venerdì 30 aprile 2010

E gli economisti sbagliano ancora. Marcello Foa

Gli economisti? Bravissimi. Dopo. Prima, molto meno. Sbagliano, eccome se sbagliano. Ieri, tantissimo. Oggi, altrettanto.
È come se venisse proiettato lo stesso film, cambiano i Paesi e le situazioni: Wall Street nel 1987, l’Asia dieci anni dopo, i mutui subprime nel 2008, ora la Grecia e con ogni probabilità, Spagna e Portogallo. Ma il finale è sempre lo stesso. Gli economisti elaborano tabelle, scenari, si consultano, producendo previsioni basate sul cosiddetto «consenso di mercato». Ma alla fine fanno cilecca.
E tu, risparmiatore, soffri. Vai in banca, chiedi spiegazioni al tuo gestore, lui si difende e allargando le braccia ricorda che non è l’unico a sbagliare, perché tutti hanno fatto le stesse scelte, seguendo gli stessi orientamenti suggeriti dai nomi, dai grandi nomi, che fanno tendenza. Ma l’ha detto Tizio... ma l’ha detto Caio... Chi poteva prevederlo... E il bello è che ha persino ragione.
D’accordo, l’economia non è una scienza esatta e la storia dimostra che tutti i grandi teorici del passato quando sono passati dalla teoria alla pratica si sono rivelati dei pessimi investitori, inclusi Einaudi e diversi premi Nobel, con le sole eccezioni di Ricardo e, in parte, di Keynes. Ovvero: non affidare i tuoi soldi a un professorone. Quasi certamente non ne farà buon uso. E infatti nessun premio Nobel è diventato miliardario.
Ma da loro, così come dai grandi esperti di finanza, ti aspetteresti un grado di attendibilità più elevato. E un po’ più di coraggio. Hanno diritto a delle attenuanti, d’accordo. I mercati di oggi sono molto complessi, la speculazione possiede una potenza di condizionamento che non ha precedenti nella storia e questo favorisce movimenti bruschi e repentini.
Ma perché gli economisti sbagliano sempre tutti assieme?
Non tutti, a onor del vero. Ogni crisi ha il suo eroe, qualche analista o gestore che, andando controcorrente, è riuscito a vedere quel che gli altri nemmeno consideravano. Roubini, ad esempio, nel 2007 veniva deriso dai colleghi; eppure è stato uno dei pochissimi ad aver annunciato la crisi dei subprime. Anche oggi qualche voce libera si è alzata per tempo, pronosticando la bufera in Europa, come quella dello svizzero Hummler.
Ma alla fine nulla cambia. Passata la crisi torna tutto come prima. E la maggior parte degli economisti riprende a muoversi in gregge. Perché? Sono modesti? In teoria è possibile, ma in realtà improbabile; da qualche anno le facoltà di economia e finanza drenano alcune delle menti più brillanti, attratte da stipendi stratosferici. Qualcuno li considera alla stregua di meteorologi o di cartomanti. Ne ha il diritto. Ma non serve a capire come va il mondo.
Perché questo è il punto. Com’è possibile che in una società liberale come la nostra prevalga, tra gli economisti, il pensiero unico? Perché sono così facilmente condizionabili? Domande a cui è difficile rispondere, ma che vanno analizzate in un contesto più ampio. Quello a cui assistiamo non è il semplice fallimento degli economisti in genere, ma di un sistema, che pur scosso da crisi incredibili è ancora incapace di correggere le sue storture.
Prendiamo le agenzie di rating, che danno i voti a chi emette titoli di Stato e obbligazioni. Sono finanziate dalle società che poi sono chiamate a giudicare, hanno commesso errori colossali, mantenendo doppie e «triple A» a compagnie come Enron e Lehman Brothers fino al giorno del fallimento, l’anno scorso sono emersi intrecci finanziari sconcertanti, connivenze eclatanti. Venivano giudicate inattendibili e manipolabili. È passato un anno e mezzo dalla crisi dei subprime. E nulla è cambiato. Avevano promesso riforme, non ci sono state. Moody’s e Standard & Poor’s non hanno più credibilità. Dovrebbero essere ignorate. Eppure continuano a condizionare i mercati. Le bufere sulla Grecia e negli ultimi giorni su Portogallo e Spagna si sono alzate quando loro hanno abbassato i rating. Manco fosse un giudizio divino.
Quella degli economisti, oracoli bislacchi, non è l’unica anomalia di questa strana epoca. (il Giornale)

giovedì 29 aprile 2010

Dall'agorà al default. Davide Giacalone

I problemi posti da quel che accade alla Grecia, che rischia di passare dall’agorà al default, sono tutti politici e solo marginalmente economici. Il debito greco è, in valore assoluto, poca cosa. All’Europa costa meno sterilizzarlo, piuttosto che affrontare la decomposizione della moneta unica, accelerata dai guai spagnoli e portoghesi, cui seguiranno a ruota quelli irlandesi. La crisi in atto, oramai, mostra le voragini politiche sulle quali ci troviamo, fino a mettere in discussione l’idea stessa di democrazia rappresentativa. Deve fare i conti con i seguenti, e altri problemi.

1. Scrivere che l’euro è una moneta nata senza avere alle spalle un’autorità politica è divenuto un luogo comune. In questi giorni, però, emerge l’irrilevanza anche della Banca Centrale Europea. E se non esistono istituzioni europee propriamente dette, che siano all’altezza di questi problemi, anche il vecchio sistema dei coordinamenti fra nazioni (i consigli dei ministri) mostra la corda. Va bene che ci siano idee e interessi diversi, ma è mancata la decisione. Non decidere è come decidere negativamente. E ciò ci porta al secondo problema.

