giovedì 29 novembre 2007

Aids: la grande truffa è finalmente confessata. Luigi De Marchi

Karol Sikora, il più stimato e famoso oncologo inglese, docente di oncologia dell’Imperial School of Medicine di Londra ed ex Direttore del Dipartimento di Oncologia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha pubblicato di recente sul “Daily Mail” un rapporto che incredibilmente conferma, con vent’anni di ritardo, quanto sostenevo già nel 1987 tra gli insulti e le denigrazioni dei cosiddetti esperti della scienza ufficiale: e cioè che il pericolo dell’Aids è stato irresponsabilmente esagerato, creando un panico disastroso nell’opinione pubblica, avvelenando la vita amorosa di miliardi d’individui, uccidendo milioni di persone con terapie estremamente tossiche e scatenando impulsi suicidi e omicidi in migliaia di malati, spesso solo presunti. E quanto alle terapie, costosissime e gabbate di volta in volta come salvatrici, va segnalato che proprio un recente numero dell’autorevole rivista medica inglese “The Lancet” ha pubblicato le risultanze di una vastissima ricerca, condotta in 12 paesi su 20.000 pazienti trattati con i magnificatissimi cocktails antiretrovirali, dalle quali emerge che la mortalità dei pazienti trattati non è minimamente diminuita rispetto ai controlli non trattati.

“Sikora – scrive il corrispondente del “Giornale” da Londra – si addentra in un’analisi che mette in discussione anni di psicosi, di finanziamenti smisurati e d’impegno planetario contro la cosiddetta ‘emergenza Aids’. Il famoso scienziato sostiene insomma che il pericolo dell’Aids è stato gonfiato non solo sul piano statistico, ma anche su quello finanziario”. In sostanza, secondo Sikora, “l’impegno di molti governi e istituzioni per affrontare la malattia, considerata per molti anni la pandemia del secolo e soprannominata “la peste del 2000”, sarebbe andato ben oltre le necessità reali, a tutto danno della lotta contro patologie molto più gravi”. E Sikora conclude:
“Ci sono malattie che diventano più angoscianti nella coscienza pubblica ed attraggono così maggior sostegno politico e maggiore attenzione. Il virus dell’Aids è stato un esempio tipico di questa distorsione antiscientifica, perché ha monopolizzato l’attenzione dei governi ed ha inghiottito enormi quantità di pubblico denaro”.

Il rapporto di Sikora demolisce anche un altro pilastro del terrorismo sanitario scatenato intorno all’Aids: e cioè la menzogna secondo cui la malattia minaccerebbe tutti in egual misura. Al contrario, gli ultimi dati dell’Organizzazone Mondiale della Sanità dimostrano che in gran parte del mondo la malattia resta concentrata soprattutto tra gli omosessuali e i drogati.
Fin qui le scandalose ammissioni di Sikora. Ma perché le definisco scandalose ? Perché vengono presentate come una coraggiosa verità mentre sono solo una tardiva riparazione a una scandalosa sequenza di menzogne e, come dicevo in apertura, arrivano con la bellezza di vent’anni di ritardo rispetto alle denunce che per primo nel mondo, sfidando gli anatemi dei nostri cosiddetti luminari, io stesso avevo cominciato a fare fin dal febbraio 1987, con una speciale conferenza-stampa intitolata “Aids: allarmismi irresponsabili”, ed avevo continuato a ribadire con un primo libro dello stesso anno “Aids, un libro bianco anzi giallo” pubblicato dalla Sugarco e poi con un secondo libro, scritto a quattro mani con un valente virologo, Fabio Franchi, intitolato chiaro e tondo “Aids, la grande truffa” e pubblicato nel 1996 dalle Edizioni Seam di Roma. In esso, io e Franchi demolivamo uno per uno tutti i puntelli della teoria ufficiale sulle cause dell’Aids e svelavamo che, se fossero state vere le balle propalate dal nostro Consiglio Superiore di Sanità nel 1988, metà della popolazione italiana avrebbe dovuto essere già morta di Aids nel 1996 e l’altra metà sarebbe morta entro il 2000.

Del resto, per chi avesse voluto ascoltarle, le esortazioni alla prudenza non venivano solo da me. Nel novembre dell’’87 il “New York Times” scriveva: “Le esagerazioni sui rischi dell’Aids sono dovute anche ai dirigenti della ricerca e dell’assistenza medica, i quali cercano, in questo modo, di accrescere le loro dotazioni di bilancio”.
E, a proposito delle balle sui rischi generalizzati dell’Aids, Rand Stornburner, direttore delle ricerche virologiche presso il Dipartimento di Sanità dello Stato di New York, aveva dichiarato con allegra incoscienza nell’agosto ’87: “Se l’Aids non fosse stata presentata come una sindrome molto pericolosa anche per gli eterosessuali, i soldi non sarebbero mai arrivati”.
Per parte loro, i nostri cari baroni non esitarono a denigrarmi ed a mettermi alla gogna quando videro minacciate le loro campagne terroristiche. Così, subito dopo la mia conferenza-stampa del febbraio ’87, nella quale avevo segnalato l’infondatezza del terrorismo allora imperante e cercato di rassicurare la popolazione, l’apposita Commissione di 32 cosiddetti luminari istituita per l’Aids dal Ministero della Sanità aveva diramato alla stampa un comunicato in cui, nominandomi per nome e cognome, dichiarava testualmente: “Le informazioni diffuse dal prof. Luigi De Marchi sono inopportune e pericolose”.

Pericoloso, dunque, era rassicurare e benemerito terrorizzare, scatenando tragedie di massa. Quando dunque Sikora scrive che “certe malattie diventano più angoscianti nell’opinione pubblica” egli finge di non sapere che l’angoscia, per l’Aids e per tante altre pseudo-epidemie, non è stata un fenomeno spontaneo ma è stata sistematicamente centuplicata proprio dalle autorità sanitarie e dai suoi venerabili colleghi del mondo accademico per promuovere la propria notorietà, il proprio reddito e le sontuose tangenti percepite dalle aziende farmaceutiche.

So che qualcuno mi accuserà di essere “troppo autoreferenziale”, anche in questa occasione, ma non me ne posso preoccupare più di poco. Infatti, mentre sento il dovere e il piacere di esserlo dato che da vent’anni testimonio un dissenso scientifico che trova ora autorevole anche se tardiva conferma, sento anche il dovere di ricordare la tragicomica vicenda dell’Aids come un esempio emblematico sia della inaffidabilità di certi isterismi sanitari periodicamente scatenati dalle autorità cosiddette responsabili (basti pensare alla “mucca pazza”, alla Sars o alla cosiddetta influenza aviaria) sia, più generalmente, della mediocrità scientifica di molti ambienti accademici, connessa alla selezione a rovescio che domina quegli ambienti. Anche qui, come ho detto in altre occasioni, lo spirito corporativo e mafioso della casta accademica ha spesso portato ai vertici universitari personalità intellettualmente e moralmente mediocri. E solo un’autentica Rivoluzione Liberale che apra l’università al mondo della ricerca indipendente e delle libere professioni, potrà rimediare al disastro. (il Blog del Solista)

L'impero Romano colpisce ancora. il Foglio

La pazienza di Prodi a segno nel risiko dei poteri, grazie alla Delta force dell’Iri. Incassata la vittoria in Telecom, tocca ad Alitalia. Prima del grande valzer delle nomine primaverili. Tra Enel, Eni e manovre Generali.

Pazienza, “la più eroica delle virtù”, la chiama Giacomo Leopardi nello Zibaldone. Ma anche patimento dice Dante nel canto X del Purgatorio (quello dei superbi). Per Romano Prodi è l’una e l’altra, soprattutto è la chiave dell’arte di governo, come ha spiegato alla Stampa. Ha pagato finora in politica, paga ancor più nel risiko economico che il presidente del Consiglio sa giocare con astuto realismo. Incassato il successo Telecom, il più grande dopo la fusione Intesa Sanpaolo, la prossima partita da chiudere è Alitalia. Prodi si prepara a esserne sicuro vincitore, perché è riuscito nel capolavoro di giocare su ogni tavolo grazie a una formidabile rete manageriale costruita vent’anni fa ai tempi dell’Iri. Ne fanno parte gli eredi dei boiardi, che occupano i piani alti di banche o grandi gruppi, e i fedelissimi tecnocrati che occupano gli uffici di Palazzo Chigi. Per capire la sostanza del prodismo e la sua forza d’urto, bisogna guardare ad alcuni importanti consigli di amministrazione. La prima banca italiana è presieduta da Giovanni Bazoli, l’uomo che, assieme a Beniamino Andreatta, convinse Prodi a scendere in campo nel 1996 contro Silvio Berlusconi. In Telecom è uscito di scena Marco Tronchetti Provera, contro il quale un anno fa era stato lanciato Angelo Rovati, centravanti di sfondamento più che pivot. Franco Bernabè non può definirsi in senso stretto seguace del professore, ma è il frutto di una tipica mediazione prodiana, grazie a Bazoli che ha convinto prima Cesare Geronzi poi il pacchetto di mischia francese in Mediobanca (con i tallonatori Bolloré e Ben Ammar). Alla presidenza dell’Enel c’è Piero Gnudi, già responsabile della privatizzazione e della liquidazione dell’Iri assieme a Pietro Ciucci che fu l’ultimo direttore generale del mastodonte pubblico e ora è al vertice dell’Anas, dopo essere passato per la Società Stretto di Messina. All’Eni, invece, il presidente Roberto Poli e l’ad Paolo Scaroni non hanno il distintivo del professore: vengono dall’industria privata e sono stati nominati da Giulio Tremonti. Ma il cda è presidiato da Renzo Costi, giurista reggiano, membro del Mulino, docente a Bologna, e soprattutto da Alberto Clo, grande esperto di energia, amico personale di Prodi (è l’uomo che durante il rapimento Moro ospitò la fatidica seduta in cui lo spirito evocato pronunciò la parola “Gradoli”). Clo siede in molti consigli, tra cui Luxottica, De Longhi, Italcementi, Asm Brescia e Atlantia, la holding di Autostrade, il cui presidente è Gian Maria Gros Pietro. Come accademico, Gros Pietro ha incrociato spesso la strada di Prodi, visto che entrambi coltivano la politica industriale; come manager si è scontrato sulla fusione con gli spagnoli di Abertis. L’operazione, annunciata dall’azionista di riferimento, Gilberto Benetton, è apparsa al professore, ancora alle prese con l’insediamento del governo, come una provocazione. Tempestivo, e non certo per caso, Antonio Di Pietro si è messo di traverso. Dopo un estenuante braccio di ferro, gli spagnoli hanno gettato la spugna e all’inizio del 2008 usciranno dalla finanziaria di comando convertendo le loro azioni in una quota di Autostrade. Evidentemente non conoscono la virtù della pazienza.
I Benetton, adesso, debbono cercare nuovi partner. Dopo la legnata Telecom, restano a bagnomaria nelle infrastrutture, mentre Di Pietro continua a far fuoco e fiamme sulla convenzione Anas. La famiglia Benetton ha profondamente deluso Prodi. Intanto perché non ha alcun senso di riconoscenza. Lui ha offerto una rendita tariffaria sicura e un futuro luminoso ben oltre i maglioncini colorati. E loro non hanno rispettato i patti, invece di investire hanno dato una mano a Tronchetti, flirtando addirittura con l’arcinemico Berlusconi.

