giovedì 30 dicembre 2010

Il futuro della strategia dei veleni. Lucia Annunziata

Maria Antonietta non ordinò mai la famosa collana di diamanti, e non disse mai di dare da mangiare al popolo brioche. Ma per ristabilire queste verità sono stati necessari almeno un paio di secoli, e nel frattempo, come dire, Maria Antonietta, dal suo aldilà, di questa verità non sa esattamente più che farsene: non saranno un po’ di storici a recuperarle una reputazione che i libelli anti regime le hanno in ogni caso rovinato in eterno.

La macchina del fango è una cosa seria, e quella che abbiamo visto al lavoro, indefessamente, negli ultimi anni in Italia, è ancora ben poca cosa. Ha dunque ampiamente tempo e occasione per crescere, se i suoi apprendisti stregoni lo vorranno. Una certezza infatti abbiamo su questo strumento: la macchina della delegittimazione è straordinariamente efficace, ed è sicuramente irreversibile.

E' una tesi, d'altra parte, già sostenuta in un libro scritto un po' di anni fa, nel 1996 (nel 1997 pubblicato in Italia da Mondadori), e che val la pena rileggere nel clima che si respira oggi in Italia. In «Libri proibiti. Pornografia, satira e utopia all'origine della Rivoluzione francese», il noto storico di Harvard, Robert Darnton (autore di un altro libro culto degli Anni Ottanta, «The Great Cat Massacre and Other Episodes in French Cultural History», 1984) racconta come la libellistica settecentesca francese, con le sue opere erotiche e di diffamazione politica, abbia contribuito a preparare la Rivoluzione tanto quanto il possente lavoro intellettuale degli illuministi.

Anzi, sottolinea Darnton, il lavoro filosofico dei Lumi diventa tanto più efficace perché reinterpretato e popolarizzato attraverso la letteratura erotico-diffamatoria. Il più alto esempio di questa commistione è, secondo lo studioso, «Les Bijoux indiscrets», uscito dalla penna di Denis Diderot, il più libertario dei grandi illuministi francesi.

L'accostamento fra il clima prerivoluzionazio francese e gli schizzi italiani odierni sembra - mi rendo conto - pretenzioso oltre che forzato. In realtà, se è vero che la diffamazione è sempre stata, nei secoli - dall'impero romano ai regimi autoritari del Novecento, quali fascismo e comunismo -, uno strumento politico per eccellenza, è durante la rivoluzione francese che assume i caratteri di quel mix tutto a noi contemporaneo di sesso, politica e comunicazione di massa. Un esempio che parla bene al nostro orecchio è il best seller prerivoluzionario «Anecdotes sur Mme la Comtesse Du Barry», del 1775, in cui si racconta l'ascesa di Marie-Jeanne Béen, contessa Du Barry, dal bordello dove esercitava la sua professione di prostituta al letto del re di Francia, e dunque al potere. Una scalata che fa leva sulle debolezze del corpo del re, sessuali o meno che esse fossero. Un corpo concepito nella tradizione come sacro, e che viene invece materialmente avvilito dai suoi stessi bisogni, al punto da far risultare un’associazione imperdibile, secondo Darnton, cioè che lo scettro «non è più solido del pene del re». Il libro contribuì così a creare una forte impressione, il luogo comune che «una masnada di farabutti si era impadronita dello Stato, aveva dissanguato il Paese e trasformato la monarchia in dispotismo». Naturalmente, osserva Darnton, la verità storica è ben lontana da tutti questi racconti; ma la verità, appunto, arriva troppo tardi.

Detto questo, va aggiunto che è ovvio (e anche lo storico non intende sostenere nulla di diverso) che la rivoluzione francese è un evento più grande della libellistica che aiutò a prepararla; ma lo studio sull’efficacia della manipolazione pubblica vale, si è visto poi, per altre cause, altri travolgimenti storici, di segno anche perfettamente contrari tra loro. Molto rilevanti dunque per l'oggi sono le conclusioni che Darnton trae in merito: «Le nostre fonti ci consentono di stabilire un nesso tra la circolazione della letteratura illegale da un lato, e la radicalizzazione dell'opinione pubblica dall'altro».

Frase, quest'ultima, che è la chiave giusta per capire la distinzione fra denuncia e diffamazione: la prima vive della verità, ed è dunque provabile e provata, la seconda vive dell’illegalità, e dunque non solo può ma deve vivere di falsità, di mancanza di prove. La forza d'impatto della diffamazione è proprio nella sua capacità di insinuare, non di dimostrare.

Come si vede, che abbiano o meno letto i libri citati, gli operatori a tempo pieno della macchina del fango del nostro Paese hanno delle ottime ascendenze, e sanno cosa fanno. Una denuncia funziona tanto più se non ha certezza, è tanto più efficace se non provata. La scelta del direttore di Libero, Maurizio Belpietro, di scrivere storie sentite e non verificate, di dare voce a sospetti come se fossero verità, è perfettamente allineata con queste regole.

Eppure, nello scrivere queste parole, non tutto torna. Maurizio Belpietro non è l'ultimo arrivato del giornalismo italiano. Sa bene cosa scrive, ne calcola gli effetti, e conosce meglio di chiunque, essendo da tanti anni direttore, le regole della verifica delle fonti. Se un giornalista di questo livello passa al prossimo stadio del «senza fonti», ci dobbiamo chiedere non tanto perché lo fa, ma cosa registra.

In effetti, la sua scelta registra per tutti noi, non tanto una nuova fase nella battaglia politica interna al centrodestra, quanto la presa d'atto che si è entrati in nuove condizioni politico-temporali: se è vero che la delegittimazione funziona perché offre un’immagine, dà un suggerimento, solleva, come si sarebbe detto una volta, in un'altra sinistra, «un’emozione», allora forse non vale nemmeno più la pena di mascherarla con prove posticce o servizi giornalistici sbilenchi. Insomma, chi vuole una mezza verità se la falsità totale suona tanto meglio?

La nuova fase della macchina del fango è questa: ce la segnala Belpietro con il suo solito andare alla «sostanza» delle cose, com’è nel suo stile sincero. Il suo editoriale di due giorni fa è il «next step», il futuro prossimo venturo del clima in cui vivremo. (la Stampa)

martedì 28 dicembre 2010

Patrimoniale. Davide Giacalone

Giuliano Amato ha proposto di far pagare una tassa patrimoniale, in modo da dimezzare il debito pubblico. In diversi hanno fatto spallucce, ma vedrete che il tema tornerà a galla, quindi meglio definirne i contorni e segnalarne il più profondo difetto: Amato, in un certo senso, ci ha fatto un regalo, dimostrando quanto sarebbe pernicioso un governo tecnico, composto da presunti intelligentoni, ma privo di respiro e idee per il futuro. Il ragionamento di Amato è questo: per dimezzare il debito, riducendone così il peso finanziario, ci vorrebbero circa 10.000 euro a contribuente, ma volendo gravare solo sui più ricchi si tratterebbe di farne pagare 30.000 ad un terzo. Doloroso, ma risolutivo e in una botta sola. Non serve a niente farsi venire la bava alla bocca, o ricordare che il professore è già noto per avere taglieggiato, di notte, i nostri conti in banca. La proposta è irragionevole, e dirò il perché, ma resta il fatto che il nostro debito pubblico è troppo alto mentre il patrimonio delle famiglie è di gran lunga superiore. In caso d’emergenza è li che si andrebbero a mettere le mani. Amato fa finta di non comprenderne le implicazioni, ma gli altri non facciano finta che il problema non esiste, e la tentazione anche.
Il primo errore della proposta Amato consiste nel fatto che quel terzo d’italiani candidati a pagare per tutti non sono affatto i più ricchi, sono solo fra i più onesti. Viviamo in un Paese bislacco assai, in cui la sinistra suppone esistano ancora i proletari, spariti da tanto tempo, e il fisco non vede i paperoni. Che, anzi, sono tali proprio perché non si fanno vedere. Da noi è nascosta la ricchezza, mica la povertà. Fra i contribuenti onesti quelli che dichiarano redditi per i quali 30.000 euro sarebbero un sacrificio, ma non una tragedia, non sono affatto un terzo, ma assai meno dell’1%. Quella di Amato, quindi, è aritmeticamente una bischerata. Diverso se si passa dal reddito al patrimonio, ma, in questo caso, una tassa patrimoniale in quel modo concepita servirebbe solo a gettarci in una recessione profondissima, con un immediato crollo dei consumi. Si salverebbero solo i grandi evasori, in gran parte criminali. Non è carino.
Eppure il tema esiste, perché quel benedetto patrimonio c’è. E, del resto, non è un ragionamento così diverso da quello che fa il governo, quando chiede, in sede europea, di sommare il debito pubblico a quello privato e delle famiglie, riportandoci nella media: nel primo caso sono le famiglie ad essere ricche, nel secondo sempre loro ad essere virtuose. Ed è qui il punto politico: perché mai chi è parsimonioso e risparmioso dovrebbe svenarsi per un’amministrazione pubblica dissennata e sprecona? Sospendiamo la risposta e introduciamo un altro elemento: gli operai di Pomigliano hanno già detto sì all’accordo con Fiat, presto lo faranno anche quelli di Mirafiori, perché non solo conservano il posto di lavoro ma posso anche guadagnare di più. Per ottenere questo risultato è stato necessario rottamare il dogma della concertazione, rompere con la Cgil-Fiom e abbandonare una Confindustria attardata. La defiscalizzazione degli straordinari è sullo sfondo di accordi che tolgono valore sacro al contratto nazionale. Insomma, è un nuovo patto sociale, sebbene stipulato più per disperazione che per aspirazione.
Mettiamo assieme le due cose: si può anche chiedere agli italiani d’intaccare il proprio patrimonio per alleggerire l’onere finanziario del debito, ma solo se si offre loro un nuovo patto sociale, non corporativo e con una pressione fiscale largamente inferiore. Si può pensare di tassare il patrimonio, ma solo per detassare drasticamente la produttività. Allora la cosa ha un senso, assai più onesto sia del ragionamento di mera cassa che di quello che finge sommabili addendi di diversa natura politica e morale, come i debiti statali e quelli familiari. Gli italiani onesti già pagano tasse ingiustamente elevatissime, se si va a chiedere loro qualche cosa si deve offrire loro molto: la rivoluzione fiscale, la liberazione dal taglieggiamento. In caso contrario, se si va a prendere, con la forza, a cura di un fisco cieco e di un’amministrazione pubblica che se ti deve dare qualche cosa ti fa attendere decenni e se ti deve sottrarre un tallero te lo ruba con la violenza, anche se protesti le tue ragioni, se si procede in questo modo gli onesti metteranno mano ai forconi. E se in quel senso si muovesse un governo tecnico, otterrebbe il solo risultato di spingere la gente moderata e per bene a diventare estremista. La terapia perfetta per ammazzare la democrazia.

giovedì 23 dicembre 2010

Ostellino:"Cosa manca a questo centrodestra". Luigi Mascheroni

Piero Ostellino è molte cose. Un gior­nalista, un politologo, un ex direttore del Corriere della Sera , un club del qua­­le pochi possono vantarsi di fare parte, e soprattutto un liberale. Circolo - se possibile - ancora più ristretto. Un «li­berale scomodo», come si è definito una volta. «Ormai, più che altro, un vecchio libe­rale».

