leader per la destra europea e democratica del futuro.

Il lessico finiano è attinto non dalle scuole di politologia ma dalle scuole elementari, ramo maestre del primo biennio, come vogliono del resto i suoi studi scolastici e universitari; nel triennio seguente già sarebbe inadeguato. Ma l’ovvietà rassicura, fa sentire anche i cretini persone intelligenti che capiscono la politica, e soprattutto conferma la sua promettente vacuità: ognuno inserisce dentro Fini quel che lui crede, pensa o preferisce. Non sottovalutate la sua vacuità, è il suo punto di forza e di consenso. Anche perché rispecchia il più generale vuoto della politica, di cui è l’indossatore perfetto. (il Giornale)

mercoledì 27 ottobre 2010

La regola e l'eccezione. Marcello Sorgi

Anche se si tratta di vicende del tutto diverse, per peso, quantità e qualità, nella giornata che ha visto il proscioglimento di Gianfranco Fini dalle accuse che lo riguardavano per la vendita della famosa casa di Montecarlo, e il contemporaneo infittirsi delle voci su nuovi guai giudiziari per Silvio Berlusconi, c'è un dettaglio che colpisce. Alla fine di una durissima campagna giornalistica e politica durata quasi quattro mesi, il Presidente della Camera ha potuto conoscere l'esito favorevole delle inchieste che lo riguardavano contemporaneamente alla notizia che era stato indagato per gli stessi fatti. Così, una volta tanto, è stata evitata la consueta fuga di notizie che trasforma tutti i politici inquisiti in condannati prima del tempo. Un'eccezione che conferma la regola, purtroppo. Perché invece il meccanismo dello svergognamento preventivo s'è ripetuto quasi contemporaneamente nei confronti di Berlusconi. La differenza di trattamento tra i due leader ed imputati eccellenti ha preso corpo in tutta la sua evidenza proprio nelle stesse ore in cui al Senato il centrodestra riapriva la trattativa sul lodo Alfano.


Mentre infatti Fini, nei tempi giustamente brevi che si richiedono quando un'ombra giudiziaria può danneggiare un soggetto che ha responsabilità pubbliche, veniva dichiarato innocente, su Berlusconi, alle prese da anni con le accuse più disparate, si addensavano ulteriori sospetti. Al processo Mills pendente da tempo e sospeso provvisoriamente per effetto del legittimo impedimento, alla propaggine romana, emersa due settimane fa, dell'inchiesta sui diritti off-shore delle tv Mediaset, e alle indagini, divenute di dominio pubblico la settimana scorsa, sui rapporti tra il premier e l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, si aggiungevano ancora i dubbi sul coinvolgimento del premier, e non solo di suo fratello Paolo, nella divulgazione della famosa intercettazione di Fassino sul caso Antonveneta, e un'altra, torbida vicenda, legata a una ragazza marocchina che avrebbe accusato Berlusconi di aver avuto rapporti con lei quando aveva solo sedici anni.

Come possa influire la somma di tutti questi casi, vecchi e nuovi, che continuano a emergere e riemergere a ritmo quasi quotidiano, sulla trattativa sul lodo, da cui dipende la sopravvivenza stessa del governo, è chiaro. La già discutibile soluzione del problema della protezione del presidente del Consiglio da incombenze giudiziarie, che possano ostacolarne l'espletamento delle funzioni, sta diventando rapidamente del tutto indigesta e al limite dell'impraticabile. Mentre i partiti discutono della portata e dei limiti del provvedimento che dovrebbe proteggerlo, Berlusconi - cioè il primo che in linea teorica dovrebbe usufruire di una legge che come tutte resterebbe valida anche per i suoi successori - a poco a poco si sta trasformando in un soggetto indifendibile. L'addensamento - e in qualche caso l'accanimento - delle indagini nei suoi confronti, è evidente, porta a questo. La corruzione già in qualche modo anticipata con la condanna dell'avvocato Mills, l'evasione fiscale ipotizzata nell'inchiesta romana, la mafiosità connessa ai rapporti con Ciancimino, il commercio di materiale ricavato da intercettazioni, e adesso anche l'ombra di una relazione intima con una minorenne, non rappresentano più soltanto un'eterogenea serie di imputazioni, ma un insieme che ormai tende alla mostrificazione del personaggio. E a questo mostro che giorno dopo giorno, nelle carte che lo riguardano, assume sembianze grottesche, il Parlamento, non va dimenticato, dovrebbe trovare una scappatoia, che già era difficile, e adesso rischia di diventare impossibile.

Naturalmente Berlusconi ha il preciso dovere di rispondere a tutte le accuse che lo riguardano e fare chiarezza fino in fondo. Ma sarebbe auspicabile che potesse farlo più o meno nelle stesse condizioni in cui è stato consentito a Fini: difendendosi, cioè, e replicando agli attacchi politici dentro e fuori il Parlamento, e aspettando serenamente che la magistratura si pronunci sul suo conto senza neppure che si venga a sapere anticipatamente, e soprattutto prima del proscioglimento, che sulla sua testa pendeva un'imputazione.

La separazione tra il piano politico e quello giudiziario ha consentito, malgrado il clima pesante, al presidente della Camera di restare al suo posto e respingere le reiterate richieste di dimissioni che venivano dai suoi avversari. La commistione tra processi giudiziari e tiri al bersaglio politici, favoriti dalla facilità con cui viene resa nota qualsiasi accusa, anche la più infamante, contro Berlusconi, rischia al contrario di avvelenare definitivamente il confronto politico, paralizzando del tutto il governo, il Parlamento e il Paese. (la Stampa)

Alla fine di un ciclo. Davide Giacalone

La fabbrica del governo tecnico lavora a pieno regime. Le potenziali alleanze vanno dagli ex fascisti agli ex comunisti, passando per i parlamentari della maggioranza che non hanno nessuna voglia di mettere a rischio il loro posto. La Confindustra di Emma Marcegaglia porta il suo contributo e il tempo si consuma, perché alle viste della sessione europea sui bilanci (aprile prossimo) non ce ne sarà più per regolare i conti politici interni. Il guaio di una simile formula è che nessuno l’ha mai votata. Il che, in democrazia, non è un dettaglio.

Alle crisi di governo gli italiani sono abituati, non se ne crucciano più di tanto. La scelta è, del resto, fra la caducità degli esecutivi e la loro stabilità senza operatività. Due mali. Anche le elezioni anticipate non sono una novità, e se aumenta il numero di quelli che non partecipano ciò si deve a cause diverse dal clima della domenica prescelta. Ma qui si ha l’impressione d’essere arrivati a qualche cosa di più di una crisi o di uno scioglimento. Si ha la sensazione d’essere arrivati alla conclusione di un ciclo, all’agonia della seconda Repubblica, ufficialmente mai nata. E se anche non accadesse nulla, non per questo la sensazione si dissiperebbe. Anzi.