mercoledì 28 novembre 2007

La Rai è sempre più prodiana. Gian Maria De Francesco

Era il 21 giugno 2006 quando Claudio Cappon ritornava alla direzione generale della Rai targata Unione. Il premier Prodi ci rimase un po’ male perché Palazzo Chigi puntava su Antonello Perricone, in seguito approdato a Rcs, ma il tandem Ds-Margherita impose il proprio diktat.
Ma il Professore sarebbe stato accontentato nel settembre dello stesso anno con la nomina di Gianni Riotta alla direzione del Tg1 e di Maurizio Braccialarghe alle Risorse Umane. Quest’ultimo, da giugno 2007, è il nuovo amministratore delegato di Sipra, la concessionaria pubblicitaria di Viale Mazzini, e ha lasciato il suo posto a un altro ulivista, Luciano Flussi. Il nuovo tg prodiano ha visto l’ascesa di giornalisti non ostili alla maggioranza come i vicedirettori David Sassoli e Raffaele Genah. Ma nella Rai targata centrosinistra sono tornati in auge anche gli «indignati speciali» nei confronti della Rai a guida Cdl come Daniela Tagliafico, già nel luglio 2006 a guida di Rai Quirinale.
La maggioranza non si è certo fermata qui e ha preso anche il controllo Rainews 24 con Corradino Mineo, di Rai International con Piero Badaloni e del Giornale Radio che il diessino Antonio Caprarica ha rivoluzionato a sua immagine e somiglianza. Tenuto conto che il Tg3 è storicamente schierato a sinistra gli unici «panda» dell’informazione di centrodestra sono rimasti Mauro Mazza al Tg2 e Giuliana Del Bufalo a Rai Parlamento.
Se le manovre e le dispute legali per la sostituzione del consigliere Angelo Maria Petroni con il prodiano Fabiano Fabiani non avessero ritardato l’azione di Cappon (il cda era ed è a maggioranza Cdl; ndr), anche le direzioni di rete sarebbero state interessate al rivolgimento con Giovanni Minoli, promesso direttore, al quale Rai Education ormai va stretta.Nel frattempo, è proseguito il rinnovamento dei vertici delle società-satellite della Rai. Prima della fusione con la Margherita, i Ds si sono assicurati la presidenza di Rai Way con Francesco De Domenico e di Rai Trade con Renato Parascandolo. Senza dimenticare il recupero del guru della tivù intelligente di sinistra, Carlo Freccero, nominato presidente di Rai Sat (con il rifondarolo Giuseppe Gentili alla direzione generale) e dell’ulivista Pier Luigi Malesani alla presidenza di Rai International. Nomine «pesanti» anche nei corridoi di Viale Mazzini: il diessino Andrea Lorusso Caputi è andato alla Produzione e l’ulivista Gian Luca Veronesi alla Comunicazione e Immagine.
Sempre in quota Botteghino c’è Luca Balestrieri, capo del digitale terrestre e consigliere di amministrazione di Rai Way e di Rai International. In Rai, infatti, non c’è mai tempo per annoiarsi. (il Giornale)

martedì 27 novembre 2007

Nello specchio di Telecom. Davide Giacalone

In Telecom Italia s’insediano Galateri e Bernabè. Buora attende il turno. Con tutto il rispetto per ciascuno, è il segno che affonda non solo la Telecom, ma il sistema Italia. Si tratta di una società privata, la scelta dei vertici spetta agli azionisti, e per questo non ne ho, fin qui, scritto. Ma è anche una società quotata, che raccoglie risparmi dei cittadini, è concessionaria pubblica e la sua storia s’intreccia con la politica.
Bernabè fu amministratore scelto dal nocciolino nato attorno agli Agnelli (dove si trovava Galateri) ed alle stesse banche di oggi. Cercò di resistere alla scalata di Colaninno, ma fu abbandonato da quelli che lo avevano nominato, dal ministero del Tesoro, dalla Banca d’Italia e da Palazzo Chigi, dov’era da poco giunto quel D’Alema che si mostrò acceso, attivo ed influente sostenitore degli scalatori. Bernabè rimase troppo poco per potersene valutare le capacità nel settore, certo la sua idea d’allora di fondersi con l’operatore tedesco, statale, oggi è impercorribile. Il suo ritorno ha il sapore della vendetta postuma, con goduria di Prodi e dolore per D’Alema. Le telecomunicazioni, come vedete, c’entrano poco. Buora, dal canto suo, è stato l’uomo di più stretta fiducia finanziaria di Tronchetti Provera e ne ha condiviso tutte le scelte in Telecom, spioni compresi. Taluno sostiene che i due abbiano litigato, come se la cosa sia rilevante, o come se questo misero particolare non contribuisca, semmai, a rendere più inquietante la faccenda. Certo, rappresenterebbe la continuità. Ma di cosa? C’entrano, per caso, le montagne di quattrini spariti all’estero, c’entra il sistema Grisendi, c’entra l’intrecciarsi di dossier illegali e ricatti? C'entra il fatto che sotto la sua gestione non si mosse alcuna azione di responsabilità nei confronti dei predecessori? Di sicuro non c’entra la strategia di Telecom, che non c’è.
L’azienda è inchiodata al suo passato. L’Italia non ha alcuna nuova classe dirigente e rimesta in quel che è rimasto, faide tribali e conflitti d’interesse compresi. La lentezza della giustizia trascina all’infinito sospetti limacciosi, pressioni indebite, mescolarsi di paura ed arroganza. I cocci finiranno in mano agli spagnoli, o di altri che siano più lesti. Il quadro è devastato, desolante, e non riguarda solo Telecom.

Il Pdl? Ve lo spiego io. Sarà una grande rete. Renato Brunetta

Sono tempi duri per i partiti riformatori in Europa. In Germania, la cancelliera Angela Merkel assiste impotente alla paralisi annunciata della sua Grosse Koalition. In Francia, il presidente Nicolas Sarkozy ha dovuto fare concessioni per sbloccare lo sciopero dei ferrovieri. In entrambi i Paesi la posta in gioco è alta: la capacità di portare avanti le riforme necessarie a mantenere l'economia competitiva. La lezione per l'Italia è che non esistono modelli miracolistici, semmai riforme a cui ispirarsi. E che per il centrodestra è ora di tornare alla rivoluzione liberale e popolare del 1994 di Silvio Berlusconi, e alla forma partito-rete delle origini.
Il sisma politico che ha colpito la Germania è la svolta a sinistra dei socialdemocratici. Il Congresso della Spd di fine ottobre ha segnato una netta sconfitta dei riformisti a vantaggio della sinistra populista del partito. Con il risultato che Franz Muentefering, il più riformista dei socialdemocratici nel governo Merkel, ha dato le dimissioni perché la grande coalizione non è più in grado di lanciare riforme importanti nei due anni che restano prima delle elezioni. Quanto sta accadendo in Germania è normale. La Grosse Koalition funziona nei primi due anni di una legislatura, come motore del cambiamento. Ma, man mano che si avvicinano le elezioni, ciascun partito radicalizza le sue posizioni, fino alla paralisi.
In Francia, Sarkozy ha superato lo sciopero contro l'abolizione dei regimi speciali delle pensioni per i dipendenti delle ex imprese statali. Ma il costo sono concessioni che confermano la sua tattica delle riforme a metà. In questi mesi, Sarkozy ha proposto tante piccole rivoluzioni, salvo fermarsi non appena i sondaggi indicavano un calo della sua popolarità. Ora il pericolo è che la contestazione si allarghi e che Sarkozy decida di negoziare su tutti i fronti, cedendo alla conservazione. Da questo punto di vista è sintomatico il suo discorso davanti al Parlamento europeo, tutto incentrato sulla protezione (al limite del protezionismo) e sulla chiusura. Ma il colbertismo sarkozista non è la soluzione ai mali francesi, è il modo più efficace per aggravarli.
Resta che Germania e Francia stanno meglio di noi. Per quanto in crisi, in due anni il governo Merkel ha rilanciato la crescita, mentre Sarkozy, seppur a metà, ha cominciato a trasformare il Paese. Il governo Prodi, invece, persegue le controriforme in nome di una presunta pace sociale, che in realtà garantisce i privilegi di pochi a svantaggio di tutti. È da qui che parte la nuova stagione di rinnovamento politico inaugurata da Silvio Berlusconi e Walter Veltroni. Per questo una nuova legge elettorale è necessaria per cancellare un sistema bipolare «bastardo» e delineare un vero bipartitismo maggioritario, fondato sul principio: «o governiamo da soli o con maggioranze davvero coese», purché si ponga fine al «non governo» dell'Italia. Riforme, ma anche partiti nuovi, capaci di intercettare le nuove domande sociali, economiche, ideali.
Su questo nuovo disegno deve riprendere corpo, nel nuovo Partito del Popolo della Libertà, anche la prospettiva riformatrice offerta nel '94 dal miracolo di Forza Italia. In fondo Forza Italia delle origini non era altro che questo: un network con un forte centro, costruito attorno a «reti» economico-associative e a persone di destra e di sinistra - e né di destra né di sinistra, con un semplice programma: cambiare l'Italia.
In un partito-rete i singoli membri sono allo stesso tempo partner e concorrenti. Tramite regole condivise, partito, circoli, movimenti, mettono in comune le risorse necessarie a raggiungere l'obiettivo. Quando il numero dei membri cresce, le risorse condivise sono gestite più efficacemente da un nodo centrale, che svolge anche il ruolo di arbitro.
Mentre il centro deve stimolare la competizione fra i nodi del partito-rete, favorendo lo sviluppo delle singole eccellenze, tutti i nodi del network controllano l'operato del centro. Fuor di teoria il nuovo partito-rete dovrà intercettare, mettendo insieme, tanto il popolo dei gazebi, quanto i partiti, i movimenti che vi intendono aderire. Dovrà essere in grado, proprio grazie alla sua struttura, di capire e governare le grandi trasformazioni che sono intervenute nell'ultimo decennio.
Ma un partito-rete, più di un partito tradizionale, chiuso nella sua ideologia e nella sua organizzazione, ha bisogno di visioni, di programmi, di idee, e di strumenti democratici per la loro elaborazione e la loro sintesi politica. Ha bisogno di gruppi dirigenti aperti e in competizione.
Televisioni, internet, blog, radio, giornali, riviste: la direzione della comunicazione non sarà più solo «verticale», ma diventerà sempre più orizzontale. E i programmi nasceranno dal basso, dai singoli portatori di interessi, dai movimenti, dai partiti, alla pari.
Ecco, questo potrebbe essere la nuova offerta politica del Partito della Libertà: leader e rete; valori, visioni, programmi e comunicazione; capacità di interpretare domande sociali e politiche nuove, diffuse, e inespresse. Tutto il contrario dei partiti tradizionali chiusi, prodotto delle fratture sociali di oltre un secolo fa. Tutto il contrario del neonato Partito Democratico, nato dalla fusione fredda di apparati e oligarchie del passato.
La scommessa di Berlusconi il federatore sembra proprio questa: fare da catalizzatore di una nuova forma partito, hub di reti e di nodi, di movimenti, con il comune obiettivo di cambiare l'Italia. Leader e popolo, leader e rete. E chi ci sta, ci sta. (il Giornale)

lunedì 26 novembre 2007

La moschea di Bologna e quella legge del 1948. Magdi Allam

All'inizio degli anni Sessanta un quotidiano nazionale pubblicò, per non incorrere nell'ingiunzione di un magistrato, la rettifica di un detenuto realmente rinchiuso nel carcere di San Vittore, in cui negava di essere mai stato arrestato e denunciava che, a suo avviso, l'aver scritto che si trovasse incarcerato rappresentava un fatto lesivo della sua onorabilità. A calce della rettifica palesemente infondata che negava l'evidenza del fatto, il quotidiano specificò: «Prendiamo atto che la lettera proviene dal carcere di San Vittore». Questo può accadere in Italia perché la legge n. 47 dell'8-2-1948 prescrive che «il direttore è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità». Cioè è sufficiente che siano «ritenuti lesivi» anche se sulla base del più assoluto arbitrio, non che lo siano effettivamente sulla base di prove inconfutabili, per obbligare il giornale a pubblicare la rettifica entro due giorni. Trascorso questo termine «l'autore della richiesta di rettifica (...) può chiedere al pretore, ai sensi dell'articolo 700 del codice di procedura civile, che sia ordinata la pubblicazione». Ed è così che la nostra stampa finisce per diventare il ricettacolo di scritti che dicono tutto e il contrario di tutto, che mettono sullo stesso piano e attribuiscono pari valore al vero e al falso.

Ebbene corrisponde allo stesso atteggiamento arbitrario e menzognero, fondato sulla mistificazione e negazione della realtà, la lunga lettera dell'Ucoii, a firma del suo presidente Mohamed Nour Dachan, pubblicata dal Corriere il 9 novembre scorso. In essa si negano con la massima spregiudicatezza quattro fatti manifesti e documentati: 1) che l'Ucoii sia la controparte del Comune di Bologna nell'assegnazione di una mega-moschea; 2) il legame ideologico, religioso e giuridico dell'Ucoii con i Fratelli Musulmani e con l'apologeta del terrorismo islamico Youssef Qaradawi; 3) la predicazione d'odio, di violenza e di morte dell'Ucoii contro Israele e legittimante il terrorismo palestinese di Hamas; 4) la sospensione della Consulta per l'islam d'Italia proprio a causa delle posizioni inaccettabili dell'Ucoii su Israele e sull'intesa con lo Stato. Da parte dell'Ucoii tutto ciò avviene all'insegna della taqiya, la dissimulazione, eretta a precetto di fede per imporre il proprio potere teocratico e assolutista, così come ammesso nella versione italiana del Corano a cura dell'Ucoii a commento dei versetti 105-106 della sura XVI. Basti considerare, per quanto concerne la dissimulazione e negazione della realtà sul progetto della mega-moschea di Bologna, come ha rilevato anche Marco Guidi sul Resto del Carlino del 12 novembre, che: 1) il terreno di via Felsina, oggetto di permuta con il terreno della futura mega-moschea, appartiene all'Ente gestione beni islamici, ovvero Al Waqf Al Islami, organizzazione dell'Ucoii (http://www.islam-ucoii.it/ vedi alla sezione «Chi siamo»); 2) il Centro di cultura islamica di Bologna diretto da Radwan Altoungi, futuro gestore della moschea, è associato all'Ucoii, come dichiarato sia nello Statuto di questa associazione, sia nel sito http://www.corano.it/menu_sx.html; 3) in un documento ufficiale del Comune di Bologna del 18 ottobre 2007 (http://www.comune.bologna.it/partecipazione/culto-islamico.php) si afferma che «l'organizzazione nazionale alla quale è affiliato il Centro (di cultura islamica di Bologna, ndr) è l'Ucoii».

