lunedì 30 agosto 2010

L'ultima carta dei "liberal" in crisi (come Sofri e Lerner) è quella del razzismo. Charles Krauthammer

La settimana scorsa Adriano Sofri e Gad Lerner sono intervenuti sulla questione dei Rom e la decisione di Sarkò di rimpatriarli, con due articoli apparsi su Repubblica. Gli autori hanno giocato la carta più facile, quella del razzismo, giudicando gli italiani un popolo stupido e ignorante. Vi suggeriamo di leggere questo editoriale di Charles Krauthammer come una risposta ideale all'elitismo dei nostri "commentatori morali" e alla crisi del pensiero liberal.

I liberal sotto assedio sono senza dubbio una brutta immagine. Appena ieri tutto era speranza, cambiamento e ridare il potere al popolo. Ma questo 'popolo' si è mostrato davvero deludente. In soli 19 mesi, la riluttanza della gente ha trasformato l’ascesa dei liberal preconizzata da James Carville per i prossimi 40 anni in una piena ritirata.

Eh sì, il popolo, i poveri, la gente di provincia, la folla “triste” (come la definì una volta memorabilmente in un'incauta circostanza Barack Obama) che si aggrappa “alle armi o alla religione o – questa parte viene ricordata meno – all’antipatia nei confronti della gente che non è come loro”.

Si tratta di una maniera educata di dire: restano attaccati al loro bigottismo. E le confuse accuse di bigottismo sono precisamente il modo in cui i nostri attuali governanti e i loro numerosi aiutanti nei media reagiscono a una cittadinanza ribelle che insiste nell’avere un modo di pensare "scorretto".

- La resistenza alla vasta espansione del potere del governo, alla sua intrusione e al debito, come rappresentata dal movimento del Tea Party? Viene interpretata come il risentimento razzista nei confronti di un presidente di colore.

- Il disgusto e l’allarme nei confronti della mancata volontà del governo federale di frenare l’immigrazione illegale, così come dimostra la legge dell’Arizona? Puro nativismo.

- L’opposizione alla ridefinizione più radicale nella storia dell’umanità del concetto di matrimonio, così come è stato richiesto nella Proposition 8 in California? Omofobia.

- La contrarietà alla costruzione di un centro islamico e di una moschea di 15 piani nelle vicinanze di Ground Zero? Islamofobia.

Ora sappiamo perché il Paese è diventato “ingovernabile”, cioè la scusa utilizzata l’anno scorso dai Democrats per giustificare il fallimento della loro governance: chi può governare un Paese di razzisti, nativisti, omofobi e islamofobi?

E’ interessante notare che cosa unisce tutte queste questioni. In ognuna di esse, i liberal hanno perso le proprie argomentazioni nei confronti dell’opinione pubblica. La maggior parte di essa – spesso composta da una maggioranza sbilenca – si oppone all’agenda socialdemocratica del presidente Obama (come per esempio al piano di stimolo economico e all’Obamacare), e sostiene la legge in Arizona, si oppone ai matrimoni gay e rifiuta una moschea accanto a Ground Zero.

Cosa fa un liberal a questo punto? Allontana le accuse di bigottismo e gli squilli di tromba che anticipano il dibattito e non dà alcun credito alla serietà e alla sostanza di qualsiasi argomentazione contraria. La più vulnerabile di queste grandi fanfare è, senza alcun dubbio, la carta del razzismo. Quando è nato il Tea Party – una reazione spontanea, perfettamente naturale e sorta senza alcun leader (nella tradizione americana), alla vasta espansione del governo che invece è intrinsecamente legata all’agenda di trasformazione degli orgogliosi proclami presidenziali – il gruppo di commentatori liberal ha giudicato il movimento come una banda di zoticoni bianchi e arrabbiati che dissimulano la loro antipatia nei confronti di un presidente di colore parlando furbescamente in termini economici.

Poi è arrivata la legge dell’Arizona e la legge del Senato num. 1070. Per la sinistra sembra impossibile credere che la gente di buona volontà possa difendere l’idea che: a) l’immigrazione illegale dovrebbe essere illegale; b) i controlli di frontiera effettuati dal governo federale non dovrebbe essere ostaggio delle riforme comprensive del settore (per esempio, quella dell’amnistia); c) ogni Stato ha il diritto di determinare la composizione della propria popolazione di immigrati.

Per quanto riguarda la “Proposition 8”, è davvero così difficile capire come la gente possa pensare che la scelta di un singolo giudice che ha ribaltato la volontà di 7 milioni di votanti sia un affronto alla democrazia? E che conservare la struttura della più antica e fondamentale di tutte le istituzioni sociali sia un merito, qualcosa di molto diverso dal supposto odio nei confronti dei gay, in particolare da quando il requisito del genere sessuale opposto ha caratterizzato virtualmente ogni società della Storia fino ad appena qualche anno fa?