Cosa significa essere liberali?
«Essere minoritari in un Paese total­mente privo di cultura liberale, e quin­di essere picchiato sia da destra che da sinistra».

Lei è di destra o di sinistra?
«Sono “altrove”, cioè dalla parte del cittadino. Una categoria di solito di­menticata dalla politica e dal giornali­smo».

Perché dimenticata?
«Perché in tutti i discorsi dei politici e in tutte le pagine dei giornali non c’è mai posto per la più importante delle doman­de: “ Ma a me cittadino, da tutto questo cosa ne viene?”. Vale a di­re: dopo tutti gli accordi, le divi­sioni, i provvedimenti bocciati o le leggi approvate, quanto au­mentano e quanto diminuisco­no la libertà e il benessere del cit­tadino­ elettore? Domandarse­lo significa essere dei liberali».

Questo governo se l’è do­mandato? Cosa ha fatto e cosa non ha fatto di libera­le?
«Ha fatto diverse cose che si proponeva di fare, soprattutto la riforma Gelmini, contro la quale incredibilmente i giovani, pro­babilmente senza neppure sa­pere perché, stanno protestan­do: se c’è una riforma meritocra­tica, che limita il potere dei baro­ni a favore di chi studia, questa è proprio la riforma Gelmini. Cer­to, è perfettibile. Ma poiché la so­cietà perfetta non esiste, se non nella mente degli utopisti, dob­biamo accontentarci».

E cosa non ha fatto invece Berlusconi?
«Nel 1994 promise di fare due cose fondamentali per rilancia­re l’Italia: una radicale riforma della pubblica amministrazio­ne, tagliando la spesa pubblica; e un ridimensionamento della pressione fiscale. Ciò avrebbe si­gnificato ripresa economica e miglioramento della vita socia­le. E questo non è stato realizza­to».

Per colpa di chi?
«Da una parte per un’opposi­zione interna al centrodestra, e con questo non intendo solo Fi­ni o Casini, ma anche qualcuno dentro Forza Italia... E forse per­sino lo stesso Berlusconi non ci ha creduto fino in fondo...E dal­­l’altra, ovviamente,per l’opposi­zione della vera forza conserva­trice di questo Paese».

La sinistra.
«La sinistra. Che non a caso co­me­slogan del proprio conserva­torismo ha scelto “Giù le mani dalla Costituzione!”. Ma se esi­ste una Costituzione vecchia e anacronistica è proprio la no­stra, il risultato di un compro­m­esso tra il cattolicesimo dosset­tiano e il comunismo di stampo sovietico. Una Costituzione che è tutto tranne che liberale, un mi­sto tra collettivismo comunista e corporativismo fascista. Da cui discende la natura della no­stra politica che da sempre, inve­ce che dirigere il Paese, pensa a difendere gli interessi di un grup­p­o piuttosto che un altro e a me­diare tra i diversi interessi».

Lei ha detto che la colpa è anche di qualcuno dentro il partito del premier.
«Sono i democristiani conflui­ti in Forza Italia che si portano appresso il vecchio vizio della Dc di voler accontentare tutti. Correnti, “colori” e fazioni sono l’espressione più evidente delle corporazioni in cui è divisa la so­cietà. Fino a quando questa ten­denza sopravvive, Berlusconi non potrà realizzare i suoi obiet­tivi».

A proposito di Berlusconi, è vivo o morto?
«Visto come è andata alla Ca­mera la scorsa settimana direi proprio che è vivo. Ammazzarlo credo sia difficile. Certo però che è ferito. L’implosione del centrodestra, con l’uscita di Fi­ni, lo ha politicamente azzoppa­to. Gli rimane ancora una gran­de attrazione elettorale, ma ha perso in parte la forza governati­va. Ma in fondo questa è sempre stata la sua natura».

E qual è la sua natura?
«Gli antiberlusconiani lo di­pingono come un autocrate, un dittatore, ma in realtà lui è un monopolista. La sua natura di uomo di affari prevale sulla sua posizione politica. È il migliore nel raccogliere il voto della gen­te comune, cioè dei moderati. Ma una volta vinte le elezioni si convince che la cosa più impor­­tante l’ha già fatta, quando inve­ce deve iniziare a governare. Che significa anche dialogare con i suoi collaboratori, i quali spesso non hanno però il corag­gio di dirgli “Non sono d’accor­do”... Già di suo, poi, Berlusconi è convinto che ascoltare gli altri sia una perditadi tempo. E que­st­o vale anche verso le forze del­l’opposizione. Invece, non dico con Repubblica , ma almeno con Bersani potrebbe parlare... Ma­le non gli farebbe».

I ministri migliori di que­sto governo?
«Non mi piacciono i giochetti migliore-peggiore».

Mettiamola così: quelli che l’hanno più soddisfat­ta.
«Tremonti, per aver cercato di tenere i conti in ordine. È grazie a lui che non abbiamo fatto la fi­ne della Grecia: quando Berlu­sconi si ritirerà potrebbe essere lui il nostro Sarkozy, a patto che l’anima socialista lasci posto a quella liberale. Sacconi, un ex so­cialista di grande buonsenso, an­che se sembra quasi un democri­stiano. Gelmini, per il tentativo di modernizzare l’università. Maroni, un grande ministro de­gli Interni per la moderazione con la quale parla e si muove. E Frattini, il miglior ministro degli Esteri possibile in un governo che ha come premier un mono­polista come Berlusconi che fa già lui il ministro degli Esteri».

Quelli che l’hanno soddi­sfatta di meno?
«Tutti gli altri. Figure abba­stanza grigie». E Fini? «Un altro prodotto del mono­polismo berlusconiano. Era un oppositore interno petulante e ondivago. Ma con l’espulsione dal partito, perché di fatto è stata un’espulsione, Berlusconi lo ha fatto diventare un caso istituzio­nale. Mi chiedo: ma era così diffi­cile sopportarsi? Detto questo, Fini è diventato incompatibile con la carica che ricopre non per l’appartamento di Montecarlo ma perché da presidente della Camera ha creato un partito. Non si tratta di un problema mo­rale, ma istituzionale».

Ma è un traditore?
«No, il tradimento non è una categoria politica».

E dal punto di vista politi­co, cos’è Fini?
«Una figura molto modesta. Non è certo l’alfiere di una de­stra liberale e moderna che qual­cuno vuole farci credere che sia».

La Lega?
«Partita bene, con una voca­zione rivoluzionaria riassunta nel grido grezzo ma efficace “Ro­ma ladrona” contro sprechi, fa­voritismi e assistenzialismo, pe­rò poi trasformatasi in una sorta di Democrazia cristiana locale, troppo attenta alle parentele e agli interessi “particolari” che le impediscono di diventare una vera forza nazionale. Insomma, mi sembra un po’ indebolita».

E la sinistra come sta? È vi­va o morta?
«Definitivamente defunta. E lo dico con rammarico, perché avremmo davvero bisogno di una opposizione seria e riformi­sta. Questa sinistra invece difen­de gli occupati e non i giovani che cercano lavoro, i baroni e non gli studenti... è una sinistra post-comunista che ha perso il miraggio della rivoluzione e non sa dove guardare. Non ha più un riferimento».

E la nuova sinistra? Vendo­la e Renzi? «Vendola mi fa tenerezza, mi sembra un Pasolini che non scri­ve poesie, uno che fa discorsi da vecchio comunista condendoli con una retorica giovanilistica. Renzi è un rottamatore dentro una sinistra già rottamata, un to­scano più incline allo sberleffo che alla retorica. Funzionano be­ne a livello locale, ma nessuno dei due ha la statura del leader nazionale».

Saviano, il «papa nero»?
«Mi fa pena, nel senso cristia­no di pietas: ha scritto un libro di successo, la sinistra intellettuale lo ha usato per fargli dire di tutto e appena ha scritto una lettera agli studenti prendendo le di­stanze dalla protesta di piazza lo ha scaricato. Una vergogna».

Perché gli intellettuali di sinistra non hanno mai sopportato Berlusconi e il berlusconismo?
«Perché, a differenza dell’in­tellettuale liberale che diffida del potere, quello di sinistra ne è affascinato. Adora il potere. E Berlusconi ogni volta che vince le elezioni glielo toglie».

Alle prossime elezioni co­sa voterà?
«Non voto più da 30 anni. Tor­nerò a farlo solo quando verrà ri­formato questo Stato fortemen­te illiberale».

E canaglia.
«E canaglia, sì. Perché uno Sta­to che trucca ­i semafori per gua­dagnare sulle multe e mette le te­lecamere nascoste per vedere chi attraversa la frontiera con la Svizzera, come se fossimo tutti evasori fiscali, è uno Stato cana­glia. Indipendentemente da chi lo governa». (il Giornale)

mercoledì 22 dicembre 2010

Il travaglio dei finiani allo sbando. Andrea Verde

“Fini a Mirabello e a Bastia Umbra ha dimostrato che finalmente l'antiberlusconismo è presente anche nell'elettorato di destra. L'antiberlusconismo è diventato un valore per la destra costituzionale e deve essere coltivato. E credo che Fini non si debba dimettere dalla presidenza della Camera, se lo facesse perderemmo una sentinella al vertice delle istituzioni.” Queste le parole di Marco Travaglio, nuovo mentore futurista, a cui il web magazine finiano ha dedicato ieri una lunga intervista.

