domenica 28 febbraio 2010

Berlusconi & Fini. Davide Giacalone

La fedeltà è una dote canina. Può essere chiesta ai quadrupedi o, in politica, a chi non abbia altro da offrire. La lealtà, invece, è roba importante, ma complicata: si dovrebbe essere leali nei confronti dei propri compagni di lotta o di partito, così come si dovrebbe esserlo verso gli elettori. La coerenza, insomma, è una dote morale. Gli incoerenti e gli sleali possono ben vincere qualche partita, o galleggiare per una vita, ma non possono costruire nulla di buono, perché è guasto il materiale che li compone. Infine: è vero che Machiavelli sostenne il fine giustificare i mezzi, ma la cosa è largamente banalizzata e fraintesa, perché necessita di un fine nobile, non certo bastando il proprio tornaconto. Scusatemi se l’ho presa tanto alla lontana, ma parlare di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini ha un senso se si pensa all’insieme dei nostri problemi, altrimenti è noiosamente ripetitivo.
Trovo giusto che Fini faccia osservare quanto sia inconcludente un centro destra con la bava alla bocca. Ma lui e gli altri, che un tempo si definivano camerati, sarebbero rimasti a bocca abbondantemente asciutta se Berlusconi non avesse adottato quel modulo comunicativo. Trovo opportuno che Fini abbia sottolineato quanto il federalismo fiscale rischia d’essere un costo, e che andare a rimorchio della Lega significa parlare solo ad una parte d’Italia. Ma quella riforma si trova nel programma elettorale da lui condiviso, e la vittoria che lo ha portato ad essere la terza carica dello Stato si deve all’alleanza con la Lega. Ricordi, inoltre, a proposito di sconquassi nelle casse pubbliche, che fu lui a fermare il già flebile piglio riformatore, nel secondo governo Berlusconi, impedendo interventi significativi a danno del pubblico impiego e della spesa improduttiva, dove, forse, vedeva sacche di proprio elettorato. E’ sensato che Fini chieda di affrontare razionalmente il tema dell’immigrazione, e su questo, da noi, sfonda una porta aperta, ma farà bene a non dimenticare due cose: la Lega che si rivolge ai reali dolori delle periferie eredita parole d’ordine che dovrebbero ricordargli qualche cosa, e la legge che regola l’immigrazione si chiama Bossi-Fini.
Potrei continuare, ma mi fermo, per non essere frainteso. Cambiare idea può essere cosa buona e giusta, e, nel caso di Fini, ha effettivamente cambiato idee che erano profondamente e inaccettabilmente sbagliate (ricordate il Mussolini più grande statista del secolo? Poi divenuto l’autore delle leggi razziali: il male assoluto). Solo che si deve aver cura di avvertire che si sta cambiando, specificando perché prima si sbagliava, un po’ come quando si gira, con la macchina, e si deve mettere la freccia, e, inoltre, di non farlo sempre all’indomani dell’avere incassato qualche cosa. Non sta bene.
Ma le questioni aperte fra Berlusconi e Fini non sono di carattere personale, modello Bibì & Bibò, o, per quel che lo sono, non m’interessano affatto. Sono questioni politiche, riassumibili così: a. si trovano nello stesso partito, che, però, non è un partito, non ci sono congressi, direzioni o segreterie in cui una linea perde e l’altra vince, sicché convivono senza fondersi; b. chi porta la gran pare dei voti è Berlusconi, capacissimo di costruire vittorie elettorali, ma meno di costruire il consenso attorno a linee politiche. A sinistra succede la stessa cosa, ma con leaders meno forti, al punto che ieri si sono dovuti umiliare ad aderire alla seconda edizione di una manifestazione che avevano inizialmente snobbato.
Berlusconi, per chi gli vuol bene e per chi gli vuol male, domina la scena da quindici anni. Ma non domina la politica. E’ un motore che romba e intimorisce, ma fatica a ingranare la marcia. Il resto del mondo politico vive nella sua ombra, che gli sia alleato o avversario. Non so quanto ancora durerà, so che chi non ha il coraggio di affrontarlo direttamente, sfidandolo sul terreno del consenso, non gli succederà. Né che gli sia alleato, né che gli sia avversario. Lo ignorano quelli che non pensano, ma lo sanno quelli che occupano le prime file. Per questo il tira e molla dura decenni, con il ringhiare minaccioso che segue e precede lo scodinzolare festoso.

