lunedì 30 aprile 2012

Maddalena dava a Cesare. Davide Giacalone

Concetti come “notizia di reato” e “obbligatorietà dell’azione penale” valgono solo quando sconfinferano ai signori della procura, altrimenti possono tranquillamente essere considerati al pari della spazzatura. Quella che segue non è la solita (mia) tiritera garantista, ma la denuncia di un reato. Grave. Sebbene resti da stabilire se a commetterlo sia stato Marcello Maddalena o Cesare Romiti.
Leggendo il libro-intervista di Romiti, incalzato da Paolo Madron, Filippo Facci aveva trovato una perla: l’ex capo della Fiat ricorda che quando pubblicò un articolo, sul Corriere della Sera, destinato a sollecitare gli imprenditori a recarsi presso la procura di Milano e confessare, non lo fece spontaneamente, ma su richiesta di Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Escluso che fra i compiti d’ufficio dei procuratori ci sia quello d’indurre i cittadini a scrivere quale che sia cosa, posto che Romiti ha il pudore di non dirlo esplicitamente, ma fu in quel senso costretto, resta il fatto che quel ricordo è rivelatore, benché non sorprendente.

Ho trovato un’altra perla. Questa volta è nera. Secondo quanto racconta Romiti il procuratore di Torino, Marcello Maddalena, in quei giorni caldi in cui le inchieste producevano arresti di massa e qualche suicidio, chiamò il responsabile dell’ufficio legale della Fiat, Ezio Gandini, e gli disse (virgolettato nel libro, quindi frase testuale): “Basta, non si può più andare avanti così, bisogna che le lotte interne finiscano, perché qui ogni giorno arrivano soffiate anonime da parte di alcuni manager interni alla Fiat”. Strane queste soffiate anonime, che vengono da manager. Perché non impiegati, debitori, mitomani? Come faceva Maddalena a sapere che erano manager? Ecco la risposta: Gandini gli chiese da che ambiente arrivavano e lui, serafico, lo informò che i mittenti erano riconducibili all’entourage di Umberto Agnelli. Il che vuol dire, in buona sostanza, che non erano anonime manco per niente.

In tutti questi anni, quando ci lamentavamo d’indagini nate dalle chiacchiere e alimentate con anni d’intercettazioni e spese inutili, ci rispondevano: la procura deve cercare ovunque le notizie di reato, è la legge che impone di non trascurare alcun dettaglio. Bene. Quando rilevavamo o l’accanimento su certi soggetti, o la insensatezza di certe accuse ci rispondevano: la legge impone l’obbligatorietà dell’azione penale, il procuratore non sceglie quali indagini fare, non è lui a decidere chi indagare e chi no, ma si limita ad attenersi alla legge. E va bene. Difatti sono favorevole alla cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che è una gran presa in giro. Come anche questi ricordi confermano, perché, di grazia, in quale articolo del codice è previsto che il procuratore chiami il capo dell’ufficio legale dell’azienda sulla quale dovrebbe indagare, chiedendogli di mettere il bavaglio e legare le mani a quei quattro sciamannati di suoi dipendenti che continuano a spedirgli denunce, mettendolo nel grave imbarazzo di dovere dare loro corso? Non c’è, nel codice. Non c’è da nessuna parte.

Se così stanno le cose, però, ci sono due conseguenze: a. Maddalena commise un reato, violando i doveri d’ufficio e informando la parte indagata, addirittura suggerendo un preventivo inquinamento delle prove (che è una delle sole tre ragioni per cui si può mettere in galera un cittadino ancora innocente, vale anche per la procura?); b. la notizia di tale reato è contenuta nel libro e nelle parole di Romiti e, per maggiore sicurezza, qui messa in evidenza. Prego, si proceda.

Naturalmente è possibilissimo che il reato lo abbia commesso Romiti, distorcendo le parole di Maddalena e diffamandolo. Il signor procuratore sa cosa deve fare, in questo caso. Confesso, però, di essere un po’ prevenuto, e avendo letto un meraviglioso libro di Maddalena, nel quale si descriveva con estasi mistica l’arresto degli innocenti e si strologava di processi fatti fuori dai tribunali, so che ha una visione molto personale della legge. Raramente collimante con il diritto. Sicché, fra i due, tendo a credere a Romiti. Ma è solo un problema di gusti e d’estetica, sebbene sia pronto a risponderne ovunque me ne sia chiesto conto.