E ora la questione della moschea vicino a Ground Zero. L’intellighenzia è praticamente unanime sul fatto che l’unico fondamento alla sua opposizione è il bigottismo nei confronti dei musulmani. Una tale attribuzione compiaciuta di bigottismo rivolta ai due terzi della popolazione poggia sull’insistenza di una completa mancanza di connessione tra l’Islam e l’Islam radicale, un’affermazione che coincide perfettamente con la pretesa dell’Amministrazione Obama che siamo in guerra contro nient’altro che dei “violenti estremisti” dalle motivazioni impenetrabili e dalla fede indistinguibile. Coloro che rifiutano tale presupposto perché lo considerano sia ridicolo che politicamente corretto (una ridondanza ampiamente riconosciuta ) vengono definiti islamofobi, lo slogan del momento.

Il fatto che spesso si ricorra di riflesso all’esca più spicciola, quella della razza (con tutta una vivace varietà di forme), dimostra la corruzione del pensiero liberal e il collasso della fiducia che aveva in se stesso quando si scopre ripudiato talmente tanto. Infatti, come si può ragionare con una nazione di gentaglia che maneggia i forconi pieni di “antipatia nei confronti della gente che non è come loro” – ossia ispanici, gay e musulmani; un Paese che, come una volta ha sinteticamente spiegato Michelle Obama , “è completamente meschino”?

Il prossimo novembre i Democrats verranno duramente sconfitti. Non solo perché l’economia è in brutte condizioni. E non solo perché Obama ha reinterpretato eccessivamente il suo mandato governando troppo a sinistra. I Democrats saranno sconfitti perché la colpa di questa punizione ricade sulle elite arroganti il cui disprezzo evidente nei confronti di una massa di plebei li porta a guardare con prevenzione e a non concedere alcuna serietà alle idee di coloro che osano opporsi.