martedì 23 febbraio 2010

Dopo le lucciole la nebbia. Orso Di Pietra

Uno è rimasto fermo al fatto che sono scomparse le lucciole. E non si è reso conto che nel frattempo gli eredi del colonnello Bernacca non parlano più di “nebbia in Val Padana”. Già. Pare che i nebbioni di una volta, quelli che tra Bologna e Padova ti facevano marciare a passo d’uomo, che a Venezia favorivano le scivolate nei canali ed a Milano, anche nelle zone centrali, si mandavano a sbattere contro i lampioni, non ci sono più. Di qui una ventata di nostalgia di quelle che ti stringono il cuore e ti fanno venire acidità di stomaco. Bei tempi quelli delle notti e nebbie, del Giambellino offuscato, di Modena nascosta, del Santo e del Gattamelata ovattati e del Po che corre verso il mare per ritrovare finalmente un po’ di luce. Bei tempi, quelli di allora! È vero che vecchi e bambini si ammalavano di bronchite cronica! Ma vuoi mettere il piacere di respirare il vecchio e nero smog? (l'Opinione)

Non siamo Nato ieri. Christian Rocca

Avete visto i titoli dei tiggì e dei giornali: "Strage Nato di civili" in Afghanistan, peraltro sui siti abbastanza in basso. Ai tempi di Bush, quando capitavano queste tragedie, la strage era sempre degli "americani" e forse l'avevano pure fatto apposta. Ora che c'è Obama è della Nato. (Camillo blog)

lunedì 22 febbraio 2010

Gli sciacalli della sinistra. Alessandro Sallustri

I furbetti dell’emergenza, tre funzionari probabilmente infedeli della Protezione civile e tre imprenditori probabilmente mascalzoni, stavano per fuggire all’estero pochi giorni prima di essere arrestati o indagati. Così sostengono gli inquirenti che per questo avrebbero accelerato le indagini e gli ordini di custodia. Per colpa di questi signori tutto il sistema Bertolaso è stato trascinato prima nel fango e poi smontato, con lo svuotamento della nuova legge approvata giovedì scorso che avrebbe dovuto invece dargli nuovi poteri e più efficienza. Rispetto a questo ci sono responsabilità precise. La prima è l’uso disinvolto che la magistratura ha fatto delle intercettazioni telefoniche, ventimila pagine di parole in libertà, date in pasto all’opinione pubblica, nelle quali è difficile stabilire il confine tra reati, peccati e semplici coincidenze. La seconda è stato il feroce assalto dell’opposizione alla Protezione civile, un tiro ad alzo zero, senza distinguere il bene dal marcio, l’utile dal dannoso. Bertolaso è diventato un bersaglio, il cattivo da impallinare per far cadere Berlusconi, esattamente come è stato fatto con la D’Addario, con Spatuzza e Ciancimino.

Per Bersani e Di Pietro tutto fa brodo. Fallito l’assalto con le escort, caduto nel ridicolo quello con la mafia, ora ci provano mandando in prima linea i terremotati dell’Aquila, scudi umani di una battaglia politica che non conosce più regole né etica. Ieri in mille hanno superato i divieti e invaso la zona rossa della città, là dove il sisma ha fatto il maggior numero di danni e vittime. Chiedono comprensibilmente di accelerare la ricostruzione. È tutta gente che merita il nostro rispetto ma ciò non può cancellare la verità dei fatti. A queste famiglie il «sistema Bertolaso» ha ridato casa, confortevole e antisismica, in tempi da record. Ora resta il problema di mettere mano al centro storico devastato e che in buona parte prima andrà abbattuto. Tutti gli esperti del mondo convengono che l’operazione durerà anni, tanti anni. Sì ma quanti? Tra i cinque e i dieci ma molto dipenderà dalle regole che verranno adottate.