giovedì 26 aprile 2012

Casa (senza) famiglia. Davide Giacalone

Le vie del fisco sono infinite, ma infide. Si discute da anni, in un Paese che ama i problemi per poterne discettare, escludendo di risolverli prima che cessino d’essere di moda, se riconoscere o meno le coppie di fatto, siano esse mono o multisessuali. Dibattito acceso e ozioso. Alla fine, però, si tassano le famiglie e si agevolano le coppie di non sposati. Accade con l’Imu, ove l’agevolazione prima casa, in una famiglia di moglie, marito e figli, è riconosciuta per una sola abitazione, quindi non solo sale la tassazione, ma si restringe l’esenzione. Se quei due non avessero avuto l’infelice idea di sposarsi potrebbero contare su due detrazioni. Una situazione illogica, che ribalta non solo il dettato costituzionale, ma anche il buon senso.

Da laico, non ho una visione sacrale del matrimonio. Da persona ragionevole so che è socialmente utile agevolare la vita di quanti mettono su famiglia e figli al mondo. Capisco il fascino di far lavorare solo gli extracomunitari e la libidine di prendere all’estero anche i governanti, ma avverto che questa specie di decadenza nobiliare equivale alla cancellazione dell’Italia. Da essere umano inadatto all’odio verso gli altri rispetto le scelte di ciascuno, né trovo alcunché da ridire per quanti, quali che siano il loro gusti sessuali, intendano convivere. Da cittadino che vive in uno stato di diritto, però, pretendo per i loro eventuali figli le stesse tutele che hanno quelli nati da un matrimonio, ma mi rifiuto di assegnare ai conviventi gli stessi privilegi che sono specifici dei coniugi, ove, si badi bene, questi comportino costi per terzi. Quindi: i conviventi si rechino pure in visita in ospedali e carceri (che idea disgraziata della vita!); si dia libertà al morituro di stabilire a chi vuole lasciare i propri beni; ma niente pensioni di reversibilità, tanto per fare un esempio. In sintesi: ciascuno faccia quel che vuole, ma a spese proprie, con tutela per i bambini e con agevolazioni per chi li fa nascere. Ecco, con l’Imu s’è fatto l’esatto contrario, sicché, dopo chiacchiere interminabili, s’è buscato ponente per i levante. Non per scoprire nuove terre, ma per mettere nuove tasse sulla famiglia, da cui le non famiglie sono esentate.

Vorrei sapere cosa ne pensano quegli ipocriti perdigiorno che da decenni ci fanno una capa tanta per spiegare che la famiglia viene prima di tutto e che la famiglia legittima è solo quella del matrimonio, meglio se santificato e, quindi unico, poi, però, collezionano famiglie (ho visto che anche quelli di Comunione e Liberazione si separano, e se non fossi estraneo al ramo direi: non c’è più religione) e, all’occorrenza, votano a favore di chi discrimina negativamente le famiglie. Vorrei proprio sentirli.

Due osservazioni ulteriori. La prima: quei coniugi disgraziati potrebbero avere comprato la seconda casa, in attesa di lasciarla ai figli, proprio mettendo in conto l’agevolazione che la legge consentiva, ove si cambi regime, forse, sarebbe bene far salvo il passato. Lo abbiamo già visto a proposito dello scandaloso tema dell’“abuso di diritto”: pensare di punire chi s’è attenuto alla legge, ma lo ha fatto traendone un vantaggio, è abominevole. La seconda: a me sta bene spostare la pressione fiscale dai redditi ai patrimoni e ai consumi, ma “spostare” non è sinonimo di “sommare”, e se le tasse sulla casa crescono quelle sul reddito devono scendere. E senza fare i furbi, perché questa roba è stata promessa da anni (soprattutto dal centro destra, che ne porta la responsabilità), nel mentre crescevano tutti gli altri tributi.

Infine, è noto che i valori catastali sono spesso irreali, nel senso di troppo bassi, ma è anche vero che noi assistiamo al loro crescere, all’appesantirsi dell’aliquota e del conteggio, al diminuire delle agevolazioni, nel mentre scendono i valori commerciali degli immobili. Il tutto senza che calino neanche le tasse sulla compravendita, per cui è costoso tenere gli immobili, ma anche venderli (male). C’è un’espressione che sintetizza il concentrarsi sulle cifre smarrendo la razionalità: dare i numeri.