Tratto da The Washington Post©

giovedì 26 agosto 2010

Vuoto a perdere. Davide Giacalone

Se non avessimo perso avremmo vinto. Quel che colpisce non è tanto l’inavvicinabile profondità del pensiero veltroniano, quanto l’ottusa convinzione che siano il mondo e gli elettori ad essersi sbagliati, non la sinistra che lui guidava. Si resta a bocca aperta non tanto per l’acutezza di chi è in grado di capire che se la squadra del cuore avesse segnato più gol dell’avversario avrebbe anche potuto vincere la partita, ragionamento parente dell’ipotesi che la nonna possa aver le ruote, quanto per la cieca presunzione di chi non ha compreso il più elementare dei dati: la storia comunista è finita, morta, sepolta, non resuscitabile, neanche in salsa dalemiana o veltroniana. Hanno campato di rendita, questi ragazzi invecchiati senza divenir saggi, ma hanno fatto morire la sinistra.
Per comprendere la dimensione del roboante vuoto, morale e mentale, che affligge questi figli di madre ripudiata è sufficiente leggere per intero il paginone che il Corriere della Sera concede a Walter Veltroni, scorrendo la sua lunga e inconcludente “lettera agli italiani”, compiendo il solo sforzo di non cedere alla tentazione di appallottolare il tutto e lanciarlo lontano, ben prima della fine. A cominciare dal presunto titolo che, secondo l’autore, gli concede il diritto di rivolgersi all’intera collettività nazionale: “quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato alla presidenza del Consiglio”. C’è di vero che gli italiani ci misero una croce sopra, ma il resto è falso, perché al “non fui mai comunista, ma berlingueriano” continua a sfuggire un dettaglio: nessuno, nel sistema italiano, si candida alla presidenza del Consiglio, e nessuno può essere votato per quell’incarico. Siete cascati, come allocchi, nel trucco berlusconiano, vi siete berlusconizzati al punto da non distinguere più la realtà dalla finzione, sicché, seguendo il presunto ragionamento di Veltroni, si giunge ad una sola conclusione: la maggioranza degli elettori elesse Silvio Berlusconi alla guida del governo, quindi, oggi, tutte le fanfaluche quirinalizie sono solo una perdita di tempo, perché l’investitura popolare può essere ritirata solo tornando al popolo. Parola del più sfegatato berlusconiano, vale a dire il suo preteso oppositore.Egli continua a pensare che l’impostazione della campagna elettorale, due anni fa, fu lungimirante e corretta, salvo il fatto che gli italiani, compresi gli elettori di sinistra, non ne compresero il valore, e persevera nell’errore perché continua a non capire che non esisterà mai un “partito a vocazione maggioritaria” in un sistema senza vocazione maggioritaria o presidenziale. Non lo è neanche quello di Berlusconi, come le vicende di quest’estate si sono incaricate di dimostrare, e come noi sostenemmo per tempo. E per mantenersi fermo nell’errore politico e d’analisi ha bisogno d’imbrogliare gli altri e se stesso, come quando afferma di restare convinto che: “le uniche alleanze credibili, prima e dopo le elezioni, siano quelle fondate su una reale convergenza programmatica e politica”. E’ in questo modo che definirebbe l’alleanza, da lui stretta, con i reazionari giustizialisti dell’Italia dei Valori? Quell’alleato, tutto al contrario, rispondeva allo schema inventato da Berlusconi e che ancora oggi Veltroni dice di non volere praticare: imbarchiamo tutti quelli utili a sconfiggere gli avversari. La sinistra ha rinunciato al programma e venduto la politica, pur di battere Berlusconi sul terreno berlusconiano. E’ stata battuta, invece, come meritava, merita e meriterà.
Del resto, che razza di sinistra è quella di Veltroni, che dovendo citare dei padri e dei buoni esempi mette in fila Parri, De Gasperi, Moro, Ciampi e Prodi, tralasciando madre Teresa di Calcutta solo per non far vedere che ha copiato da Jovanotti? Forse a Veltroni è sfuggito, ma nessuno dei preclari esempi è mai stato iscritto al suo partito, i primi tre sono stati da lui e dai suoi compagni duramente avversati, mentre ha dimenticato di citare l’unico presidente del Consiglio compagno: Massimo D’Alema. E se si fanno così schifo fra di loro, figuratevi agli altri. Non pago d’aver messo il piede su tutte le possibili saponette, Veltroni vede da lontano l’ultima trappola, e ci si ficca con lussuria: il rischio, dice, è che in Italia prenda piede la “democrazia autoritaria”, come in Russia e come in Cina. E chi glielo dice, adesso, che i guai della Russia derivano dal regime comunista, a favore del quale lui marciò e che gli pagò anche lo stipendio, chi glielo fa sapere che in Cina, invece, la democrazia non è neanche apparente?
La cosa imbarazzante è che tanto frullato misto, tante idee confuse, tanto tentato sincretismo politico nascono da una sola fonte: la voglia di non riconoscere di avere sbagliato per una vita, d’essere stati dalla parte del torto (sebbene non di tutti i torti), dall’avere abusivamente occupato, grazie ad aiuti e soldi sporchi di sangue, lo spazio che, in una democrazia sana, è della sinistra democratica e antiautoritaria, quindi anticomunista.
Sono profondamente convinto che l’Italia abbia bisogno di quella sinistra. Credo che manifesterà la propria esistenza il giorno in cui la pianterà d’essere ipnotizzata dal berlusconismo e porrà come imprescindibile il tema delle riforme istituzionali e costituzionali. Per questo segnalo l’estiva veltronata, ove ciascuno può trovare traccia di tutte le ragioni, di tutte le deficienze, che condannano la sinistra ad essere ininfluente anche quando la destra entra in crisi, e meritevole di sconfitta fin quando non si sarà liberata da questi falsi profeti, da questi residuati fossili del suo inguardabile e ingiustificabile passato.

sabato 14 agosto 2010

*Lettera aperta di Bersani ai "piddini" (nella versione di Pasquino). Gianfranco Pasquino

Carissimi,
mi rivolgo a voi mentre va in onda la crisi terminale del berlusconismo. È vero, cari iscritti, che vi teniamo in poca considerazione poiché molti di voi si fanno passivamente manipolare, non da oggi, dai vostri segretari e noi preferiamo i bagni di folla delle primarie, ma questa volta, vista la gravità della situazione, ho deciso di informarvi sulle nostre prossime fantasiose mosse. Grazie ad una possente spallata dei gruppi parlamentari del Partito democratico, oppure, non ricordo bene, la spallata l’ha data Fini?, tutto il quadro politico è entrato in movimento. Ma, niente paura, noi abbiamo le formule magiche con il quale stabilizzarlo. Abbiamo pensato, anche grazie al come sempre originale apporto di Paolo Flores d’Arcais, ad un governo che chiameremo “tutti contro Berlusconi”. Abbiamo anche pensato ad un governo di salute pubblica, ovvero un governo di larghe intese, vale a dire un governo istituzionale, cioè un governo di transizione. Grande è il sostegno, anzi, l’entusiasmo popolare per tutti questi governi ai quali noi, in crisi di astinenza ministeriale, non potremo negare il nostro convinto sostegno. Tuttavia, sia chiaro che come vostro segretario mi sento personalmente a disposizione anche per un bicolore Berlusconi-Bersani se fosse utile per bloccare un eventuale governo giustizialista Bocchino-Di Pietro.