2. Il mondo viaggia ad una velocità superiore rispetto a quella delle istituzioni che amministrano i Paesi che lo compongono. I ministri possono riunirsi e fissare scadenze future, entro le quali elaborare decisioni, i mercati, però, non rimandano, sono in moto perpetuo. I governi possono prendere pause per riflettere, ma l’informatica e le comunicazioni al servizio della finanza non lo consentono e producono continuamente scelte. Il differenziale di tasso che i greci dovrebbero, e non possono, pagare, per prendere capitali dal mercato, è lievitato in un tempo brevissimo. Le istituzioni governano in un tempo diverso dai mercati, non controllandone le variabili.

3. La Grecia va incontro alla bancarotta. I problemi erano già noti, ma la botta finale è stata data dal declassamento emesso da Standard & Poor’s, che definisce spazzatura i titoli del debito pubblico ellenico. Che aveva già declassato il Portogallo e ora punisce la Spagna, sebbene con un giudizio meno severo. Quei giudizi hanno un enorme peso politico, ma sono formulati da chi non ha alcun mandato istituzionale, né può sostenere d’essere affidabile, visto che di non innocenti cretinate ne ha dette a palate, preparando la crisi finanziaria globale che ancora paghiamo. E allora, come si spiega che la voce delle agenzie di rating pesi ancora? Perché gli speculatori amano gli allarmi, certo, perché i mercati si muovono come stormi, ma prima ancora perché non esistono autorità sovranazionali dotate d’autorevolezza superiore.

4. Ciò detto, la Grecia non è vittima di un complotto speculativo, ma dell’avere ripetutamente imbrogliato, mentendo. I tedeschi non hanno torto, quando intendono far pesare questo elemento, anche perché, altrimenti, si incoraggerebbero imitazioni. Ma il nodo politico si riassume in una domanda: posto che la responsabilità è del governo greco e posto che tutti i Paesi dell’euro sono retti da sistemi democratici, chi avvia le pratiche per la sfiducia e il cambio della guardia? In Grecia, da settimane, le piazze sono piene di manifestanti che imprecano contro l’Europa e il Fondo Monetario Internazionale, ovvero contro quanti potrebbero concorrere (in modo non eguale e con conseguenze diverse, ma è un altro discorso) al salvataggio. Se, come chiedono i tedeschi (a ragione), si subordina l’aiuto alla sottoscrizione di un piano di rigore finanziario, non si sta, di fatto, commissariando la democrazia greca? Non è indifferente che il patto di stabilità si sostituisca agli elettori.

5. Francia e Italia insistono per il salvataggio, che è anche un buon affare: da una parte ci metteremmo al riparo da una crisi contagiosa, dall’altra presteremmo denaro ad un tasso superiore a quello che paghiamo per chiederlo, quindi con un saldo positivo. Se non si vuole innestare la marcia indietro, rispetto all’euro, è l’unica strada da battersi. I tedeschi hanno recalcitrato, ma ora correggono la rotta, visto che potrebbe essere presentato loro il posticipato conto dell’unificazione, che fu messo anche sulle nostre spalle, proprio grazie all’euro. Ma non possiamo mica continuare a rinfacciarci la storia, senza averla iscritta nell’atto di nascita della moneta unica, né possiamo pensare di correre a salvare tutti gli europei in difficoltà, qualsiasi cosa abbiano combinato, anche perché, prima o dopo, ciascuno sarebbe chiamato a salvare se stesso.

6. Non si devono considerare negativi tutti gli egoismi nazionali, ma lo divengono quando, anziché rispondere ad esigenze geostrategiche, vengono a galla per ragioni di cucina elettorale. Ho il massimo rispetto per i tedeschi della Renania Westfalia, e m’intriga l’idea che colà si parlino ben nove dialetti, ma difficilmente le elezioni dei loro amministratori possono parlare la lingua dell’Europa. Il governo tedesco ha le sue ragioni, l’ho già ricordato, ma conta, eccome, anche la concorrenza elettorale fra i due partiti che lo compongono, in gara nel rassicurare i villici circa i loro quattrini. La sproporzione fra la partita in atto e gli interessi in gioco è talmente grande da imporre una riflessione sulla democrazia rappresentativa. Il peggiore dei sistemi possibili, diceva Churchill, se si escludono tutti gli altri. Verissimo, ma la finanza ne ha trovato uno che non si lascia escludere.

lunedì 26 aprile 2010

Bufala del 25 aprile. Sinistra invenzione di retorica partigiana. Aldo Torchiaro

Alla vigilia del 25 aprile scoppiano le polemiche nelle città dove, a settant’anni di distanza, il buon senso timidamente s’affaccia. I meriti dei partigiani vanno ridimensionati, al netto della retorica, di fronte a quelli straordinari degli angloamericani. La vogliamo dire tutta? Il 25 aprile è una bufala bell’e buona, per come è stato costruito, per come viene ricordato, per quel che rappresenta e che invece dovrebbe rappresentare.