E sempre nel numero di ieri, accanto all’accidioso articolo di Flavia Perina contro Maurizio Gasparri, non poteva mancare il corsivo dello scalmanatissimo direttore Filippo Rossi che ci elenca “dieci possibili motivi per scegliere un’idea di destra diversa da quella populista e reazionaria incarnata dal presidente del Consiglio.”

A completare il tutto, come se non bastasse, una raffinata analisi di Antonio Rapisarda su Nichi Vendola, “un populista che suscita sogni…e che ha lanciato un’Opa sulla sinistra e non solo”. Luca Negri nel suo libro “Doppifini” ci ha ricordato che FareFuturo nacque come fondazione culturale e pensatoio meta politico, raccogliendo intellettuali un po’ frustrati, perché se li filano in pochi, che avevano il compito di far conoscere le “idee” di Fini: dopo un blando inizio, sono però arrivati momenti di gloria grazie alla sovra-esposizione mediatica garantitagli dalla linea apertamente antiberlusconiana.

Sofia Ventura, divenne celebre grazie ad un celebre articolo contro il velinismo, che venne ripreso da “Repubblica” e scateno’ la reazione di Veronica Lario contro il “ciarpame”. Da allora Sofia Ventura è ospite fissa nei talk show televisivi, nei convegni, ed è diventata, insieme ad Alessandro Campi, l’intellettuale di riferimento dell’area finiana.

E per smentire i detrattori che considerano “Fini un professionista della politica, ovvero un contenitore vuoto disponibile a riempirsi del liquido ritenuto in quel momento più potabile”, Campi e la Ventura hanno scritto una lunga lettera in cui sostengono che Fli ha fatto diversi sbagli, che l’antiberlusconismo sterile non paga e che occorre riempire l’azione politica di contenuti.

Sai che scoperta! Campi e la Ventura dopo aver criticato aspramente Berlusconi, dopo aver definito il Pdl, “un partito di plastica”, Berlusconi un “maschilista”, dopo aver dichiarato all’Espresso che “il carisma di Berlusconi è finito”, dopo aver prospettato un governo tecnico senza Berlusconi, all’indomani delle elezioni amministrative, oggi si rendono conto che qualche contenuto all’azione politica bisogna pur darlo e che non basta certo la letterina a Babbo Natale, letta da Luca Barbareschi a Bastia Umbra, per fare un manifesto politico.

E come si creano i contenuti? La risposta di Campi e della Ventura è senza appello: sfornando convegni! La convegnite, come Emma Marcegaglia dimostra, sta facendo più contagi dell’influenza aviaria: oggi si discute di tutto e di niente. L’importante è avere una bella cornice ambientale come nel caso di Capri, ospiti illustri e copertura mediatica: poco importa che alle noiosissime discussioni assistano pochi invitati, per lo più assonnati, preferendo i più, fare capannelli, fuori dalla sala, davanti ai buffet sempre ben forniti.

Davanti a tanta inconsistenza politica e culturale come dare torto al Presidente del Consiglio che, a margine dei saluti di Natale, alle più alte cariche dello Stato, avrebbe liquidato il capogruppo di Fli al Senato, con un lapidario; “ Non c’è un cazzo di ragione per votarvi”! (il Predellino)

martedì 21 dicembre 2010

L'icona Ciancimino. Davide Giacalone

I miracoli esistono, come anche i miracolati. Uno di questi riguarda e beneficia Massimo Ciancimino. Trattasi di figlio di un mafioso, a sua volta riciclatore dei soldi criminalmente accumulati dal padre, protagonista di false intestazioni immobiliari, maggiordomo d’incontri con assassini, un individuo cui speri solo che la giustizia riesca a comminare le pene che merita. Ma qui scatta il miracolo: siccome si produce in racconti utili per collegare Silvio Berlusconi alla mafia, ecco che il rampollo della disonorata società diventa star dell’antimafiosità politicizzata e d’accatto, utilizzato da qualche magistrato e dall’imponente blocco pubblicistico che lo trasfigura in riciclatore dell’anima sua. Al punto da potere aspirare a rimettere le mani su piccioli non suoi, perché se la giustizia funzionasse dovrebbero essere prima sequestrati e poi pignoranti, per andare a rimpinguare le casse di uno Stato già abbondantemente danneggiato dai Ciancimino.

Ma non basta, perché i miracoli sono stupefacenti per definizione: lo si è trasformato anche in madonna pellegrina che va in giro presentando un libro di confessioni e rivelazioni, che, come abbiamo più volte dimostrato, è un cumulo di fandonie frammiste a ovvietà, raccogliendo platee cui si fornisce lo spettacolo indecente di un condannato che usa il padre morto e il figlio da poco nato per strappare qualche applauso impietosito. Si dice coraggioso, e a chi gli fa notare che il suo argomentare non sta in piedi, a chi gli ricorda d’essere stato complice dei mafiosi, egli risponde serafico: vorrei vedere lei al mio posto, con un padre dispostico e in totale dipendenza da lui. Come se i figli dei criminali debbano essere criminali a loro volta per forza di natura, se non addirittura per affetto. Lui lo è stato per convenienza. Può darsi che lo sia stato anche per viltà, ma non riesco a considerarla un’attenuante.

Il nettare della sua narrazione pubblica, replica fantasiosa di quanto raccontato alle procure, è il seguente: Vito Ciancimino, il padre, fu lo stratega e il negoziatore della trattativa fra la mafia corleonese, nella persona di Bernardo Provenzano, e il nuovo potere politico, nella persona di Silvio Berlusconi. Quest’ultimo ebbe rapporti diretti, di fattiva collaborazione, con il mafioso Vito, o d’indiretta intesa con i corleonesi, mediante Marcello Dell’Utri. Il tutto destinato a porre fine alla stagione stragista e far avere all’ala non forsennata dei corleonesi le concessioni necessarie a placare l’incedere operativo dei bombaroli. Ci mancano solo i sette nani alleati di cappuccetto rosso. Peccato che Giovanni Conso abbia chiarito il quadro: è vero che il governo decise di fare delle concessioni ai mafiosi, è vero che fu cancellato il carcere duro (41 bis della legge che regola la detenzione) per far cessare le bombe, è vero che al ministero della giustizia si accettò il nesso fra le due cose, ma correva l’anno 1993 e a Palazzo Chigi sedeva Carlo Azelio Ciampi. Per intenderci: Giulio Andreotti era già stato fatto fuori e Berlusconi politico non era ancora nato.

Noi abbiamo più volte sostenuto che la trama della trattativa, così come raccontata anche da soggetti come Gaspare Spatuzza, mancava dei requisiti logici e cronologici. Abbiamo usato il ragionamento e la memoria. Dopo le parole di Conso, che firmò personalmente, quale ministro della Giustizia, i provvedimenti dei quali ora parla, siamo tenuti ad escludere che altri responsabili istituzionali non ne fossero al corrente: il Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro), il presidente del Consiglio e il presidente della Commissione bicamerale antimafia (Luciano Violante). Tutti loro hanno molto e a lungo argomentato tesi e additato complotti che vengono sbugiardati dalla realtà dei fatti ora emersi. Tre incapaci, tre depistatori o tre mestatori?

Torniamo a Massimo Ciancimino. Noi non abbiamo mai chiamato “pentiti” i collaboratori di giustizia. Non esprimo giudizi morali, perché è evidente che le più preziose notizie dall’interno del mondo criminale non possono che venire da criminali. Mi sta bene anche il patto con loro: tu mi dici quello che sai, mi aiuti a provarlo, e io Stato ti faccio lo sconto, anche assai generoso, sulla pena che dovresti altrimenti scontare. Ma è necessaria una postilla: se mi prendi in giro te la faccio pagare, con gli interessi. In questo Paese scombinato, però, non si può dire, perché si alza subito qualche colorito rappresentante dell’antimafia militante e ti dice: così vuoi chiudere la bocca ai collaboratori. No, è che non vorrei chiuderla alla legalità.

Poi arriva il procuratore di turno e teorizza: Ciancimino è credibile a intermittenza. Come gli alberi di Natale. A seconda di quel che dice. Ci sto, ma lo restituiamo alla sua sorte di condannato, perché un collaboratore di giustizia non può raccontare balle. Noi, fin qui, non solo glielo abbiamo consentito, ma ne abbiamo fatto un’icona. Abbiamo divizzato il cattivo esempio. E’ tempo di chiudere questa vergogna.

domenica 19 dicembre 2010

Una giustizia con tempi schizofrenici. il Riformista

Nessuno per il quale non esistano prove di colpevolezza in galera. Nessun presunto innocente in galera in attesa di giudizio tranne che ricorrano timori di fuga, possibilità di inquinare le prove o di reiterazione del reato. Sappiamo che spesso la giustizia italiana ha disatteso anche in modo clamoroso questi principi. Dopo la scarcerazione di 22 dei 23 arrestati per la devastazione del centro di Roma il sospetto di schizofrenia s’insinua.
Ci si chiede infatti: una persona che rientra dall’estero e si consegna spontaneamente ai magistrati, dimostra la sua presente estraneità al management delle aziende che guidava ai tempi in cui si sarebbe consumato il reato (2004-2007), rendendo evidente l’impossibilità di reiterarlo e di inquinare prove che sono raccolte da anni, deve scontare dieci mesi di arresti cautelari (e non sono ancora finiti)? Tale è la situazione di Silvio Scaglia.
Seconda domanda: chi viene arrestato durante disordini di piazza, si presume in flagranza di reato, a quarantotto ore dai fatti non ha già più la possibilità di inquinare le prove o di reiterare il reato? Sapendo oltretutto che tra cinque giorni l’occasione (un nuovo corteo contro l’approvazione del decreto Gelmini nel giorno della sua discussione al Senato, mercoledì 22 dicembre) per eventualmente reiterarlo, il reato, gli viene offerta su un piatto d’argento?
Sicuramente i giudici hanno valutato, come vuole il concetto stesso di giustizia: unicuique suum, ogni singola situazione. E ogni singolo caso è diverso. A tutti e ventitré gli arrestati è stato convalidato l’arresto. A uno sono stati concessi gli arresti domiciliari, tutti gli altri sono stati liberati. Sei di loro, tra cui l’unico ancora agli arresti, dovranno presentarsi davanti al giudice il 23 dicembre prossimo. Era così impensabile affidare anche gli altri cinque alle cure delle loro premurose famiglie per cinque giorni, vietandogli di uscire di casa?
Lo si dice non perché di fronte a quanto tutti hanno visto in televisione si vogliano punizioni esemplari - che poi cinque giorni a casa propria tanto esemplare come punizione non sembra - ma perché in questo modo la domanda di giustizia di chi è stato testimone di aggressioni, violenza e distruzioni viene disorientata. Tutto quello scempio avrebbe un solo responsabile?
Perché le alternative sono due: a fronte delle dichiarazioni che parlavano di “duemila” persone implicate nelle violenze di martedì scorso (così si sono espressi il ministro Maroni e dirigenti del ministero dell’Interno) le nostre forze dell’ordine hanno arrestato solo ventidue persone che non c’entrano niente, e quindi sono degli incapaci.
Oppure la situazione degli arrestati andava vagliata con la dovuta severità, non essendo statisticamente possibile che passassero tutti di lì per caso.
Il risultato, nel primo e nel secondo caso, è quello della sostanziale impunità (salvo verifica nei processi) per chi decide di trasformare i centri delle città in arene nelle quali sfogare la propria, pur talvolta giustificabile, rabbia. Non certo un buon viatico per chi in questi centri vive e lavora, per chi questa sicurezza è chiamato a tutelare e difendere. Soprattutto in vista della nuova invasione di Roma e del nuovo tentativo di assedio ai “palazzi del potere” in calendario per mercoledì prossimo.