Stiamo esplorando altre possibilità anche grazie alla intelligenza politica del compagno D’Alema, ma non ho ancora capito se vuole che Tremonti sostituisca Berlusconi oppure se preferisce Casini, al quale risulta che avrebbe già offerto la carica di premier. Nel frattempo, si arricchisce il menu di leader che si candidano a guidarci verso le prossime “magnifiche sorti e progressive”. Chiedo subito scusa per il “progressive” agli ex Margherita, ex Dc, e chiarisco che l’aggettivo non intende in alcun modo richiamarsi al riformismo, del quale abbiamo perso traccia da tempo, né tantomeno alla socialdemocrazia, sulle cui tracce non siamo mai stati poiché non conducono da nessuna parte tranne che, spesso, al governo. Ci stiamo anche preparando a dare il benvenuto a Nichi Vendola, notoriamente il politico preferito da D’Alema e da lui due volte fatto vincere in Puglia, e a Sergio Chiamparino che ci guiderà a un’alleanza con Fini (anche se non riusciamo a capire se Fini vorrà fare un’alleanza con noi). Sia Vendola sia Chiamparino sono “risorse”. Chiedo a tutti voi di prepararvi per un’intensa campagna d’autunno e di imparare dai compagni di Bologna dove stanno genialmente cercando addirittura di stringere un accordo con l’ex sindaco Giorgio Guazzaloca che guidò un’amministrazione di centro-destra che noi incessantemente criticammo e, come è nel nostro stile, “demonizzammo”. Vedete quanto possiamo essere generosi (eufemismo per “confusi confusionari”).

Sono, purtroppo, costretto cari amici e compagni, a concludere ricordando a noi, prima che agli altri, molti dei quali lo sanno benissimo, che le nostre brillanti formule di fuoriuscita dal berlusconismo incontrano due ostacoli. Il primo ostacolo è che Berlusconi, da un lato, gode ancora della maggioranza parlamentare e, comunque, la sua opposizione renderebbe difficilissima, se non impossibile, la nascita di una nuova, peraltro, molto eterogenea (sento parlare addirittura di “ammucchiata”) e, dunque, instabilissima, alternativa. Dall’altro lato, continua a esserci alla presidenza della Repubblica un ex comunista, preparato, vigile e molto bene informato, che intende fare rispettare le regole e che quasi sicuramente impedirebbe i pateracchi di cui stiamo parlando, più di tutto sarebbe contrario a un ribaltone rispetto al quale, sono certo Veltroni e i pasdaran veltroniani vorranno contrapporre le conseguenze logiche, politiche e istituzionali del loro “partito a vocazione maggioritaria”. Se cade una maggioranza che ha ricevuto, non soltanto un qualche mandato popolare, ma persino un premio di maggioranza, sarebbe opportuno, magari subito dopo i necessari ritocchi elettorali, non quelli pasticciatamente proposti dal team veltroniano nel 2008, tornare alle urne.
So che, a causa della crisi, più della metà di voi sono stati costretti a passare le vacanze in città: New York, Barcellona, Parigi, Londra. Quindi riceverete questa mia con qualche ritardo. Non vi preoccupate. La nostra prima e urgente iniziativa di massa è prevista per l´8/9 ottobre.Con l’augurio che il sole d’agosto illumini le nostre fertili menti
Il Vostro Segretario Bersani. (il Velino)