Impensierisce l’idea che possa essere ancora lunga la stagione in cui si crede che il logoramento di Silvio Berlusconi sia il necessario preludio ad un non meglio definito “nuovo”. Stagione prolungata dal fatto che il presidente del Consiglio mostra di temere le elezioni più di quanto non sappia utilizzarle per frenare il disfacimento. Mentre i suoi avversari si comportano come disperati, pronti ad ogni sfregio costituzionale pur di prevalere nei palazzi, non sapendo prevalere nelle urne.

Ci si fermi a riflettere. Lo faccia Berlusconi, chiedendosi per quanto tempo ancora può durare il gioco del cerino, teso a scaricarsi la responsabilità di una legislatura già spezzata. E’ vero che i cittadini sono infastiditi, quando non imbufaliti, ed è vero che lo spettacolo offerto dalla politica e miserrimo. Ma è anche vero che nessuno riesce a credere che possano essere “totalmente leali” al governo forze politiche e uomini che già si preparano a combattersi elettoralmente. Sarebbe grottesco, del resto, che forze e uomini uniti alle scorse elezioni prima vincono, poi danno vita ad un governo, quindi litigano, rompono, lo tengono in piedi artificialmente e infine, al cadere della parabola, si ripresentano alleati alle elezioni.

Certo, la maggioranza ha due problemi contrapposti: la Lega che chiederà un dividendo elettorale più alto e gli elettori che non saranno entusiasti nel rinnovare l’investimento. Ma si guardino attorno: non solo il Paese si sfilaccia, ma le loro stesse forze sono prese dal frazionismo localistico. Assai meno promettente di quello politico.

E guardino la condizione della sinistra, sulla quale i dirigenti di quel fronte dovrebbero, a loro volta, riflettere. Mentre il gradimento del governo cala quello dell’opposizione precipita. Non è logico, ma è così. Crescono, invece, gli sciamannati, quelli da cui nessuno vorrebbe farsi governare, ma che sono ritenuti adatti a svillaneggiare il resto della classe politica. Ci pensino: quindici anni di battaglia antiberlusconiana sono un clamoroso errore, e non per ragioni tattiche, ma perché Berlusconi non è il creatore di quella maggioranza relativa d’italiani, ne è l’interprete. L’errore commesso da chi gli si è opposto, pensando di fregarlo sul piano personale, demonizzandolo (quindi, di converso, santificandolo), è una tale monumentale cavolata che induce a fraintendere la realtà, al punto di credere che cancellare dalla scena lui sarà come togliere il tappo ad uno scarico intasato: miracolosamente tutto torna sereno e funzionante. Non è così, anzi è ragionevole supporre che senza quel suo interprete l’Italia che lo vota, e che non ha mai smesso, dal 1994 in poi, d’essere la maggioranza relativa, si frantumerà e sparpaglierà, frantumando e sparpagliando anche l’opposizione. Dopo di che sarà veramente a rischio il tessuto nazionale.

Il realismo politico dovrebbe far capire che per rimettere in moto l’Italia non si può prescindere da chi coagula la maggioranza dei consensi. Se, invece, ci si abbandona agli estremismi, se si crede sul serio che si possa cancellare un simile soggetto, allora va bene latrare appresso alle questioni giudiziarie o insultare gli osservatori che non si piegano ai luoghi comuni dell’antiberlusconismo. Ma è una condotta suicida.

Non sto dicendo alla sinistra di dichiararsi sconfitta (quale è), suggerisco l’esatto contrario: se volete sperare di vincere non potete che riconoscere la forza dell’Italia che lo vota e con quella puntare ad un sistema diverso. Se non ne saranno capaci, se continueranno a dare le dimissioni dalla politica sperando che qualcun altro (il “cerchio sovrastrutturale”?!) crei le condizioni per la loro vittoria, finiranno totalmente preda delle serpi che si sono allevate in seno. Stacchino Antonio Gramsci dalle pareti, e lo leggano. Studino la cinica, ma realistica lezione di Palmiro Togliatti. Almeno Tony Blair si sforzino d’ascoltarlo, nella versione pop e televisiva: ci vogliono idee politiche, per battere l’avversario.

Stiano attenti, tutti: le cucine di palazzo son trafficate dai sorci e c’è un’aria per cui i piatti potrebbero volare.

venerdì 22 ottobre 2010

Il bandito Giuliano ad Antigua. Orso Di Pietra

“Di sicuro – scriveva Tommaso Besozzi a proposito del ritrovamento della salma del bandito Giuliano – c’è soltanto che è morto!”. Perché non si sapeva se ad ammazzare l’autore dell’eccidio di Portella della Ginestra era stato il cognato Gaspare Pisciotta, i carabinieri del colonnello Luca, la mafia, i separatisti siciliani, i democristiani di Palermo, la massoneria internazionale, un marito geloso o tutti quanti messi insieme. Ora la Procura di Palermo ha deciso di mettere in discussione anche quell’unica certezza. Ed ha stabilito di riesumare il cadavere del bandito per chiarire se è proprio di Giuliano o di un suo sosia. Qualcuno si è maliziosamente chiesto se i magistrati palermitani non avessero altro di più importante di cui occuparsi invece di rimestare tra le ossa del defunto mascalzone. Ma alla domanda è stata dato subito una risposta che ha azzittito i curiosi. Se non fosse morto a Castelvetrano e fosse stato aiutato da mafia, carabinieri, massoneria, separatisti e mariti cornuti a fuggire all’estero, Giuliano avrebbe ora quasi novant’anni. E come escludere che faccia il giardiniere nella villa di Antigua del Cavaliere? (l'Opinione)

L'ultima di Vendola: Sarah Scazzi vittima del berlusconismo

Zitto zitto, Nichi Vendola aggiunge un altro tassello alla campagna elettorale permanente che è il tratto distintivo della vita politica italiana. Lo fa, nientemeno, spiegandoci che il delitto di Sarah Scazzi è frutto del berlusconismo, cioè di quel totalitarismo mediatico che - secondo lui - ha stravolto l'antropologia dell'Italia di una volta, quella della tv di stato e del maestro Manzi. Ma oltre a riflettere sul fatto che il presidente della Regione Puglia avrebbe potuto mostrare un po' più di prudenza, visto che il delitto è avvenuto proprio nella regione che governa, ci sono almeno un altro paio di considerazioni che spiegano come in questo caso Nichi abbia preso un colossale abbaglio.

"Uomini che uccidono le donne e le bambine non sono mostri ma sono nostri, nel senso che sono iscritti nella quotidianità del paese - ha detto Vendola - la strumentalizzazione dei corpi delle persone è un fatto peculiare di questo tipo di tv spazzatura. Mediante la tv è in atto un'operazione culturale che ci ha assuefatti alla banalità del male. Perché il berlusconismo non è un'anomalia, non è un'insorgenza patologica ma qualcosa che permea l'autobiografia del Paese".