Ieri il sindaco (di sinistra) si è lamentato che con le procedure ordinarie non è immaginabile neppure iniziare, cioè liberare la zona dai quattro milioni di tonnellate di detriti accumulati per le strade. Appunto. Per affrontare emergenze e ricostruzioni servono leggi e poteri speciali, gli stessi che la sinistra ha preteso (e ottenuto da una maggioranza frastornata e impaurita) di cancellare pochi giorni fa in nome di un presunto massaggio, di qualche regalia di un pugno di farabutti già individuati e neutralizzati. Chi è più sciacallo sui terremotati? La banda Anemone-Balducci o quella Bersani-Di Pietro che sta barattando l’efficienza della ricostruzione con lo sputtanamento di Bertolaso e Berlusconi? Credo che la politica possa fare più danni di un funzionario corrotto. Basta vedere come il Tg3 e Rai Tre hanno strumentalizzato ieri la rabbia degli aquilani che abitavano in case che neppure un miracolo potrebbe restituirgli domani, non per colpa del governo ma per via di un piccolo particolare che nessuno a sinistra, su La Repubblica come ad Annozero, vuole ricordare: lì c’è stato un potente e devastante terremoto.

I magistrati vadano avanti nelle loro indagini, fino in fondo. Ma il governo e la maggioranza devono riprendere velocemente la strada di modernizzazione delle regole e del Paese che avevano intrapreso. Senza temere di doversi poi imbattere nel mariuolo di turno, senza farsi intimidire dall’opposizione. Altrimenti sarà travolta dalle urla, ben organizzate, di gente che reclama una casa che per ora non può avere. (il Giornale)

martedì 16 febbraio 2010

Il dilemma tra velocità e regole. Mattia Feltri

Qualche mese fa, in un pomeriggio di sole, Silvio Berlusconi era a Coppito, alla periferia dell’Aquila, per consegnare alle famiglie rimaste senza casa le belle palazzine nuove con le facciate di legno colorato.

Il presidente del Consiglio era così fiero del risultato che annunciò l’intenzione di estendere la dottrina-Bertolaso ad altre emergenze, e fece l’esempio di quella carceraria. Durante l’ultimo governo Prodi, poiché le prigioni traboccavano, il Parlamento aveva votato un indulto ma il provvedimento di clemenza non venne accoppiato a uno strutturale (non si costruirono nuovi penitenziari né si studiarono pene alternative alla detenzione), così oggi le prigioni traboccano di nuovo e sono amministrate nell’incivile convivenza.

Se il governo varasse un piano di edilizia carceraria con i sistemi e i vincoli classici, gli servirebbe almeno un lustro per concluderlo. Ma, fra le case di Coppito, il premier immaginò le galere venire su a velocità sconosciute alla democrazia e applicate soltanto alle ruspe mussoliniane (e per l’Aquila). Non soltanto perché Guido Bertolaso è bravo e concreto, ma soprattutto perché gode di strumenti unici: gli è permesso di affidare i lavori con trattativa privata, senza logorarsi nelle procedure solite della gara pubblica (bando di concorso, pubblicazione su Gazzetta ufficiale, presentazione dei progetti...). Sono poteri eccezionali, quasi incontrollabili, proprio perché, nell’emergenza, l’immediatezza del risultato è fondamentale.