venerdì 13 agosto 2010

Il crepuscolo della modernità. Massimo Fini

Indro Montanelli mi raccontò che Leo Longanesi una volta gli aveva detto: "Tu e Ansaldo mi fregherete sempre. Perchè io capisco le cose cinque anni prima che accadono, voi cinque giorni prima". Vasco Rossi, fatte tutte le debite proporzioni, è più vicino al tipo Montanelli -Ansaldo che a Longanesi. È un istintivo, ha fiuto, sente cosa c'è nell'aria e sta per arrivare e lo capta un po' prima degli altri. Per questo trovo molto interessante il suo ultimo disco, appena uscito, "Il mondo che vorrei". Ricordate l'autore che cantava "vado al massimo"? Bene, adesso lo stesso uomo, certo un po' invecchiato, dice: "Non si può fare sempre quello che si vuole/non si può spingere solo l'acceleratore/guarda un po': ci si deve accontentare". E se ci è arrivato lui fra poco ci arriveranno anche gli altri a capire che noi non abbiamo bisogno di più velocità, di più Tav, di più Expo, di più Pil, di più produttività, di più consumo, di più crescita, di maggiore modernizzazione ma, al contrario, di rallentare, di frenare, di fare qualche passo indietro. Abbiamo bisogno di ritornare a una vita più semplice e più umana. "Ci si deve accontentare di ciò che si ha" canta Vasco. È stato Ludwig von Mises, uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici dell'industrial-capitalismo a sintetizzarne l'essenza e a individuarne la molla con l'affermare, capovolgendo venti secoli di pensiero occidentale ed orientale, che "non è bene accontentarsi di ciò che si ha". E così fondando la necessità dell'infelicità umana. Poiché ciò che non si ha non ha limiti, l'uomo moderno non può mai raggiungere un momento di armonia, di equilibrio, di soddisfazione: conseguito un obiettivo deve immediatamente puntarne un altro, salito un gradino farne un altro e poi un altro ancora e così all'infinito, a ciò costretto dall'ineludibile meccanismo che lo sovrasta. Ineludibile perchè si regge su questa ossessiva corsa in avanti alle cui esigenze piega, lo vogliano o no, anche i singoli individui. Siamo come i cani levrieri (fra le bestie, sia detto di passata, più stupide del Creato) che al cinodromo inseguono la lepre meccanica coperta di stoffa che, per definizione, non possono raggiungere. Perché serve solo per farli correre. E il futuro orgiastico, che le leads mondiali agitano continuamente davanti ai nostri occhi come una sempre nuova Terra Promessa, arretra costantemente davanti ai nostri occhi come l'orizzonte davanti a chi si incammini avendo la pretesa di raggiungerlo.
Questa è la condizione dell'uomo contemporaneo. Ed è da questa frustazione che nasce il mal di vivere, il disagio esistenziale acutissimo che si diffonde sempre più fra gli abitanti anche, anzi soprattutto, dei Paesi benestanti o ricchi o ricchissimi , provocando ansia, angosce, nevrosi, depressioni, dipendenza da sostanze chimiche e picchi di suicidi sconosciuti al mondo pre Rivoluzione industriale (decuplicati, in Europa, dal 1650 ad oggi).

Ma il paradosso finale di questo modello di sviluppo che ha puntato tutto sull'economia, subordinando ad essa ogni altra esigenza dell'essere umano, è che ha completamente fallito anche in quest'ambito. Da quando la Rivoluzione industriale si è messa in marcia la povertà nel mondo non ha fatto che aumentare, interi continenti ne sono stati distrutti, come l'Africa nera (che nessun "aiuto", peloso o meno, potrà salvare, ma, al contrario, contribuirà ad inguaiare ulteriormente strangolandola col cappio inesorabile della globalizzazione), e adesso la fame, la dura fame, comincia a lambire anche noi se è vero che si vedono già in giro persone, per ora vecchi, costrette a rubare nei supermercati perché nel mondo del Denaro chi non ne ha è perduto, né può trovare sostegno in un tessuto sociale che è stato distrutto.

Ma io credo che la crisi economica ci sarà d'aiuto. Perchè ci costringerà a pensare al di là dell'economico. A riflettere se aver abbattuto l'antico principio "è bene accontentarsi di ciò che si ha" non si sia risolto in una follia autodistruttiva. E chissà se Vasco Rossi, con le parole semplici delle canzoni, non finirà per essere più convincente dei tanti intellettuali che, derisi e vilipesi, da decenni denunciano e annunciano il crepuscolo della Modernità. (Arianna Editrice)

venerdì 6 agosto 2010

Viene. Jena

Bersani, D'Alema, Veltroni, Vendola, Ferrero, Di Pietro, Casini, Rutelli, Fini...vieni anche tu all'opposizione e porta un amico. (la Stampa)

giovedì 5 agosto 2010

Non è difficile capire il nesso tra il terrorismo e il mozzare naso e orecchie alle donne. Carlo Panella