lunedì 23 aprile 2012

Caramelle. Gianluca Perricone

 
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Come noto ai più, Crema è in provincia di Cremona, in quella Lombardia che ci ha fin troppo abituato ad azioni giudiziarie alquanto controverse. Meno noto, forse, è il fatto che in quel di Crema gli ambienti giudiziari siano impegnati a seguire un caso che davvero potrebbe finire su tutti i testi di diritto penale delle università italiane, anzi europee: il furto – datato agosto 2010, quasi due anni fa – di un pacchetto di caramelle dal valore (tenetevi forte!!!) ammontante a ben 1euro e 19centesimi. Roba da mettere in ginocchio la già malridotta economia nazionale. 
E – almeno a leggere la cronaca milanese di Repubblica – ad occuparsi della rilevante vicenda sono stati due giudici: insomma “roba grossa”, come scriverebbe Marco Travaglio.
La 24enne romena accusata di cotanto misfatto ha intanto fatto perdere le proprie tracce; insomma si è resa irreperibile ma, come è noto, la nostra giustizia è testarda (dimostrandosi, spesso, sprezzante anche del senso del ridicolo) e va avanti nel proprio corso.
Sempre la cronaca milanese del quotidiano diretto da Ezio Mauro ci ricorda che «la prima udienza risale al gennaio scorso. La successiva è stata celebrata con l'audizione dei due soli testimoni: la commessa del market e l'agente di pubblica sicurezza che formalizzò la denuncia a piede libero». Ad autunno prossimo si svolgerà anche la terza udienza dedicata alla discussione in aula. Alla quale dovrà partecipare anche il difensore d’ufficio della 24enne (il quale, candidamente, ha fatto sapere di non aver mai incontrato la sua cliente né di essere mai riuscito neppure a contattarla) ma non di certo la sua cliente che chissà da dove starà assistendo a questo “processo”. L’avvocato, del resto ha giustamente precisato che «il problema non è tanto il furto in sé, ma se valga la pena di spendere tante energie processuali per un danno da un euro e 19 centesimi. Trattandosi di un reato aggravato e quindi procedibile d'ufficio, però, non è neppure percorribile la via della remissione della querela, magari a seguito del risarcimento».
Verrebbe da chiedersi – e da domandare, soprattutto al Guardasigilli in carica – se sia mai possibile che un Paese possa andare avanti con questo tipo di sistema-giustizia, inteso sia come normative vigenti che come magistrati operanti.
Verrebbe (anzi, viene) spontaneo altresì chiedersi a quanto ammonti il costo di due giudici (che, forse, potevano essere impiegati a giudicare su casi più rilevanti) e quanto possa essere il denaro speso mettere in piedi tre udienze giudiziarie: di certo più di 1,19 euro. (Legno Storto)

giovedì 19 aprile 2012

Ultima chiamata per il Professore. Marcello Veneziani

Italiani, proviamo a metterci nei panni di Monti, anche se lui non si mette nei nostri. Lui ci colpisce selvaggiamente con rozze tasse e accise perché gli invocati tagli,dismissioni e liberalizzazioni non gli sono permessi dal Parlamento e dai partiti, ma anche dalle banche e dalle lobbies.
Mario Monti 
Capisco, però dico: ha un bel cervello, un bell'eloquio e un bel curriculum, se non ha le manopole e le valvole al posto del cuore e del fegato, perché non parla al Paese a reti unificate per dire chiaro e tondo: io vorrei fare questi tagli, abbattere questi costi politici, liberalizzare questi settori e dismettere questi comparti, e domani presento un progetto organico. Se me lo approvano in tempi rapidi e in modo integrale, vado avanti; altrimenti mi ritiro, ma sappiate a questo punto che non è colpa mia quel che succederà. Lo apprezzeremmo tutti, lo sosterremmo in tanti, anche se è tecnico. Una buona democrazia, a mio parere, funziona se un governo è legittimato dal popolo sovrano ma poi decide in piena autonomia e governa senza ricatti. Oggi invece, siamo al contrario: abbiamo un governo non legittimato dal voto ma non in grado di decidere nulla di sostanziale, perché i partiti e le altre caste hanno potere senza avere responsabilità. Col risultato che può accanirsi col popolo sovrano, tassando casa, lavoro e trasporti, ma non con i principali responsabili dello sfascio. Perciò dico: occorre un atto di forza, una svolta netta che metta tutti davanti alle proprie responsabilità: dentro o fuori, salvezza o baratro. Coraggio, Presidente, alle armi. (il Giornale)