Lancio dunque un accorato appello al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, quale massimo garante della Costituzione, al governo e al Parlamento tutori dell'interesse nazionale, affinchè intervengano subito e con determinazione per abrogare quest'incivile e insana norma penale che da facoltà a un pretore di imporre a un giornale di pubblicare delle menzogne, senza alcuna verifica giudiziaria della loro fondatezza e veridicità. Proprio questo relativismo cognitivo ed etico è il male diffuso che alimenta in seno alla nostra società la perdita della certezza nella verità che si radica nei fatti e il venir sempre meno della fiducia nelle istituzioni rappresentative dello stato di diritto e della democrazia. (Corriere della Sera)

Perché bisogna ripensare i miti fondanti della nazione. Angelo Crespi

Giorno dopo giorno, la cronaca mostra i limiti della nostra nazione. I gravi casi di violenza legati all’immigrazione o, per esempio, quelli recentissimi che hanno protagonisti gli ultrà delle squadre di calcio, senza contare il malaffare della politica e della finanza, impongono alla classe dirigente una riflessione non più rimandabile e di certo non limitabile al giochino destra e sinistra.
L’Italia è un non Paese, tristemente ancora succube di una perversa cultura, frutto di un cinquantennio di egemonia cattocomunista, che impedisce di progettare un futuro migliore. E non si vede chi, come è successo in Francia con Sarkozy, sia in grado di dare una vera svolta.

Per fare un passo in avanti, innanzitutto, è necessaria una definitiva pacificazione della memoria. Spiace per la Sinistra, ma bisogna archiviare i miti pseudofondanti dell’Italia repubblicana e abbandonare parimenti l’ideologia del Sessantotto che ne è figlia degenere. Certo, siamo consapevoli delle difficoltà, ma crediamo che la sinistra democratica voglia partecipare a questa rifondazione.
Se ci pensiamo bene, ogni data simbolo della nostra storia è fonte di divisioni e qualora non lo sia di principio, l’ideologia ne ha usurato il senso. Il Risorgimento riletto dal Fascismo, prima, e poi dalla Resistenza è inutilizzabile. Tra l’altro, esclude la parte cattolica del Paese. La mitologia nazionalista che pure il Fascismo s’inventò ovviamente è inservibile. La sineddoche “Resistenza comunista”, alla luce dei massacri a guerra finita, divide gli stessi resistenti, oltre ad escludere l’altra metà della nazione. Grandi prove militari per cui inorgoglirci non ne abbiamo: le uniche sono débâcle (la ritirata di Russia, El Alamein, Cefalonia); le conquiste coloniali meglio dimenticarle; la Prima guerra mondiale si concluse con una “vittoria mutilata”; la Seconda con la sconfitta.

Anche i recenti atti eroici dei nostri soldati impegnati in azioni di peace keeping sono depotenziati dall’ideologia di una sinistra massimalista ottusa che svilisce ogni istituzione statuale in nome di non si sa quale idea di mondo. Si veda anche il caso G8 di Genova, dove orde di teppisti assurgono ad eroi della controrivoluzione.
In chiave civile, poi, non ci resta granché se si eccettua qualche azienda di eccellenza, come la Ferrari, qualche scienziato, qualche imprenditore pur sempre sottoposto alla gogna di un Paese nell’intimo anticapitalista. Alla fine esaltare le vittorie della nazionale di calcio come unico momento identitario appare quanto mai mortificante.

Patriottismo positivo
Ciò nonostante, una memoria condivisa serve per fondare l’identità che manca e che invece altre nazioni stanno riscoprendo. Per affrontare le sfide dei prossimi anni – come ha scritto sul Domenicale Carlo Pelanda nella sua “Formula Italia” – sarebbe opportuno suscitare un’ondata di patriottismo positivo, cioè una cultura che induca il cittadino a sostenere la propria nazione, essendone orgoglioso.
Durante la preparazione di questo numero, discutendo in redazione, ci siamo però resi conto che non esiste neppure un’immagine della storia postunitaria che possa rappresentare tutte le componenti politiche e culturali del Paese, che sia al di sopra della discussione faziosa, sulla quale anche i distinguo alla fine lascino il posto a una sana condivisione.
Eppure l’Italia esiste, gli italiani hanno ben chiaro cosa significa essere italiani. Molti hanno combattuto e sono morti per la patria, molti tutti i giorni lavorano perché essa sia viva. E in effetti tutti noi percepiamo l’italianità quando guardiamo un paesaggio del nostro Paese, oppure quando godiamo di una delle infinite opere d’arte che abbiamo regalato alla disponibilità del mondo intero. E ce ne vantiamo.

Feticcio costituzionale
Se poi vogliamo dare ragione a Elias Canetti, dobbiamo dire che la “nostra patria è una lingua” più che un’entità geografica. Quindi, sommando il paesaggio, l’arte del nostro grande passato e la lingua non possiamo che tornare a Dante come simbolo eccelso del nostro essere italiani. E da qui ripartire per individuare il senso del nostro stare assime, specie in un momento in cui, stando al progetto europeo, dovremmo cedere parti di sovranità nazionale.
Serve un nuovo patto tra gli italiani, meglio se consacrato nella Costituzione che oggi non è altro che un feticcio identitario. Questo patto deve essere fondato sui valori della nostra tradizione millenaria, fatta di arte e di grandi ingegni. Altrimenti non resta all’Italia che rappresentare la Cristianità, essendo Roma capitale d’entrambe. Non è cosa da poco. E neppure disdicevole. Essere la roccaforte della Cristianità è sempre meglio di non essere nulla, una piccola nazione litigiosa, oggi già provincia dell’impero e che avrà sempre meno peso nello scenario internazionale. (il Domenicale)

venerdì 23 novembre 2007

Istituzioni, non uomini forti. Davide Giacalone

Adesso hanno tutti scoperto che si deve superare il bipolarismo delle coalizioni disomogenee e mettere chi vince le elezioni nelle condizioni di governare. Complimenti per la prontezza di riflessi. Prima che tale tardiva consapevolezza anneghi nelle beghe autoconservative e nella confusione d’idee sulle riforme da farsi, suggerisco di guardare con attenzione quel che succede in Francia. Sarkozy non è un “uomo forte”, e lo dimostra non dominando il nervosismo che lo rode quando l’ombra della vita privata lo insegue, ma incarna un’istituzione forte. Gli “uomini forti” sono pericolosi per le democrazie, e sempre figli d’istituzioni deboli. Sarkozy s’è guadagnato la fama di politico deciso praticando uno sport che noi rifuggiamo: inquadra la realtà con parole chiare e fa proposte nette.
Per lo Stato francese la laicità è un valore assoluto. Lui, quand’era ministro degli interni (quindi anche delle religioni, giacché anche la laicità ha le sue stranezze) disse: va bene, ma siccome la Francia si sta riempiendo d’islamici e se quelli si riuniscono e pregano in arabo noi non sappiamo nulla di quel che accade, allora le moschee gliele facciamo noi, le guide spirituali le paghiamo noi, ma anche le scegliamo, in modo da potere controllare. Alcuni gridarono allo scandalo, ma aveva ragione. Ha poi fatto la campagna elettorale sostenendo la necessità di una “rottura”, altrimenti il Paese sarebbe affondato. Con coerenza, oggi, sostiene riforme che allontanano l’età pensionabile, favoriscono i licenziamenti di personale pubblico inutile, difendono la selettività meritocratica degli studi. Le corporazioni scioperano, bloccano la Francia, ma lui risponde: le minoranze non possono ricattare un Paese. Non parliamo delle maggiori entrate fiscali, che qui ci siamo mangiati per far campare un governo inerte e lì sono state utilizzate per diminuire il debito pubblico, assai minore del nostro. Vedremo come andrà a finire, ma qui da noi non si ha neanche il coraggio di dirle, le cose che Sarkò va facendo.
Se l’istituzione è forte consente al governante di difendere le idee che gli elettori premiarono e di guardare al futuro come al tempo per dimostrare le proprie ragioni. Quando sono deboli, come da noi, si regolano sempre conti del passato, non rinunciando ad approfittare del presente.

giovedì 22 novembre 2007

Andrea's version. il Foglio

Si è trattato di una coincidenza. Questo senz’altro. Ma è capitata la cosa seguente. Che uscito l’Amor nostro dall’angolo, e volendo incontrare il Walter loro, è capitato che la Repubblica ripubblicasse. E ripubblicasse che cosa? Un’intercettazione. Va là? Una robina così: “Alleanza segreta tra Rai e Mediaset. Nell’indagine sulla Hdc di Crespi le prove dell’informazione pilotata a favore dell’ex premier”. Due pagine. Essendo questo il clima, e per pararci il culo in nome del popolo, o del partito, o del circolo, o di qualsiasi cazzo si possa spendere nel nome della Libertà, vorremmo fin d’ora rendere pubblico il testo della telefonata che faremo a Ezio Mauro nella giornata di domani. “Pronto?” “Sì” “Ezio?” “Si” “Mauro?” “Sì” “Scusi” “Prego” “M’ha chiamato la Bergamini” “Mbè?” “Dice che il direttore generale Cattaneo, mentre arrivavano i dati del voto, raccontava che Follini rompeva i coglioni” “Mbè?” “E che intanto Del Noce telefonava a Debora” “Ah!” “E, sempre la Bergamini, sosteneva che servivano programmi per dare alla gente un senso di normalità” “Ciao”. Fine. Beh, non vi viene da ridere? Lo supponevo. Ma che volete da me?

Berlusconi: "Il nuovo partito è già al 37 per cento, non temo nulla". il Giornale

Anticipiamo ampi stralci dell'intervista a Silvio Berlusconi che uscirà sul "Giornale delle Libertà" in edicola domani come supplemento del "Giornale".