La data sbagliata

Che è successo il 25 aprile 1945 a Milano? Proprio niente. O meglio: si è tenuta una marcia, una di quelle che quotidianamente si tenevano lungo il corso principale delle città liberate dall’occupazione tedesca. Quella di Milano era partecipata, certo. Era più solenne delle altre? Non risulta. Quella di Genova, quella di Brescia, quella di Bolgna furono celebrazioni durate più giorni. A Milano no. E soprattutto, non vi fu alcuna battaglia il 25 aprile. Gli scontri decisivi si ebbero il 23 e il 24 aprile. La mattina del lunedì 23 aprile ’45 gli angloamericani incontrarono sul campo della guerriglia urbana i comandanti militari del Cln e consegnarono loro alcune armi. Milano fu fuoco e fiamme per ventiquattro ore senza sosta. Il martedì 24 al pomeriggio si presero gli ultimi ostaggi, e si liberò la città: la sera corso Buenos Aires fu percorsa dai carri armati del 4° corpo d’armata Usa, che fu quello che liberò da solo Milano, dove Piazza Duomo venne rivestita a stelle e strisce.

“Venticinque Aprile” ?

Come andò davvero che si finì per identificare la Liberazione dal nazifascismo con la data del 25 aprile? Fu soprattutto a causa di una richiesta del comando britannico. Londra aveva l’esigenza, già messa in atto in tutti gli altri casi, di fissare sul calendario una data “deadline” per stabilire le responsabilità militari, istruire la giustizia di guerra, pianificare il rimpatrio dei “combat groups” per avvicendarli con i battaglioni delle truppe da occupazione, capeggiate da ufficiali del genio e dalla magistratura militare. La richiesta di individuare la data si fece pressante presso il Cln che considerò il lunedì 23 come inizio dell’impresa e il 24 come sua felice conclusione. Ma entrambe le date vennero scartate: il compleanno di Hitler (nato il 20 aprile) si celebrava a Berlino quel lunedì 23, e far coincidere le cose non era possibile. Il 24 aprile in Germania era festa nazionale, non di natura politica ma di antica tradizione: era la festa di Primavera, diventata nel corso del tempo il Giorno della Natura. Tant’è: la data della festa antinazista non poteva coincidere con il giorno di festa ufficiale in Germania. Eccoci al 25 aprile.

Giornali liberi e “liberati”

Il fascismo, la guerra, la Repubblica Sociale occupata dai nazisti avevano messo il bavaglio ai giornali. Descrive il clima confuso e surreale di quei giorni, con dovizia di particolari, Paolo Murialdi nella sua “Storia del giornalismo italiano”. “Il 23 aprile si discute a Milano del futuro della stampa. C’è chi vorrebbe cancellare per sempre le testate compromesse con il fascismo, come si è fatto in Francia. C’è chi sostiene che nel nuovo Stato democratico dovranno esserci soltanto i giornali di partito. Su questo tema si svolge un dibattito tra Gaetano Baldacci, sostenitore dei giornali di partito, e Mario Borsa, futuro direttore del ”Corriere della Sera“, il quale ritiene indispensabile l’esistenza anche di quotidiani svincolati dai partiti. Gli Alleati, dal canto loro, fanno sapere ai responsabili del Cln Alta Italia di considerare necessaria almeno nelle grandi città l’uscita di un quotidiano indipendente. Il Comitato Stampa del Cln stabilisce invece che accanto ai giornali del Pwb, escano soltanto gli organi dei partiti, i fogli cattolici non compromessi e i nuovi quotidiani promossi dai Comitati di Liberazione. A Milano le autorizzazioni del Comitato Stampa sono poche: inizialmente ”L’Italia libera“, organo del Partito d’Azione, ”L’Unità“ e ”L’Avanti“. Non tutti si adeguano, però. Nella notte del 24 aprile, consapevoli che il Cln ha un gran da fare, Mario Borsa e Gaetano Afeltra lavorano tutta la notte, con un pugno di giornalisti. Tirano giù le bozze di un foglio che portano in tipografia pedalando in bicicletta: ”Il Nuovo Corriere“. Esce nelle mani degli strilloni, sporco d’inchiostro, la mattina del 25 aprile. Il titolo: ”Milano è stata liberata“. E’ il 25 aprile, ma si riferisce al 24. L’iniziativa non viene vista di buon occhio, il Corriere ha troppe complicità con il regime da farsi perdonare, e gli strilloni che annunciano la ”Liberazione“ vengono bloccati per strada. Racconta Murialdi: ”Il Cln Alta Italia e il nuovo prefetto di Milano, l’azionista Riccardo Lombardi, danno ordine di bloccare il giornale“.

Chi ha ”liberato“ Milano?

Posto che in Italia si è combattuta una guerra civile per molti aspetti simile a quella che c’è stata in Spagna, ma dall’esito diverso, è interessante notare come il termine ”liberazione“ sia stato applicato solo da noi. Gli americani e gli inglesi hanno combattuto una guerra di posizione, avanzando fino all’arco alpino e lasciandosi dietro un Cln con il compito, come era accaduto in Francia, di riorganizzare lo Stato. Il compito dei partigiani è stato importante soprattutto dopo il successo delle operazioni militari di avanzamento degli alleati. Nessuna operazione conclusa dai partigiani, va ricordato, avrebbe avuto esito positivo senza la imprescindibile copertura degli eserciti alleati. In alcuni casi il sostegno dei civili si è rivelato utile, in altri è stato rifiutato dagli stessi generali americani, che lamentarono in numerose occasioni l’impreparazione dei partigiani, armati di buona volontà e di poche altre risorse. Già il 20 aprile la 5a armata Usa scende dagli Appennini nella pianura padana: il suo IV corpo raggiunge Casalecchio, nei pressi di Bologna e il II° conquista la regione tra Casalecchio e Gesso. Nel settore dell’8a armata britannica, il X corpo raggiunge il fiume Idice oltre il quale riescono a stabilire delle teste di ponte il II° corpo polacco e il XIII britannico. Il gen. Vietinghoff, comandante del Gruppo di armate C, ordina il ripiegamento delle forze tedesche (10a e 14a armata) sulla linea del Po: mossa tardiva perché le divisioni corazzate alleate si stanno già avventando sulle truppe tedesche lungo tutta la linea del fronte. Il giorno 22 truppe polacche del generale Anders e i gruppi di combattimento italiani ”Legnano“ e ”Friuli“ conquistano Bologna e poche ore dopo, anche Modena. In dieci giorni i tedeschi nel settore adriatico hanno subito la distruzione di 134 mezzi corazzati. Ma anche gli anglo-americani nello stesso settore solidamente difeso dall’Asse, si dissanguano con moltissime perdite. Il giorno 23 il 4° corpo d’armata americano circonda Milano.