Come se prima della tv spazzatura non ci fossero state le gogne pubbliche, le folle festanti sotto la ghigliottina o quelle plaudenti attorno al rogo di qualche strega, o ancora le lapidazioni e gli omicidi rituali con un colpo di mitragliatore alla testa di qualche povera malcapitata giustiziata in uno stadio dal talebano di turno (che la tv, com'è risaputo, l'avevano vietata). Ma quelle sono altre culture, si dirà, sono le storie trascorse e remote di un mondo che non esiste più. In realtà, la morte è da sempre uno spettacolo, dal Grand Guignol ai film horror, e la televisione è solo l'ultima piattaforma di una "passione necrofila" che appartiene alla storia dell'uomo. Vendola, reputato persona intelligente, queste cose dovrebbe saperle.

A leggere nella assai confusa vicenda della morte di Sarah, emerge più lo spettacolo di un infernale gineceo (la cugina, la zia...) che non quello di un mondo femminile mercificato in cui la donna si riduce a velina o starlette da Drive In. Come dire, ciò che dovrebbe preoccupare di questa storia è che sia maturata in strutture "matrilineari" piuttosto che patriarcali (Misseri è colpevole o prima ancora un complice?), strutture profonde che appartengono a quel Mezzogiorno che Vendola difende in ogni occasione. Quella Puglia materna, solidale e accogliente, quella terra del governatore per sempre grato alla sua mamma, che a quanto pare non produce solo "mostri" (uomini) ma anche assassine (donne). Prima di cavarsela a buon mercato con la solita solfa sul berlusconismo, dunque, Nichi avrebbe potuto fare qualche sforzo in più nell'interpretare la sanguinaria antropologia di questo Sud. (l'Occidentale)

giovedì 21 ottobre 2010

Scudo e scempiaggini. Davide Giacalone

Sulla “retroattività” del così detto lodo Alfano se ne sentono e leggono di tutti i colori, in un crescendo rossiniano di scempiaggini. Uomini politici che dovrebbero sapere quel che dicono, o farselo spiegare, si abbandonano a sceneggiate che il senso comune ridicolezzerebbe, se solo qualcuno avesse voglia d’occuparsi di tali faccende. La sospensione dei processi in capo ad alcune cariche dello Stato non c’è questione che sia “retroattiva”, basta che sia effettiva. Ad altro dovrebbero rivolgere la loro attenzione gli imbarazzi dei finiani o la concitata e teatrante indignazione degli oppositori.
Si può condividere o meno l’idea che alcune cariche dello Stato non siano immediatamente processabili, dovendosi sospendere il procedimento fino alla decadenza dall’incarico. Sul punto mi limito ad osservare che una forma di tutela è prevista in tutte le democrazie non improvvisate. La ragione della norma, ovviamente, non è quella di difendere la persona dai giudici, ma di difendere la funzione dal processo. Così impostata la cosa, ed è l’unico modo razionale per farlo, è assolutamente ovvio che la sospensione si riferisce a tutti i procedimenti, senza limitazione di data. Un esempio concreto: il Presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, era sotto inchiesta penale per vicende (finanziamento illecito del partito e irregolarità amministrative) relative al periodo in cui fu sindaco di Parigi, ma il processo, come previsto dalla legge, fu sospeso e riprese dopo la sua uscita dall’Eliseo. A sentire gli odierni scandalizzati dalla “retroattività”, invece, quel processo si sarebbe dovuto fare subito, perché relativo a fatti precedenti all’elezione del Presidente. Ma è una corbelleria, perché, appunto, la legge non tutelava Chirac, bensì la presidenza.

Se la protezione è effettiva non può che essere retroattiva. Del tutto diverso è il discorso relativo al così detto “processo breve”, dove la retroattività equivale a seppellire numerosi processi (già, del resto, moribondi in proprio). Se non si è capaci di distinguere è meglio stare zitti.

Passiamo alla questione generale: posto che tale costume è proprio delle democrazie, è giusto che ci sia lo scudo? Sì, perché gli stati di diritto, le democrazie, devono stare ben attenti a non far entrare in conflitto il principio dell’investitura popolare con quello della subordinazione di tutti alla legge. E’ questa la ragione per cui i costituenti ritennero l’immunità parlamentare un baluardo di libertà e uno strumento di difesa del diritto. La si abolì per viltà, e siamo ancora fermi ai propagandisti del giustizialismo (dottrina antidemocratica).

Il quesito complicato è un altro: perché lo scudo copre alcuni e altri no? qual è il discrimine? Il Presidente della Repubblica, in quanto Capo dello Stato, è irresponsabile e non processabile perché lo stabilisce la Costituzione, e non ci piove. Gli eletti dal popolo erano coperti dall’immunità parlamentare, ovvero dal voto dei loro colleghi circa la persecutorietà (o meno) delle accuse cui erano sottoposti. Fu un errore abusarne, come fu un errore cancellarla. Oggi perché dovremmo difendere i due presidenti parlamentari e il presidente del Consiglio, lasciando via libera nei confronti del ministro degli esteri o dell’economia, di quello della giustizia o degli interni, cioè dei responsabili di settori vitali? A me sfugge la motivazione. In Francia la cosa è chiara: chi è eletto direttamente dal popolo ha un trattamento diverso da chi è nominato. E’ un criterio. Ma noi non eleggiamo il capo del governo, come non eleggiamo i presidenti d’Aula, eleggiamo i parlamentari. Quindi, se lo scudo serve a difendere l’istituzione governo (mi pare ragionevole) deve essere esteso ai ministri, ovvero a quella categoria di persone per cui è già prevista una giurisdizione particolare.

Lo scudo, insomma, mostra i suoi difetti logici più per quello che non copre che per quello cui provvede. Ma non lo capiscono quanti, da venti anni, fanno politica nella speranza che qualche giudice riesca a condannare e far fuori quel loro odioso e pertinace avversario che si ostina a prendere la maggioranza dei voti.

mercoledì 20 ottobre 2010

Regole che non regolano.  Davide Giacalone


Roberto Cota è stato liberamente, democraticamente e regolarmente eletto dai piemontesi. La notizia non è proprio freschissima, perché risale alle elezioni regionali, ma oggi riprende vigore visto che il Consiglio di Stato ha sospeso gli effetti della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale di Torino, che aveva disposto il riconteggio delle schede, annullandone molte e mettendo in forse il risultato già noto. C’è il lieto fine, dunque? No, perché non è lieto e non è neanche la fine.

E’ sospeso l’effetto, ma non cancellata la sentenza stessa. Visto che la decisione del Consiglio di Stato è stata presa nel merito, sembra evidente che l’esito sarà ulteriormente favorevole all’attuale presidente del Piemonte, e all’onestà delle elezioni. Si deve aspettare un ulteriore passaggio. Quel giorno ci sarà la parola “fine”, ma ugualmente non sarà lieta. Per due ordini di ragioni: generali e politiche.