«Penso di aver fatto la scelta giusta nel momento giusto. Erano mesi, del resto, che tendevo l’orecchio all’ormai assordante protesta dei cittadini e mi chiedevo: possibile che nessuno voglia assumersi la responsabilità di affrontare un sistema di potere che, con pervicacia ed arroganza senza pari, sta, giorno dopo giorno, distruggendo questo Paese? Così ho pazientato per un po’, ma poi, visto che continuava a non muoversi foglia, ho deciso di scendere nuovamente in campo e di prendermi tutt'intera questa responsabilità».
Nel tracciare orizzonti, latitudini e soprattutto obbiettivi del suo nuovo partito («ma quando si hanno le idee molto chiare - e le mie sono già chiarissime - è poi facile, dice, tradurle in realtà») Silvio Berlusconi è carico e determinato come solo lui sa essere. Ha spiazzato idee e strategie di altri? Anche questo lo aveva messo in conto. Del resto, era più che logico aspettarsi una reazione del genere da chi pensava che, per cambiare le cose, bastassero solo manovre di piccolo cabotaggio. Ma arriverà anche il momento dei chiarimenti e non sarà difficile, pensa Berlusconi, trovare importanti punti di convergenza con chi, sia pur partendo da altri presupposti, ha in mente di raggiungere lo stesso obbiettivo, che è poi quello di mandare a casa questo governo e far finalmente respirare aria nuova a un sistema politico ormai entrato in agonia.
E così l’intervista che segue è in perfetto stile berlusconiano: nessuna polemica con i suoi, per ora, ex alleati («non ho nulla da replicare perché i fatti parleranno da soli») ma dritto alla meta.
È come, presidente, se lei avesse, con questa iniziativa, gettato il guanto di sfida a un intero sistema politico.
«Lo chiami come vuole. La realtà è che oggi l’Italia è ostaggio di un governo e di un sistema di potere distanti anni luce dalle esigenze e dagli interessi dei cittadini e che, anzi, con essi, sono entrati ormai in rotta di collisione. Prima che il nostro sistema faccia la fine del Titanic, è bene fermare le macchine e cambiare un bel po’ di cose. Ed è ormai compito di chi guida, in questo Paese, il partito di maggioranza relativa farsi carico di questo problema».
Creando, ad esempio, un movimento che, nascendo dal basso, rovesci la piramide dei poteri: prima viene quello dei cittadini e poi quello di chi li rappresenta. Un vero spariglio, non c’è che dire.
«Esatto. E non è certo un caso che sarebbe giusto avere - ma sarà un referendum a decidere il nome definitivo - proprio la parola “popolo” nella sigla del nuovo partito. È come ripercorreredando fondo a energie e idee nuove, lo stesso tracciato di molti anni fa. Solo che oggi il sistema politico, rispetto a quel tempo, si è ancor più deteriorato e necessita di terapie assai più forti. Ecco perché un nuovo partito».
Partito che, a quanto pare, ha già avuto un preventivo avallo da parte di molti cittadini.
«Abbiamo raccolto, in solo tre giorni, più di 8 milioni di firme. È stata un’esplosione di adesioni alle nostre proposte e di protesta verso questo governo e verso un modo di fare politica che, nella storia d’Italia, non erano mai caduti così in basso. Mi creda, è la gente, è il popolo della libertà ora a dire basta».
Lei ha detto che del rapporto che il nuovo partito instaurerà con i possibili alleati si parlerà in seguito perché ora preferisce correre da solo. Intanto che ne sarà però di Forza Italia?
«Forza Italia si rigenererà con entusiasmo e rinnovata energia nel nuovo partito. Essa formerà gran parte della sua struttura portante. L’esperienza accumulata dai suoi quadri dirigenti sarà indispensabile anche per strutturare la base del nuovo movimento. Del resto, non è stata forse Forza Italia l’unica cosa nuova del nostro sistema politico dall’avvento della Repubblica?»
Un obiettivo, se non abbiamo capito male, è quello di intercettare anche il consenso di tutti quei cittadini che oggi, a destra come a sinistra, sembrano aver voltato le spalle alla politica.
«Esattamente. Ed è questo il lavoro che, con grande impegno hanno svolto, ad esempio, i Circoli della Libertà. Grazie a loro si sono avvicinati alla politica migliaia di giovani che hanno visti rappresentati i loro interessi e le loro esigenze. Ecco un altro contributo importante per il nuovo partito che ora abbiamo costituito. Perché vale la pena di ripeterlo: il nostro obbiettivo è quello di far saltare i chiavistelli di un sistema politico che, così com’è oggi, non funziona più. In questo, la nostra iniziativa ha, in sé, qualcosa di rivoluzionario».
La prima sua mossa sembra che sarà quella di un confronto con Walter Veltroni sul problema della riforma elettorale. L’appuntamento è per venerdì prossimo 30 novembre. Non è però ancora del tutto chiaro su quali presupposti parta questa trattativa. Perché qualche equivoco ancora permane.
«La nostra posizione è chiara e si può riassumere così: noi vogliamo contribuire a costruire un sistema elettorale che incentivi la formazione di grandi partiti, non di alleanze elettorali impotenti, impossibilitate a governare. Il nostro obiettivo è un sistema politico fondato su due grandi partiti, più forti e finalmente omogenei, in competizione per il governo del Paese».
Pare che Veltroni voglia affrontare, nello stesso contesto, anche il problema delle riforme costituzionali. Lei esclude questa possibilità?
«Quando vi sarà questo incontro chiariremo i rispettivi punti di vista su tutto. Dico però fin d’ora che questo Parlamento non ha più la fiducia dei cittadini e non può certo riformare la Costituzione. In questa situazione dove il discredito del governo è al massimo grado, occorre riformare rapidamente la legge elettorale e tornare alle urne. Poi si potrà discutere e noi abbiamo proposte nuove e soluzioni efficaci. Discuterne ora mi pare del tutto prematuro. Anche perché…».
Anche perché, Presidente?
«Perché un accordo sulla riforma elettorale presuppone anche un comune impegno ad andare subito al voto. Abbiamo un governo che non ha più la maggioranza in Parlamento ed è ora che vada a casa. Non è necessario ripeterlo. Del resto, Dini e i suoi liberaldemocratici, Bordon e altri senatori hanno già dichiarato esplicitamente di non far più parte della maggioranza, che quindi, senza di loro, non è più maggioranza. Cos’altro deve ancora accadere per poter tornare alle urne? Questo governo è già imploso da un pezzo».
Se fallisse l’accordo sulla riforma elettorale, l’opzione referendum diverrebbe automaticamente una realtà. Lei come si pone di fronte a questa eventualità?
«Penso che sia giusto affrontare un problema alla volta. E poi sa che le dico?»
Dica Presidente…
«Un Partito della libertà che, appena nato, può già contare, come confermano i sondaggi di queste ultime ore, sul 35-37% dei consensi del corpo elettorale, non deve avere paura di nulla. Sono convinto che, entro qualche mese, di adesioni ne potranno arrivare ancora di più. Il vento del cambiamento spirerà sempre più forte».

mercoledì 21 novembre 2007

Per Sartori il Cav. è "uno spiraglio di luce". L'uovo di giornata

Avete letto le incredibili lodi che che l'irascibile e severo Giovanni Sartori riserva a Berlusconi? Molto probabilmente no e forse non credete neppure che le abbia scritte. Invece è così, ma se non le avete lette o addirittura non ci credete non è colpa vostra.
Infatti sembra non crederci neppure Sartori, il quale costretto a riconoscere la bontà della mossa berlusconiana sul proporzionale e sul bipolarismo, si arrabatta a nascondere la dolorosa ammissione nelle ultime righe del suo articolo sul Corriere di oggi.
Difficile arrivare fino in fondo, perchè l'articolo è perlopiù composto con il solito intruglio di antiberlusconismo e di prosopopea. Inizia dicendo che Berlusconi è un satrapo, che considera le istituzioni una sua proprietà, che per fortuna si sbaglia, eccetera eccetera.
Il lettore medio dunque, lette le prime righe volta pagina e dice: il solito Sartori.
Invece una strabiliante sorpresa attende chi regge fino alle ultime righe, perchè si scopre che stavolta il cattivo non è Berlusca , ma niente meno che l'insospettabile Prodi.
Dice infatti Sartori: "Prodi teorizza e pratica un bipolarsimo rigido e cementificato nel quale poi è doverosamente (sic!) rimasto imbottigliato. Pertanto la fine del bipolarismo dichiarata da Berlusconi è soltanto la fine del bipolarismo sbagliato. Era l'ora. Finalmente si intravede u no spiraglio di luce". Proprio così, testuale.
Non ci credete? Nemmeno io. Andate a ricontrollare. (l'Occidentale)

Di che recessione si parla? il Foglio

La Fed rende pubblici i verbali del board: crescita al 2-3 per cento nel 2008.

La Federal Reserve, in attuazione della politica di trasparenza, decisa dal presidente Ben Bernanke, ha reso note le discussioni fra i membri del board che hanno motivato le sue decisioni recenti e le loro vedute circa il tasso di inflazione e l’occupazione e la crescita del pil degli Usa, per il prossimo triennio. Questa pubblicazione ha suscitato una grossa sorpresa perché mostra come le opinioni dei componenti del board della Fed riguardo le prospettive economiche degli Usa siano molto diverse da quelle circolate nell’ultimo periodo in Europa e in America. Negli ambienti finanziari e in alcuni media influenti come l’Economist si era fatta strada l’idea che gli Usa stiano andando verso una recessione. Il dollaro all’inizio della settimana era sceso ancora, in relazione all’ipotesi – data come estremamente probabile – che la Fed stesse per tagliare il tasso di un quarto di punto o di mezzo punto, rispetto all’attuale livello del 4,5 per cento, per combattere i pericoli imminenti di recessione. Al contrario, i resoconti delle discussioni della Fed mostrano che tutti sono piuttosto ottimisti circa il pil degli Usa. Per il 2008 nessun banchiere centrale americano prevede una crescita del pil inferiore al 2 per cento, una parte la stima sul 3 per cento e un’altra parte sul 2,8. Dato che il pil degli Usa nel terzo trimestre del 2007 ha registrato una eccezionale crescita del 3,9 per cento annuo si può affermare che queste valutazioni comportano un rallentamento rispetto a questo dato. Ma tutte le stime vedono una economia robusta in fase di espansione, sia pure con andamenti diversi nei vari trimestri, trainata da una confortevole domanda domestica di consumi, sorretta da un sostenuto livello d’occupazione e dalla cresciuta della domanda estera. Che è favorita dal ridimensionamento del cambio del dollaro con le maggiori valute rispetto alle precedenti quotazioni. E’ difficile desumere da questi resoconti una inclinazione della Fed a riduzioni consistenti del tasso di interesse, rivolte a sostenere l’economia. E, d’altra parte, lo sforzo di trasparenza della Fed è un grosso passo avanti, non solo rispetto alla sua prassi passata, ma anche rispetto agli usi della Bce.

Non chiamiamolo populismo. Oscar Giannino

È populista. Plebiscitario. Sono queste, le sferzanti accuse che i critici e i dis­senzienti - nel centrodestra e nel centrosinistra - riservano a Silvio Bonaparte. Contraddice la logica politica, stride con la forma che essa richiede, dicono. Gli contestano di essere un cortocir­cuito temibile, minaccia costante a chi è convinto che la politica passi solo per assise e congressi, trattative estenuanti e sfibranti mediazioni. Quella di Silvio non è politica, è demagogia, concludo­no i censori. Hanno ragione? No.

La maniera più immediata per dimostrarlo sarebbe di prenderla a ridere. Perché quel che la politica italiana non ha mai perdonato a Silvio è esattamente il fatto di aver risposto meglio di chiunque altro a quella svolta - quella sì - autenticamente populista e a senso unico rappresentata da Mani Pulite, Tangentopoli, e dalla tonitruanti esternazioni della Procura di Milano. Quello sì era populismo: mandò a casa un'intera classe diri­gente repubblicana e fece sparire partiti e simboli storici in nome dell'enfasi del "nuovo", e della presunta estraneità a tangenti e malversazioni. Estraneità a senso unico, visto che il Pci e la sua prosecuzione testamentaria vennero salvati. Il maggioritario non si sarebbe affermato, senza Mani Pulite. Non sarebbe bastata la Lega da sola. E il problema è che Silvio ha incarnato meglio di tutti, da 14 anni a questa parte, la forte carica di leaderismo carismatico che l'abbozzo incompiu­to di maggioritario italiano affermò sulla scena italiana. Da allora, nessun altro leader del centro­sinistra e del centrodestra, si è mai sognato di poter vantare la presa elettorale e di consenso di Berlusconi. Ma è stato lui a imprimere la svolta cari­smatica e personalistica alla politica italiana? Neanche per idea. Era questo anzi a non piacergli, nell'estate del 1993 quando esaminava il da farsi. Ricercò politici moderatamente innovatori ma tradizionali, come Mario Segni, ai quali affidare il proprio sostegno. Tutto era, tranne un colonnello intemperante del potere come Peròn o un capita­no come Chavez, il Berlusconi di allora.

Dicono i critici che Silvio è cambiato cammin politico facendo. Che il suo essere gigione, la sua natura protesa a farsi amare da tutti a qualunque costo, il gusto per le battute e per i colpi di scena, il decisionismo aziendalista, tutto ciò lo renda una sorta di populista forse persino suo malgrado, in servizio permanente effettivo sotto i panni dell'ex statista che in Consiglio dei ministri ha mediato dando sempre retta all'equilibrista Gianni Letta, più che al Mangiafuoco dei colpi di testa Giuliano Ferrara. Una specie di somma tra un Nerone autocratico che ai Seneca non dà retta e alla fine li suicida, un Papa che si crede Re, un profeta che si scambia per Dio. Più, naturalmente, un impresa­rio televisivo che scambia la scatola a colori per la Boulé dell'Atene classica. Eppure, fateci caso. Silvio ieri ha confermato che dal maggioritario carismatico e bipolare lui fa un passo indietro (le mie scuse ai lettori, per quel che ho scritto di diverso il giorno prima: mi hanno fat­to velo le mie di convinzioni, ed è sempre grave er­rore quando si fa questo mestiere). Se malgrado 13 anni di maggioritario le coalizioni restano eterogenee fino all'impossibilità di governare - come si è visto sotto la destra come sotto la sinistra - tan­to vale abbracciare un proporzionale corretto da soglie ma con ciascuno che corra per il proprio programma e con alleati più coesi. E l'esatto con­trario del principio carismatico e plebiscitario. Quanto all'appello direttamente ai cittadini per iscriversi al nuovo Partito della libertà, anche qui cerchiamo di intenderci. Rispetto alla regola co­stituzionale per la quale i partiti sono libere asso­ciazioni attraverso le quali i cittadini concorrono a determinare la politica nazionale, il meccani­smo scelto da Silvio è meno rispettoso di quello che ha presieduto alla nascita del Pd, con la desi-gnazione a tavolino di un leader da parte di un'oli­garchia, e la spartizione matematica tra le due nomenklature dei Ds e della Margherita delle lea­dership e delle composizioni dei nuovi organi co­stituenti? No. È la nascita del Pd a peccare di oligarchismo, visto che non sono stati certo i votanti delle primarie a determinare l'indicazione di Veltroni e i candidati alle segreterie regionali.