Da quasi un decennio, si sa, Bertolaso non viene applicato soltanto ai soccorsi in caso di terremoto, alluvione o disastro ferroviario, ma all’organizzazione dei grandi eventi, come per esempio i Mondiali di nuoto o i viaggi papali. All’Aquila, però, Berlusconi si figurò un passo in più: chiamare emergenza l’ordinario (in Italia tutto l’ordinario è emergenziale e ogni emergenza è ordinaria) e affrontarlo con i sistemi spicci ed efficaci di un dopo-sisma. Per queste ragioni oggi si dibatte con tanta foga delle ulteriori prerogative che si intendevano affidare alla Protezione civile, e che lo scandalo giudiziario bloccherà o ridimensionerà. Ecco, al di là dei risvolti penali, il succo politico della vicenda è tutto qui.

È stato detto che i risultati più squillanti di quasi due anni di governo Berlusconi sono la ripulitura di Napoli dalla spazzatura e la gestione del disastro abruzzese. Sono due successi di Bertolaso e del suo metodo. Altri provvedimenti graditi dalla maggioranza degli italiani sono passati dai decreti, e cioè da leggi dell’esecutivo che entrano immediatamente in vigore, prima di passare dalle camere. Il grande tema di questa legislatura si conferma la velocità di esecuzione. Veramente è un tema antico: dalla crisi della Repubblica di Weimar al decisionismo craxiano, se ne parla da decenni. Ma oggi c’è anche un sistema dell’informazione tambureggiante: le tv, i giornali, i siti internet sollevano problemi in continuazione, e per reggere alla sfida del consenso i politici sono costretti a risposte fulminee.

I sacri (e sacrosanti) riti della democrazia sono sempre più inadeguati. Berlusconi lo ha capito e ha anche capito che, paradossalmente, rendere rapida la democrazia richiede un lentissimo lavoro di riforma che lui non può permettersi. Vuole che il suo governo passi alla storia per le cose fatte, non per una correttezza formale che ha sempre considerato da farisei, o per un riformismo a beneficio dei successori. E così usa i decreti e diffonde il metodo Bertolaso, e dentro la sua maggioranza ci sono opposizioni di scontenti, uomini per ruolo o vocazione fedeli alla liturgia, ministri che si vedono sottratte competenze e controlli, legalisti che vorrebbero un solido rispetto delle regole. La vicenda di Bertolaso ha rinvigorito i perplessi e adesso sarà interessante vedere se e quali altri poteri andranno alla Protezione civile, se invece verranno ridimensionati (molto probabile), e soprattutto se sarà ancora Bertolaso a esercitarli. Anche da questa partita dipende il futuro di Berlusconi: senza le splendide scorciatoie alla Bertolaso gli verrà difficile ripetere certe imprese e conservare l’ammirazione denunciata dai sondaggi. O trova una soluzione, o per i restanti tre anni della legislatura gli toccherà di vivacchiare fra carte bollate.

Insomma, il dilemma non è nuovo: a quanta libertà (a quanta prassi) la democrazia è disposta a rinunciare per essere più competitiva? E a quanta competitività è disposta a rinunciare per essere più libera? Anche se l’inchiesta fosse tutta una bufala, e Bertolaso e i suoi fossero immacolati, saremmo pronti, domani, a girare il loro imparagonabile potere in altre mani? È una domanda importante, perché non riguarda soltanto la politica. Il gip di Firenze, nel firmare l’ordinanza che ha stabilito arresti e avvisi di garanzia, ha ammesso di non averne la competenza. È competente Roma. Ma per evitare che le ruberie proseguissero, scrive, per bloccare quella cricca che ne stava combinando delle altre, è stato necessario uno strappo alla regola. Il risultato serviva, e serviva subito. Chissà se Bertolaso si è reso conto che tutto quello che gli sta capitando dipende dal metodo Bertolaso applicato alla magistratura. (la Stampa)