La sinistra italiana dalla Tulliani a Madre Teresa. Christian Rocca

Ogni volta sbaglio. Sbaglio a pensare che si sia già toccato il fondo. Ma invece si va sempre più giù. La destra italiana è una barzelletta, ma perlomeno rappresenta un blocco sociale. La sinistra italiana invece è una grande chiesa che parte dalla Tulliani a arriva fino a Madre Teresa. Ora il segretario Bersani propone di allearsi con il camerata Fini, il suo gruppo di rautiani e il democristiano Casini (leggetevi la reazione dei compagni) oppure di consegnarsi chiavi in mano al poeta con orecchino che nella strepitosa rubrica fogliante di Claudio Cerasa dice che “il capitalismo ormai non è solo incompatibile con la democrazia: è incompatibile con la vita”. C'è anche la terza via, quella di trasformarsi in Pds, Partito dei secondini, con Di Pietro e Travaglio ad arrestare tutti (tutti tranne il loro idolo Ciancimino jr, quello che li prende per i fondelli ad Annozero e intanto trama, conta i soldi e fa affari loschi protetto dalla scorta della lobby più potente che c'è). Il quotidiano d'avanguardia intellettuale, cioè Repubblica, è sempre più l'organo della conservazione italiana, contro le riforme, contro il mercato, contro la globalizzazione. Ora si fa un giro di valzer garantista con D'Avanzo e Maltese, dà la colpa di quanto è successo a Roma e a Genova nel 2001 a Berlusconi e Bush, elogia i movimenti no-global ("profetici", addirittura, come no?) e si commuove per le ragioni di quei fessi rimasti delusi dalle palle sulla caduta certa di Berlusconi che la stessa Repubblica (ora anche su iPad) ha spacciato per settimane. E, naturalmente, sì alle primarie (così vince Vendola), ma no alle elezioni (sennò rivince Berlusconi). (Camilloblog)

Appelli. Jena

Non possiamo andare né avanti né indietro, né a destra né a sinistra, fa freddo e nessuno ci vuole bene. L'estremo appello degli automobilisti del Pd. (la Stampa)

venerdì 17 dicembre 2010

Pierferdy e Gianfry, tordi anti Cav giunti all'ultimo salto della quaglia. Giancarlo Perna

La neo unione tra Fini e Casini sembra l’ultima piroetta di una quadriglia. Per lustri, hanno cercato di ingraziarsi il Cav volteggiando con lui, fino a rompersi le ossa in estenuanti galop, inchini e svolazzi vari. Ma la vanitosa damigella di Arcore, si è goduta il corteggiamento, senza scegliere tra i rivali. Così i due, che avevano cominciato le danze a quarant’anni, sono arrivati alle soglie dei sessanta senza cavare un ragno dal buco. E ora, colmi di rancore per la bella inafferrabile, hanno rinunciato alla conquista e si sono messi a ballare tra loro.
L’alleanza, siglata l’altro ieri nel romano Hotel Minerva e che va sotto il nome di Polo della Nazione, è quella tra una coppia di maturi giovanotti uniti dalla sconfitta. Sono azzoppati e stanchi e non hanno nulla da dire. A tenerli in piedi è solo il desiderio di vendetta e la patetica circostanza che, giunti alla loro età, non ci si può reinventare la vita. L’hanno dedicata alla politica senza averne le qualità e sono ora costretti a stare sulla scena perpetuando la propria mediocrità. Hanno la nostra umana comprensione, anche se non è chiaro a cosa puntino unendo due debolezze. Indigna invece che si mettano insieme per dare addosso al Cav. Per farlo, ci vuole una dose industriale d’ingratitudine. Senza di lui, infatti, di entrambi si sarebbe da tempo persa la memoria.
Fu il Berlusca a ripescarli mentre si inabissavano col crollo della prima Repubblica nel 1994. Fini, a capo del Msi, aveva le ore contate. Fu solo la mano tesa del Cav che gli evitò il dimenticatoio. Idem Casini che stava per naufragare con la Dc travolta dalle inchieste di Mani pulite. Il Cav li riacciuffò in extremis, offrendo a ciascuno una cuccia. Il suo errore, col senno di poi, è stato quello di non saperli soppesare e dargli spago aldilà dei meriti. I due si sono ringalluzziti e, dimenticando di essere dei sopravvissuti per grazia altrui, hanno creduto di essere vivi per forza propria.
Ciò che accomuna la coppia di bolognesi è, infatti, l’auto indulgenza: si credono aquilotti e sono tordi. Una volta rifocillati, hanno cominciato a percepire la benevolenza del Cav come una cappa che gli impediva di spiccare il volo. E si sono applicati a scalzarlo. Ora, per avere tramato insieme, sono convinti di potere marciare uniti. Tutto invece dimostra il contrario.
Sono due primedonne inclini all’inganno per prevalere. Fini ha già imbrogliato Casini una volta. Quando nel novembre del 2007, il Berlusca annunciò dal predellino la nascita del Pdl, Gianfry disse: «Siamo alle comiche finali». Era inviperito per essere stato preso alla sprovvista. Ci rimase male anche Casini che era ancora nel centrodestra. «Un colpo di teatro», commentò. E subito i due decisero di reagire. Fini promise all’altro di far fallire il progetto e gli giurò che mai An sarebbe confluita nel Pdl. Tre mesi dopo, impaurito di andare alle elezioni da solo, Fini entrò nel Pdl, lasciando Pierferdy con un palmo di naso. Da allora, sanno di non potersi fidare l’uno dell’altro. Con la nascita, 48 ore fa, del Polo della Nazione, Casini si è preso la rivincita. Nella nuova compagine, infatti, Fini - sconfitto nella prova di forza col Cav sulla sfiducia al governo - è il gregario e Pierferdy il numero uno. Con due galli nello stesso pollaio, le scintille sono garantite. Chi dei due, in caso di elezioni anticipate, sarà il leader del brancaleonesco terzo polo?
Lasciamo ai politologi le previsioni sul futuro e l’analisi di ciò che separa i due tordi: baciapile Casini, mangiapreti Fini; contrario alla riforma universitaria il primo, favorevole alla riforma il secondo; l’uno, fedele alle colline di Bologna per il pic-nic, l’altro appassionato di moules (impepata di cozze) a Montecarlo, ecc. Per parte nostra, ci limitiamo a illuminare il valore dei due pennuti con una carrellata sulle rispettive carriere all’ombra del berlusconismo.
Fini nel 1994 era il ducetto nostalgico di un partitello neofascista. Già antipatico e supponente non sarebbe durato a lungo come leader. Per togliersi dalle peste, fece un passo indietro e, da leader nazionale, si candidò nel ’93 a sindaco di Roma contro Rutelli, ora suo sodale nel Polo della Nazione. Ebbe, nell’occasione, una bella botta di sedere: il Berlusca dichiarò che, se avesse votato a Roma, lo avrebbe preferito a Cicciobello. Era l’offerta di un’alleanza e fu la svolta. Dopo la vittoria nel ’94, il Cav prese il rottame alla sua corte e il Msi cambiò pelle e nome. Fini e i suoi divennero ministri e sottosegretari. Gianfry si montò il cervellino e cominciò a pensare che la luce del Berlusca, che lo illuminava, in realtà gli facesse ombra. Ebbe la genialata di allearsi con Mariotto Segni per le Europee in concorrenza col Polo. Cercava spazio. Si beccò invece una randellata: i due insieme presero meno di An da sola alle politiche di tre anni prima. Gianfry tornò all’ovile e inaugurò una nuova tecnica per essere molesto. Nulla gli andava a fagiolo. Non gli piaceva la Lega, lo innervosiva Tremonti e questo e quello. A ogni petulata, si beccava una nuova poltrona. Col Berlusconi bis, ebbe la vicepresidenza del Consiglio; col tris, la Farnesina; col quater - l’attuale - si è insediato alla presidenza della Camera. Il resto è noto. Perduta An, confluita nel Pdl, si è messo a giocare in proprio. Ha inventato la «destra moderna», gli sono venute le rughe alle palpebre a furia di strizzare l’occhio alla sinistra contro il Cav, a Di Pietro per la legalità, ai Tulliani per gli affari tv e quelli monegaschi. Ha rafforzato il fondo schiena per tenersi attaccato alla poltrona di Montecitorio e, forte del pulpito, ha fondato un suo partito di cartapesta. Ora, dopo avere messo in crisi il governo e dominato la scena per mesi, l’ha persa in favore di Casini cui ha chiesto asilo.
Pierferdy nel 1994 era il più noto portaborse Dc. Lo era stato di Bisaglia e, alla sua morte, di Forlani. Travolto costui da Tangentopoli, Casini depose le penne del tordo e fece il salto della quaglia sulla groppa del Cav. Da quell’appolaiamento, iniziò un’inestimabile carriera. Surclassando Fini nella veste di rompiscatole, ottenne per sé la presidenza della Camera nel 2001 e fior di ministeri per gli altri dell’Udc. Era incontentabile. Non gli garbava la destra, perché puntava al centro. Non la politica economica del Cav perché puntava ai cittadini e non alle famiglie. Non i toni forti del Berlusca perché escludevano gli inciuci dorotei ai quali era avvezzo dall’infanzia (il babbo di Pierferdy era un leader Dc di Bologna). Stufi delle sue paturnie, lasciarono l’Udc per il Pdl, Fontana, D’Antoni, Baccini, Rotondi, Giovanardi, altri. Quando il partito si ridusse a un carciofo senza petali, Pierferdy piantò il Cav sperando di ridurre l’emorragia e trovare - grazie al voltafaccia - comprensione a sinistra. Gli andò male e sono cinque anni che non ha cariche. Ora punta col consiglio di Fini, che in fatto di poltrone è un rifinito tappezziere, almeno in uno strapuntino. Sogna: due evanescenze non fanno uno sgabello. (il Giornale)