Le ragioni generali sono evidenti: ma come si fa a vivere in un sistema in cui un tribunale t’impone di fare una cosa e, mentre la fai, un altro ti fa sapere che non avresti dovuto neanche iniziare. I pervertiti diranno che questo dimostra il funzionamento della giustizia e l’indipendenza dei vari giudici. E’ una visione ottimistica della vita. Si può leggerla in modo diverso: nulla è più aleatorio della certezza del diritto. Restiamo al caso specifico: se il Consiglio di Stato stabilirà, nel merito, che le due liste contestate erano regolari e i loro voti in nessun caso esclusi, ne deriverebbe che i giudici del Tar non sono dei liberi pensatori che hanno applicato diversamente il loro senso critico, ma dei somari. Che continueranno ad esercitare la loro arte.

Vi racconto una cosa. Quando l’ho saputa sono rimasto a bocca aperta: ai giudici di primo grado, che redigono una sentenza, non viene mai notificato se in secondo grado o in cassazione quella stessa sentenza viene annullata, magari con motivazioni che stabiliscono quanto sono incapaci. Se sono persone diligenti vanno a cercarsela da soli (ma se sono diligenti sono anche bravi, o, almeno, bravini), altrimenti: ciccia. Come fa a funzionare una macchina in cui se uno è bestia e altri lo stabiliscono nessuno glielo dice? Infatti, non funziona.

La faccenda, lo scrivevamo giusto ieri, non riguarda solo la politica, ma tutto intero il sistema produttivo. Se fai una gara, oggi, puoi star sicuro che continua al Tar. E se le sentenze si contraddicono fra loro il sistema s’impantana. Se la matassa si dipana dopo troppo tempo, il sistema si ferma. Il rischio imprenditoriale relativo al non funzionamento della giustizia è, oggi, talmente alto che lo affrontano a cuor leggero giusto i delinquenti.

Poi c’è l’aspetto schiettamente politico: questa gente ricorre a cuor leggero perché non è in grado di valutare il danno arrecato alla credibilità delle istituzioni. La democrazia si regge anche sulla fiducia, mentre l’idea che sia tutto un broglio e un imbroglio nuoce seriamente alla sua salute. Capisco che stiamo parlando di due universi diversi, ma, nel 1953, Alcide De Gasperi non chiese il riconteggio delle schede, che quasi certamente avrebbero fatto scattare il premio di maggioranza, perché lo riteneva pericoloso per l’Italia. Capite? Era conveniente per lui e per il suo partito, ma sarebbe stato pericoloso per l’Italia. E non lo fece. Il che non lo mise al riparo da attacchi furibondi di quegli stessi che oggi ne parlano come di uno statista.

Quando esisteva la politica esisteva anche l’interesse del Paese. Ma nell’Italia delle mezze cartucce c’è solo il ricorso per ottenere la propria ragione. Come in un condominio rissoso e misero.

martedì 19 ottobre 2010

Cittadinanza breve? Chiedetelo alla Merkel

Qualcuno ricorda la infinita discussione sulla cittadinanza breve? Per qualche mese, sollecitati dai “fare futuristi”, in Italia non si è parlato d'altro. Dieci anni per diventare cittadini italiani erano troppi, ne bastavano la metà, e in ogni caso la legislazione italiana dai respingimenti di Maroni alle classi per gli stranieri della Gelmini ormai stava troppo stretta agli intellettuali finiani che proponevano una via italiana all'integrazione consapevole e in definitiva ad un multiculturalismo “salvato dal diritto naturale”. Da allora, silenzio. Anche perché l'Europa ormai sembra andare in tutt'altra direzione.

A cambiare rotta ci aveva pensato già l'ex premier inglese Gordon Brown prima di lasciare il posto al successore Cameron. Per la prima volta un laburista metteva in discussione i dogmi dell'integrazione a senso unico, in cui lo Stato ha il dovere di accogliere e gli immigrati il diritto di chiedere. Brown invece aveva legato la cittadinanza a dei principi ben precisi quali l'imparare la lingua del Paese in cui si sceglie di vivere, il conoscerne la storia e le tradizioni, trovarsi un lavoro, non delinquere, e così via.

Ormai in tutta Europa, è il caso di dirlo, tira un'aria diversa: nell'Olanda di Wilders che alza un muro contro l'islam, nella Svezia di Akesson che sovverte i principi di accoglienza su cui si era fondato il “modello scandinavo”, nella Francia di Sarkozy che risolve con il pugno di ferro la questione rom tirandosi gli strali della Commissione Europea. Ebbene, c'era un solo Paese che sull'immigrazione, in prevalenza turca, ha costruito la sua potenza, la Germania di Angela Merkel, guidata da un centrodestra che fino a questo momento non aveva rinunciato all'idea di una società multiculturale – una coalizione di partiti politici a cui i finiani avrebbero potuto ispirarsi anche in materia di immigrazione e cittadinanza (strizzando l’occhio ai centristi di Casini e alla 'creatura' di Montezemolo).

Ebbene, anche Berlino ha preso tutt’altra direzione. Prima il controverso libro di Thilo Sarrazin, l'ex numero uno della Banca Centrale, un socialdemocratico che ha sparato a zero sulla islamizzazione della Germania. E adesso le dichiarazioni della Merkel che ha annunciato senza timori “il fallimento del multiculturalismo”, sposando appieno la linea di Brown. Abbiamo inutilmente cercato sulle pagine di FareFuturo Webmagazine uno straccio di editoriale che commentasse la linea della Cancelliera e il nuovo corso, per modo di dire, del governo tedesco (in realtà dagli inizi della sua carriera politica la Merkel ha sempre dubitato di una grande insalatiera tedesca). Nulla, almeno per il momento.

Così quello che era un dubbio ricorrente si è praticamente trasformato in una certezza: i finiani hanno sposato il tema della cittadinanza breve e difeso le magnifiche e progressive sorti del multiculturalismo solo per una battaglia politica strumentale, per avere una carta in più utile a seminare zizzania nella maggioranza, e per offrire al Paese l'immagine di una destra che parla un linguaggio diverso sull'immigrazione.La Merkel al contrario ci ha ricordato che la cittadinanza può essere concessa solo a patto di accettare “la nostra Costituzione e tollerare le nostre radici occidentali e cristiane”. Certa destra dovrebbe farne tesoro. (l'Occidentale)

domenica 17 ottobre 2010

Cortei autolesionistici. Davide Giacalone

Non mi preoccupano gli studenti che manifestano per le cose sbagliate, facendosi del male e impoverendo il loro già misero futuro. Mi preoccupa che nessuno abbia il coraggio di dirglielo, preferendo blandirli o ignorarli. Se solo li si considerasse con un minimo di rispetto, questi giovani sfilanti, si dovrebbe dire loro: la cosa peggiore che possa capitarvi è anche la più probabile, vista l’aria che tira, ovvero che vi diano retta, che veramente assumano tutti i precari, stabilizzino tutti gli associati, incattedrino tutti quelli che non hanno trovato di meglio da fare, perché così, voi, vi ritroverete più poveri e più ignoranti.