Il 26, 27, 28, 29 aprile

Se davvero l’Italia fosse stata ”liberata“ il 25 aprile, che si ricorda come conclusione del conflitto, perché si combatteva aspramente in metà della Lombardia il giorno 26? L’esercito tedesco viene richiamato in patria proprio quel giorno, ma ancora si spara. L’arcivescovo di Milano Schuster telefona a Graziani e a Mussolini la sera del 26 per intentare una trattativa mirante a ”Organizzare il passaggio dei poteri“. Il 27 aprile Mussolini, formalmente ancora a capo della Rsi, viene arrestato e solo allora si può far datare la fine dell’attività della Rsi. La morte di Mussolini avviene alle 16,10 del 28 aprile 1945 (ma questa data, dato l’orrore delle circostanze, non viene mai ricordata). E la fine vera delle ostilità? Il 29 aprile 1945 le trattative col nemico giungono al termine e la resa dei tedeschi in Italia veniva firmata al Quartier Generale alleato a Caserta. In tutti i Paesi europei si celebra la data della resa. Da noi no, si celebra, chissà perché, il 25 aprile, data carica di mitologie, di ipocrisie e di retorica. (l'Opinione)

domenica 25 aprile 2010

Urne sinistre. Davide Giacalone

L’opposizione teme la crisi di governo. La minoranza teme il dissolversi della maggioranza. Detto in altro modo: la sinistra ha il terrore delle elezioni anticipate. Un sentimento contro natura: chi si oppone dovrebbe sottolineare le debolezze e le cadute di chi governa, chiedendo che la parola torni, al più presto, agli elettori. Invece capita il contrario, con il risultato che, a forza di considerare Silvio Berlusconi elettoralmente imbattibile, la sinistra gli consegna anche il monopolio della politica, salvo esaltarsi quando qualcuno, nel centro destra, si mostra dissidente, considerando quello come un segnale di crisi del monopolio. Come a dire: noi della sinistra, invece, siamo del tutto inutili.

Fanno bene, ad avere paura delle elezioni. Non essendo capaci d’interpretare la realtà italiana, si dedicano alle battaglie navali della tattica politicante, con l’aggravante di avere messo tutte le imbarcazioni nello stesso punto, sicché se gliene becchi una le affondi tutte. Incapaci di parlare all’Italia che morde il freno dello sviluppo, del mercato e della modernità (ma è mai possibile che io sia solitario nel criticare la riforma governativa delle professioni, ricordando la lenzuolata di Bersani?!), si estremizzano e consegnano nelle mani dei loro carnefici: ieri quelle di Fausto Bertinotti e Pecoraro Scanio, oggi quelle di Antonio Di Pietro. A dimostrazione che al peggio non c’è mai fine. Conseguentemente, perdono pezzi al centro: Francesco Rutelli e la famiglia Bassanini fondano l’Api (ma non volano); Luca Cordero di Montezemolo si piazza, forse spintaneamente, in testa alla classifica degli uomini che potrebbero capeggiare la sinistra. La quotazione elettorale di tali fenomeni è sconosciuta, dei sondaggi non mi fido, con ogni probabilità si tratta di pesi piuma, in ogni caso di voti tolti alla sinistra.

Poi ci sono Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini (e il prossimo che il centro destra candiderà alla presidenza della Camera, ove già sedette Irene Pivetti, suggerisco alla sinistra non solo di votarlo, ma anche direttamente di iscriverlo al proprio partito, tanto è solo questione di tempo). Il primo ha dimostrato, alle elezioni regionali, che quando si allea con la sinistra non porta voti, e quando si allea con il centro destra li porta via, alla sinistra. Il secondo non ho idea di cosa abbia in mente di fare, ma se decidesse di dar man forte ad un’ipotesi terzista (né con la destra né con la sinistra) pescherebbe nel bacino elettorale d’entrambi, con maggiore presa a destra. Riassumendo: tutte queste particelle smarrite, prive di piattaforma programmatica ed alla ricerca di una collocazione, danneggiano prevalentemente la sinistra.

A questo si aggiunga il sistema elettorale, che molti sembrano dimenticare: solo la Lega è in grado di presentarsi da sola e comunque contare. Il perché è presto detto. Alla Camera c’è il premio di maggioranza nazionale: basta prendere un voto più degli altri e si porta a casa la maggioranza assoluta degli eletti. A questa gara partecipano solo in due: quelli che stanno con Berlusconi e quelli che stanno con quel che resta del partito comunista. Sfido a sostenere il contrario. Ad oggi, benché le elezioni anticipate portino sfortuna a chi le chiede, il primo sembra essere in vantaggio. Al Senato il discorso cambia, perché il premio di maggioranza non è nazionale, ma regionale. Questa corbelleria la volle la sinistra e la impose il Presidente della Repubblica, facendo un gran regalo a Umberto Bossi, che in Veneto, adesso, avrebbe la maggioranza assoluta dei senatori. Riassumendo: Berlusconi e Bossi potrebbero anche presentarsi divisi, senza per questo compromettere le possibilità di vittoria.