lunedì 15 febbraio 2010

Quei savonarola di sinistra nutriti solo dall'odio. Annamaria Bernardini De Pace

Al confronto con i fanatici moralisti di oggi, Savonarola apparirebbe un ciarliero e sereno frequentatore dei salotti televisivi, non degno di un processo e tantomeno dell’impiccagione. Al rogo, invece, per bonificare la palude invereconda della politica, dovrebbero andare tutti i giustizialisti (politici, giornalisti, o magistrati che siano e i cittadini che da questi sono plagiati) nutriti solo dall’odio che, a sua volta, si ciba della salute, della faccia e della serenità altrui.
L’assalto che è stato fatto da una precisa parte politica a Bertolaso, evidentemente dell’altra parte, è prova vergognosa di come l’odio sia davvero cieco e di come il moralismo faccia perdere i confini della ragione. Sempre che di ragione, con certa gente, si possa parlare.
I soloni di sinistra quando, per caso o per forza, si parla male di un compagno, pretendono che tutti sospendano all’istante il giudizio negativo, in attesa dell’accertamento dei fatti. Intanto si infiammano nel garantire personalmente il soggetto in questione - come è successo sere fa in tv per un architetto, definito sicuramente per bene solo perché fratello di un intellettuale di sinistra - e «rimbalzano» la patata bollente trasformandola magicamente in una «mina antiuomo di destra».
Come diceva don Giussani, la morale è il rapporto che c’è tra il gesto e ciò che la coscienza sente e percepisce nel farlo. Se ci si sente di difendere, fino ad accertata e definitiva prova contraria, una persona della propria parte politica, ma non si usa l’uguale e lodevole e garantista metodo per l’avversario, la coscienza non può essere pulita. Il gesto non è morale. Le motivazioni che l’hanno suggerito sono parziali e interessate. Dunque, il rapporto tra quel gesto e la coscienza è fallimentare, tipico dei moralisti d’accatto e non espressione di validi e condivisibili principi morali.
Chi rispetta l’etica, non può sistematicamente proteggere i suoi e condannare gli altri, coltivando semplici sospetti. Questo è un comportamento anche un po’ mafioso.
Ora, grazie al malcostume pre–processuale e processuale di rendere noti intempestivamente gli atti di un’inchiesta, complice l’avidità di discovery dei giornalisti e dei politici, Bertolaso è già stato condannato. La sua identità, massacrata nel marasma dei sospetti. È corrotto? Non è corrotto? Non lo possiamo dire e tantomeno sapere. La Costituzione gli garantisce un giusto processo, il contraddittorio nelle sedi idonee, la verifica rigorosa degli addebiti. Intanto, finché non fosse provata con sentenza definitiva la sua presunta colpevolezza, tutti dovremmo limitarci a giudicarlo per quello che ha fatto di buono per la società, per i risultati noti e apprezzati, (De Bortoli lo definisce «un grande servitore dello Stato») e stare ad aspettare i fatti giudiziari concreti, senza voler giudicare a seconda delle parole che rimbombano dalle opposte fazioni politiche.
Da entrambe le parti vengono, infatti, solo argomenti di puro interesse parziale ed egoistico. Con l’obiettivo, ciascuno, di salvarsi o di rifarsi la faccia a scapito del poveretto di turno; che, comunque sia, subisce l’impiccagione mediatica.
E il boia deve fare più orrore del criminale.
È inaccettabile, perché ingiusto, il comportamento di un giornalista che, dimentico della deontologia e dell’umanità, diventa famoso solo per essere campione al tiro di uova marce sull’indagato dell’avversa fazione politica, e ne storpia il nome, tenta di fare satira sui sospetti, costruisce penose parabole; così come lo è quello del rappresentante di partito che suggerisce dimissioni agli avversari, mai imposte a compagni traffichini. Per non dire dei tribuni del popolo, che tuonano sermoni apocalittici, in nome di un’Italia che non appartiene loro se non in una ridicola percentuale.
I valori collettivi così sono al collasso, stiamo andando davvero alla rovina in una landa desolata del diritto e dei diritti, dove non esiste più il codice del bene e del male. Impera, appunto, il moralismo funzionale ai propri interessi. Obiettivamente incoerente.
Infatti, per esempio, anziché avere pietà di Morgan, e suggerirgli un metodo per la sua rieducazione psicofisica, lo si punisce chiudendolo in camera, in castigo, durante la festa. Ma, nello stesso tempo, non si approfondisce quanti altri invitati alla festa di Sanremo siano nelle sue identiche condizioni. Anzi, per di più, si acclama all’ospite speciale D’Addario, che si esibirà in un’attesa passerella (senza neppure fare una piega di fronte al significato grottesco del termine «passerella» applicato a una prostituta). Poi ci sono i tonini, i marchi, i micheli e le concite che si avventano allegramente sulle reputazioni altrui, facendone carne da macello e poi condendole con spezie di moralismo, per sfamare i cittadini di bocca buona.
Alla faccia della morale, della legge e dell’umanità. Ma anche dell’intelligenza altrui: di chi sa che il moralista, proprio perché lo è, è persona assai sospetta. (il Giornale)