Franco Debenedetti l’ha detto con una battuta: ho sognato che la riforma dell’università era stata bloccata non per mancanza di fondi ma per eccesso di assunzioni. Perché non provate a pensarci, oh giovani dei collettivi “Senza tregua”. Almeno per non continuare ad essere senza senso. Il diritto allo studio, e il diritto a studiare in posti selettivi e meritocratici, quindi formativi e utili, non solo non è parente, ma è l’opposto delle assunzioni a vagonate. Possiamo discutere quanto volete sulle responsabilità passate, sulle colpe di quanti (tanti) ci hanno ridotto in questo stato, ma una cosa è sicura: spendere per stabilizzare e non per cambiare, selezionare e investire non è un modo per rimediare, ma per perseverare nell’errore.

Non ho alcun timore di farvi arrabbiare, non me ne importa nulla della vostra reazione, anche perché temo che neanche leggiate. Lo farà qualcuno per voi, indicandovi, di volta in volta, il nemico contro cui scagliarvi. E voi, allocchi, indosserete l’abitino da corteante, procedendo. Forse non sapete quel che succede attorno ai vostri cortei. Io c’ero, ieri, a Roma. Il numero di vigili e poliziotti mobilitati, a spese del contribuente, è pari al doppio di quello dei manifestanti. Il numero di cittadini cui è stata massacrata la mattinata, a spese loro, è pari a mille volte il numero dei manifestanti. Noi lì attorno non siamo bestie, non abbiamo fatto del male a nessuno, semplicemente cercavamo di lavorare. Perché, sapete, in Italia non ci sono solo pensionati, falsi invalidi e mantenuti a vario titolo, esistono anche quelli che lavorano. Uomini e donne di ogni età siamo stati sequestrati, e vi garantisco che a nessuno è venuto in mente di domandare ai vigili: chi sciopera? per quale giusta causa? Sicché si dovrebbe avere quel minimo di buon senso da potere dire una cosa banale, ma rivoluzionaria: i cortei dovrebbero essere proibiti. Questa forma di protesta, da lega bracciantile, è tardo ottocentesca. Nella società 2.0 non ci si affaccia alla finestra, non si legge il volantino, non si ascolta il comizio, si resta bloccati a dieci chilometri di distanza, a imprecare.

Il motorino, il due ruote per muoversi in città, fu una prerogativa di noi giovani (quando lo eravamo). Ora, con quel mezzo, sfreccia ed arranca una massa di vecchietti lavoratori, che non hanno (abbiamo) il posto fisso da una parte, ma provano (proviamo) ad essere in parti diverse senza perdere troppo tempo. Lo usano centinaia di migliaia di mamme che sperano, in questo modo, di conciliare il lavoro con la necessità di recuperare il pargolo all’asilo. Le nostre metropoli sono sistemi complessi. Ve lo siete posto, il problema? O la vostra adolescenziale arroganza v’impedisce di considerare l’ipotesi che il lavoro vada rispettato?

Oggi è difficile che queste poche parole vi raggiungano. E’ finita la manifestazione e comincia il week end. Oh, yes. Voi sarete paghi d’avere manifestato contro Maria Stella Gelmini, che, si sa, è berlusconiana, quindi se lo merita. La citata Gelmini, nel frattempo, si adopera per convincere il ministro dell’economia che vale la pena spendere dei quattrini per finanziarie assunzioni e spese dei rettori, in modo da alimentare il consenso che permetta la riforma degli studi. Quanto tempo ci metterete, “senza tregua” dei miei stivali, a capire che, semmai, avreste dovuto manifestare per appoggiarla?

Non mi preoccupate voi, lo ripeto, ma il fatto che vi circonda un mondo vile, incapace di contrastarvi per aiutarvi a capire. Anche nel mondo giovanile, il problema non siete voi, perché quelli dei collettivi e dei comitati, di base o di lotta, sono sempre esistiti (i più capaci andavano, poi, a lavorare per i padroni, adorandoli in orale e scritto, facendo i soldi, e considerando, non del tutto a torto, fessi con il botto quelli che continuano ad andare loro appresso). Mi preoccupa un esercito di giovani più preoccupato di come calzarsi che di dove andare. Se lo sapessero, del resto, saprebbero anche dove mandare voi.

venerdì 15 ottobre 2010

Zona franca per le tue opinioni

Questo post è volutamente lasciato in bianco per consentire - nel settore dei commenti - agli amici e simpatizzanti di centrodestra, di scrivere le loro opinioni senza limiti di spazio.









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L'ossessione del nemico. Beppe Severgnini

Santoro Michele dice le parolacce: nota e sospensione. Il direttore generale della Rai come un supplente in una scuola media di periferia. Periferia cui ci avviciniamo pericolosamente. Le cose che accadono in Italia, infatti, non succedono nell'Europa che conta.
Che la punizione inflitta ad Annozero sia sbagliata, è ovvio. Che il suo narcisistico conduttore conosca i vantaggi del martirio, è evidente. Che tutto ciò c'impedisca di vedere come la rissa abbia sostituito la discussione, è preoccupante.
Abbiamo finito per considerare fisiologico ciò che è patologico: il giornalismo come forma di lotta politica. È questo il mostro che s'aggira per i nostri schermi e sulle nostre pagine, e prende molte forme: il disprezzo per le opinioni altrui, la paura del diverso, l'aggressività come prova di virilità professionale.
Il neogiornalismo usa toni più adatti alla curva balcanica di Marassi che al dibattito in un Paese civile. Come se non bastasse, se ne vanta. Chiama pavidità il rispetto, coraggio l'arroganza, franchezza l'insolenza, coerenza lo schieramento preventivo. La scelta di non avere amici e nemici a scatola chiusa - la base del mestiere, il motivo per cui molti l'hanno scelto - per i neogiornalisti non è onestà intellettuale: è ipocrisia.
Nel meccanismo democratico i media sono un contrappeso necessario. Basta ricordare come il potere - dovunque - non ami essere controllato, giudicato, criticato. Nelle democrazie, deve accettarlo; nelle autocrazie e nelle dittature, riesce a impedirlo.
Perché molti media hanno rinunciato a essere un contropotere? Per due motivi. Il primo: hanno capito che una parte del pubblico vuole sentire (leggere, vedere) chi gli dà ragione. Non accade solo in Italia: la partigiana Fox News, non la classica Cnn, fa ascolti e soldi negli Stati Uniti. Ma noi siamo avanti. C'è chi non vuole dubbi: pretende conferme e rassicurazione. La tradizione antagonistica ha fatto il resto: dateci un avversario, e siamo felici.
Il secondo motivo: la politica italiana ha molto da offrire alla professione giornalistica, più di quanto la politica tedesca, francese o britannica possa offrire ai colleghi di quei Paesi. Anche a Berlino, a Parigi e a Londra il governo spera di ottenere una copertura favorevole dai giornali; e scruta quanto viene detto in tv in prima serata. Ma non può distribuire dozzine di direzioni.
È inutile nasconderselo. Il controllo dei partiti sulla televisione pubblica s'è esteso a quella privata; la pressione sugli editori riesce a condizionare i giornali e gli altri media. La politica italiana - non da oggi - tenta di lusingarci, spaventarci, sfruttarci, comprarci. Di fronte, spesso, non trova orgoglio professionale, ma vanità, astuzia e parzialità. Talvolta, purtroppo, il cartellino del prezzo.
La novità, qual è? Il neogiornalismo sta acquistando forza, la politica ne sta perdendo. Il sequestrato sequestrerà i sequestratori: non manca molto. I media militanti non avranno più bisogno di sostenere la politica: la sostituiranno. Non offriranno favori, ne pretenderanno. Non seguiranno un'agenda, la detteranno. Già oggi ascoltano poco le segreterie dei partiti: le invitano in tv. Non registrano le urla della politica: urlano di più.
Il risultato sta intorno a noi, lo respiriamo ogni giorno. Parole tossiche che chiamiamo discussioni. (Corriere della Sera)