Quanto a populismo, se un difetto storico noi sparuti liberisti imputiamo a Silvio, è proprio di non essersi mai fatto davvero un Pierre Poujade, il cartolaio di Saint-Cére che nel 1953 scosse la Francia dalle fondamenta contro le tasse. Eh no, cari dissenzienti, il populismo vero è di chi pro­mette a destra e manca pur di tenersi avvinghiato al potere, e da questo punto di vista esso abita a palazzo Chigi, con Prodi. 12,3 miliardi di spesa pubblica aggiuntiva che si sono sommati alla Fi­nanziaria in Senato, pur di far contenti tutti da Lamberto Dini a Franco Giordano, ne sono la più plateale conferma. A dar fastidio, di Silvio, è il consenso di cui gode nel popolo, necessario lievi­to per fare del partito delle Libertà l'equivalente dell'Ump francese. A risultare insopportabile è la sua capacità di parlare direttamente agli italiani. Come Bonaparte ai suoi grognards, aggirando la mediazione di maggiori e colonnelli. Troppa let­teratura? Ma senza miti letterali la democrazia non vive. Né Pericle né Alcibiade erano uomini privi di ambizioni. La loro forza era saper parlare al cuore e al portafoglio dei concittadini. E li accu­savano per questo di populismo, appunto. Esat­tamente come gli oligarchi senatori di Roma fa­cevano coi Gracchi. Dare all'avversario del popu­lista, di solito, è un'ammissione della propria minor capacità di aver consenso. (Libero)

Per gli ex ragazzi del Msi sdoganati dal Cavaliere torna l'incubo del ghetto. Stenio Solinas

Sarà anche falsa, e quindi non vera, di certo però è verosimile. «Dalle fogne li ho fatti uscire e nelle fogne li faccio tornare». Testo e musica di Silvio Berlusconi. Per chi sta in via della Scrofa e dintorni, tutto il resto è noia e questo è quel che resta di una lunga marcia verso il nulla.Erano partiti che erano ancora brutti, sporchi e cattivi, la più «impresentabile» fra le forze politiche della cosiddetta Prima Repubblica, quella per la quale era stato addirittura inventato un arco costituzionale ad escludendum: i reprobi, i reietti, i ghettizzati, i neofascisti. Si ritrovarono nel ciclone di Tangentopoli senza più i capi storici d’un tempo, un segretario giovane, una schiera di rampanti colonnelli che per gran parte in Parlamento non c’era mai stata, precari della vita e professionisti di una politica di minoranza, abituati a discettare sui destini del mondo, perché tanto il mondo non li stava a sentire, e però mai che gli fosse toccato in sorte non dico un ministero, ma una grande città, un’azienda municipalizzata, un ente. Non contavano nulla, non sapevano nulla. Non era colpa loro, si dirà, ma è altrettanto certo che avevano le loro colpe.Svegliandosi un bel mattino, si accorsero che quelli della Prima Repubblica si erano dileguati come ladri nella notte, era tutto un fiorir di rovine, era tutto un tintinnar di manette. Non avendo mai avuto potere, gli era stata comunque risparmiata la tentazione di approfittarsene e di lucrare in proprio, ma va anche detto che c’era un’onestà di fondo che li cementava: a scegliere di stare con i vinti e non con i vincitori di solito sono gli idealisti, gli inadatti e gli stupidi. E questo erano, più o meno in parti eguali, più o meno mischiati, più o meno collegati a uno solo di quei termini. I nomi metteteceli voi, ma vedrete che il conto torna.Rimasero insomma in piedi fra le macerie (altrui), uno slogan che a loro piaceva e poiché l’accusa che in quella stagione feriva mortalmente era quella di ladro, e non più quella di fascista, la potevano gridare allegramente e a ragion veduta, perché nessuno poteva più tenerli chiusi nel ghetto degli appestati. Erano saltati i catenacci, non teneva più il politicamente corretto delle ideologie.
In quel clima e con quei chiari di luna lividi di regolamenti di conti, ci fu chi, come il principe delle fiabe, ebbe il coraggio di baciare il rospo che ancora non sapeva bene se, come e quando ce l’avrebbe fatta a trasformarsi in essere umano, politicamente parlando. Disse il principe-Cavaliere che, avesse votato a Roma per le elezioni di sindaco, avrebbe votato per Gianfranco Fini, il rospo-segretario di un Movimento sociale che di Fiuggi conosceva solo l’acqua minerale targata Ciarrapico. È così che cominciò la lunga marcia verso il nulla. Bisogna capirli e in fondo comprenderli. Se non sei mai stato al banchetto del potere, non hai uso di mondo e la prima cosa che fai è mettere i piedi sul tavolo e circondare il piatto per paura che te lo portino via. Sempre politicamente parlando, questo significa che eccedi in presenzialismo, dici la tua su tutto, straparli, smentisci e poi ricominci. C’era chi esternava, c’era chi epurava, c’era chi ballava. Non uno che studiasse, non uno che s’interrogasse. Si erano subito convinti che la Prima Repubblica fosse caduta per merito loro. Non ne beneficiavano per quello che, applicato al calcio di Arrigo Sacchi, era stato chiamato il fattore c, ovvero il fattore culo, no: era il frutto di una sapiente strategia, il risultato di una serie di tattiche rivelatesi vincenti. Su quali fossero, si sorvolava. L’ultima analisi politica di cui potessero fregiarsi parlava del «Fascismo del 2000». E abbiamo detto tutto.
Di questa eterogenea combriccola, Gianfranco Fini era il migliore, e questo aiuta a capire cosa fossero gli altri. Ne conosceva i protagonisti come le sue tasche, era in grado di valutarne appetiti e fedeltà, scatti di orgoglio e conformismi. Non capendo nulla di sistemi politici aveva inizialmente schierato il suo partito per il proporzionale, e infatti fu il maggioritario che nel vincere e nell’inserirlo di forza nel sistema di alleanze del centrodestra fece la sua salvezza.
È a questo punto che nella lunga marcia venne accelerato il passo. In una logica bipolare, bisognava tenersi stretti al grande Demiurgo che l’aveva resa possibile. Occorreva perciò rifondare il partito, liberarlo da ogni scoria e da ogni impurità, evitare che gli potesse essere rinfacciato il passato, che qualcuno potesse rimetterlo ancora una volta nel ghetto. Andava insomma tolta quella camicia nera che era stata in fondo la sua unica ragion d’essere. E pazienza se il sarto non ne aveva una nuova, e di un altro colore, pronta per la bisogna. Le avrebbero provate strada facendo, una con i disegni della coccinella, un’altra con l’emblema dell’elefantino, una di foggia liberale, un’altra di taglio liberista, una con le iniziali della Destra sociale, un’altra con quelle del Partito popolare... Tranne la nera, ossessivamente andava bene tutto. Anche nudi, ma alla meta (del potere). Più o meno recalcitrante, più o meno osannante, la classe dirigente di quella che ora si chiamava Destra nazionale seguiva, come l’intendenza di Napoleone. Partito cesaristico, l’idea che il segretario-presidente potesse avere torto non era contemplata. Ci fu «l’incidente della Caffettiera», quando alcuni colonnelli dissero che forse era uscito di testa. Lui li degradò sul campo e loro rientrarono nei ranghi.
Comunque, i cinque anni al governo furono magici. Ministri e sottosegretari valevano uno schierarsi sulla linea, spesso un vero e proprio sdraiarsi a tappetino sulla porta del principale-alleato. In fondo, era l’assunto, il Cavaliere è anziano e Fini è il suo delfino. Ne prenderà il posto, e noi con lui.
Quando arrivò la sconfitta apparve sempre più chiaro che qualcosa non quadrava. Il sistema bipolare premiava gli alleati di governo, ma lo stare all’opposizione ne faceva crescere l’insofferenza. Perché il Grande Demiurgo non si decideva ad andarsene ai giardinetti lasciando il posto ai veri professionisti della politica?
Il nuovo partito di Storace avrebbe dovuto far aprire gli occhi. Ma Storace venne subito derubricato da «ex ministro» a «ex autista di Michele Marchio», perché nel gioco della diffamazione interna quelli di Alleanza nazionale non avevano dimenticato nulla del loro essere stati missini. Dove poteva arrivare un partitino così, nella logica bipolare, nell’idea del partito unico, nell’approdo ai Popolari europei? Era solo un incidente di percorso. E infatti... Tredici anni dopo, Alleanza nazionale è un partito senza identità che nella corsa affannosa del suo presidente verso il centro e verso una successione all’insegna del centrismo moderato se lo ritrova ora occupato più di prima e in più con il suo fianco destro questa volta presidiato da altri. La nuova legge elettorale vedrà i grandi partiti scegliersi gli eventuali alleati di governo non prima delle elezioni, ma dopo. Il cerchio si chiude e c’è sempre una nemesi politica e anche una lezione. Chi con Berlusconi guarisce, di Berlusconi perisce. (il Giornale)

martedì 20 novembre 2007

Un Cav. imperiale lancia il suo partito di popolo e dialogo (con Walter). il Foglio

Tesi: se la Cdl non c’è più, ci sono solo io Il bipolarismo è finito, accordiamoci sul proporzionale. Poi tutti al voto.

E così il tempio dell’imperatore Adriano è diventato la sede ufficiale d’una doppia investitura di popolo. Quella veltroniana celebrata lì dal sindaco della capitale subito dopo le primarie del Pd. Quella berlusconiana di ieri, appena più fastosa, allestita per annunciare in conferenza stampa la nascita del Popolo delle libertà. Ovvero Partito delle libertà, a seconda di come si esprimeranno le assemblee della moltitudine mobilitata dal Cav. nei gazebo, nelle piazze e su Internet. Circondato dai subalterni di FI (in prima fila tutta la quota rosa forzista raccontava del colore verde assunto ultimamente dai finiani), accompagnato sul palco da Michela Vittoria Brambilla, emozionato perfino nell’esordio al microfono, il Cav. ha dato forma soave a un progetto politico che una sua deputata riassumeva così: “La Cdl è finita, d’ora in poi ci sono soltanto io”. Lui, “ancora sotto choc per i quasi otto milioni di cittadini” che lo stanno fiancheggiando (più altri due milioni offerti da Marcello Dell’Utri e MVB), ha confezionato un discorso da stato d’eccezione: la politica deve ascoltare gli elettori, “basta litigi e ripicche da mestieranti, sono pronto a trattare con questa maggioranza che ha vinto le elezioni per pochi voti”, pur di cambiare la legge elettorale (proporzionale puro con sbarramento alto) e andare subito dopo al voto. Quanto alle altre riforme, si potranno realizzare a elezioni consumate e “in sintonia” con l’avversario. Le notizie sono almeno due: il Cav. non parla più di vittoria mutilata e si prepara ad apparecchiare una stagione dialogante di lunga durata (aria di grande coalizione). Peccato, si rammarica Berlusconi, che finisca qui il bipolarismo italiano del quale lui è stato vessillifero, ma il suo Popolo delle libertà ha in fondo il compito di rifondare l’edificio “dal basso”, senza “fusioni fredde” con alleati ingrati. Saranno gli elettori, prima ancora degli eletti, a tendere la mano verso il nuovo movimento dalla vocazione europopolare, quindi liberale ma solidarista, laica ma cristiana, integralmente berlusconiana nella “decisione sofferta” di farsi inseguire da Fini e Casini “dopo aver retto per cinque anni di governo e un anno e mezzo di opposizione senza neppure un vertice comune”. E Bossi? Il Cav. gli ha telefonato tre volte in due giorni, l’ultima ieri a colazione. Non sarà dunque il Carroccio la vittima del progetto pop, né uno dei contraenti, come da accordo naturale tra un movimento nazionale e un altro movimento regionalizzato. Alleati sì, però.
Ora l’appello del Cav. vale davvero per tutti e nel tempio di Adriano, almeno in apparenza, non c’era più un forzista al sicuro dalla selezione democratica: a cominciare dal rifondatore, ogni carica e ogni ruolo saranno vagliati dal popolo sovrano, e ribollente come i supporter che alla fine della conferenza hanno obbligato Berlusconi a improvvisare un altro comizio. Le porte della sua nuova domus, ha assicurato, “sono non aperte ma spalancate a tutti”. Non è dato sapere se il Cav. manterrà la promessa di “scrivere la storia dei prossimi decenni”, è certo però che ieri ha raccolto i suoi ultimi quindici anni in uno scrigno per spenderseli meglio.

Non giochiamo con i lavori usuranti. Tito Boeri

Oggi un vertice di maggioranza dovrà stabilire quali lavoratori potranno evitare gli scalini previsti dall’accordo sulla previdenza del luglio scorso, perché addetti a mansioni cosiddette usuranti.

La posta in gioco è molto alta, molto più alta di quanto si pensi. Non è solo una questione di tenuta della maggioranza («voteremo contro se non arriveranno risposte convincenti sul punto dei lavoratori usuranti», ha dichiarato Dini). Né si tratta unicamente di evitare che lieviti ulteriormente la spesa pensionistica dopo che il Parlamento ha rimosso il tetto delle 5000 uscite su cui si basano le stime della Finanziaria.

Se si dovesse superare quella cifra, bisognerà trovare adeguate coperture, ingrossando ulteriormente una manovra finanziaria che doveva essere leggera e che invece è diventata sempre più corposa durante il primo passaggio al Senato. Ma la vera posta in gioco è ancora più importante: riguarda la fiducia degli italiani nei confronti degli altri e delle nostre istituzioni. Un accordo che dovesse premiare alcune categorie di lavoratori maggiormente rappresentate nel processo politico, indipendentemente da riscontri obiettivi sulla natura usurante delle loro prestazioni, finirebbe per usurare davvero tutti, a partire da chi lo sottoscrive.