La sinistra, pertanto, fa bene a svegliarsi urlante se le capita di sognare un’urna. Solo che anziché farsi prendere dalla tremarella dovrebbe provare a fare politica, il che significa, ad esempio, smetterla di difendere un presidente d’Aula che non votarono (la permanenza di Fini in quel posto è un volano per le elezioni) e proclamare la propria disponibilità a parlare delle riforme istituzionali. Proprio così, aggiungendo proposte razionali, che mettano nei guai gli avversari. Ad esempio: separazione delle carriere in materia di giustizia e rafforzamento dei poteri governativi, circa l’architettura costituzionale. Cose ovvie, che solo la propaganda becera, o la viltà incarnata, possono negare. E vale anche per il sistema elettorale: cambiarlo mantenendone la natura maggioritaria, ma senza premio e con un solo turno. Come vale per le materie economiche e sociali: fra poco giunge a termine molta cassa integrazione, non basta dirlo, né serve chiedere di rifinanziare, perché già lo farà il governo, mentre sarebbe spiazzante una proposta di seria riforma del welfare.

Provino a far politica, e scopriranno quanto grandi solo le debolezze degli avversari. E se, invece, comunque la legislatura si spegnerà, provino ad andare al voto senza alleati di cui vergognarsi, senza il deprecabile contorno salottiero e affaristico, con un candidato che parli al futuro e non incarni le immense miserie del loro passato (vogliono un nome indicativo? Nicola Zingaretti) e chiedano d’essere votati non perché così perde Berlusconi, ma perché ci sono anche italiani desiderosi di pensare e parlare d’altro. C’è un piccolo particolare: non ne sono capaci, non hanno né testa, né cuore, né palle.

sabato 24 aprile 2010

Gli occhi della sinistra. Orso Di Pietra

Giulio Tremonti ha tolto loro le politiche sociali. Tagliando a più non posso le spese generali e destinando i risparmi alla cassa integrazione, ha impedito loro di cavalcare le tensioni e le proteste di lavoratori e disoccupati. Sacconi ha scippato loro le politiche del lavoro. Brunetta quelle della riforma della burocrazia. La Gelmini della scuola. La Prestigiacomo dell’ambiente. E Maroni ha dato loro il colpo finale dimostrando che la mafia si combatte meglio con gli arresti piuttosto che con i cortei. Adesso che Fini toglie loro anche il berlusconismo viscerale che gli rimane più alla sinistra italiana tranne gli occhi per piangere? (l'Opinione)

venerdì 23 aprile 2010

Cronista giudiziaria spiega perché la riforma sulle intercettazioni è impossibile. Tiziana Maiolo

E’ la riforma impossibile, quella sulle intercettazioni, in discussione in questi giorni in Senato. Impossibile prima di tutto perché va a toccare quel delicato ma fondamentale diritto di ogni cittadino che è la sua riservatezza, la sua vita privata e anche le parole in libertà che ciascuno di noi vorrebbe poter lasciare andare quando si parla al telefono, o anche al chiuso di una stanza con persona amica.
Riforma impossibile perché il primo cambiamento necessario sarebbe l’abbattimento drastico del numero di intercettazioni che la magistratura italiana dispone siano effettuate ogni anno. Nel 2001 sono stata relatrice di minoranza della Commissione bicamerale antimafia proprio sulle intercettazioni. Il risultato di una serie di indagini e audizioni dei fornitori di telefonia è stato che l’Italia ha il quadruplo delle intercettazioni degli interi Stati Uniti e che un cittadino su quattro è stato almeno una volta nella vita direttamente o indirettamente intercettato. A me personalmente è capitato di essere controllata, in via indiretta, nelle indagini su un sequestro di persona, quando il magistrato, una volta disposto il blocco dei beni, mise sotto controllo i telefoni di tutti i conoscenti benestanti del sequestrato, tra cui un mio amico.

E’ difficile spiegare come ci si senta violati nell’intimo, quando ti capita. E’ un po’ come quando la tua casa è stata svaligiata e scopri che i ladri hanno frugato nella tua biancheria. Proprio per la gravità del fatto, ci si deve domandare perché le intercettazioni siano così tante. Il motivo è semplice: in questo paese non si fanno più indagini, non ci sono più i Contrada a consumare la suola delle scarpe, a cercare i confidenti, a intrufolarsi anche dove non si dovrebbe. Oggi c’è una grande pigrizia e l’investigatore aspetta la “pappa pronta”. Che si chiama “pentito”, oppure intercettazione. L’investigatore sta tranquillo seduto nel suo ufficio mentre il nastro gira. “E io pago!”, avrebbe detto Totò. Eh si, perché le intercettazioni costano. C’è poca serietà in questo modo di fare le indagini. In sintesi, si getta la rete, qualcosa si prenderà. E finisce che il 50% delle persone arrestate verrà, dopo anni, assolto.

Riuscirà il Parlamento a ridurre il numero delle intercettazioni e a proteggere l’intimità delle persone e delle loro private conversazioni? Difficile, visto che il testo di legge iniziale che le consentiva solo in presenza di “evidenti indizi di colpevolezza” è crollato sotto i colpi di machete del solito combinato disposto di partiti di sinistra e sindacato dei magistrati. Così si è tornati al più languido “gravi indizi di reato”. Cioè la formulazione attuale che consente di controllare un cittadino su quattro e di fare scempio delle vite di tanti. Se così stanno le cose, questa è una riforma impossibile.