mercoledì 13 ottobre 2010

Afghanistan: il Pd dice sempre che "il problema è un altro". Carlo Panella

Cosa stanno a fare in Afghanistan i nostri militari? La domanda, davanti ai 33 morti e a questi quattro ultimi tornati in Italia tra lo strazio dei parenti e il dolore di noi tutti è più che lecita. Ma trovare una risposta pretende una condizione netta e precisa: che si ragioni e si parli con onestà, senza retro pensieri, senza doppie verità. Così non è, purtroppo, per una ragione tutta italiana: perché la nostra sinistra, erede del Pci, è fatta di doppie verità e di doppiezze. Tanto è vero che nel 1999 il premier Massimo D’Alema mandò i nostri F104 a bombardare Belgrado, ma nascose la verità al Parlamento e sostenne che facevano solo dei voli di ricognizione. La menzogna serviva a impedire che Cossutta mettesse in crisi il suo governo. Replica nel 2006 quando Romano Prodi –D’Alema ministro degli Esteri- sostiene che i nostri soldati in Afganistan non sono impegnati in azioni d’attacco, ma solo si difendono se attaccati. Non è vero: alcuni nostri commandos partecipano ad audaci azioni, guadagnandosi l’apprezzamento degli alleati. Ma Bertinotti è soddisfatto e non mette in crisi il governo. Oggi, la sinistra ripete la stessa ambiguità, a fronte della onesta richiesta del ministro della Difesa Ignazio la Russa che ha affermato di avere dato ordine di non armare i nostri caccia, per paura che un loro intervento a protezione dei convogli (la gran parte dei nostri caduti scortava un convoglio) colpisse anche la popolazione civile e ora pensa che il Parlamento debba rivedere questa sua decisione, decidendo di dotare i nostri caccia di bombe. Tema difficile, perfettamente in linea con quanto tutti gli altri paesi della Nato fanno in Afganistan, discussione seria che la sinistra trasforma in qualcosa di troppo simile ad una carnevalata. Naturalmente la sinistra radicale coglie la palla al balzo per auspicare l’immediato ritiro (seguita purtroppo da un incauto Zaia, che non si capisce a quale titolo si intrometta in questioni più grandi di lui). Quanto alla “sinistra di governo”, Piero Fassino in un primo momento apre, ma poi rettifica. Per Bersani, al solito “il problema è un altro”, schema fisso di una sinistra irresponsabile che non assume mai decisioni serie, per parlare solo di massimi sistemi. Altri evocano al Costituzione che non ci permetterebbe di fare una guerra, ma non è vero: questa è stata solo una interpretazione di comodo di Ciampi presidente e della sinistra. La Costituzione proibisce la guerra quale “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, non la guerra in sé, tantomeno la guerra al terrorismo, che tutto è, tranne una “controversia internazionale”. Solo Casini ha una posizione seria e sostiene che deve essere il governo a prendere la decisione se armare o meno i nostri caccia. Il fatto è che la proposta di La Russa mette in evidenza un fatto chiaro e netto: in Afghanistan la Nato –il nostro contingente incluso- sta combattendo una guerra e la guerra si fa con le armi, non solo costruendo dighe, acquedotti e scuole. Ma solo una parte del paese e una parte ancora più piccola della nostra classe politica –soprattutto a sinistra, ma anche a destra- ha elaborato il senso della drammatica sconfitta inflitta al mondo da Osama bin Laden l’11 settembre 2001, prendendo atto che vi sono avversari che possono essere sconfitti solo con le armi, perché rifiutano ogni logica di dialogo e di confronto. La più larga parte del mondo politico e soprattutto culturale e della sinistra dei media continua a baloccarsi con le parole, ma la verità dei fatti non ammette deroghe: à la guerre, comme à la guerre. (Libero)

martedì 12 ottobre 2010

Fabbriche di fango, tiro al bersaglio sul Giornale. Gabriele Villa

Contro il Giornale, sempre e comunque. All’attacco, a prescindere. Perché noi siamo i killer e gli altri i buoni. Sempre e comunque. A prescindere. Nell’Italia capovolta, dove i fatti non sono fatti se li racconta il Giornale e dove le inchieste non sono inchieste, ma solo container di fango, se le facciamo noi del Giornale, si dà sempre volentieri asilo a chi cerca solidarietà. E nella spaziosa Casa della solidarietà e del vittimismo gli inquilini si susseguono a ritmo incessante. Non importa che casacca indossino. Si va trasversalmente da Fini a Santoro, dalla Marcegaglia a Travaglio, dai cognati ai compagni di merende. Per entrare a far parte del Club dei Poveri Martiri non occorre quota di iscrizione, né tessera.

È sufficiente essere stati oggetto, almeno una volta, di un pezzo «non allineato» prodotto da noi cecchini del Giornale ed ecco che, magicamente, si spalancano le porte dell’accoglienza tout court. Se ci mettessimo ad elencare tutte le operazioni di boicottaggio e di disinformazione compiute solo recentemente ai nostri danni dovremmo uscire con un’edizione speciale, quindi circoscriviamo le nostre considerazioni alla vicenda Marcegaglia e vediamo di distinguere la vera verità dalla verità degli altri. L’uomo di fiducia della presidente di Confindustria, Rinaldo Arpisella, in un telefonata con Nicola Porro vicedirettore del nostro quotidiano, infarcita di battute scherzose, qualcuna, per carità, certamente un po’ grossier, ravvisa un tono intimidatorio e minaccioso. È sicuro, in buona sostanza, quando conclude la telefonata, che il Giornale abbia già pronto un dossier contro la sua presidente e ritiene opportuno metterla sull’avviso.