sabato 13 febbraio 2010

Diritto di cronaca o prepotenza mediatica? Carlo D'Andrea

Per Michele Santoro si tratta di un «abuso di potere»; e il democratico ed ex-ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni, arriva addirittura a parlare di norma «anticostituzionale». Eppure il regolamento che la commissione di Vigilanza Rai ha approvato per disciplinare le partecipazioni dei politici nel mese che precede le prossime elezioni regionali risponde a una prerogativa prevista dalla legge sulla par condicio approvata nel 2000 dall'allora maggioranza di centrosinistra. Lo stesso regolamento, su cui si sta abbattendo il fuoco di fila dell'intellighenzia di sinistra, è stato del resto democraticamente votato dalla commissione su proposta di Marco Beltrandi, esponente radicale del Pd. È curioso inoltre ricordare come nei mesi d'inattività della commissione di palazzo San Macuto, bloccata dal «caso Villari», l'opposizione sottolineò l'interesse della maggioranza all'inerzia dell'organismo di controllo. Paradossalmente, oggi che la commissione funziona e svolge il suo compito di vigilanza, la sua attività diventerebbe un'arma a servizio del premier.

In tutte queste acrobazie della convenienza fa sorridere che i giornalisti sinistrorsi arrivino adesso ad ingiuriare il tentativo legittimo di mettere ordine alle presenze dei politici in tv nel periodo pre-elettorale. Fa sorridere ed è emblematico, soprattutto, come i vari Santoro, Floris e Annunziata spaccino qualsiasi indirizzo come lesivo del proprio «diritto di cronaca», tralasciando il dettaglio che questo diritto senza confini e regole assume le forme di un vero e proprio privilegio che concede loro il «prepotere» di scegliere arbitrariamente cosa mandare in onda, chi e come far intervenire. Il tutto peraltro all'interno di un editore che è pubblico e che, in ossequio all'interesse del pubblico, non può, o non dovrebbe, prescindere da regole.

Questa visione distorta del diritto di cronaca ricorda tanto il vessillo dell'obbligatorietà dell'azione penale, dietro il quale una certa magistratura continua pervicacemente a giustificare l'arbitrarietà della propria attività inquisitoria, rifiutando qualsiasi «contrappeso» da parte del potere politico, espressione diretta della volontà popolare. Entrambi gli atteggiamenti - di giornalisti e pm - sottintendono infatti una mentalità che dà per scontata la colonizzazione di determinati spazi di potere al di fuori di qualsiasi organo di controllo. Con l'aggravante che, rispetto a ieri, informazione e magistratura delegittimano costantemente la sfera politica, cioè chi è chiamato a sovrintendere al funzionamento di una società democratica.