C’è poi l’aspetto della pubblicità. Si diceva una volta che certi magistrati depositano gli atti direttamente in edicola, invece che in cancelleria. E’ così. E pensare che il magistrato e i suoi collaboratori –dagli ufficiali di polizia giudiziaria al personale di segreteria- dovrebbero essere i custodi naturali delle indagini, delle notizie e anche delle intercettazioni. Pure se le lasciano scappare, diciamo così. Sarebbe importante individuare per questi soggetti una sorta di responsabilità oggettiva ( simile a quella dei direttori responsabili dei giornali ), visto che quella soggettiva non è stata mai individuata, non essendoci stata finora nella storia del nostro paese una sola incriminazione per violazione del segreto investigativo.

Il governo e il parlamento hanno scelto la strada più facile, quella di punire e di far pagare ai giornalisti e agli editori che pubblicano le notizie coperte dal segreto. Il che forse sarebbe giusto, ma solo per quelle che riguardano la vita privata delle persone e che nulla hanno a che vedere con le indagini. Come non ricordare le frasi rubate di Anna Falchi o di Anna Craxi? Per il resto, è ovvio che chi nutre quotidianamente i cronisti è la stessa persona che dovrebbe tenere le carte o i dischetti ben serrati in cassaforte. Ed è lì che si dovrebbe colpire, se si volesse davvero dire basta alle scandalose gogne mediatiche che riempiono i nostri mezzi di comunicazione.
Se non si ha il coraggio di colpire la casta dei magistrati, questa sulle intercettazioni è una riforma impossibile. Lasciatelo dire a una vecchia cronista giudiziaria. A me le notizie coperte dal segreto le hanno sempre date loro, gli uomini in toga. (l'Occidentale)

mercoledì 21 aprile 2010

Il futuro delle pensioni. Massimo Mucchetti

Come si pone il problema delle pensioni dopo l’ampia vittoria della maggioranza di governo alle elezioni regionali? All’inizio di un periodo di grazia—tre anni — senza ulteriori ricorsi alle urne, tre sono i punti cruciali: la sostenibilità della spesa pensionistica, l’adeguatezza degli assegni dell’Inps, gli effetti del prolungamento dell’attività degli anziani sul mercato del lavoro.

Il primo punto è a un passo dalla soluzione. Sebbene l'idea non sia stata ancora metabolizzata, l’innalzamento automatico dell’età della pensione è già legge dello Stato. Manca il decreto d’attuazione. Il governo ha tempo fino al 31 dicembre 2014. Ma sarebbe meglio emanarlo al più presto per evitare di finire in mezzo a un altro ciclo elettorale, poco adatto al rigore: subito dopo le politiche del 2013 e le europee del 2014 e prima delle regionali del 2015. Il decreto deve consolidare il principio che si va in pensione sempre più tardi. Dal 2015 pensioni di vecchiaia a 65 anni e 3 mesi per gli uomini e a 60 anni e 3 mesi per le donne, pensioni di anzianità a 62 anni e 3 mesi per i dipendenti e a 63 anni e 3 mesi per gli autonomi.

A partire dal 2020, ogni 5 anni si aggiorneranno i termini in base alle speranze di vita. Nel 2050, si prevede, la soglia della vecchiaia salirà a 68 anni e 5 mesi per gli uomini e a 63 anni e 8 mesi per le donne, l’anzianità a 65 anni e 5 mesi per i dipendenti e a 66 anni e 5 mesi per gli autonomi.
A regime l’Inps rinvierà oltre un milione di pensioni, la riduzione delle uscite da subito sarà minimale, ma poi crescerà fino a un taglio di 8,5 miliardi nel 2040. La spesa pensionistica, dunque, è sotto controllo. E può essere sostenuta dai conti pubblici. La sua incidenza sul prodotto interno lordo è di non poco inferiore a quel che si dice, ove la si compari correttamente agli altri Paesi, e cioè togliendo il Tfr, che è salario differito e non pensione, e considerando gli effetti fiscali, che appesantiscono il conto italiano. Del resto, la spesa sociale italiana, di cui le pensioni sono parte, risulta di poco inferiore alla media europea e di molto a quella tedesca e francese.
Nel 2008, il saldo tra i contributi versati e le pensioni erogate, al netto delle prestazioni assistenziali coperte dalla fiscalità generale, era positivo per lo 0,9% del Pil e concorreva a finanziare la pubblica amministrazione. Ulteriori giri di vite sulle pensioni aumenterebbero questo contributo, ma andrebbero presentati come tali, senza celare gli effetti collaterali.

Già oggi la sostenibilità della spesa pensionistica si ottiene dando di meno e più tardi. I giovani avranno pensioni spesso inferiori alla metà del salario. E i più non avranno granché dalla previdenza integrativa: chi poco guadagna, poco destinerà al fondo pensione. Il passaggio al sistema contributivo, del resto, è già un potente incentivo a rimanere al lavoro. Ma la permanenza degli anziani non di rado costituisce un problema. Lo prova l’incremento dei prepensionamenti.
Al di là della crisi, in un’Italia dove le persone con un posto retribuito sono meno che altrove e la crescita attesa è scarsa, l’occupazione dei vecchi non facilita quella dei giovani. L’economia non è ancora capace di ridisegnare in modo dignitoso la vita lavorativa che dalla progressione ascensionale di un tempo si va ormai trasformando in una parabola. La riforma delle pensioni, insomma, contrasta derive di finanza pubblica alla greca, e perciò va presto fatto anche l’ultimo passo. L’inadeguatezza delle nuove pensioni e il contrasto generazionale sul mercato del lavoro riaprono la questione della redistribuzione del reddito lungo l’intero arco dell’esistenza. (Corriere della Sera)