Emma Marcegaglia che già vive, almeno dal 26 maggio, nell’ossessione che qualcuno stia tramando contro di lei, come abbiamo scritto, giusto avant’ieri su queste stesse colonne, sulla scorta di dati oggettivi, non esita ad alzare il telefono e a chiamare Fedele Confalonieri, autorevole membro del Cda del Giornale, presidente di Mediaset, nonché amico di vecchia data del premier Silvio Berlusconi. Confalonieri chiama a sua volta Feltri che non esita a dirgli la vera verità: il Giornale non sta preparando alcun dossier sulla Marcegaglia, né si è mai sognato di farlo. Confalonieri telefona alla presidente di Confindustria e la rassicura.

Tutto, in un’Italia non capovolta, dovrebbe finire qui, con un nulla di fatto. Solo che la solerzia che caratterizza i giudici, almeno una parte consistente di giudici, quando si tratta di andare a sfrucugliare il Giornale, si manifesta nel più sorprendente dei modi. Si scopre infatti che la telefonata tra Arpisella e Porro come altre telefonate del direttore Sallusti sono state preventivamente intercettate e registrate dai pm Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli, nell’ambito di un’inchiesta che non ci riguarda, che non ha niente a che fare con il Giornale. Così nel momento in cui la Marcegaglia denuncia un presunto complotto nei suoi confronti ad opera del Giornale ecco che Woodcock fa scattare, sempre preventivamente e sempre con invidiabile solerzia la Grande Perquisizione nelle stanze del Giornale e nelle abitazioni private di Porro e Sallusti.

Ovviamente non viene trovato alcun dossier perché non c’è alcun dossier da trovare. Anche questa è la pura verità. Solo che la vera verità dichiarata e ribadita anche il giorno dopo da Confalonieri non viene tenuta in considerazione perché non fa comodo tenerla in considerazione. Così mentre il Giornale incassa solo qualche timido e inevitabile vagito di solidarietà, anche il fronte politico, comprese alcune voci critiche del Pdl, approfitta della circostanza per darci torto. Così, giusto per farlo. Così giusto perché i malvagi siamo noi e dobbiamo sempre comunque essere noi. A prescindere dalla verità. In compenso scende in campo il battaglione dei giornalisti d’assalto, quelli che fanno inchieste vere e non mettono il fango nel frullatore come noi.

Il primo ad ignorare la vera verità è, come al solito, Giuseppe D’Avanzo i cui toni nei confronti del Giornale, questa volta, come riportiamo qui accanto, superano di molto l’insolenza. Sono insulti, null’altro che insulti. Ma se per lui è un classico ignorare la verità, far finta, sistematicamente, che quanto scrive il Giornale ( su Fini o sulla Marcegaglia non importa) siano «fattoidi» e «falsi indiscutibili», è ancora una volta sorprendente notare come anche il Corriere della Sera lo segua a ruota affidando questa volta a Fiorenza Sarzanini l’opportunità di denigrarci e raccontare solo la verità di Emma Marcegaglia.

Curioso, no? Curioso almeno quanto il fatto che sempre lo stesso Corriere riservi a un suo editorialista, noto e stimato, Piero Ostellino (come era accaduto già al Pansa degli ultimi tempi di Repubblica) un trattamento privilegiato. Il suo pezzo viene infatti relegato a pagina 36 solo perché, prendendo lo spunto da un sondaggio di Sky in cui emerge che la maggioranza degli italiani non si è indignata per la censura preventiva imposta al Giornale, Ostellino sceglie di gridare allo scandalo e di indignarsi, lui sì, vivaddio, contro questa «anormalità» e contro il comportamento «anomalo» di Emma Marcegaglia e il meccanismo «surreale» che la denuncia della presidente di Confindustria ha innescato. Un’altra vera verità, che per il fatto stesso di andare a difesa del Giornale, deve essere per forza ignorata o quantomeno nascosta.

A proposito di ignorare, non si può chiudere questo articolo senza chiedersi come mai i solerti pm Woodcock e Piscitelli abbiano deciso di tener per buone le preoccupazioni (infondate) di Emma Marcegaglia e di Arpisella, tanto da ravvisare addirittura il reato di concorso in violenza privata a carico di Sallusti e Porro, e non si sentano nemmeno sfiorati dall’idea di approfondire quelle strane ipotesi («cerchio sovrastrutturale», etc) che Arpisella fa nella telefonata con Porro facendo intendere di saperla lunga. Di conoscere cioè i mandanti del caso D’Addario, celebre operazione anti-premier e, cosa ancora più preoccupante, di essere a conoscenza che una sorta di Spectre, organizzazione dai poteri occulti, controlli l’Italia. Massì, forse è meglio tenersi alla larga dalla verità. Perché, come diceva Gianni Rodari, uno che le favole (vere) le scriveva, «Nel Paese della bugia, la verità è una malattia». (il Giornale)