Obbligo di capire. Davide Giacalone

Nessuno è autorizzato a non capire, noi non siamo disposti a tacere: i criminali che hanno messo a soqquadro Roma non sono teppisti di passaggio o giovinastri esagitati, ma gruppi militarmente addestrati e con una precisa linea politica. La stessa linea politica che portò, nell’ottobre scorso, Giorgio Cremaschi e Maurizio Landini ad umiliare Guglielmo Epifani, facendolo inginocchiare davanti all’antagonismo sociale e rinnegare la tanto ricercata “concertazione”. La stessa linea politica che ha portato i sindacalisti Fiom ad aggredire sindacalisti di altre convinzioni. La stessa che ha sparato un lacrimogeno addosso a Raffaele Bonanni, capo della Cisl, poi tornando a minacciarlo pubblicamente. La stessa che oggi spinge la Fiom a ritenere possibile togliere spazio a Susanna Camusso, nuovo segretario della Cgil, spingendola sul terreno dello scontro. Il nemico di questa falange violenta non è la destra al governo, ma la sinistra che non chiama la piazza alla sommossa. La colpa della sinistra è di non capire quanto contribuisce all’alimentare i violenti, sostenendo e scrivendo che la colpa degli scontri sarebbe del governo, magari per le misure di sicurezza messe a protezione del Parlamento. O sostenendo che se Silvio Berlusconi mollasse ciò sarebbe sufficiente a pacificare gli animi, con ciò stesso umiliando la sovranità popolare e le prerogative parlamentari. Ogni teoria della “colpa altrui” è complice dei violenti, perché ne copre le responsabilità.

Gli scontri romani sono stati preparati e pianificati, senza che c’entrasse nulla la partita politica che si giocava in Parlamento. Alla Camera dei Deputati il genio politico e l’astuzia tattica di Gianfranco Fini, alimentati da un’egolatria senza appigli, riuscivano a far sembrare un trionfo di Berlusconi il giorno in cui il governo ha perso la maggioranza parlamentare. Ma l’esito del voto sulle mozioni di sfiducia non è stato accolto, dagli squadroni del terrore, come una iattura, bensì come una buona novella, destinata a giustificare la violenza e a condannare la sinistra del parlare a vuoto.

Quest’ultima, effettivamente tale, non si rende conto che opporsi al governo, con argomenti anche durissimi, non solo è un diritto politico, ma talora un dovere, mentre scatenare una campagna sulla corruzione dei parlamentari che non tradiscono abbastanza lo schieramento nel quale sono stati eletti è una scelta demente, destinata solo a togliere spazio alla ragionevolezza per consegnarlo all’estremismo. Insomma: se è vero che il governo si regge sulla corruzione allora è giusto dar fuoco alla piazza. Solo che è falso. Pier Luigi Bersani lo sa bene e, se non è uscito di senno, conosce bene le ragioni per cui la sinistra non vince. Ma tace, crede d’essere furbo a cavalcare il fascismo giustizialista di Antonio Di Pietro, a tenere nelle vele le campagne stampa di Repubblica e del suo soffiare su tutti gli istinti non politici. Crede di potere contrastare Nichi Vendola candidando Piero Fassino a Torino, quindi in una logica tutta interna, anziché lavorando a proposte politiche di totale rottura con il passato. Tutto questo scava la fossa alla sinistra e consegna all’antagonismo la sensazione che sia maturo il tempo per occupare la scena.

I teorici di questa linea politica, che si trovano alla Fiom, sono orfani della guerra di classe, ovvero di una spiegazione del mondo tutta articolata attorno allo scontro fra proletari e capitalisti. Robaccia che spiega la storia tanto quanto gli dei dell’olimpo spiegavano il fulmine. Oggi riciclano le loro mazze ferrate, le loro testuggini corazzate, i loro bombaroli incendiari, nella nuova scena dell’antagonismo sociale, ovvero della rivolta che prescinde dagli interessi e dal lavoro, nutrendosi d’odio per chiunque non veda nello scontro non un mezzo, ma il fine stesso dell’esistenza. Non a caso si ritrovano al fianco i drogati e viziati dei centri sociali. Non a caso finiscono assieme agli ultras del rincoglionimento calcistico (ma assai ben organizzato, quando si tratta di menare). Quanto e cosa ci vuole per passare dallo sfondare macchine e vetrine (di lavoratori veri) allo sparare? Non lo so, spero non succeda mai, ma una cosa è certa: non lo sanno neanche gli stregoni che officiano questo rito macabro e insulso.

Lo ripeto: nessuno è autorizzato a non capire. Nessuno a non vedere che la solita cultura del pensiero moscio e conformista, di cui sono protagonisti i privilegiati cui s’inturgidisce l’anima nel blandire i disgraziati, ha già cominciato a pomiciare con i peggiori. Facciamo finta, si dicono, che sia una rivolta contro l’odiato e indegno Berlusconi, sfruttiamo le mazzate, fingiamo che siano i derelitti che si battono contro la fame e l’ingiustizia. Una recita mentecatta. Ma stia attenta la sinistra, sappia comprendere per tempo qual è la differenza fra il salire sul tetto sbagliato e ritrovarsi accanto il compagno sbagliato. Non si rimpiatti sostenendo che sono provocatorie queste parole, perché la misura è già colma da tempo, e loro già inerti da troppo.

mercoledì 15 dicembre 2010

Chi ha perso di più con il voto di sfiducia? Pierluigi Magnaschi

La gioiosa macchina da guerra di Gianfranco Fini si è infranta sul voto di sfiducia. Il bilancio politico di questa battaglia personalistica (vai via tu, che mi ci metto io) è catastrofico per il leader dei futuristi. In un paese normale (ma l’Italia non lo è) chiunque si dimetterebbe.

Fini ha sbagliato tutte le mosse. Prima, aveva ingolosito il Pd proponendogli di fare un governo di salute pubblica. Bersani, già infiacchito dalla primarie che gli sfuggono dalle mani, ha visto, nell’alleanza con l’ex capo dei fascisti, la chiave di volta per far sloggiare dal potere Berlusconi (che può essere un obiettivo ma che, da solo, non è certo una politica). Fini, però, dopo aver visto i sondaggi che dimostravano che gli elettori sarebbero fuggiti dal Fli se si fosse alleato con il Pd, ha ingranato la retromarcia e, rischiando di grippare il motore, ha annunciato che «non si sarebbe mai alleato con il Pd» lasciando così Bersani in bilico, con il cerino in mano e l’aria stranita. Perdere la faccia, per il Fli, è grave; ma perderla, per il Pd, a causa del Fli, è devastante.

A questo punto, Fini ha ripiegato sul terzo polo con Pierferdinando Casini. Quest’ultimo, che è l’unico ad essere uscito, non solo indenne ma anche visibilmente rafforzato da questa vicenda, si è accorto della strumentalizzazione e, sia pure continuando ad abbaiare contro il Cavaliere, ha lasciato cadere Fini come una pera matura.

A questo punto a Fini restava solo una chance per cercare di salvare la faccia. Far dimettere Berlusconi con il voto di sfiducia. Non gli è riuscita nemmeno questa operazione che, ancora poco prima del voto, veniva data per sicurissima. Berlusconi, da parte sua, ha sicuramente vinto rispetto alle previsioni della vigilia. Ma, altrettanto sicuramente, è uscito indebolito da questo braccio di ferro perché la maggioranza di cui oggi dispone in Parlamento è risicata anche se può aumentare, visto lo stato catatonico in cui versa Fini. Un condottiero sconfitto infatti non attira certo gli entusiasmi della truppa che inevitabilmente tiene famiglia e deve pensare a un futuro che Futuro e libertà non riesce più ad assicurargli. Oltretutto, anche idealmente, non tutti i futuristi sono dei descamisados come Bocchino o degli scalatori di tetti come Briguglio o dei radicali come Della Vedova. I futuristi moderati hanno sopportato a fatica l’esplodere incontrollato degli appetiti di visibilità di certi esponenti Fli a briglia sciolta, per cui la coabitazione, adesso, potrebbe diventare difficile. Dopo il Carnevale viene la Quaresima anche per gli atei. Soprattutto se il Carnevale (senza rete: l’importante era solo gridare) è durato più del solito. (Libero)