mercoledì 11 aprile 2012

Il boss, il Cavaliere e la vajassa. Angelo Libranti

E’ di ieri mattina la notizia raccolta da Dagospia sull’“accordo” fra Bossi e Berlusconi, circa il passaggio del simbolo leghista a quest’ultimo per ottenere la remissione di risarcimenti dovuti dopo una serie di sentenze in sede civile.
La vicenda nasce nel 1995, quando Bossi dopo aver tolto la fiducia al governo Berlusconi, cominciò ad inveire ed offendere l’ex sodale, citandolo pubblicamente come mafioso e malavitoso. Naturalmente il Cavaliere dette querela e dopo udienze e sentenze ottenne la condanna di Bossi, alla quale seguì il pagamento di ingenti somme che Bossi e la Lega non erano in grado di pagare.
Quando nel 2001 si presentarono le elezioni politiche, Berlusconi apprese dai sondaggi che non avrebbe vinto senza l’adesione della Lega; allora propose l’accordo politico e per garanzia di futura fedeltà pretese la cessione del simbolo del partito, come pegno.
La notizia, ripresa dal Corriere della Sera, ovviamente non è sicurissima e va accertata, ma diventa possibile se riandiamo all’aria che tirava alla vigilia di quelle elezioni. Non è mai stati spiegato come mai, repentinamente, due nemici politici improvvisamente trovarono l’accordo e come mai Berlusconi rinunciò a risarcimenti milionari da un giorno all’altro.
Qualcosa ci fu, e dimostra la spregiudicatezza di Bossi nel condurre un partito affermato, sproloquiando sulla moralità altrui e gestendolo nel peggiore dei modi. Questo personaggio si è fatto la fama di avere fiuto politico, quando non riesce a fiutare neanche in casa sua se è vero, come è vero, che moglie e figlio facevano di tutto per metterlo in difficoltà, per non citare i suoi più stretti collaboratori, dimostratisi inaffidabili e cialtroni.
La malattia c’entra poco, ci sono cose che uno vede e percepisce, come il voler imporre in politica un figlio non adatto ed affidare la cassa ad un personaggio già chiacchierato e squalificato. Per candidare un leghista ad una carica pubblica, lo statuto prevede diversi passaggi di attività e di anzianità che Bossi ha volutamente ignorato. Non poteva non conoscere lo statuto che egli stesso aveva contribuito a formare.
Sarà vero che guarda al denaro con noncuranza e conduce vita parca, ciò non toglie che non ha fatto nulla per verificare, per esempio, come vivevano i figli disoccupati. Quando si spende e spande uno si chiede da dove vengano tanti soldi e quando la base mormora si ha il dovere di capire dove è il problema.
Ha voglia Giuliano Ferrara di imprecare che nessuno infanghi “la canottiera che cambiò il paese”; la canottiera si è infangata da sola con una condotta autoritaria e spregiudicata. Il Nord, incanalato nella sua protesta in un partito compatto, avrebbe potuto benissimo guardare a Forza Italia prima e al Pdl poi, senza bisogno di infiocchettarsi con orpelli barbarici e riti pagani.
Ferrara non “azzecca” cosa poteva diventare l’Italia senza la defezione di Bossi nel 1994 in una legislatura formata sì da ministri improvvisati, ma gravida di proposte epocali, come la riforma del lavoro, che ancora oggi è sul tappeto, e come altre riforme e propositi che, interrotti dall’inconcludente Prodi, non sono stati più fatti per mutato quadro politico e per insensibilità della Lega, troppo attaccata agli interessi di bottega.
La furbata di dimettersi, poi, è la classica ciliegina; esce dalla porta ed entra dalla finestra con la presidenza, tra l’altro non prevista nello statuto leghista. Sarà presente in tutte le riunioni e in tutti gli organi di partito ed è stato anticipato che potrebbe persino tornare segretario della Lega.
Se non è un boss a tutto tondo, pochissimo ci manca.
Per concludere, cosa dire di un personaggio come Rosy Mauro? La conoscevo poco e solo di nome, attraverso i filmati di questi ultimi giorni ho scoperto la vajassa della Lega in servizio permanente effettivo, anzi, vicepresidente del Senato. Ma per piacere… (the FrontPage)

Questo è lo scenario politico per l'Italia: a volte la fantascienza è più prevedibile della realtà. Jester Feed





Noi pensavamo che l’Italia della Prima Repubblica, quella per intenderci del pentapartito, degli inciuci di palazzo e della connivenza tra maggioranza e opposizione fosse scomparsa. Pensavamo che con l’avvento di Berlusconi, il bipolarismo in Italia fosse diventato una realtà. Pensavamo che tra antiberlusconiani e berlusconiani si fosse creata una logica bipolare che vede da una parte il progressismo (per modo dire) della sinistra e il moderatismo della destra.