Qualche giorno fa Il Time ha pubblicato una copertina choc: una bellissima ragazza afgana con un terribile buco al posto del naso e delle orecchie. Glieli avevano mozzati i Talebani, per punirla della sua presunta “immoralità”. Un modo provocatorio, ma giusto, per ricordare e ricordarci le ragioni della presenza militare in Afghanistan. Non certo per “portarvi la democrazia” e men che meno “la civiltà”, ma semplicemente per sconfiggere, debellare una forza politica –l’alleanza tra Talebani ed al Qaida- che è terrorista e compie attentati –Twin Towers incluse- esattamente per le stesse motivazioni, per la stessa incultura barbara per cui mozza il naso alle donne. Ieri, Faizullah Kakar, consigliere di Hamid Karzai ha reso nota una notizia che moltiplica l’orrore di quel naso mozzato: “Ogni anno 2.300 donne si suicidano in Afghanistan per ragioni legate alla violenza quotidiana e familiare, come risorsa estrema di fronte a violenze subite”. La percentuale più consistente riguarda coloro che si tolgono la vita appiccandosi fuoco. Nel complesso almeno il 28% delle donne afghane sono affette da depressione ed i casi di suicidio sono quasi tutti in questo ambito. Fra le ragioni che spingono le donne afghane ad uccidersi, soprattutto nell'ovest e nel nord del paese, vi sono insicurezza, stupri, comportamento violento dei mariti, e matrimoni forzati.
Questi dati, impressionanti, vanno tenuti presenti perché sono indispensabili per capire le difficoltà che incontra la guerra al terrorismo in Afghanistan e perché è indispensabile condurla.
I Talebani infatti, riscuotono un certo consenso popolare tra l’etnia Pasthun –la più numerosa del paese- innanzitutto perché difendono intransigentemente il pashtunwhali, il “codice familiare d’onore” di quelle tribù, un codice feroce con le donne. Ma chi ha quella visione della vita, chi considera la donna poco più di un armento da possedere e marchiare, quando entra in contatto con una ideologia che sviluppa quella violenza interna alla famiglia e la proietta nella società e poi nel mondo, la fa propria. Questo è successo ai Talebani quando hanno incontrato gli ideologi arabi del Jihad portati tra di loro da Osama bin Laden e da al Qaida. Dunque, il nemico che l’Occidente combatte in Afghanistan è proprio l’innesto diabolico tra quella concezione violenta del possesso della donna e la prospettiva di una società mondiale retta allo stesso modo grazie alle vittorie del Jihad terrorista. Un nemico nuovo, perché la sua ideologia unisce codici d’onore tribali, un Islam dogmatico e fondamentalista e quindi la pratica del terrorismo Jihadista. Un nemico pericoloso perché questa miscela ideologica fa proseliti, perché tutti gli attentatori mancati di questo anno (sull’aereo Chicago-Amsterdam, a Times Square, alla Caserma Santa Barbara di Milano), sono stati opera di musulmani vissuti in Occidente -spesso tra gli agi- andati volontariamente a indottrinarsi nelle valli controllate dai Talebani mozza-nasi, per poi tentare di seminare morte in Occidente. E così è stato per tutti i nuclei terroristi che hanno portato a segno gli attentati precedenti, quelli di Madrid e di Londra inclusi. Se questo è l’impasto da cui nasce il terrorismo islamico –e lo è- è più agevole comprendere come sia difficile sconfiggerlo. Ma resta il fatto che è indispensabile farlo, non solo per aiutare le donne afghane a liberarsi, ma anche per fermare la mano di una massa di fanatici che mozza i nasi alle donne per le stesse ragioni per cui organizza attentati nelle nostre città. (Libero)

martedì 3 agosto 2010

Bologna e i conti ancora aperti. Michele Brambilla

Perché non c’era nessuno del governo ieri a Bologna, nel trentesimo anniversario della strage? La prima risposta è molto semplice: erano stufi di farsi fischiare, cosa che si ripeteva immancabilmente ogni anno. Ma a questo punto scatta una seconda domanda: perché i bolognesi li hanno sempre fischiati? E qui la risposta è un po’ più complessa.

Alcuni esponenti del Pdl hanno detto che quella del 2 agosto è ogni anno l’occasione, o meglio il pretesto, per contestare il governo, soprattutto se di centrodestra. Il ricordo della strage sarebbe quindi strumentalizzato. In parte è vero. Che cosa c’entrano le bandiere di Rifondazione Comunista con le vittime di quell’attentato? E perché l’anno scorso, tanto per fare un altro esempio, è stato silenziato dai fischi il ministro Bondi, del quale ovviamente tutto si può dire, ma certo non che sia un complice dei bombaroli?

Insomma le argomentazioni degli assenti non sono campate per aria. Ma non bastano, a nostro parere, per rispondere a quella seconda domanda: perché a Bologna chiunque si presenti come rappresentante del governo viene contestato? Credo si debba cercare la risposta andando molto indietro nel tempo: non solo al 2 agosto 1980, ma a tutti i cosiddetti anni di piombo. Cerchiamo di ricordare. In Italia ci si cominciò ad ammazzare alla fine degli Anni Sessanta. Era un periodo di tensione altissima. Altro che le piccole schermaglie di oggi. Il mondo era diviso in due blocchi: quello liberaldemocratico sotto l’ombrello americano; e quello comunista sotto il tallone sovietico. Ogni anno almeno un Paese del pianeta diventava comunista, e almeno un altro subiva un golpe militare di destra.