venerdì 10 dicembre 2010

I pasticci di Obama. Carlo Panella

Continua a ritmo incalzante la serie di manrovesci che Barack Obama riceve su tutti gli scacchieri della politica internazionale e sul fronte interno. Dopo aver dovuto subire un cocente compromesso con i repubblicani sul fronte fiscale e l’umiliante decisione del Congresso di non mettere mai in discussione la chiusura del carcere di Guantanamo (che comunque Obama non sapeva come chiudere, perché tutte le sue roboanti promesse elettorali si sono rivelate impraticabili e velleitarie), Obama ha dovuto registrare il fallimento di tutta la sua strategia mediorientale, la secca sconfitta nel braccio di ferro con la Cina sulla rivalutazione dello Yuan (vitale per l’economia Usa), il crescere a dismisura della minaccia bellica da parte del Nord Corea e l’incapacità di arrestare il programma iraniano verso la bomba atomica. Il tutto, nella cornice di impotenza planetaria dovuto alla incredibile incapacità dei pur colossali apparati di sicurezza usa di impedire la divulgazione dei report riservati della propria diplomazia da parte di Wikileaks, aggravata dalla constatazione che fedeli alleati, come l’Arabia Saudita, o paesi per la cui libertà sono morti e muoiono soldati americani (Afghanistan e Iraq), boicotteranno, su richiesta cinese, la consegna del Nobel per la Pace al dissidente cinese Lui Xiaobo. E’ questo il Nobel successivo a quello immeritatamente assegnato “ex ante” allo stesso Obama l’anno scorso, segnato però dal boicottaggio da parte di ben 20 nazioni, che su richiesta cinese, non parteciperanno alla cerimonia di consegna a Oslo, nonostante le pressioni in senso contrario di Washington. Il Nobel per la pace precedente, fu assegnato a Obama nella convinzione che la sua clamorosa apertura al dialogo con il mondo musulmano avrebbe aperto scenari di pace rapidi e inediti. Ma oggi l’inconsistenza di quella strategia internazionale si mostra impietosa in Medio Oriente (anche se, i più preoccupanti per la pace mondiale sono quelli cinese-nordcoreano e quello iraniano, in cui Obama, come si è detto, non riesce letteralmente a “toccare palla”). Ieri infatti la Anp di Abu Mazen ha formalmente chiesto agli Usa di garantire il riconoscimento della dichiarazione unilaterale di indipendenza dello Stato di Palestina, per sancire la definitiva rottura di ogni e qualsiasi ipotesi di accordo con Israele. Questa dichiarazione unilaterale è tanto velleitaria (la Anp non controlla minimamente metà del territorio palestinese, che è sotto il controllo dell’acerrima nemica Hamas nella Striscia di Gaza), quanto avventurista, perché segna il riprendere di uno scontro –potenzialmente anche armato- tra palestinesi e israeliani. Avventurismo sottolineato dal fatto che nei giorni scorsi proprio il dittatore venezuelano Chavez e il brasiliano Lula avevano spinto Abu Mazen su questa strada. A questo esito si è arrivati perché Obama aveva iniziato la sua presidenza operando una svolta di 180 ° nella tradizionale politica Usa, annunciando di ritenere obbligatorio che Israele congelasse tutti gli insediamenti per poter dare il via a trattative. Decisione graditissima agli arabi che però Israele ha ovviamente rifiutato per quanto riguarda Gerusalemme, concedendo solo dei “congelamenti temporanei” per quanto riguarda la Cisgiordania. A fronte di questo prevedibile rifiuto israeliano, Obama si è incartato, non ha saputo più che fare, salvo annunciare a sorpresa –con evidente sguardo alle elezioni di Mid Term- la ripresa di una “storica” tornata di trattative per il 2 settembre. Trattative che però non sono mai decollate, perché i palestinesi, forti del precedente appoggio di Obama sugli insediamenti si sono irrigiditi e allora Obama ha cambiato fronte. Resosi finalmente conto di dover fare affidamento su Israele per contenere l’Iran, Obama ha infatti smentito Obama e ha siglato nelle settimane scorse un accordo con Netanhyau, in cui riconosceva il diritto a costruire insediamenti a Gerusalemme. Quadro negoziale saltato, nervi tesi, e sbocco avventurista dei palestinesi in rampa di lancio. Tutto grazie a un dilettante. (Libero)

mercoledì 8 dicembre 2010

I figli e la paura. Davide Giacalone

Già nelle nostre città i ragazzi non possono più giocare, stiamo attenti a non impedire loro anche di circolare. La cronaca restituisce fatti orribili, ma i genitori non cedano alla paura che porta alla clausura. I mezzi di comunicazione soffiano sul fuoco, alimentano il terrore, qualche volta lo scatenano mettendo in scena lo spettacolo truculento dell’accusa, magari per poi condannare quegli stessi istinti che s’industriano a vellicare. Ma ciascuno di noi si mantenga ragionevole, non ceda al chiasso, consideri che ogni giorno, in ogni parte d’Italia, prende corpo anche la normalità. Che nessuno racconta, o trova interessante.

Nelle città d’un tempo si scendeva liberamente in cortile a giocare, si andava in bicicletta per le strade, si potevano anche fare delle partite di pallone sull’asfalto, scansandosi al sopraggiungere delle macchine. Oggi è inimmaginabile ed è già tanto se si riesce a camminare, visto che i marciapiedi sono invasi da parcheggi di vetture e motorini. I nostri ragazzi li portiamo al tennis o al calcetto, a ginnastica o danza con le macchine, rendendo quasi impossibile l’autogestione del tempo libero. A meno che non sia quello della solitudine elettronica. L’urbanistica ha dimenticato i più giovani. Gli artefici del capolavoro s’atteggiano a pensatori dello spazio. Accanto a ciò, che da solo grida vendetta al cielo, si fanno sventolare gli stendardi della paura.

Capitò anche a noi. Nel 1969 fu rapito, a Viareggio, e dopo tre mesi trovato morto, il piccolo Ermanno Lavorini. Per settimane i “grandi” non parlarono d’altro e per noi “piccoli” scattarono i divieti. Poi passò, tornando la normalità. Avevamo sul collo le briglie lunghe e ancora non avevano inventato quelle senza fili (i telefoni cellulari). Anni dopo, frequentando Vincenzo Muccioli, conobbi la disperazione dei genitori cui i figli erano stati sottratti in maniera ancora più subdola, dalla droga. Erano e sono assai più numerosi, ma raramente fanno notizia. Da genitore ho cercato di non dimenticare i tempi in cui ero figlio. L’esperienza insegna, cose elementari e preziose.

Primo: sapere ascoltare. I genitori possono essere autorevoli anche da muti, ma non utili da sordi. Secondo: se non li conosciamo noi, i nostri figli, chi altro? Terzo: prima si riesce a consegnare responsabilità e meglio è. Non possiamo tenerli nella mano per la vita, quindi meglio affrettarsi a indicare le strisce, dare il buon esempio, insegnare a non fidarsi del proprio diritto. Vale per l’attraversamento della strada, come di tante altre difficoltà. Nessuno è mai restato lontano dalle cadute semplicemente non camminando. Anzi, quelli precipitano. Quarto: un genitore è un genitore, non un amico e compagno dei figli. Aggiungo una cosa che farà storcere la bocca: si veste da genitore, evitando la mutanda in vista per far concorrenza alla figlia e la policromia pacchiana per far vedere quanto si è ancora ragazzi. Patetici, in entrambe i casi. Quinto: i maestri e i professori non sono i nemici e noi non siamo i sindacalisti dei somari. Quando prendevo un brutto voto a scuola la cosa complicata era raccontarlo a casa, ora partono le delegazioni parentali per spiegare ai docenti che i ragazzo è fragile. Così lo riducono in poltiglia.

Sesto: non vanno protetti dal dolore, vanno aiutati ad affrontarlo. Vale la stessa cosa per il pericolo. Mi fermo qui, sia perché trovo ridicoli i decaloghi, sia perché non ho nulla da insegnare. Immagino che anche i miei genitori avevano paura quando mi allontanavo e pensavano, in cuor loro, che me ne sono andato da casa troppo presto (18 anni). Per mia fortuna non hanno fatto pagare a me i loro incubi. Spero lo stesso per i tanti ragazzi che debuttano al mondo.

martedì 7 dicembre 2010

Yunus si difende ma la rivoluzione del "microcredito" è finita prima di iniziare. Carolina De Stefano

Le accuse sollevate da un documentario norvegese nei confronti del premio Nobel per la Pace Mohammed Yunus, se si rivelassero vere, provocherebbero la definitiva incrinatura della sua principale invenzione, il microcredito. In altre parole, di un sistema di microfinanziamenti senza garanzie a favore di famiglie poverissime che scricchiola da anni, ma che fino ad oggi è stato talmente politically correct da non poter essere criticato per principio.

Se davvero l’equivalente di 47 milioni di euro donati tra il 1996 e il 1998 alla Grameen Bank fossero stati girati senza autorizzazione a favore di una società sanitaria che fa sempre capo a Yunus, il buonismo occidentale per un po’ sarebbe indotto a tacere. E quel terzomondismo trito che prontamente si era gettato tra le braccia del microcredito trovandovi una cura miracolosa alla povertà, il Bene che trionfava sulle perversioni speculatorie del Capitalismo, sarebbe costretto per una volta ad ammettere che il sistema è lungi dall’essere la soluzione alla miseria nel mondo.

L’idea di base di Yunus è che tutti gli uomini sono potenziali, innati imprenditori, e che l’unica differenza tra un povero e un ricco è l’accesso al credito. C’è da dire che fermandosi ai dati ufficiali della Grameen Bank, l'ottimistica convinzione del “Banchiere dei poveri” (come lui stesso si è definito) sembra essere confermata da un successo incontestabile. Yunus concesse personalmente a cinque donne del Bangladesh il primo prestito senza garanzia nel 1978, oggi più di 150 milioni di persone fanno ricorso a questo tipo di finanziamento. Gli istituti di credito che s’ispirano o dipendono dall’originaria Grameen Bank bengalese sono ormai centinaia in tutto il mondo. È dimostrato che il tasso d’interesse del 20% attuato dalla banca di Yunus, per noi una follia, in paesi come l’India e il Pakistan è preferibile rispetto a fare ricorso agli usurai locali, che arrivano a chiedere un tasso annuale del 50, se non del 100%. La Grameen Bank ha per il 94% clienti donne e ha così permesso loro di accedere ad una banca, spesso per la prima volta. Infine, il tasso di risanamento del debito è del 98%, cioè immensamente alto.

Andando però a osservare in che modo e con quali risultati sia stata combattuta l’indigenza grazie alla rivoluzionaria idea del microcredito, ci si rende conto di quanto il sistema sia stato sopravvalutato. E di come, anche in termini morali, i suoi effetti siano molto meno buoni ed univoci del decennale e consolante luogo comune a cui siamo stati abituati.

La professoressa del MIT Esther Duflo, in un articolo pubblicato su Le Monde nel gennaio scorso, spiega che è per la natura stessa delle sue regole che il microcredito non è in grado di essere la soluzione alla povertà: “Un primo aspetto è la responsabilità solidale, marchio di fabbrica del microcredito”. Come spiega l’economista francese, questo sistema disincentiva il rischio, e quindi la possibilità che una donna avvii attività con prospettive di guadagno, perché le altre donne, che non ricavano nulla dall’eventuale successo dell’investimento ma sono responsabili del debito, non vogliono essere obbligate a ripagarlo. “Anche il rimborso settimanale, altra pietra miliare del microcredito, hai i suoi limiti”. In effetti, scadenze così ravvicinate permettono di risanare il debito, ma impediscono di investire. Il risultato, come dimostrato da uno studio di due istituti francesi (Ird e Cirap), è che in otto casi su dieci i prestiti si tramutano in acquisti di beni di consumo, dai televisori alle cure mediche. Si tratta quindi di finanziamenti che migliorano forse la sopravvivenza, ma che non riusciranno mai ad eliminare la povertà semplicemente perché non producono alcuna ricchezza.