Il tanto deplorato «decreto di San Macuto» ha commesso il peccato «mortale» di dissacrare queste sfere di potere, semplicemente invitando chi conduce gli spazi televisivi Rai a rispettare dei criteri di partecipazione, da parte dei politici, proporzionali alla rappresentanza parlamentare dei gruppi. Altro che bavaglio! Per quanto antipatico e restrittivo, il regolamento cerca d'introdurre soltanto un metodo di buon senso, che diventa tanto più urgente quanto più assistiamo a trasmissioni partigiane, dove l'orientamento politico definisce la rotta per studiare a tavolino l'organizzazione di molti talk-show. La stessa par condicio non molto del resto potrà contro la faziosità di trasmissioni come Ballarò, dove tutto, dai politici invitati agli accademici consultati, ai sondaggi proposti, alle modalità degli interventi è ben costruito e predeterminato. Non è insomma una questione soltanto di tempi. E poi tutti questi watch-dog non ci avevano spiegato che in Italia non esisteva la libertà d'informazione? (Ragionpolitica)

La responsabilità dei magistrati. Arturo Diaconale

L’istituto delle dimissioni, si sa, non ha mai trovato grande applicazione nel nostro paese. Rinunciare ad una poltrona, ad uno stipendio, ad uno status è doloroso. Ed in Italia da sempre di dolori si parla con grande intensità ma dai dolori si sfugge anche con particolare velocità. Chi si dimette, dunque, rappresenta una eccezione. Che però non costituisce una rarità assoluta. Nelle aziende capita abbastanza spesso. Ed anche nel settore della politica, dove si scontra chi le vuole obbligatorie per gli inquisiti e chi le considera una offesa alla presunzione d’innocenza prevista dalla Costituzione, il fenomeno non è affatto infrequente. Insomma, anche se è diventato un luogo comune protestare contro chi non ha il coraggio morale e civile di togliersi di mezzo quando le circostanze lo richiedono, il metodo delle dimissioni esiste e viene applicato abbastanza spesso in tutti i settori della vita pubblica e privata del paese. Proprio in tutti? Per la verità una eccezione c’è. E merita di essere sottolineata. Perchè particolarmente significativa e carica di conseguenze decisamente negative. Esiste un solo caso negli ultimi decenni di dimissioni di un magistrato dal proprio incarico? C’è mai stato un giudice o un Pubblico Ministero che abbia deciso di rinunciare alla toga? Gli unici casi sono quelli dei magistrati che hanno abbandonato le aule dei tribunali per entrare in quelle del Parlamento nazionale o del Parlamento europeo. Per la carriera politica, in sostanza all’interno della magistratura le dimissioni si danno. Per altre ragioni non se ne parla nemmeno. Neppure se queste ragioni sono di natura etica e morale. Per non parlare di quelle legate alla semplice e più consueta opportunità. Quella che dovrebbe scattare, ad esempio, nel caso il magistrato dovesse compiere un errore marchiano o, peggio, ispirare la propria azione giudiziaria non al banale rispetto della legge ma alla difesa ed alla promozione delle proprie convinzioni ideologiche e politiche.