martedì 20 aprile 2010

La giustizia italo-afghana. Orso Di Pietra

Pare che all’inizio Karzai ci fosse rimasto male. “Ma come - avrebbe detto - è dal 2001 che l’Italia investe in soldi e consigli per aiutare l’Afghanistan a costruire un sistema di giustizia moderno e funzionante. Ed ora, non fidandosi di quello che ci hanno messo in piedi, chiedono la scarcerazione dei tre di Emergency sostenendo che saranno giudicati in Italia?”. Poi, però, sembra essersi tranquillizzato. Perché avrebbe avuto da Frattini l’assicurazione che in Italia la giustizia è tale e quale a quella di Kabul. Tanto più che anche da noi ci sono i talebani! (l'Opinione)

martedì 13 aprile 2010

La magistratura continua a sparare a zero ma stavolta ha preso di mira il Pd. Tiziana Maiolo

Sparare sul quartier generale: la parola d’ordine della magistratura militante questa volta ha preso di mira il Partito democratico e il suo responsabile giustizia Andrea Orlando, accusato di intelligenza con il nemico.

Il compito, facile facile per la corporazione, di partire all’attacco, se lo assume Armando Spataro, procuratore aggiunto di Milano e leader di una corrente sindacale che si chiama non solo “movimento per la giustizia” ma anche “articolo tre”, quasi a significare di essere l’unico gruppo di persone che abbiano a cuore l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, come sancito appunto dal terzo articolo della Costituzione.

Si spara dunque contro il Pd per il semplice motivo che il responsabile giustizia di quel partito ha osato proporre una propria riforma del sistema giudiziario, e già questo atto pare un affronto. Tanto che il procuratore Spataro, con una certa arroganza, chiede se le proposte di Orlando siano “personali” o condivise all’interno del partito. Domanda singolare, quasi che il magistrato milanese volesse esibire una propria militanza all’interno del Pd e in quella veste chiedesse conto (come hai osato senza di me?) del fatto di non esser stato preventivamente consultato.

Siamo ben oltre la normale dialettica tra un partito e una corporazione conservatrice che sta ben accucciata sul comodo esistente e teme qualunque cambiamento come minaccia al proprio status quo. L’avvertimento è chiaro, non si deve muovere foglia che il “partito dei Pubblici ministeri non voglia”. I cinque punti di riforma della giustizia che il Pd propone sono in realtà modesti e ambigui, nulla di più di una timida apertura al progetto, ben più radicale, del governo. Scontate le osservazioni sulla giustizia civile, la cui riforma è stata già varata quasi due anni fa come uno dei primi interventi del governo Berlusconi e rispetto alla quale si attendono ( da troppo tempo ) solo i decreti attuativi. I punti di contrasto riguardano, come sempre, la giustizia penale, la grande anomalia italiana.

I tanti galletti pronti al loro petulante chicchirichì ogni volta che sentono la parola “riforma”, non tengono mai in conto la grande anomalia italiana, dove esiste una casta che si chiama “magistratura” ( mentre in tutti gli altri paesi occidentali esistono solo i giudici ), dove esiste l’ipocrisia dell’obbligatorietà dell’azione penale che consiste nei fatti solo in un grande arbitrio del Pm, dove esiste un Csm che, come recita l’art. 105 della Costituzione, dovrebbe occuparsi solo di promozioni e trasferimenti ed è invece diventato un vero organismo politico, dove esistono correnti sindacali potenti e temute, dove chi sbaglia non paga mai.

Se almeno, pur ingabbiata in questa camicia di forza, la giustizia italiana funzionasse, fosse efficiente e desse sicurezza ai cittadini, i galletti non sprecherebbero il loro chicchirichì. La realtà invece sono le innumerevoli condanne dell’Europa per la lentezza dei nostri processi, i tanti “errori giudiziari” rispetto ai quali nessuno paga, le carceri che traboccano di persone che poi saranno assolte, i milioni di reati caduti in prescrizione in quanto, alla faccia dell’obbligatorietà, le cause non vengono smaltite e il Pm sceglie quali mandare avanti e quali destinare al cestino della carta straccia.

Il responsabile giustizia del Pd Andrea Orlando non propone, come sarebbe doveroso, una riforma costituzionale che abolisca la finta “obbligatorietà” dell’azione penale, ma propone la sua “ridefinizione” attraverso legge ordinaria: il solito vorrei ma non posso di una sinistra ancora troppo subalterna al partito delle toghe. Solo un timido segnale, apprezzato dal manistro Angelino Alfano, ma subito colto con allarme da Antonio Di Pietro, che ha chiesto il licenziamento di Orlando (mandatelo da Berlusconi, ha strillato) e in seguito da Armando Spataro, che parla da quello stesso corridoio del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano dove mosse i primi passi l’uomo di Montenero di Bisaccia.

Bocciato anche un altro punto -forse un po’ più chiaro del precedente- della proposta che viene dal principale partito dell’opposizione. Facciamo, si dice, una riforma del sistema elettorale del Csm che diluisca il peso delle correnti della magistratura associata. Apriti cielo. E’ come cercare di mettere in discussione la verginità della madonna. A dimostrazione del peso politico dei potenti sindacati delle toghe, basti pensare al fatto che nei tribunali, quando è in scadenza il mandato del Consiglio superiore, si aprono vere campagne elettorali, con candidati e sostenitori, correnti e sotto-correnti. E’ un sistema che lega eletti ed elettori con patti di sangue. E l’eletto al Csm, quando entrerà nel nuovo ruolo, sanzionerà mai il suo sostenitore ed elettore se questi commetterà qualche errore?