Esiste poi il lato tragico e paradossale di questo sistema: l’usura. Molti non sono in grado di rispettare il dovuto rimborso settimanale, per cui decidono di ricorrere ad usurai e finiscono per inserirsi in una drammatica sequela di indebitamenti a catena. Il microcredito si rivela infine grottesco, cinico e definitivamente immorale quando si scopre, come due settimane fa, che al maggiore istituto di microcredito indiano, la SKS, si possono associare con certezza circa cinquanta suicidi di debitrici insolventi. È emerso infatti che sono gli stessi creditori a suggerire alle loro clienti in difficoltà di uccidersi, in maniera da poter ricevere l’indennizzo previsto in caso di morte del debitore. Tra le accuse recenti, le aspettative deluse e il cinismo che sa dispiegare, il microcredito oggi è in crisi. Nonostante tutto, aspettiamoci comunque che il buonismo cieco ed espiatorio si staccherà dalla sua formula magica terzomondista solo con grande riluttanza.(l'Occidentale)

venerdì 3 dicembre 2010

Gli Ogm sono un bene pubblico. Parola dell'Accademia Pontificia delle Scienze. Alma Pantaleo

Dopo quindici anni di strumentalizzazioni ideologiche e corporative volte a confondere consumatori e opinione pubblica sulla pericolosità del cosiddetto “frankenstein food”, il Vaticano fa luce sul delicato e controverso argomento degli Ogm.

Con il documento “Transgenic Plants for Food Security in the Context of Development” – presentato due giorni fa in un incontro organizzato dai professori Peter Raven e Ingo Potrykus – l’Accademia Pontificia delle Scienze prende una posizione netta sulla questione degli organismi geneticamente modificati definendoli un “bene pubblico comune”, una forma di “solidarietà verso le presenti e le future generazioni”. Gli atti pubblicati qualche ora fa sono il frutto della settimana di studio organizzata dal 15 al 19 maggio del 2009 alla quale hanno partecipato 40 studiosi, sette dei quali accademici pontifici, fra cui l’allora presidente prof. Nicola Cabibbo. Alcuni nomi: Henry I. Miller della Stanford University, Chris J. Leaver dell’Università di Oxford, Konstantin Skryabin della Russian Academy of Sciences, Werner Arber dell’Università di Basilea .

Le conclusioni a cui è giunto il comitato accademico-scientifico mettono finalmente sul tappeto della discussione, con estrema schiettezza argomentativa, i nodi più importanti (nonché controversi) della questione. Primo fra tutti il fattore pericolosità degli organismi: nel documento si legge che “non vi è nulla di intrinseco, nell'impiego dell'ingegneria genetica per il miglioramento delle colture, che renderebbe pericolose le piante stesse o i prodotti alimentari da esse derivati del Sugli Ogm”, testimoniato dal fatto che da quando sono in circolazione non è stato riscontrato nessun caso che dimostri la nocività per i consumatori.

Altra argomentazione molto forte che viene sostenuta nel dossier sono i benefici significativi che si sono riscontrati in quei Paesi – Usa, Argentina, India, Cina e Brasile – dove le colture geneticamente modificate sono cresciute su grandi superfici. Se usati in modo opportuno, questi organismi non solo non ostacolano, ma addirittura favoriscono la biodiversità: “Occorre un impegno particolare per consentire ai contadini poveri dei paesi in via di sviluppo di accedere a varietà migliorate di colture geneticamente modificate che siano adatte alle condizioni locali”, si legge nel documento.

E, elemento non trascurabile, sono anche più ecologici se paragonati alle attuali pratiche agricole, tutto fuorché sostenibili, “come è dimostrato dall’enorme perdita di terreno agricolo superficiale e dall’applicazione di quantità inaccettabili di pesticidi”, che diventano obsoleti proprio grazie a molte varietà di Ogm. Ancora, il gruppo di lavoro rileva che “le valutazioni dei rischi devono prendere in considerazione non solo i rischi potenziali dell’uso di una nuova varietà di pianta, ma i rischi delle alternative nel caso in cui proprio quella varietà non fosse resa disponibile”.

Il documento della Pas individua anche un’altra criticità, puntando il dito sulle regolamentazioni degli Ogm che, in assenza di alcuna giustificazione scientifica, gonfiano enormemente i costi per l’autorizzazione al commercio. Questo mette in condizione di sostenere la ricerca sugli organismi geneticamente modificati solo le multinazionali di prodotti alimentari, che, però, concentrano i loro sforzi sulle colture che fanno profitto e non su quelle che, magari, alimentano i cosiddetti ‘poveri della terra’. Ma come ricordano due componenti del comitato accademico-scientifico che ha elaborato il dossier (Piero Morandini e Chiara Tonelli dell’Università degli Studi di Milano) “su 14 milioni di contadini che usano gli Ogm, ben 13 sono contadini poveri che, di anno in anno, aumentano i loro raccolti e scelgono di riseminare organismi geneticamente modificati sulla loro terra. Il caso del cotone in India, che ha visto raddoppiare le rese in pochi anni, è emblematico”.

In un contesto, definito da Jim McCarty sulle colonne del Wall Street Journal “the Europe’s Scientific Dark Ages”, in cui è sempre stato impossibile cercare di comprendere la portata della questione Omg – visto che la discussione si è sempre risolta in uno scontro, nella maggior parte aprioristico, fra chi è a favore e chi è contrario – e in cui l’“Eco-propaganda” sta cacciando via dal Vecchio Continente la Biotecnologia e i più brillanti tra i ricercatori europei, l’Accademia ha dimostrato di saper interpretare con notevole acume critico le modalità che determinano l'esistenza di un rapporto fruttuoso tra esperti e ricercatori da un lato e politica, industria, società, religione dall'altro. Tenendo conto, allo stesso tempo, degli interessi economici, sociali, umanitari in gioco. Ci auguriamo che questa apertura da parte del Vaticano, squarci il velo dell'ignoranza su un tema dove le troppe (vane) parole non trovano riscontro nei fatti. (l'Occidentale)

Suicidio della ragione. Davide Giacalone

Se la danza, macabra e grottesca, attorno alla bara del suicida Mario Monicelli avesse incontrato un osservatore altrettanto bravo e cinico quanto il morto, oggi si troverebbe ad essere cammeo dei nuovi mostri italiani, intontiti dal conformismo e tramortiti dall’omologazione.
Sono laico abbastanza da ritenere la vita faccenda di questo mondo. Ragionevole quanto basta per sapere che il suicidio è parte della vita e che l’omicidio per pietà, che chiamiamo “eutanasia”, si pratica nella penombra del dolore, più che sotto i riflettori della televisione. Da sempre. Sono umano appena il necessario per capire che un novantacinquenne che si butta dal balcone è un disperato, non un coraggioso. Sono stufo oltre il consentito di un’Italia ove la scomparsa delle ideologie comporta l’ideologizzazione di tutto, anche della morte. Sicché non mi trattengo dal dire che un suicidio come quello di Monicelli non si commenta, lo si osserva come fatto compiuto, e se si apre bocca per far uscire il profluvio di sciocchezze che ho sentito, allora non si conti sul cordoglio per garantirsi l’omertà.

Gente come Ettore Scola o Paolo Villaggio hanno voluto rendere omaggio al “coraggio”. Quale coraggio? Monicelli ha vissuto una vita bellissima e straordinaria, dedita a un’arte che gli ha guadagnato (giustamente) ogni privilegio. E’ arrivato ad un’età che molti invidiano e tanti non agguantano. Cosa lo ha spinto a suicidarsi non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Può essere che non gli mancava nulla, tranne la voglia di vivere. Può essere che ha immaginato un’uscita dalla scena non propriamente in punta dei piedi. Ma il coraggio ci vuole per scelte diverse, per vite meno celebrate, per sentimenti meno esibiti.

Può essere coraggioso un suicidio? Sì, può esserlo: quando parla ai vivi e dice quel che, altrimenti, non sarebbe stato possibile dire. Un esempio? Sergio Moroni, che si sparò una fucilata in testa perché fosse letta la sua lettera denuncia ai colleghi parlamentari. Ma il presidente d’Aula, quel giorno, non la lesse. Monicelli non ha parlato ai vivi, ha chiuso il discorso con sé stesso.

Si può “rispettare la scelta”, come ha fatto il Presidente della Repubblica? No. Si può prenderne atto, e punto. Ma annunciare ai vivi che la si rispetta, quindi la si onora, significa dimenticare che il nostro codice penale punisce (articolo 580) anche chi “rafforza l’altrui proposito di suicidio”. Se si prende il cadavere del suicida e lo si alza agli altari della gloria terrena, interpretando il suo gesto come compimento d’un trionfo, il tutto per non ammettere l’ovvio, ovvero la disperazione alimentata dalla solitudine, si compie operazione assai pericolosa. Per disintossicarcene sarà bene riprendere in mano “Il mestiere di vivere”, di Cesare Pavese.

Cosa c’entra Monicelli con l’eutanasia, totem sacro o sacrilego attorno al quale hanno ripreso a dimenarsi le polemiche? Era incapace d’intendere? No. Era incapace di volere e agire? No. Viveva, con dolore, in funzione di una macchina? No. Non ne poteva più, voleva farla finita, sentiva l’attrazione del gesto paterno (anche il padre si suicidò), o non so cos’altro, ma non c’entra nulla l’eutanasia.

Alla vista della bara i presenti hanno intonato “Bella Ciao”. Una canzone che non è partigiana manco per niente, ma che come tale la si canta. E passi, tanto, di quegli anni, si coltivano più i miti e le bugie che non la storia. Il fatto è, però, che Monicelli non fu partigiano, pur avendone l’età, ma continuò a fare il mestiere durante il fascismo, come la stragrande maggioranza degli italiani, e, anzi, si mise al vento dei nuovi stabilimenti cinematografici di Tirrenia, voluti da Benito Mussolini. Poi, però, fu comunista. Comunista uguale partigiano. A gente che pensa ancora di queste castronerie cosa gli vuoi dire, se non che la suprecazzola prematurata ha lo scappellamento a destra?