L’Italia è il Paese dell’area Ocse in cui storicamente c’è stato il più alto numero di regimi previdenziali pubblici, differenziati a seconda della professione. Gosta Esping-Andersen ne ha censiti 12, contro l’unico dell’Irlanda e i due degli altri Paesi anglosassoni e dei Paesi nordici. Anche nei Paesi corporativisti, quelli in cui la professione conta molto nell’accesso alle prestazioni sociali, si contano al massimo 5 o 6 diversi regimi previdenziali pubblici. Da noi il doppio, cui si aggiungono le asimmetrie nella copertura contro il rischio di disoccupazione. Queste differenze di trattamento sono il frutto di privilegi accordati spesso alla vigilia di qualche tornata elettorale per ingraziarsi una componente dell’elettorato oppure concessi da governi deboli sotto la forte pressione di rappresentanze dotate di forte potere contrattuale. I 12 regimi previdenziali pubblici della storia italiana non hanno nulla, proprio nulla, a che vedere con l’equità: a differenza che negli altri Paesi europei, le nostre pensioni sono generose soprattutto per il ceto medio, non per i più poveri. L’Italia è anche il Paese in cui ci si fida meno gli uni degli altri e in cui molti ritengono che «le disuguaglianze di reddito persistono perché ne beneficiano i potenti». Queste percezioni diffuse - la sfiducia negli altri e la visione delle fortune degli altri come frutto di potere e privilegi - sono maggiormente radicate proprio nei Paesi in cui c’è un numero maggiore di regimi previdenziali pubblici. Forse perché si ritiene che di fronte a un fenomeno che ci riguarda tutti, come l’invecchiamento, dovremmo essere trattati tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla casta di appartenenza. E quando non ci si fida degli altri diventa tutto più costoso. Ogni scambio è più difficile, spesso non ha luogo o, comunque, è più costoso per i contraenti. Per reggere alle sfide della globalizzazione, c’è bisogno di cittadini che si fidino gli uni degli altri. Il divario crescente fra il nostro Paese e il resto d’Europa, l’arretratezza del Sud, sono anche un problema di fiducia che non c'è, soprattutto nel nostro Mezzogiorno.

Nel 1996 abbiamo avviato un lento processo di armonizzazione fra i diversi regimi previdenziali pubblici del nostro Paese. Bisogna ora evitare in tutti i modi di tornare indietro, creando nuove asimmetrie, nuovi privilegi che fornirebbero, a loro volta, la copertura ad altre categorie per chiedere trattamenti di favore. Le regole devono essere uguali per tutti. C’è un forte rischio che l’accordo di oggi premi una volta di più le categorie maggiormente rappresentate dal sindacato o in cui si ritrova una parte consistente dell’elettorato dei partiti della vecchia sinistra. Per evitare che ciò avvenga, bisogna definire i lavori usuranti sulla base di riscontri obiettivi sulle malattie croniche e la speranza di vita di chi ha svolto per una parte preponderante della propria vita lavorativa determinate mansioni. Non si deve, invece, partire da elenchi precostituiti, basati sulla presunta natura usurante del luogo di lavoro (come nella cosiddetta «tabella Salvi») o sulla percentuale di ore svolte in lavori notturni. Sono elenchi che, peraltro, dimenticano che molte mansioni nei servizi (pensiamo alle costruzioni o ai servizi di pulizia delle imprese) possono essere maggiormente usuranti di molti mestieri nella manifattura. Lasciamo che siano i dati a dirci quali lavori sono usuranti e quali no. Sarà così chiaro a tutti che non si tratta di privilegi, ma al contrario di un modo di essere più equi nei confronti di chi, con tutta probabilità, avrà meno tempo a disposizione per godersi la propria pensione. (la Stampa)

domenica 18 novembre 2007

Manganelli, la mattanza dello Stato. Lorenzo Mondo

La reazione più impressionante alla guerriglia scatenata dagli ultras del calcio a Roma è stata quella manifestata all’indomani dal capo della Polizia, Manganelli. Spiegando i motivi per cui si è evitato lo scontro fisico con le bande di delinquenti che hanno messo a sacco un quartiere e sono arrivate ad assaltare una caserma, ha sostenuto di avere evitato, così facendo, «una mattanza». Presumo che l’alto funzionario conosca il peso delle parole e che abbia agito a ragion veduta. Ma la sua giustificazione non è meno agghiacciante perché dettata dalla ragionevolezza. La salvaguardia di vite umane è un bene primario, ma non assolve le responsabilità di chi ha tollerato la crescita di una cancerosa violenza, fomentatrice di una possibile strage.

Fino a esporre lo Stato a un inquietante ricatto, consentendo tra l’altro la saldatura tra l’odio indiscriminato per le forze dell’ordine e la sciagurata uccisione di un tifoso laziale da parte d’un agente, sia pure avvenuta in un teatro diverso, inconfrontabile. I parenti del povero Gabriele Sandri, non offuscati dal dolore e dal desiderio di giustizia, hanno saputo distinguere, hanno rifiutato l’annessione della vittima al mondo demenziale degli ultras, impedendo che il vilipendio sfiorasse la sua memoria. Ma li abbiamo visti al funerale, gli irriducibili, capo rasato e grida da stadio, evocanti con dileggio la morte dell’ispettore Raciti. E già qualcuno, come l’impresentabile Casarini, pensava di arruolarli per la manifestazione no global di Genova.

La nausea con cui siamo costretti a ripeterci va di pari passo con il riproporsi di fatti inammissibili in un Paese civile, quale sempre meno appare l’Italia, nonostante le patetiche rassicurazioni del presidente della Repubblica. Eppure non c’è altra soluzione che applicare senza sconti la legge contro i teppisti, anche quando si ammantano della - ahimè sacralizzata - bandiera sportiva. Chi spacca e picchia, il volto coperto dal passamontagna, deve, dovrebbe, finire in galera, da solo o in compagnia. Già siamo costretti a vedercela con la mafia, con le trame del terrorismo, con una microcriminalità estesa e ramificata. Sarebbe il colmo se dovessimo arrenderci alle «mattanze» provocate da qualche migliaio di teste vuote. (la Stampa)

sabato 17 novembre 2007

Siamo quasi tutti americani. il Foglio

Gli spettacolari successi della politica estera e militare di George W. Bush.

Una delle grandi favole raccontate in questi anni è che George W. Bush abbia compromesso i rapporti di alleanza, rispetto e solidarietà tra l’America e il resto del mondo. Abbiamo controllato e, a ieri, la situazione è un’altra: in medio oriente e nel mondo islamico ci sono due regimi terroristici in meno. La Libia ha smantellato i suoi programmi nucleari e il Pakistan si è trasformato, con le difficoltà evidenti in questi giorni, da principale sostenitore dei talebani in alleato nella guerra al terrorismo. Per restare in zona, l’India un tempo era un paese non allineato e sotto l’influenza sovietica. Oggi è partner affidabile degli Stati Uniti, al punto che Bush ha stipulato con la più popolosa democrazia del mondo un’alleanza nucleare. La Corea del nord, grazie alle pressioni di Washington sulla Cina, si è impegnato ad abbandonare i toni da apocalisse atomica. I rapporti con il Giappone non sono mai stati così solidi. Restano aperti i conflitti mediorientali – dai territori palestinesi, al Libano, all’Iraq, all’Iran – ma sono questioni che risalgono ai decenni precedenti a Bush e perlomeno adesso è in cantiere una strategia diversa da quella fallimentare che ha sedimentato l’odio antioccidentale e causato gli attacchi dell’11 settembre.
L’aspetto più interessante, però, è quello europeo. Si è scritto molto a proposito dell’arroganza bushiana che avrebbe diviso l’Europa. In realtà, fin dal primo momento, la maggioranza dei paesi europei si è schierata con Bush. Le eccezioni sono state Francia e Germania. Gli altri, compresi Italia e Spagna, hanno addirittura firmato un documento di sostegno alla politica di Bush, la famosa Lettera degli otto, seguito poi da un’analoga presa di posizione dei paesi dell’est europeo.
In questi anni di Bush alla Casa Bianca, la Nato si è allargata a est, fino a dialogare istituzionalmente con la Russia. Rivoluzioni pacifiche e filoamericane si sono svolte in un paio di ex Repubbliche sovietiche e la Turchia in occidente può contare principalmente sul sostegno della Casa Bianca. L’ostilità di Francia e Germania è sparita alla prima occasione in cui gli elettori sono stati chiamati alle urne. Jacques Chirac è in pensione e Gerhard Schröder fa il consulente petrolifero di Vladimir Putin. All’Eliseo c’è il politico francese più filoamericano dai tempi del marchese Lafayette, uno capace di nominare come ministro degli Esteri un radical-socialista che sulla guerra contro Saddam si oppose al semplice pacifismo e di ripetere che l’America è “la più grande nazione del mondo”. Il cancelliere tedesco Angela Merkel idem. A Downing Street, al posto del “cagnolino di Bush” Tony Blair, c’è un altro premier socialista che ricorda ogni cinque minuti di essere più filoamericano del suo predecessore. In controtendenza ci sono soltanto Spagna e Italia, ma solo a causa di una strage islamista e di uno scarto di voti dello 0,06 per cento. E malgrado ciò non si contano i bye-bye Condi e le suppliche di essere ricevuti alla Casa Bianca. In fondo siamo quasi tutti americani.

Rita Levi Montalcini e Franca Rame: al Senato due casi emblematici e avvilenti per la politica di casa nostra. Gaetano Saglimbeni

Quando le senatrici, per salvare il governo, si turano il naso e votano, senza vergogna, contro i propri ideali,la propria coscienza e la dignità di esseri pensanti.

L’hanno fatto per disciplina di coalizione: questo hanno dichiarato ufficialmente ed i giornali hanno scritto. La senatrice a vita Rita Levi Montalcini ha detto "no" all'emendamento presentato da Forza Italia per l'aumento dei fondi destinati alla ricerca (che lei stessa aveva sollecitato non molti mesi ed il Senato ha adesso approvato grazie alla opposizione con un solo voto di scarto), interessata soltanto alla approvazione dei finanziamenti assegnati dal governo Prodi all'istituto scientifico di cui lei è presidente. E l'attrice Franca Rame ha votato addirittura contro se stessa, per disciplina di coalizione, dicendo "no" (pensate un po', amici lettori) all'emendamento presentato da lei con Turigliatto e Rossi dell'estrema sinistra per tutelare gli operai esposti al pericolo dell'amianto. "I lavoratori sono stati, sono e saranno sempre nel mio cuore, ma io devo difendere il mio governo e voterò sempre per l'Ulivo, anche quando sono in gioco, come in questo caso, gli interessi degli operai", ha spiegato con sorprendente ingenuità da neofita della politica la sposa del premio Nobel super-russo Dario Fo.

Domanda dell'uomo della strada, della foltissima schiera dei cittadini che credono ancora in certi valori e si ribellano, indignatissimi, alle ipocrisie, ai falsi candori che servono soltanto a nascondere sconcertanti sudditanze nei confronti del potere, alle sfrontatezze e alle meschinità della politica: "Non sarebbe più dignitoso per queste illustri militanti della sinistra "illuminata", quando si rendono conto di essere soltanto delle marionette al servizio del dittatorello di turno, che si dimettessero per lasciare le poltrone ad esseri pensanti in grado di ragionare con le proprie teste? Il Parlamento ha bisogno di gente che sappia ed abbia voglia di difendere gli interessi dei cittadini: dei giovani ricercatori universitari, che ai loro magri stipendi di 800 euro al mese vorrebbero aggiungerne altre 300 per arrivare almeno al salario del metalmeccanico, e dei lavoratori, tanto cari (a parole) ai comunisti ed all'estrema sinistri, che il governo di un Paese civile ha il dovere di tutelare da imprenditori spregiudicati che non fanno nulla per proteggerli dal pericolo (sempre incombente, purtroppo) dell'amianto in fabbrica.

Non se la sentono, le due illustri senatrici Rita Levi Montalcini e Franca Rame in Fo, di opporre un "no" secco e responsabile alle pretese (spesso assurde, al limite del grottesco) del grande capo Prodi e dei suoi amici? A disposizione dei parlamentari c'è sempre un foglio di carta ed una penna per scrivere poche righe con le dimissioni, quando c'è da difendere, con gli ideali per i quali si è sempre vissuti, la propria coscienza, la propria dignità. Le giustificazioni di comodo, di esemplare idiozia e stupefacente marionettismo e macchiettismo politico, sono soltanto espressione di un inquietante servilismo che mal si concilia con la dignità degli uomini liberi, tanto meno con il laticlavio.