Nella foto: Corrado Passera

Sognate… Sognate perché il sogno durerà ancora per chissà quanto tempo. Non a caso, l’idea che va per la maggiore nel palazzo del potere è un ritorno al caro consociativismo, agli inciuci, al grande centro e dunque ai governi non espressi dalla volontà popolare ma dagli accordi di segreteria, dopo le elezioni of course. Perché è questo l’obiettivo di lor signori.

Mi spiego meglio. Il Governo attuale — a mio modesto parere — non dovrebbe andare oltre ottobre. Non ci sono più i presupposti politici ed economici per farlo durare. Ormai la sua missione è compiuta: recuperare il denaro per gli speculatori dei titoli pubblici, riassettare il debito italiano nei limiti del trattato europeo, decisi — chissà perché — dagli stessi speculatori e dalle oligarchie che governano la BCE, e riformare il sistema previdenziale e lavoristico in modo da far gravare sui ceti medio-bassi il peso della crisi. Avete visto riforme che tendono a ridurre la spesa e a eliminare gli sprechi (del tipo stipendi e rimborsi elettorali)? Neanche per idea. Le uniche “riforme” che si sono viste sono quelle che hanno introdotto nuove tasse o aumentato quelle già in vigore. Questo dimostra che quanto dico è molto vicino al vero.

Ma andiamo oltre. Tolta di mezzo la Lega, prima di ottobre ci sarà probabilmente una riforma della legge elettorale. In che direzione? Semplice: verrà eliminato il meccanismo del premio di maggioranza. In altre parole, si andrà a elezioni in autunno senza questo premio. Ciò significherà — detto papale papale — che nessun partito o coalizione di Governo potrà governare in autonomia. La conseguenza? Un nuovo governo tecnico. Guidato da chi? Beh, i nomi possono essere tanti, ma è quello di Passera il più quotato. Mentre al Quirinale salirà ancora una volta un esponente di sinistra, perché la maggioranza relativa nella prossima legislatura sarà del PD. Chi? Magari Prodi.

A questo punto ci si trascinerà ancora per un po’ finché i partiti non faranno dimenticare alla gente il bipolarismo, la Lega, il berlusconismo e così via. Dopo di che lo scenario politico italiano (parlo dei prossimi dieci anni) vedrà la rinascita di un grosso partito centrista che — come la vecchia DC — farà e disferà i Governi, con il suggello e il sigillo delle elezioni, che torneranno a essere quelle che erano in passato: un banale proforma costituzionale senza alcuna sostanza e valenza politica.

Intanto ci saranno sicuramente delle “riforme”, ma non quelle che ci si aspetta e quelle realmente utili al paese. Probabilmente verranno introdotti i matrimoni gay, l’immigrazione verrà incentivata con la cittadinanza breve e avremo frotte di islamici e moschee in tutto il paese in nome del multiculturalismo, l’Italia perderà ancor più velocemente la propria sovranità economica e politica in favore della burocrazia europea. Verremo invasi dall’economia cinese (più di quanto lo siamo ora) e l’integrazione europea sarà la nostra morte identitaria, se mai abbiamo avuto una identità nazionale. E mi fermo qui.

Voi credete che questa sia fantascienza? Bene, è probabile. Ma a volte la fantascienza è più prevedibile della realtà. Abbiamo visto le modalità con le quali il Potere, quello con la P maiuscola, quando ha deciso che un Governo legittimamente eletto non dovesse più governare, ha decretato la fine del Governo Berlusconi, piazzandoci Monti al suo posto (roba che negli USA avrebbe comportato una marea di arresti per alto tradimento). Dunque, fantascienza o no, aspettiamoci il peggio del peggio per il futuro del nostro paese: un ritorno al passato più becero e antidemocratico di sempre. Quello che i sinistri antiberlusconiani magari non sognavano ma che con il loro livore decennale hanno contribuito a resuscitare. (rischiocalcolato)

martedì 10 aprile 2012

La fine di Fini. G.L.