Il colmo della disgrazia, per un cinico dissacratore, è quello d’essere commemorato dalle prefiche del conformismo, con il luccicone a favore di telecamera. Il massimo del gramo destino è avere guidato all’esibizione tanti interpreti del proprio pensiero, per poi vedersi accompagnati all’ultima buca da un codazzo d’esibizionisti senza alcunché da esibire. Il mio omaggio alla memoria va contropelo, perché non è falso.

giovedì 2 dicembre 2010

Repubblica alle vongole. Christian Rocca

Posto che non mi piace nemmeno una virgola l'attivismo berlusconiano in Russia e in Libia (peraltro già avviato da Prodi);
posto che un paese i vicini non se li sceglie e le risorse energetiche le può solo comprare;
posto che Hillary Clinton ha chiuso la vicenda (come del resto l'aveva chiusa anche Obama); mi domando come sia possibile che gli stessi politici, giornali ed editorialisti che fino a un paio d'anni fa accusavano Berlusconi di essere troppo filoamericano ora lo accusino di condurre una politica estera poco filoamericana? (camilloblog)

Permanenza pasoliniana. Davide Giacalone

La radice di certe rivolte studentesche è reazionaria, anche se crede d’essere rivoluzionaria. Vive d’ideologie un tanto al chilo, scimmiotta un comunismo mitologico, canta “Bella ciao”, ignorando tutto della guerra civile italiana. Pier Paolo Pasolini vide gli scontri di Valle Giulia, a Roma, il primo marzo del 1968, e non ebbe dubbi: stava dalla parte dei poliziotti. Che c’entra, ci si domanderà, con le cose dei nostri giorni. Assai più di quel che s’immagina.
Allora come oggi furono i docenti (anche in quel caso di architettura) a istigare gli studenti. Furono loro a organizzare i seminari dell’occupazione, loro ad opporsi alla scelta del rettore, che chiamò la polizia. Contro le forze dell’ordine si scatenò la battaglia in piazza. Ne fu protagonista la sinistra studentesca? Così vuole la leggenda, ma diversa è la realtà. A quegli scontri presero parte Stefano Delle Chiaie e i suoi camerati, fascisti dichiarati e violenti.

Pasolini utilizzò il linguaggio di quei tempi (nessuno sfugge al linguaggio dei propri tempi) e riconobbe nei poliziotti i figli dei “poveri”, mentre sul volto dei contestatori ritrovò i tratti “ricchi” delle loro famiglie. La differenza passava tra il lavoro come mezzo per soddisfare i bisogni primari, da una parte, e, dall’altra, la volontà di dominio, affrancatasi dai bisogni materiali. L’unità di misura era la classe, in un metro che non m’è mai piaciuto, non ho mai usato e che, ora, non s’usa più. L’intuizione pasolinina non è attuale (come si dice spesso delle cose che non si capiscono), è permanente.

Veniamo ai nostri giorni. L’università vissuta come mezzo di promozione personale e sociale, come strumento per aspirare ad una vita migliore e più ricca (perché l’aspetto economico è normale, naturale, non demoniaco), non può che essere selettiva e meritocratica. Vale per gli studenti, ma vale anche per i professori. Chi non è capace se ne vada, e i controlli siano reali, efficaci. Gli studi saranno impartiti e terminati dai migliori, in tal senso preparati ad affrontare le arti e le professioni. Contro questa visione del mondo si muove la vasta paccottiglia che pretende di celebrare le messe culturali, salvo collocarsi in fondo alle graduatorie mondiali della conoscenza. Contro la selezione ed il merito si muovono legioni di ricercatori e cattedratici, osannati da studenti cui la pappa è garantita in famiglia. A loro non interessa che l’università sia un ascensore sociale, perché già vivono ai piani alti. Anzi, è bene che l’ascensore si guasti e che la socializzazione avvenga nella crapula, non nel reddito.

A questo ceppo se ne accompagna e somma un altro, che crede d’essere idealistico ed è solo zotico. Suppone che la Cultura, quella vera e maiuscola, per essere libera e creativa debba essere incontaminata dalla realtà degli interessi, del mercato, del lavoro. Pensano che la cultura sia quella delle signorine d’un tempo, costrette a studiare pianoforte nel mentre sognavano d’essere violate dal garzone. Sicché danno vita a concetti farseschi: no alla presenza degli estranei, non alla privatizzazione dell’università. Tanquilli, ma chi volete che ve la compri? Perde quattrini a rotta di collo e produce pochi laureati, perché molti se ne vanno stufi d’essere presi in giro. L’odio verso la cultura del lavoro è l’altra faccia della medaglia di una genia adusa ad avere reddito senza cultura.

Siccome tutto questo produce una società che, da tre lustri, perde competitività, giustamente si scende in piazza per conservarla e tenersela stretta. Poi via tutti, all’happy hour.

mercoledì 1 dicembre 2010

I marocchini contro la sinistra. Dimitri Buffa

“Da oggi parte la nostra rivolta contro la sinistra italiana che ci ha sempre e solo ipocritamente sfruttato senza curarsi di capire quale sia la realtà dell’immigrazione in Italia, ben sapendo che invece non avrebbe mosso un dito per aiutare la comunità marocchina e tutti gli immigrati in questo Paese”.
La peggiore maniera di fare politica in Italia è quella che si rifà al politically correct. Secondo cui i terroristi sono “resistenti” e i governi dei Paesi, nella fattispecie del Maghreb, entità da combattere. Così, l’annosa e irrisolta questione del Sahara ex spagnolo rimane continua fonte di tensione tra le comunità marocchine in Italia e le amministrazioni di sinistra locali che non perdono occasione per mostarsi comprensive con i metodi del Fronte Polisario, organizzazione para terroristica, notoriamente finanziata dall’Algeria che su quel pezzo di deserto, contenente petrolio e gas, volentieri ci metterebbe sopra le mani.
Ergo? Sabato è arrivato un appello via posta elettronica a tutti gli aderenti a questa comunità, che in Italia non sono pochissimi, contenente il suo citato incipit. Una minaccia niente male per chi è così convinto che dando il voto alle amminsitrative agli immigrati si vada a ingrossare il fronte di falce e martello.
Ma anche un monito ai miopi razzisti di quella parte nordista del centro destra che invece automaticamente vive le tematiche di cittadinanza e voto agli stranieri come un attacco alla propria rendita di posizione; il perché dell’appello viene ulteriormente specificato con il fatto che “la nota stampa arriva dopo la notizia che alcuni partiti della sinistra stanno inviando ai comuni d’Italia una lettera affinché venga iscritta all’ordine del giorno dei consigli comunali la condanna del Marocco e vengano dichiarate le responsabilità del governo marocchino per gli scontri avvenuti nella regione del Sahara marocchino”.
Dopo gli scontri, il governo marocchino aveva avanzato una proposta di riforma per istituire forme di autonomia locale a vantaggio del Sahara marocchino. Ma dalla sinistra “..gli attacchi contro il nostro Paese di origine, il Marocco, sono ignobili e si susseguono da anni senza sosta, senza alcun rispetto e nell’ottica della più bieca strumentalizzazione politica.
” Ergo? “Occhio che votiamo per Berlusconi”. Anche loro. (l'Opinione)

Una buona legge: chi la contesta non ha argomenti. Giordano Bruno Guerri

Francesco Giavazzi ha scritto sul Corriere della Sera di ieri un editoriale fulminante quanto illuminante, a partire dalla citazione iniziale di Luigi Einaudi: «Del valore dei laureati unico giudice è il cliente; questi sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all’ingegnere, e libero di fare a meno di ambedue se i loro servigi non gli paiano di valore uguale alle tariffe scritte in decreti che creano solo monopoli e privilegi». (La libertà della scuola, 1953). Einaudi proponeva di abolire il valore legale dei titoli di studio: argomento sacrosanto, che una cultura politica davvero liberale dovrà un giorno riprendere. Da lì si dovrebbe partire per una riforma davvero radicale dell’università italiana.

Ma occorre riflettere anche su un altro punto fondamentale: si può fare meglio in un contesto culturale e politico che negli anni ci ha condotto all’attuale situazione? Cioè quella di un’università dove i concorsi, che dovrebbero selezionare i migliori, paradossalmente costituiscono l’origine marcia, la madre di tutte le corruzioni degli atenei italiani. Concorsi di cui si conoscono a priori i vincitori, parente/amico/protetto/oggetto di scambio di un barone o di un gruppo di baroni.

Quanto ai baroni, la legge Gelmini taglia vieppiù le loro unghie prevedendo che nei consigli di amministrazione possano sedere anche dei non accademici. Sembra un principio elementare, e non si capisce perché se ne debba discutere, come se fosse scontato che un docente di letteratura italiana o di fisica debba per forza essere anche un buon amministratore. Peccato, anzi, che la legge non impedisca che il rettore possa presiedere sia l’ateneo sia il suo cda.
L’università deve essere amministrata anche con criteri di gestione manageriale, se vuole funzionare. È dunque giusto che i fondi pubblici di cui potrà disporre ogni ateneo siano in relazione ai risultati ottenuti. Si tratta di un principio basilare del liberalismo, della competitività, della gestione d’impresa, delle speranze di vittoria: vale per gli studenti nell’ottenimento delle borse di studio come nelle aziende bene amministrate, perché non dovrebbe valere altrettanto per l’istituzione che - più di ogni altra - deve essere formativa?
C’è chi sostiene, polemicamente e strumentalmente, che i fondi sono stati ridotti. Gli osservatori più equilibrati riconoscono che i fondi - nonostante la crisi generale - sono rimasti al livello del 2007-08.
C’è poi chi confonde il precariato con il merito. La riforma introduce la figura di docenti giovani in prova per sei anni, che verranno confermati in base a «risultati positivi nell’insegnamento e nella ricerca».

Che c’entra con il precariato? Se hai ottenuto buoni risultati verrai confermato e presumibilmente promosso, se non li hai ottenuti verrai giustamente invitato a cercare un altro lavoro. A questo proposito è davvero stravagante l’emendamento proposto dall’Udc, che vorrebbe abrogare il Comitato dei garanti per la ricerca, introdotto su proposta del Gruppo 2003, ovvero i trenta ricercatori italiani i cui lavori hanno ottenuto il maggior numero di citazioni nelle pubblicazioni scientifiche di tutto il mondo. Occorre informare d'urgenza l’Udc che la ricerca è alla base della vita stessa di un’università che non sia soltanto un laurificio. E che la riforma Gelmini - per quanto migliorabile - va proprio in quella direzione.(il Giornale)