In Italia era il tempo delle lotte operaie e delle contestazioni studentesche. La sinistra avanzava. Qualcuno vedeva la rivoluzione vicina; così qualcun altro sentiva l’esigenza di «ordine», e magari un po’ di nostalgia di quando c’era lui. Fiorirono presto due terrorismi.

Uno fu quello delle Brigate Rosse e dei suoi più stretti parenti. Erano assassini con bersagli ben precisi: poliziotti, carabinieri, magistrati, politici. Fra le loro vittime preferite c’erano non tanto i fascisti o i «padroni» quanto i riformisti, gli «uomini del dialogo»: perché costoro, cercando di migliorare le condizioni di vita «delle masse» (un’espressione allora di gran voga) tagliavano l’erba sotto i piedi alla rivoluzione. Follia quanto si vuole, ma i brigatisti ragionavano così.

L’altro terrorismo fu quello «stragista». Bombe sui treni, nelle banche, nelle stazioni, con l’obiettivo non di eliminare «nemici» ben individuati, ma di massacrare uomini donne e bambini di cui i terroristi non conoscevano neppure i nomi. Lo scopo era quello di seminare il terrore e probabilmente di favorire una svolta autoritaria.

Per molti anni - diciamo almeno fino al 1978, sequestro Moro - in Italia regnò un certo conformismo che contagiò intellettuali e ahimè tanti giornalisti, e che produsse una grande falsificazione: quella di far credere che in realtà di terrorismo ce n’era uno solo, quello bombarolo fascista e reazionario; e che le Brigate Rosse e i loro compari altro non erano che sbirri, o appunto fascisti, incaricati di gettare discredito sulla sinistra. Fu soprattutto per reagire a questa gigantesca mistificazione che Indro Montanelli fondò il suo «Giornale». Aveva mille ragioni dalla sua parte.

Tuttavia, dopo più di trent’anni, un dato va obiettivamente riconosciuto. E cioè che, alla fine, dei terroristi rossi abbiamo saputo tutto: nomi, cognomi e origine politica, che è quella del comunismo rivoluzionario (chi ancora li dipinge come marionette della Cia, delira). Abbiamo anche visto costoro entrare in galera e restarci più o meno a lungo. Degli stragisti, invece, non abbiamo nomi e cognomi dietro le sbarre. Chi ha messo la bomba in piazza Fontana? Boh. E sul treno Italicus? E in piazza della Loggia? E alla stazione di Bologna chi furono i mandanti? Buio per tutte le stragi, con una sola piccola ma inquietante luce: in quasi tutti quei processi ci sono ufficiali dei servizi segreti dello Stato condannati per depistaggio.

Insomma: è legittimo il sospetto che sulle stragi lo Stato non abbia fatto il suo dovere. Non si scappa: o non ha saputo trovare i colpevoli, o non li ha voluti trovare o peggio ancora li ha coperti. I fischi ai ministri di oggi sono un errore, ma vengono da una rabbia antica che ha le sue ragioni. Se il presidente Napolitano ieri ha esortato a indagare sulle «complicità», se ha parlato di «lacune e ambiguità», è perché sa che c’è ancora un conto aperto fra lo Stato e il Paese. (la Stampa)

lunedì 2 agosto 2010

La crisi economica come opportunità di crescita per la collettività. Antoine Fratini

Per quanto indietro possa risalire la mia memoria, non riesco a ricordare un solo periodo storico in cui gli attori politici non si siano lamentati, chi più, chi meno, dell’andamento dell’economia. Benché quest’ultima abbia attraversato periodi anche prosperosi, nessun governante si è mai dichiarato interamente soddisfatto della situazione economica né ha mai smesso di decantare le pseudo-virtù della crescita infinita.

Anche quando il PIL cresce i discorsi politici alternano tra esaltazione e ammonimento contro i rischi di stagnazione dei mercati e tendono ad incentivare ulteriormente la crescita. Ora, non è mia intenzione negare l’esistenza delle crisi economiche. La mia critica verte sull’ovvietà delle loro implicazioni catastrofiche sulla vita della collettività. Contrariamente a quanto si è soliti pensare, per la qualità della vita i periodi di crisi economica ben gestiti (e sottolineo “ben gestiti”) possono addirittura rappresentare una opportunità per la collettività in quanto producono un calo della frenesia verso gli affari e gli acquisti. Il che significa, oltre che un aumento del tempo libero, un maggiore apprezzamento dei beni di cui già si dispone e un drastico calo delle spese futili.