Gli ultimi finiani asserragliati nel futurista commentano con vivace intelligenza le dimissioni di Bossi; "fuori due!". L'altro essendo Berlusconi. La cosa piu fastidiosa nella caduta dei protagonisti è il giubilo dei comprimari. Forse è vero che Bossi e Berlusconi sono usciti di scena. Il guaio di Fini però è di non esserci mai entrato. Il suo declino si consuma senza fragore e senza lasciare traccia. (l'Occidentale)

giovedì 5 aprile 2012

Il trionfo del re ferito. Annalena Benini

Dopo il buio nel corpo, Bossi è tornato padrone di sé (tranne i capelli) e del nord. Ritratto

“Diciamo pure che ho avuto culo”
   
(Umberto Bossi)
Lo si riconosceva dalla voce, molto prima di vederlo. Grugnito lombardo che copriva tutto, molti da salutare e qualcuno da mandare affanculo. “Arriva il capo”, “Ecco il Bossi”. A via Bellerio, in ufficio, nei comizi, per strada, a Pontida, sui barconi. Camicia a quadretti, giacca a quadretti, cravatta a caso, fazzoletto verde. Arrivava e travolgeva: chi aveva fatto cazzate o aveva alzato la cresta sapeva che a Bossi bastava un grugnito più feroce del solito.

Prima di accasciarsi. “Manuela, sto male, aiutami”. La voce non c’era più: tagliata via. Tracheotomia e tutto il resto, la morte accarezzata (anche desiderata, “ma ho continuato a combattare, perché sono un lottatore vero”) nel letto di ospedale, quando non si poteva raccontare nulla, quando Roberto Maroni, Roberto Castelli, Giancarlo Giorgetti e Roberto Calderoli dovevano fingere ottimismo sulle condizioni di Bossi, ma non erano bravi a raccontare balle sul capo. Salva la vita e perduta la voce. Bossi non sarà più Bossi. Nel primo messaggio registrato per Radio Padania, nel 2004, non si capisce niente tranne: “Non sono morto”. Un anno dopo, non riusciva a parlare per più di cinque minuti. Grugnito affievolito e tremante. Adesso si è ripreso anche la voce. Di nuovo lo si sente arrivare: grugnito soffocato, ma grosso grugnito leghista. Al microfono rende peggio, bisogna amplificarlo, ma da vicino è quasi come prima, dicono i suoi, “fa paura come prima, anche se è diventato più buono”. Si commuove, adesso, parla sempre della moglie e dei figli, regala dolcezze al suo popolo: “Lo so che mi volete bene”.

La prima volta che rimandò Pontida perché era ancora quasi morto, disse: “Mi mancate tanto”. Adesso Bossi ha ricominciato a fare pernacchie, dita medie, adesso aspetta i definitivi risultati elettorali, vuole fare il botto: “Siamo dei geni”, ha bofonchiato nel microfono ieri sera, e quando sorride è di nuovo Bossi. E’ diventato saggio, però, lo innervosiscono le scappatelle erotiche, dice che bisogna essere seri, lo innervosisce quel che esce dalle intercettazioni: “Se intercettano me, mi sentono al telefono con mia moglie, o che rido con mio figlio”. Come in “Bocca di Rosa” di De Andrè: “Si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio, si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio”. A proposito del divorzio di Veronica Lario e Silvio Berlusconi, Umberto Bossi parlò di sé e della sua nuova vita morigerata: “Io non ho le veline. Se avessi le veline non potrei più tornare a casa.

Ho tanti figli maschi e sono tutti dalla parte della madre. Per di più ho anche la sfortuna che c’è la Rosy che viene sempre a casa mia e dà sempre ragione a mia moglie”. La Rosy è Rosy Mauro, vicepresidente del Senato e braccio destro di Umberto Bossi, signora molto mora su cui in passato si favoleggiava, ma che ha resistito al fianco del capo anche dopo la malattia (durante la quale la moglie Manuela Marrone, donna padana e siciliana insieme, ha fatto alcune utili pulizie politiche e amicali nella vita del marito, pulizie che lui ha accettato con gratitudine e obbedienza). Rosy Mauro è rimasta, fa da sfondo a tutte le foto di Bossi comiziante, e durante il primo discorso pubblico, a Lugano nel 2005 (trecento arrivati in battello e gli altri in pullman e in auto, un migliaio di leghisti privilegiati ammessi in Svizzera a salutare il re malato), Rosy si lasciò travolgere dall’euforia e urlò: “Lo vedete, abbiamo la prova che Bossi è immortale, che è un Highlander! E dopo Bossi, c’è ancora Bossi!”.