lunedì 11 ottobre 2010

Liberi davvero? Massimo Fini

Mi chiedo, a volte, se in Italia e nelle democrazie europee esiste ancora la libertà di espressione. La comunità ebraica per una frase infelice, ma non più che infelice, sulla kippah detta in Senato dall'onorevole del Pdl Ciarrapico – che ben più sostanziali magagne ha sul groppone – ne ha chiesto l'espulsione dal Parlamento. Daniele Nahum, presidente dei Giovani ebrei italiani, ha dichiarato: “L'espulsione è un atto dovuto perché in quelle parole sono intesi comportamenti antisemiti che devono essere puniti” (ci si è dimenticati che un parlamentare è irresponsabile per ciò che dice nell'esercizio delle sue funzioni). Il pm di Varese ha incriminato 22 giovani, che nel 2007 avevano festeggiato, in una birreria di Buguggiate, il compleanno di Hitler e intonato cori nazisti, “per incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi etnici e razziali”. La Digos ha poi seguito questi ragazzi e ha potuto appurare che non fanno parte di nessuna organizzazione e che non hanno commesso, né in quella occasione né in altre, alcun atto di violenza per cui è caduta l'imputazione di "ricostituzione del partito nazista". Sono stati incriminati quindi solo per aver espresso il loro credo politico, in base alla "legge Mancino". Se fosse viva, Oriana Fallaci sarebbe sotto processo in Francia “per incitamento all'odio razziale”, a causa dei suoi pamphlet antislamici. Sotto processo ad Amsterdam è Geert Wilders, il deputato anti-islam che alle recenti elezioni ha ottenuto un milione e mezzo di voti, per aver paragonato il Corano al Mein Kampf. In Francia è proibito indossare il burqa nei luoghi pubblici in nome della laicità dello Stato. In Italia è proibito con l'escamotage che il viso deve essere scoperto (e allora proibiamo anche i caschi da moto sotto cui si mascherano spesso i killer, mentre una donna in burqa è molto meno insidiosa proprio per l'evidenza del suo vestire). Nelle democrazie baltiche è punita "l'apologia del comunismo". A Vienna lo storico inglese David Irving si è fatto due anni di carcere perché nei suoi libri ridimensiona le cifre dell'Olocausto (sia chiaro che, per quanto mi riguarda, questi macabri conteggi sono totalmente privi di senso, l'orrore non cambierebbe di un ette se gli ebrei sterminati fossero 4 milioni invece di 6 e nemmeno se un solo bambino ebreo o palestinese o malgascio fosse stato o fosse ucciso solo perché ebreo o palestinese o malgascio). Una democrazia, se è tale, deve accettare tutte le opinioni anche quelle anti-democratiche o che paiono più aberranti. È il prezzo che paga a se stessa e che la distingue dai regimi totalitari. L'unico discrimine è che nessuna idea, giusta o sbagliata che sia, può essere fatta valere con la violenza. L'odio, anche razziale, è un sentimento e non si possono mettere le manette ai sentimenti. Io ho diritto di odiare chi mi pare. Ma se gli torco anche un solo capello devo andare in gattabuia. Se in una democrazia, pur con le migliori intenzioni, si limita, anche solo parzialmente, la libertà di espressione su cui si basa si sa da dove si comincia ma non dove si va a finire. Non per nulla il più deciso avversario della legge Scelba, che puniva come reato "la ricostituzione del partito fascista", fu Togliatti che, da quell'uomo intelligente che era, capiva benissimo che si inizia con i fascisti e si finisce con i comunisti. Oggi si puniscono le espressioni razziste, anti-semite, anti-islamiche e in tal modo si è imboccata, in Italia, una strada scivolosa per cui domani potrebbero essere considerati reati manifestazioni di anti-americanismo, di anti-nazionalismo, il parteggiare per i talebani e così via. La "legge Mancino", diciamo le cose come stanno, è una legge liberticida, degna di un regime fascista. (massimofini.it)

martedì 5 ottobre 2010

Oppure ascoltate Travaglio, D'Alema, Nichi ed Ezio Mauro. Christian Rocca

Tony Blair è un gigante della sinistra europea, riformista e moderna. Un uomo politico capace di vincere tre elezioni consecutive, di rinnovare il suo partito e di cambiare in meglio il suo paese. Intervistato da Fabio Fazio dà alla sinistra un consiglio per battere Berlusconi: "Smettetela di parlare di scandali, cominciate a parlare di politica. Dovremmo avere fiducia nella gente, perché legge, può essere divertita dalle notizie, dai titoloni, ma poi quando si vota tutto finisce nel cestino della carta straccia: nell`urna la gente sceglie chi propone la politica migliore per il futuro. Si vince così".
PS
Il 3 ottobre, invece, Repubblica apriva il giornale con una brutta barzelletta raccontata un anno fa da Berlusconi. (Camillo blog)

Altari sconsacrati. Davide Giacalone

La settimana scorsa il governo ha incassato due volte la fiducia, riallineando le varie forze e personalità che lo compongono. Appena chiuso il sipario parlamentare il presidente del Consiglio è tornato a parlare del deragliamento costituzionale, con la sovranità passata dalle mani del popolo a quelle delle procure. Il presidente della Camera s’è collocato sul fronte opposto, negando che alcuna riforma sarà mai fatta se indirizzata contro i magistrati. Due giorni per riottenere la fiducia, altri due per risfasciarla.

A essere ipocriti si può sostenere che la contrapposizione non esiste, dato che le riforme devono essere fatte per una migliore giustizia e non contro i pubblici ministeri. Ma son solo gargarismi, perché se questo è il passo di partenza sappiamo tutti che non si va da nessuna parte. E’ evidente che la giustizia, per funzionare, ha bisogno dei magistrati, il cui ruolo è irrinunciabile e insostituibile. Ma sappiamo altrettanto bene che le deviazioni sono state numerose e frequenti, al punto da doversi accorgere che quel corpo è malato, nel profondo. Vorrei fare osservare, tanto per dirne una, che dopo l’attentato alla procura di Reggio Calabria, il 3 gennaio scorso, un po’ tutti scrissero le solite banalità, del tipo: la ‘ndrangheta contro la procura determinata e onesta. Osservai, allora, che il bombolone era solo un avvertimento e che chi lo aveva piazzato, badando bene di non far male a nessuno, stava dialogando con qualcuno dentro al palazzo. Pare che le cose stiano così e che i delinquenti avessero da lamentare la rimozione di un pubblico ministero, su cui facevano affidamento. Ebbene, sapete dov’è questo signore? Trasferito, per “incompatibilità ambientale”, amministra giustizia presso la Corte d’appello di Roma. Ma vi pare sensato? E che deve fare per essere buttato fuori?

Le parole di Silvio Berlusconi, ripetute a Milano, offriranno materia per le solite reazioni scandalizzate: ha attaccato la Corte Costituzionale e l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Lo dico subito: ha ragione. Non condivido la definizione della Corte come accolita di giudici sinistri, men che meno nella versione pulp: “comunisti”. Ma la sentenza con cui si abrogò la legge Pecorella, la giustissima norma con la quale si stabiliva di non continuare a processare un cittadino assolto per quel medesimo reato, fu una vergogna. Che porta la firma di un giudice, Giovanni Maria Flick, che fu ministro della sinistra e poi presidente della Corte per pochi giorni. Inutile a tutti se non alla sua scandalosa prosopopea. Aggiungo: pronto, lui e i suoi colleghi, a violare la Costituzione per il proprio tornaconto. E questi sono fatti.

Come lo è la condotta di Scalfaro, che pensò di riuscire a svellere il verdetto elettorale organizzando la caduta di Berlusconi, così impostando una politica destinata ad essere la tomba della sinistra seria e di governo (lui, del resto, come i tanti necrofori che la sinistra si porta appresso, è un uomo di destra).

Il punto debole della posizione berlusconiana non sta nel fatto che svillaneggia questi altari sconsacrati, ma nel non essere capace di porre rimedio. La riforma della giustizia non è un compito popolare, ma della maggioranza parlamentare. Le parole di Fini non si prestano ad equivoci, ed è evidente che quella è la spianata, appena fuori dal saloon, sulla quale avverrà il duello. Visto che non serve a nulla rimandarlo, meglio affrontarlo. Il governo presenti subito la sua proposta: una, complessiva, rivoluzionaria. Se su quella cadrà, almeno, gli italiani sapranno il perché. E si regoleranno di conseguenza.