Anche sulla quanto mai urgente separazione delle carriere la proposta del Pd si limita a definire una “necessaria distinzione di ruoli tra magistrati dell’accusa e giudici”. Poco di più dell’esistente. Pure sembra una bestemmia, da irridere con sprezzo. Come se la separazione non fosse un dato di fatto in Francia, in Germania, nei paesi del nord Europa, in Inghilterra, negli Stati Uniti.
Che la magistratura militante sia contraria a qualunque miglioramento del sistema giustizia è cosa nota. Che la stessa svolga da tempo nel nostro paese un vero ruolo politico è altrettanto pacifico. Meno scontato era il fatto che l’antico collateralismo di qualche corrente nei confronti del vecchio partito comunista si fosse trasformato in una vera attività di censura nei confronti delle proposte e addirittura delle persone all’interno del partito erede di Togliatti e Berlinguer. Questo è un fatto nuovo e inquietante.

Tempi duri per il povero Orlando, che oggi sembra il piccolo vietnamita davanti al carro armato americano nella foto-ricordo tanto amata dalla sinistra…(l'Occidentale)

lunedì 12 aprile 2010

Vuoti normativi e vuoti cerebrali. Giordano Masini

Degli incentivi per l’installazione di impianti fotovoltaici per la produzione di energia elettrica penso tutto il male possibile. Perché sono antieconomici e producono una quantità risibile di energia, come dimostra il caso della Germania, sempre incredibilmente citato come esempio virtuoso, dove

"le installazioni di nuovi moduli fotovoltaici nel solo anno 2009 sono costati ai consumatori oltre 10 miliardi di euro, e così sarà per il prossimo ventennio. E questo per immettere sulla rete elettrica lo 0,3% della domanda nazionale, praticamente nulla. Per tutti i pannelli installati prima, gli incentivi ammontano a oltre €30 miliardi"

Rappresentano però, negli ultimi tempi, una valida alternativa ad una agricoltura sempre meno redditizia, e molti agricoltori stanno affittando o vendendo terreni alle tante società che installano pannelli fotovoltaici le quali, grazie al business degli incentivi, possono permettersi il lusso di fare offerte ben superiori ai valori di mercato dei terreni. E sono spesso i terreni più fertili ad essere interessati da queste installazioni, dato che, come si può immaginare, un impianto fotovoltaico deve, per funzionare in modo accettabile, essere posizionato su un terreno pianeggiante e ben esposto al sole. Questo non piace alla Coldiretti, che

"segnala il rischio speculazioni sul fotovoltaico e invita gli amministratori comunali, provinciali e regionali a riflettere sull’impatto ambientale dei grandi impianti fotovoltaici che sottraggono terreno agricolo al settore primario e che non possono coesistere con le attivita’ agricole"

e , invocando lo spauracchio del vuoto normativo, che sulla politica produce lo stesso effetto di un minimo di pressione atmosferica per le masse d’aria o di un mucchio di letame per le mosche, chiede che si intervenga per vietare l’installazione di pannelli fotovoltaici sui terreni agricoli.

Ricapitolando: l’agricoltura è ai minimi termini, si regge solo sui sussidi e non può approfittare delle opportunità del mercato grazie al bando degli Ogm voluto e difeso da Coldiretti. Gli agricoltori cercano nuove opportunità dove possono, e le trovano spesso nel demenziale sistema di politiche green volute e difese da Coldiretti. Questo, in qualche caso, significa cambiare la destinazione d’uso di ettari di terreno che, di conseguenza, non riceveranno più i sussidi della Pac su cui Coldiretti mangia a quattro ganasce.

La risposta, ovviamente, non è quella di riconsiderare le cause di questa situazione e di rappresentare gli interessi reali delle aziende, come per esempio rimuovere i divieti e i sussidi che impongono agli agricoltori di cercare profitti in maniera innaturale. La soluzione, ovviamente, è un nuovo divieto, una nuova, ulteriore, insopportabile limitazione della libertà di ognuno di usare i propri terreni come meglio crede. (Chicago blog)

Emergency a Kabul. Christian Rocca

Penso tutto il male possibile delle cose che dice Gino Strada su qualsiasi argomento dello scibile umano e, in generale, le attività extra-ospedaliere di Emergency non mi hanno mai convinto (come ho scritto in un lungo articolo del 2001), ma non credo nemmeno per sbaglio che i tre operatori italiani possano essere implicati in attività terroristiche in Afghanistan. (Camillo blog)

martedì 6 aprile 2010

"Era come una respirazione comune". Christian Rocca

Poi uno si chiede come abbia fatto la Bonino a perdere contro un'ex sindacalista della Cisnal con un braccio legato dietro la schiena. Basta leggere il diario elettorale di Lidia Ravera (la "respirazione comune" era con Concita De Gregorio e Serena Dandini), raccontato questa mattina dal Foglio in un editoriale e qui nel suo splendore originale:
"Care amiche, cari amici, care simili e cari compagni: non torniamo indietro. Non rinunciamo a provarci. Non ricominciamo a deprimerci leggendo i giornali, limitando il nostro impegno politico alla tristezza condivisa di tante cene intelligenti.Cerchiamoci, troviamoci, contiamoci.
Io adesso sono a L’aquila. Facciamo un numero speciale de L’Unità da qui, con gli aquilani, con il popolo delle carriole, con i bambini.
Torno domani.
Non perdiamoci di vista. E grazie".
Come no? Prego. (Camillo blog)