“Prima ero una belva, ora sono cambiato” (Umberto Bossi, maggio 2007)

Bossi era un immortale quando non dormiva la notte per una settimana di fila, si faceva la barba in ufficio, la mattina, mentre riceveva “i ragazzi” e non smetteva di parlare. Canottiera di lana estate e inverno (la canottiera preserva dai malanni di stagione, per molte signore è il massimo del sexy, gli stilisti l’hanno rilanciata, i maschi soprattutto omosessuali la considerano un feticcio della virilità perduta). Scrivere tutto il giornale da solo in due giorni, girare il nord in macchina, autista o non autista: si parte da Milano alle sedici, c’è un comizio a Verona alle diciotto, un altro a Udine alle ventuno, si comincia in ritardo e si va per le lunghe. Soprattutto perché Bossi adora fermarsi coi militanti e va pazzo per la firma sulle bandiere col guerriero. Anche adesso, che è meno Highlander e si affatica, non c’è verso di impedirgli, dopo un comizio, di mettersi a firmare bandiere, di stare lì ancora mezz’ora col segretario di sezione, magari soltanto in giacca. “Uè copriti almeno, capo, fa un freddo bestia”. “Ma va’ a dà vià el cù”.
“La Lega è il suo Gerovital, la Lega l’ha fatto rinascere”, dice la Lega, che non è per niente una cosa sola ma ha un capo solo ed è Bossi (“Nessuno, dal primo dei ministri all’ultimo dei militanti, potrebbe mai mettere in discussione quel che dice Bossi”).

Dopo l’incubo e la lentissima ripresa, dopo il periodo in Svizzera a sudarsi la riabilitazione e ascoltare i dischi di Celentano, i medici avevano consigliato di fargli un ufficio sul lago, un luogo tranquillo, vicino al posto della fisioterapia. “Non fate i pirla, il mio ufficio ce l’ho già”. Quello di via Bellerio, con la branda e il bagnetto sul retro, dove ieri attendeva lo spoglio dei voti con Calderoli, Giancarlo Giorgetti e il figlio Renzo. Quello con lo spadone appeso al muro, dove a volte tornava intorno all’alba per un pisolino e dove adesso questo Highlander acciaccato deve riposare spesso, per riprendere le forze, per non restare senza fiato. “Mai molà. Tegn dur” (sottotitolo imprescindibile: “Contro Roma ladrona”), gliel’avevano scritto su uno striscione contornato da fiaccole a Ponte Di Legno, il primo Capodanno dopo il buio nel corpo. In quell’occasione Bossi prese un aperitivo pubblico all’Hotel Mirella, un’aranciata amara, ed era talmente contento di essere festeggiato dai leghisti della Valcamonica che convinse la moglie e il medico che non lo mollava mai a invitare qualche militante a casa a chiacchierare, per sentirsi ancora il Senatùr. Per tornare a essere il Senatùr però bisognava anche ricominciare a fumare: niente sigarette, allora Bossi ha preso ad annusare e a fumare il sigaro. “Ci vuole continuità anche nei vizi”, ha detto, “e comunque grazie al fumo non mi si sono irrigiditi i muscoli”.

Gli si sono irrigiditi soltanto i capelli, in effetti: da quando ha avuto l’ictus non è mai più riuscito a pettinarli. Stanno dritti sulla testa, poi prendono qualche curva strana, a volte è l’impronta del cuscino, a volte il poggiatesta della macchina, altre è l’incazzatura che li innalza. “Ma va à laorà, barbùn”, non è leggenda folcloristica, è vita quotidiana alla Lega nord, quando Bossi decide che qualcuno ha esagerato. Prima dell’ictus era più spietato. Raimondo Fassa, avvocato, fu il primo sindaco leghista a Varese, negli anni Novanta, ma non marciava sul Po e non gli piaceva la secessione. “Ma cosa vogliono?”, sbottava Bossi quando qualcuno rompeva le scatole, “non capiscono che loro sono solo dei soldati? Devono obbedire e basta”. Insomma, Fassa finì a fare l’europarlamentare, prima di lasciare per sempre la Lega. A fine mandato andò a parlare con Bossi e Bossi lo tenne lì un’ora con il sottofondo (ma a volume alto) di tutti i suoi discorsi registrati a Pontida. L’egocentrismo è rimasto, ma adesso se uno dei suoi gli dice: “Uè ma fallo fuori sto pirla”, Bossi grugnisce: “Ha due figli, come si fa, mettiamolo da qualche parte dove non può nuocere”. Il tenero Bossi si commuove per le malattie degli altri, adesso, per gli amici che non credeva di avere e che ha ritrovato nella malattia (“compagni delle elementari che volevano sapere come stavo, che sono venuti ai comizi ad abbracciarmi, significa che qualcosa di buono ce l’ho anch’io”) e per la propria famiglia. “Io ho avuto mia moglie”, ripete sempre quando deve ripercorrere i mesi in cui non riusciva a muovere nulla, “e i miei figli, grazie a loro puoi vivere tre o quattro vite”.