La satira si ferma a Fini. il Riformista

Che Gianfranco Fini goda di ottima stampa, soprattutto a sinistra, non è una notizia. Il leader di Alleanza nazionale è pur sempre meglio del diavolo berlusconiano, e come tale merita costantemente un occhio di riguardo. A meno che non superi il limite, come ad esempio sulla recente vicenda rumeni. Stavolta il caso è diverso e attiene a un tema - la libertà d’informazione - di cui si è giustamente molto dibattuto negli ultimi anni in Italia e che la recente scomparsa di Enzo Biagi ha provveduto a riportare d’attualità. La nostra posizione (una condanna senza se e senza ma) su quello che è passato alla storia come l’editto di Sofia è chiara e l’abbiamo ripetuta su queste colonne pochi giorni fa.
Ed è proprio in nome di quella libertà che restiamo scettici, e non poco, di fronte alla sfuriata che Fini avrebbe consegnato al Cavaliere (ne parlavamo ieri in prima pagina) per i due servizi che il tg satirico di Canale 5 Striscia la notizia ha dedicato negli ultimi giorni al leader di An, alla sua compagna, e alla futura nascita della loro bambina. Fermo restando che a noi poco, anzi nulla, interessa della vita privata di Fini, non ci sfugge che l’ex ministro degli Esteri sia un uomo pubblico piuttosto noto e che la sua relazione con l’ex fidanzata di Luciano Gaucci (a sua volta ex presidente del Perugia) è da considerare una notizia. E come tale l’ha considerata Striscia, che peraltro - nella rubrica non a caso intitolata “Spetteguless” - si è limitata a riprenderla dalla prima pagina di un settimanale. Una banale notiziola di venti secondi, seguita - tre giorni dopo - da un vecchio filmato girato nel castello di Gaucci con protagonisti lui e la sua ex. Filmato che tra l’altro nei giorni scorsi era reperibile sul sito di Repubblica.
Francamente non ci troviamo nulla di scandaloso. Quel che invece ci lascia esterrefatti è l’attacco di Fini a Berlusconi, che ha indotto ieri Mediaset a un comunicato ai limiti del ridicolo in cui l’azienda prende nettamente le distanze «dagli eccessi giornalistici e satirici che hanno colpito negli ultimi giorni la vita privata di Fini. La derisione che si trasforma in dileggio - c’è scritto - non è accettabile nei confronti di scelte sentimentali che non hanno alcuna attinenza con la vita pubblica del Paese, e in particolare se ci sono nuove vite in arrivo». Mediaset, inoltre, respinge il sospetto di un disegno politico-editoriale ai danni di An, concludendo: «A volte, semplicemente, la polifonia editoriale che ha sempre contraddistinto il nostro Gruppo rischia di trasformarsi in cacofonia. Sono i rischi della libertà». E qui facciamo un minuto di silenzio. Lo stesso Antonio Ricci, patron di Striscia, è intervenuto con tre righe semplici semplici: «Abbiamo fatto satira come l’abbiamo fatta su Berlusconi, D’Alema e Veltroni. La satira per definizione è satura». Che cosa aggiungere? Solo una domanda: se davvero Fini è convinto che il palinsesto Mediaset sia sottoposto a un controllo politico, come mai se n’è accorto solo per la messa in onda di un innocuo filmato d’archivio?

C'è un limite alla libertà di circolazione. Maria Paola Mariani

La libera circolazione delle persone costituisce una delle libertà fondamentali nel mercato interno europeo. Ma per i cittadini dell'Unione non è previsto un diritto di soggiorno illimitato. Se è superiore ai tre mesi, spetta solo ai lavoratori subordinati o autonomi e a chi dispone di risorse economiche sufficienti e di un'assicurazione malattia. La legge italiana di recepimento, poi, contemplalimitazioni al diritto di ingresso e di soggiorno per motivi di ordine pubblico. Perché sindaci e prefetti che chiedono più poteri sull'ordine pubblico non la applicano?

Ci è voluto il grave delitto commesso a Roma da un cittadino romeno lo scorso 31 ottobre 2007 perché in Italia ci si interrogasse sull’efficacia della legislazione vigente che disciplina il soggiorno degli stranieri comunitari in Italia. Amministratori e forze dell’ordine si sono difesi dall’accusa di non essere in grado di garantire la sicurezza nelle città italiane sostenendo che la normativa europea impedirebbe loro di allontanare cittadini comunitari che costituiscono una minaccia per la pubblica sicurezza. I sindaci e i prefetti invocano a gran voce nuove leggi e più poteri. Regole europee inadeguate e vuoti legislativi sarebbero, dunque, tra le cause dell’insicurezza delle nostre città. Ma è davvero così ?

Il diritto alla libera circolazione

Il diritto di circolazione e soggiorno dei cittadini comunitari è regolato a livello europeo, agli Stati membri spetta la disciplina di dettaglio per l’attuazione delle normative comunitarie.
Non dobbiamo dimenticare che la cittadinanza dell'Unione conferisce a ciascun cittadino il diritto primario e individuale di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri e che la libera circolazione delle persone costituisce una delle libertà fondamentali nel mercato interno. Ogni limitazione e condizione posta all’esercizio di tali diritti deve avvenire nel rispetto del trattato Ce e delle disposizioni adottate in applicazione dello stesso. La disciplina rilevante in tema di circolazione e soggiorno delle persone fisiche è contenuta in una recente direttiva (2004/38) che, raccogliendo in un unico testo la normativa europea stratificatasi nel corso degli anni, ha posto le regole per le modalità d'esercizio del diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini dell'Unione Europea e dei loro familiari e le sue restrizioni per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica.
La direttiva distingue tra diritto di circolazione e soggiorno fino a tre mesi, per il cui godimento è richiesta la sola formalità del possesso di un documento d'identità o di un passaporto valido, dal diritto di soggiorno per una durata superiore a tre mesi. Il cittadino comunitario che intenda avvalersi del diritto di soggiorno superiore ai tre mesi deve soddisfare le seguenti condizioni: esercitare un'attività in qualità di lavoratore subordinato o autonomo; disporre di risorse economiche sufficienti e di un'assicurazione malattia; seguire una formazione in qualità di studente e disporre di risorse sufficienti e di una assicurazione malattia per evitare di diventare un onere per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il soggiorno; essere un familiare di un cittadino dell'Unione facente parte di una delle categorie sopra menzionate.
Gli Stati possono legittimamente allontanare il cittadino dell'Unione o un suo familiare per ragioni di ordine pubblico, di sicurezza pubblica o sanità pubblica. Tuttavia, la decisione non può essere dettata da ragioni economiche, nel senso di misure protezionistiche intese a favorire i cittadini dello Stato ospite, e i provvedimenti relativi alla libertà di circolazione e di soggiorno devono basarsi esclusivamente sul comportamento personale dell'interessato che deve costituire una minaccia effettiva e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale dello Stato. Il provvedimento di rifiuto dell'ingresso o di allontanamento dal territorio deve essere motivato e notificato all'interessato. Fatta eccezione per casi urgenti, il termine ultimo per lasciare il territorio non può essere inferiore a un mese a decorrere dalla data di notifica. La direttiva prevede tutta una serie di garanzie procedurali. In particolare, l'interessato deve avere accesso ai rimedi giurisdizionali e eventualmente amministrativi previsti nello Stato membro ospitante.

La legge italiana

L’Italia ha tardivamente recepito la direttiva con il decreto n. 30, del 6 febbraio 2007 che per la gran parte riprende il testo stesso della direttiva e detta poche norme di dettaglio. Tra queste, sono degne di nota le disposizioni contenute negli articoli 20 e 21 che riguardano, rispettivamente, le limitazioni al diritto di ingresso e di soggiorno per motivi di ordine pubblico e l’allontanamento per cessazione delle condizioni che determinano il diritto di soggiorno. Si tratta di due fattispecie ben distinte.
La prima riguarda l’allontanamento di cittadini comunitari che pongono in essere comportamenti contrari all’ordine pubblico e alla sicurezza dello Stato e la competenza a emanare tali provvedimenti viene attribuita al ministro dell’Interno (il decreto legge del 1° novembre 2007 ha esteso la competenza ai prefetti nei casi comportamenti contrari alla pubblica sicurezza). La seconda riguarda l’allontanamento dei cittadini comunitari che non soddisfano le condizioni per poter godere del diritto di soggiornare in Italia e la competenza a emanare i provvedimenti spetta ai prefetti.
Oggi, sindaci e prefetti chiedono più poteri in materia di ordine pubblico, ma non spiegano perché non si avvalgono delle disposizioni già in vigore.
L’Unione Europea non legittima le migrazioni di persone prive di mezzi di sussistenza, né impedisce agli Stati di predisporre misure di difesa purché, naturalmente, siano rispettose dei diritti fondamentali della persona. Il diritto comunitario non prevede un diritto di soggiorno illimitato ai cittadini dell’Unione. Il diritto di soggiorno superiore ai tre mesi spetta solo ai lavoratori subordinati o autonomi, a chi non lavoratore dispone di risorse economiche sufficienti e di un'assicurazione malattia e agli studenti che dispongano di risorse sufficienti e di una assicurazione malattia.
Ma le persone che oggi si vorrebbero allontanare per motivi di pubblica sicurezza soddisfano queste condizioni ? La direttiva consente agli Stati di procedere a verifiche quando vi sia un ragionevole dubbio sulla titolarità del diritto soggiorno. Poiché il problema sembra venire da situazioni di degrado ben note a comuni e prefetture, nulla impedisce di procedere a controlli per verificare che le persone che vivono in quelle condizioni siano in Italia da più di tre mesi e se dispongono di un reddito sufficiente e di un’assicurazione medica. Ciò presuppone un costante controllo sul territorio che sopperisca al venir meno dei controlli sistematici in frontiera, ma che comunque sarebbe limitato a coloro per i quali possa sorgere un ragionevole dubbio sulla capacità di soddisfare le condizioni richieste dalla legge per beneficiare del diritto di soggiorno. Non va dimenticato che l’iscrizione anagrafica è obbligatoria per i cittadini dell’Unione che intendano soggiornare nel nostro paese per un periodo superiore ai tre mesi.
Certo, l’allontanamento per mancato soddisfacimento delle condizioni richieste per beneficiare del diritto di soggiorno, a differenza dell’allontanamento per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e salute pubblica, non può essere accompagnato da un divieto di reingresso. Tuttavia, una disposizione nazionale che sanzioni con il divieto di reingresso la persona destinataria di più provvedimenti di allontanamento emanati in un breve arco temporale sarebbe ammissibile considerando il sistematico abuso del diritto di soggiorno come un comportamento contrario all’ordine pubblico. (la Voce.info)

Andrea's version. il Foglio

Se si scherza, si scherza. Se si ragiona, si ragiona. Facciamo modestamente presente ai furbetti del governino che la data del 14 era virtuale. Facciamo modestamente notare che tanto era virtuale, la data del 14, da capitare non a caso il 15. Facciamo di seguito orgogliosamente osservare, ma questo non c’è chi lo neghi, che virtualmente Lambertow sta con noi. E se Lambertow, virtualmente, sta con noi, ciò significa che, altrettanto virtualmente, non sta più con voi. Bello scacco. Allora non c’è più un governo. Virtualmente. Perciò, virtualmente finché vi pare, se un governo non c’è, ce ne vuole un altro. Se un altro ce ne vuole, solo di due tipi può essere: effettivo, oppure potenziale. Virtuale, cioè, o reale. Se è virtuale, vabbè. Se è reale, esso non può concretamente prescindere da Veltroni. Il quale, come segretario reale, da molto potrebbe prescindere, ma se invece è virtuale, da niente. Diciamoci la verità. Ho fatto il Sessantotto e rimpiango l’orgia. Mai avrei previsto, però, che prenderlo in quel posto da Lamberto Dini potesse renderci felici in due.

venerdì 16 novembre 2007

Ennesima figuraccia di Padoa Schioppa, palesemente incapace. Carlo Panella

La sentenza del Tar del Lazio che infligge a Padoa Schioppa la sonora umiliazione di invalidare il suo licenziamento di Petroni dal Cda Rai ha un enorme rilevanza politica. Al di fuori dei giochi interni alla rai stessa -intricati, malmostosi e in fondo ininteressanti- quelloche emerge -per l'ennesima volta- è che il Ministro del tesoro è un dilettante allo sbaraglio, che non sa neanche impostare un banale attio amministrativo per allontanare da un Cda un rappresentante del tesoro che non sia di suo gradimento.Il tar, infatti, non ha per nulla emesso una sentenza di merito politico, ma di puro, purissinmo diritto amministrativo. ha detto, come avevo anticipato che avrebbe detto, che petroni poteva essere dimesso dal suo azionista, solo nel caso avesse votato in Cda in modo difforme dalle indicazioni ricevute o fosse stato censurato e censurabile ex post dall'azionista stesso. Ma Tps non ha mai dato indicazioni di voto a Petroni -coasa incredibile- né mai lo ha censurato o riopreso ex post. Bastava poco per farlo, un minimo di intelligenza politica e un ancor minimo di pratica gestionale di un azienda.Padoa Schioppa ha dimostrato di non avere nessuna di queste caratteristiche e ora -per di più- il precedente di Petroni potrà avere un effetto devastante sull'esito del ricorso del generale Speciale, ugualmente licenziato da Tps dalla Gdf senza alcuna motivazione formale e per di più con aperti insulti in Parlamento.