Nei periodi di boom, invece, è tendenzialmente vero il contrario. Gli acquisti e gli investimenti tendono a salire, anche in proporzione ad una crescita semplicemente “ipotizzata” ma che qualunque problema imprevisto di una certa gravità può facilmente smentire. Prima i consumi e poi i prezzi tendono a lievitare e gli investitori, a tutti i livelli, paiono mossi da una fiducia che presto o tardi si rivela quasi sempre fuori luogo o quanto meno esagerata. La situazione che si viene quindi a creare è portatrice di numerosi e gravi problemi sui quali non possiamo soffermarci in questa sede, ma che ben conosciamo. Ditte che non rientrano nei loro investimenti e chiudono i battenti, piccoli azionisti che perdono i loro risparmi… Vorrei soltanto sottolineare che nei periodi di crisi ben gestiti lo stile di vita individuale tende semplicemente a farsi più sobrio ed equilibrato. I beni di cui già si dispone vengono maggiormente apprezzati e in generale gli interessi si spostano dalla ricerca coatta del profitto verso valori più vicini alla vera natura dell’uomo.

Così come in psicopatologia le crisi interiori rappresentano eventi certamente sofferti, ma che contengono già in sé i germi di un cambiamento importante e positivo da attuare, allo stesso modo le crisi economiche che puntualmente si ripresentano dopo un periodo di forte crescita vanno nel senso di un cambiamento positivo della società. La loro vera funzione, purtroppo ignorata dai media, è inerente al riequilibrio del sistema. E la realizzazione di questa dinamica passa anzitutto da una presa di coscienza collettiva degli errori e delle esagerazioni riguardanti le aspettative e lo stile di vita dei cittadini e delle scelte politiche scellerate di chi governa.

Tale modello di crisi mediato dalla psicoanalisi è perfettamente applicabile all’economia, la quale, da quanto si dimostra vorace ed irragionevole, costituisce la fonte della maggior parte dei nostri problemi. Il nostro sistema economico ha ormai dimostrato la propria incapacità a risolvere problemi d’importanza prioritaria come per esempio quelli legati all’inquinamento e al terrorismo. Oggi, l’economia non serve più nessuno, proprio perché tutti ne siamo asserviti. L’errore forse più fondamentale è che da quando si basa sul profitto indiscriminato, l’economia si è trasformata da semplice strumento per la gestione degli scambi in un fine che impone le sue leggi di Mercato su ogni altro sistema di valori. E da sempre, il massimo sistema di valori creato dall’uomo è rappresentato dalla religione. Così, il nostro sistema economico non ha più nulla di razionale, ma poggia su aspettative, speranze, credenze, emozioni che sono proprie della dimensione religiosa. Per questo, come ho tentato di dimostrare nel mio ultimo libro[2], quel che oggi chiamiamo “economia” è diventato una vera e propria religione inconsapevole che determina non soltanto lo stile di vita dei cittadini, ma anche la loro stessa psicologia trasformandoli di volta in volta in vittime sacrificali, gran sacerdoti, crociati, santi, fedeli d’amore oppure eretici da scartare.

Pertanto, quel che per questo nostro sistema è crisi, per la collettività rappresenta potenzialmente una fortuna. Quella collettività in realtà non ha nulla da temere dalla crisi in sé. L’unico problema, purtroppo di peso, cui stare particolarmente attenti è la propaganda dei politici e dei potenti gran sacerdoti che da sempre, per rilanciare il sistema, hanno fomentato guerre sante. In questo senso, si può dire che le guerre economiche sono fondamentalmente di natura religiosa.

Affermare attraverso i media che l’economia è in crisi e che la crisi significa per forza guerra e tragedia è una sorta di mantra recitato per favorire la ripresa attraverso una spinta lavorativa e produttiva più vigorosa da parte di tutti. Quel che non si dice però, in quanto per i credenti significherebbe infrangere un tabù, è che le crisi sono sempre il frutto proprio di quell’atteggiamento fanatico verso la crescita economica a causa del quale ogni calo del PIL viene percepito in modo apocalittico. Ogni flessione anche minima del PIL è in grado di suscitare i peggiori fantasmi nella mente dei fedeli. Eppure, il PIL cresce, per esempio, anche in virtù degli incidenti stradali!

Il parallelo tra crisi psicologica e crisi economica appare significativo. In luogo di essere ad ogni costo “curate”, le crisi economiche dovrebbero essere piuttosto “analizzate”. Oggi più che mai vi è bisogno di una grande presa di coscienza collettiva delle aberrazioni del sistema, degli aspetti religiosi inconsapevolmente proiettati sull’economia. Solo così, solo se l’economia torna ad essere vera scienza anziché ricettacolo inconsapevole della religiosità dell’uomo, ci si può aspettare una evoluzione realmente positiva della società. (Decrescita)