Quattro figli, tutti maschi: Riccardo, avuto dalla prima moglie Gigliola (proprietaria di discoteche: ha raccontato di quando Bossi le aveva fatto credere di essersi laureato in medicina, di quando le regalò un orrendo pellicciotto lungo e dritto di pelo di lupo, di quando dipingeva e faceva il militante di sinistra, appassionato e contorto) e gli altri tre: Renzo, Eridano Sirio e Roberto Libertà. Per Renzo, la sua “trota” (delfino è troppo chic, roba da femminucce), Bossi sfiora il ridicolo: il ragazzo è stato bocciato tre volte all’esame di maturità e il padre amorevole ha accusato di discriminazione i professori “teròni”. Classico genitore giustificante (anzi teròne), a cui adesso brillano gli occhi perché la sua piccola trota ha preso due “trenta” a Economia e commercio (a casa Bossi dev’essere un evento per cui stappare bottiglie di Coca Cola, visto che il Senatùr è astemio e non beve nemmeno quando va a cena ad Arcore). Ora che la trota è in politica (e sta prendendo un sacco di voti, pena l’ideale decapitazione dei leghisti bresciani), dopo quella mattina di premonizione in cui, ancora adolescente, Bossi gli fece urlare dalla finestra: “Padania libera”, il primogenito è geloso, si sente messo da parte (“Io ho fatto ragioneria e ho finito in cinque anni senza mai finire sotto i riflettori bocciato o rimandato”). Voleva andare all’Isola dei Famosi e Bossi ha detto: “Gli tiro un calcio nel sedere” e ha vietato ad Antonio Marano, allora direttore di rete, di farlo ingaggiare. Riccardo Bossi si è vendicato rinfacciando al padre di non essere andato al battesimo di sua figlia Lavinia (anche la scelta del nome è un chiaro atto di insubordinazione, però), ma da ogni parola ingenua e impacciata esce l’amore assoluto per il padre “supereroe” che lavorava in continuazione, non andava a vederlo giocare a calcio e di notte si metteva alla scrivania, fumando una Camel dietro l’altra, per disegnare i primi poster della Lega. “Io avrò avuto cinque anni e mi sono svegliato, mio padre me l’ha mostrato tutto contento: c’era l’Italia con al nord una gallina che scodellava uova d’oro in un canestro messo all’altezza di Roma. Bellissimo”.

“Ci davano per morti, ci volevano morti” (Umberto Bossi, maggio 1996)

Prima di arrivare alla casa di Gemonio c’è una curva strettissima (che Bossi faceva spesso all’alba, dopo aver passato la notte in qualche pizzeria dopo un comizio). “Abbiamo girato e l’ho vista. Mi sono messo a piangere abbracciato alla casa”, ha detto Bossi, raccontando di quando ha potuto lasciare la clinica svizzera. Casa è dove arrivava e voleva subito appendere, alle pareti del salotto già tappezzato di souvenir e targhe ricordo, il solito quadro che gli avevano regalato al comizio, dono dei leghisti al loro valoroso condottiero, e allora alle cinque del mattino si metteva a confabulare con l’autista per scegliere l’angolo migliore: chiodo, martello, matita, livella, prendeva le misure e segnava il punto con la matita, l’altro stava lì con l’indice. Svegliavano a martellate tutta la famiglia. Poi Bossi andava a dormire soddisfatto. Adesso niente più martellate all’alba, anche perché non c’è un centimetro di muro libero, ma telefonate a mezzanotte o all’una per cambiare una frase, ribadire che Giancarlo Galan “è più bravo a pescare” che a governare, confrontare i sondaggi, inventarsi: “Mettiamo le ali alla Lombardia”. Bossi finge di apprezzare questa sua nuova “tranquillità”, la necessità fisica di non arrabbiarsi troppo, di non lanciarsi sulle cose e sulle persone, di trasformarsi in politico riflessivo (“Prima ero un po’ matto”). Ma si vede che scalpita, vorrebbe ancora andare forte in moto, e a chi maliziosamente gli chiede cosa c’è che non può più concretamente fare risponde muovendo il pugno destro (il sinistro non funziona): “Tutto, posso fare tutto”, con il grugnito soffocato che esce fuori soffiando, ansimando. “Non ero stato mai malato in tutta la vita”, e si è ritrovato senza più il corpo per troppo tempo. Se l’è ripreso con la fatica del guerriero e si è ripreso tutti i voti, anche di più. (il Foglio)