Rai: Guzzanti, Commissione di vigilanza intervenga su Santoro

‘’Ho chiesto l’intervento della Commissione di Vigilanza Rai e mi accingo a chiedere quello della magistratura per quanto di sua competenza'’ dice il senatore di Forza Italia Paolo Guzzanti, ex presidente della commissione Mitrokhin, riguardo alla rubrica ‘Arrivano i Mostri’ che Marco Travaglio tiene all’interno della trasmissione Annozero. Ieri il giornalista era intervenuto sull’inutilita’ delle commissioni parlamentari di inchiesta richiamando i casi della commissione Antimafia e soprattutto di quelle Telekom Serbia e appunto Mitrokhin, ricordando in particolare la sopravvalutazione fatta dei testimoni Igor Marini e MarioScaramella.‘’Ieri sera ad AnnoZero e’ stato consentito a Marco Travaglio di rovesciare una sequela di insulti contro la Commissione Mitrokhin senza che il conduttore lo fermasse. Anzi - sottolinea Guzzanti - Michele Santoro sorrideva compiaciuto, abusando del servizio pubblico alla stregua di una proprieta’ privata e contaminando cosi’ gli inconsapevoli utenti con una ben sperimentata serie di luride falsita”’.‘’Per altre e simili affermazioni sull’Unita’, Marco Travaglio - ricorda l’esponente di Forza Italia - e’ stato da me gia’ querelato, ma quel che e’ ora ben piu’ grave e inaccettabile e’ che il servizio pubblico sia usato per aggredire e diffamare impunemente persone fisiche e, in questo caso, lo stesso Parlamento della Repubblica, senza contraddittorio e senza prove, ripetendo come un mantra la serie di velenose invenzioni allestite gia’ prima della morte di Litvinenko un anno fa e poi sfornate come verita’ accertate'’.(ANSA).

Isn't it a bit late? il Foglio

Caro Times, non è un po’ tardi per scoprire il degrado giudiziario italiano?

Isn’t it a bit late? Ma non è un po’ tardi per scoprire il degrado giudiziario italiano? E’ la domanda che viene spontanea nel leggere la requisitoria del Times (vedi citazione in prima pagina) contro la giustizia spettacolo che imperversa in Italia, contro i giudizi mediatici che precedono e sostituiscono quelli dei tribunali, sui magistrati che si comportano come divi, sulle garanzie degli indagati stracciate da questi metodi barbari. Tutto giusto, tutto perfetto, anche nel caso di Amanda Knox e dell’omicidio di Meredith Kercher. L’analisi del quotidiano londinese, stimolata dall’inchiesta sul delitto di Perugia, ripete quello che questo giornale sostiene da dodici anni. E’ uscita persino un’edizione speciale del Foglio, in lingua inglese, per sottoporre all’attenzione dell’opinione pubblica anglosassone e dei corrispondenti esteri a Roma lo scempio che in Italia si faceva dei più elementari principi dello stato di diritto nell’amministrazione della giustizia. Quando un drappello di magistrati rivoluzionari milanesi intimò al Parlamento di non approvare una legge garantista nei confronti degli imputati, per impedire che il carcere fosse usato come uno strumento di tortura al fine di estorcere confessioni, l’opinione pubblica anglosassone tacque. Se fosse capitato qualcosa di anche vagamente simile in Gran Bretagna l’indignazione sarebbe stata immensa e generale. Quando si attivò il tentativo, riuscito, di far cadere un governo recapitando tramite Corriere della Sera un avviso di garanzia al presidente del Consiglio (per un reato del quale è stato poi sempre assolto in una serie innumerevole di gradi processuali), l’opinione pubblica anglosassone non fu messa in grado di avvertire la violazione del principio di separazione dei poteri a mezzo stampa e tv. Persino quando, in casi di criminalità privi di immediato collegamento con la politica, invece del dibattimento tra accusa e difesa in aula valevano i vari talk show televisivi, non ci si rese conto che ormai il meccanismo infernale del circuito mediatico-giudiziario, del protagonismo querulo di magistrati il cui orgoglio dovrebbe consistere nell’essere sconosciuti, stava tracimando, con l’effetto di travolgere tutte le garanzie, non solo, come si diceva, per i “potenti”, ma per chiunque incappasse nelle spire del mostro. Ora che la più autorevole delle testate anglosassoni ripete le tesi che abbiamo sostenuto per anni, non possiamo che esserne lieti. Resta incomprensibile quanto tempo sia stato necessario. Dodici anni sembrano un po’ troppi.

Rai: Consap, denunceremo Santoro e l'azienda. Il sindacato di polizia richiede la cassetta della trasmissione

Roma, 16 nov. (Adnkronos) - La Confederazione Sindacale Autonoma di Polizia, sindacato maggiormente rappresentativo della Polizia di Stato, ha richiesto ufficialmente alla Tv di Stato la registrazione della trasmissione della puntata 'Anno Zero' andata in onda ieri sera, per analizzare se esistono "le condizioni per denunciare ai sensi del codice penale, la vergognosa ''istigazione a colpire il poliziotto'' inscenata ieri senza contraddittorio dal conduttore salernitano e dai suoi ospiti".

La violenza antistato. Gianni Baget Bozzo

Genova, 17 novembre 2007. Il popolo che promosse la grande manifestazione contro il G8 si riunisce in un corteo a cui partecipa tutta la sinistra, anche gli assessori comunali. Si riunisce per dire che, allora, l'evento fu la violenza della polizia, che ebbe il suo epicentro nella caserma di Bolzaneto: una violenza anonima, brutale, sconfessata anche da uno dei dirigenti della polizia presente sul posto. La manifestazione vuol dire che la polizia è intrinsecamente violenta. Una convinzione che alligna anche tra gli ultrà che domenica scorsa hanno seminato il terrore in diverse città italiane. Sabato, a Genova, non viene accusato Claudio Scajola, che era allora ministro degli Interni, non Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, non il vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini, che venne in quei giorni in città nella sua posizione istituzionale. La polizia, solo la polizia.

Nel passato della sinistra, del Psi e del Pci nei loro anni storici, non c'era odio contro la polizia come tale, perché la giudicavano uno strumento del capitalismo e della società borghese e le davano quindi dignità di sistema. È con il '68 che comincia la lotta contro la polizia come espressione della violenza istituzionale di per se stessa. Il '68 non è più marxista, ma ritorna alla tradizione anarchica e giudica l'essere poliziotto o carabiniere una colpa sociale. È questo cambiamento che coglie Pier Paolo Pasolini, quando dichiara di preferire i giovani meridionali del Sud che sono nella polizia ai figli dei borghesi del Nord che alimentano la violenza contro di essi.

Sabato 17 novembre 2007 ci sarà la manifestazione di tutta la sinistra, compresa quella che si dice moderata e che aveva proposto la commissione d'inchiesta. Vi è un timore che corre sul filo delle istituzioni genovesi: vi è un altro popolo che vede nel poliziotto come tale il colpevole e ha scatenato la caccia alle forze dell'ordine a Roma, occupando i commissariati e il Coni: bruciando, distruggendo, insultando. Se i tifosi che trovano nella violenza negli stadi la loro identità di gruppo decidessero di venire a Genova per partecipare a una manifestazione promossa dai partiti di governo contro la polizia di Stato e i carabinieri, da che parte starebbe lei, ministro Amato? Con quelli della maggioranza di governo che ha proposto la commissione parlamentare e vuole riproporla, oppure con i poliziotti e i carabinieri, di cui lei dovrebbe, come ministro, garantire l'incolumità? Capisco perché il «dottor Sottile» abbia scelto un incarico così «carnale» come il Viminale. Lo si è visto nel tentativo di far fare un salto a destra, di colpo, al Partito Democratico, con l'espulsione dei rom. Ma il ministero «carnale» lo ha posto in un dilemma: o essere con chi protesta contro la violenza alla caserma Diaz oppure con i poliziotti e i carabinieri. Il dilemma è reso più difficile dopo le accuse rivolte dai pubblici ministeri contro i dimostranti del G8, con la richiesta di pesanti condanne per «l'aggressione in città». «Se questo è un governo...», è il caso di dire.

Potrebbe accadere qualcosa a Genova: per la storia della violenza in Italia, Genova è una città destino. Per la prima volta dopo il '48, e l'attentato a Togliatti, la sinistra attaccò la polizia e spinse un ufficiale nella vasca di Piazza De Ferrari. Ne nacque una crisi tale che cadde il governo Tambroni: e il presidente Fanfani, che gli succedette, diede ragione agli atti contro i poliziotti compiuti a Genova, sostenendo che erano atti di cittadini preoccupati per la democrazia. In questa città, dove nel Pci era forte la corrente di Pietro Secchia, che puntava sull'insurrezione, contro quella di Togliatti, che si teneva aperte le due strade dell'insurrezione della democrazia, la violenza rossa continuò il suo cammino. Genova è la città dove nacquero e morirono le Brigate Rosse. La violenza a Genova fa storia e fa storia per l'Italia.

Che cosa accadrebbe se i violenti del calcio si unissero alla manifestazione contro la caserma di Bolzaneto, se la polizia e i carabinieri divenissero l'obiettivo comune? È un problema che tiene sveglio il sindaco Marta Vincenzi, che però consente ai suoi baldi assessori di prendere parte alla manifestazione contro la polizia. Ritorna quindi a sinistra l'idea anarchica che la polizia è intrinsecamente violenta. Il popolo genovese ha fiducia nei carabinieri e nella polizia di Stato, che hanno difeso la città dall'aggressione dei no global di allora. Ora tutte le colpe della morte del tifoso laziale saranno addossate al giovane della polizia stradale che ha sparato. La cosa non è così semplice. Genova 17 novembre 2007 sarà per il ministro Amato un sabba delle streghe? (Ragionpolitica)

Approvata la moratoria sulla pena di morte.

L'approvazione della moratoria sulla pena di morte rappresenta ''la bella faccia dell'Italia, la forza dei Radicali quando sanno combinare la non violenza con le istituzioni''. Cosi', commossa, il ministro per le Politiche Comunitarie, Emma Bonino, ha commentato con Radio Radicale l'approvazione del testo nella terza commissione delle Nazioni Unite. (Adnkronos)

giovedì 15 novembre 2007

Piccola posta. Adriano Sofri

"Io sono il cameriere", disse un cameriere a Sartre, il qua­le lo redarguì: "Lei non è un cameriere, lei fa il cameriere". Dev'essersene ricordato ieri Pervez Musharraf, sicché, dopo aver arrestato gli ul­timi rivali a piede libero, ha dichiarato: "Io non sono un dittatore". Lo fa, e basta. (il Foglio)

mercoledì 14 novembre 2007

"Vi spiego perché i gay devono essere impiccati". Erica Orsini

Gli omosessuali dovrebbero essere impiccati o torturati, se possibile meglio entrambe le cose. Sempre che esistano, naturalmente. Durante una sua recente visita a New York, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, rispondendo alla domanda di uno studente sulla pena di morte per i gay, aveva detto che si trattava di un falso problema dato che nel suo Paese gli omosessuali non esistono.
Ma ieri il quotidiano britannico The Times ha riferito il contenuto inquietante di una conversazione tra un deputato iraniano, Mohsen Yahyavi, e alcuni colleghi inglesi in occasione di una riunione dell’Unione interparlamentare a Londra nel maggio scorso. Si tratta della prima volta che un membro del Parlamento di Teheran ammette l’atroce realtà. Da noi i gay, ha dichiarato Yahyavi, vengono torturati o uccisi e le adultere lapidate.
Da tempo la Gran Bretagna aveva denunciato la situazione chiedendo un intervento forte dell’Europa. L’ultimo caso riguardava non omosessuali, ma una giovane che lo scorso giugno era stata impiccata nella città di Gorgan dopo che il fratello l’aveva messa incinta. Lui era stato prosciolto da ogni accusa perché aveva detto di essersi pentito. Il governo inglese aveva denunciato l’iniquità della legge iraniana che discrimina le donne e aveva invitato Teheran a ricorrere alla pena capitale solo in caso di reati gravissimi.
Evidentemente l’essere gay costituisce una colpa degna del patibolo poiché anche attualmente continuano a pervenire dall’Iran notizie di esecuzioni. A confermarlo le parole di Yahyavi, esponente della commissione parlamentare per l'energia. Quando i colleghi inglesi gli chiesero spiegazioni sul caso di due minori impiccati, le cui fotografie sono state poi diffuse su Internet, il politico avrebbe semplicemente spiegato che «per l’islam l’omosessualità è proibita».
Secondo quanto riportato dal Times, Yahyavi aveva anche sottolineato che se «simili attività rimangono nella sfera privata non c’è problema, ma quando diventano pubbliche allora devono esser punite». Con la tortura, ma anche con la morte. «L’omosessualità è contro la natura umana - ha spiegato il deputato iraniano - e gli uomini esistono per riprodursi, gli omosessuali non si riproducono». (il Giornale)