I magistrati del caso Tortora, ad esempio, sono rimasti tranquillamente al loro posto ed hanno fatto regolare carriera senza manifestare alcun tipo di imbarazzo morale per la cantonata presa ai danni di un innocente. E, sulla scia di questo esempio, se ne potrebbero citare una infinità. A conferma del fatto che nessun magistrato si è mai dimesso per compiere una sorta di atto risarcitorio nei confronti di quel popolo in nome del quale amministra la giustizia. Ed a riprova della circostanza che nel nostro paese esiste una sola categoria priva di qualsiasi tipo di responsabilità. Una volta era il princeps ad essere legibus solutus. Ora è chi indossa la toga a poter contare su una sorta di licenza senza limiti e senza conseguenze personali che ha finito con il trasformare una categoria prima in una corporazione chiusa e poi in una casta di bramini intoccabili ed irresponsabili. Si dirà che il giudizio è troppo aspro. E l’osservazione è sicuramente giusta se si tiene conto che l’irresponsabilità viene sfruttata da una parte minoritaria dei magistrati. Ma riconoscere che tantissimi magistrati sono responsabili non elimina il problema gigantesco posto dall’assenza di una norma in grado di non lasciare alla buona volontà personale ma a regole definite il rispetto del principio di responsabilità. Il caso Bertolaso è l’ultima conferma della serie che se si vuole assicurare ai cittadini una giustizia autenticamente giusta bisogna porre al centro di una grande e complessiva riforma della giustizia una norma sulla responsabilità dei magistrati. Chi lo è è già non ha nulla da temere. Chi non lo è si dovrà abitarsi ad esserlo. In nome della Costituzione che vuole tutti i cittadini (tutti senza eccezioni di sorta) uguali di fronte alla legge! (l'Opinione)

giovedì 11 febbraio 2010

Csm sprint "Ha offeso le toghe". E Silvio viene subito "incriminato". il Giornale

Giustizia lenta? Forse per molti, ma non per Berlusconi. Al premier basta aprire bocca per ritrovarsi sotto processo. Osservate il «timing». Sono le 17.47 di ieri quando esce la prima agenzia con la frase del presidente del Consiglio sui «processi infondati» quale «male italiano» pronunciata a proposito dell’inchiesta su Guido Bertolaso. E alle 19 in punto ecco il «lancio» che annuncia: quell’affermazione finirà al vaglio del Consiglio superiore della magistratura dove pende da tempo una corposa pratica a tutela di magistrati oggetto di accuse da parte del Cavaliere. È passata un’ora e 13 minuti. Forse un record. Ma se si tratta di accusare il premier, la giustizia mette il turbo. «Valuteremo anche queste dichiarazioni» ammonisce il consigliere Mario Fresa, togato del Movimento per la giustizia e relatore insieme con il laico dell’Udc Ugo Bergamo del fascicolo pendente alla Prima commissione. La pratica contro Berlusconi è stata aperta il 3 novembre scorso all’unanimità a tutela dei magistrati delle Procure di Palermo e di Milano che hanno riaperto le indagini sulle stragi mafiose.

mercoledì 10 febbraio 2010

Scuola, la rivoluzione che non c'è. Davide Giacalone

Siamo sicuri che la scuola superiore s’appresti alla rivoluzione dei corsi? Il nostro sistema dell’istruzione è talmente mal messo, i suoi risultati sono così miseri, che qualsiasi novità è venduta e scambiata come palingenesi, il che serve solo ad alimentare la successiva delusione. Inoltre, come se non bastasse, ha preso piede anche l’ideologia dell’antideologia, per cui, dopo i cascami incolti dell’egualitarismo sessantottino, va di moda la meritocrazia a chiacchiere. Credo, invece, che senza estirpare un paio di malepiante, non si vada da nessuna parte.

In questi giorni si è fatto un gran parlare della “riforma Gelmini”. Si tratta, in realtà, di regolamenti approvati dal Consiglio dei ministri, in attuazione di leggi esistenti. Importanti, certo, ma non epocali. Si mette ordine nella ripartizione delle materie, nella definizione e specificità degli istituti tecnici e professionali, nell’orario scolastico. Cose buone e giuste, ma non esattamente la nascita di un nuovo sistema. Per il resto, invece, le cose restano come stanno, a cominciare dalla dequalificazione degli studi.

Ci siamo arrivati, a questo punto, partendo dall’idea che la scuola sarebbe stata più bella e democratica se avesse dato a tutti la stessa cosa, salvo accorgersi che il punto di caduta era l’ignoranza equidistribuita. Si sono demoliti gli istituti professionali, in omaggio alla cultura da aprirsi a tutti, riuscendo così a privare molti della sapienza del fare (e, oltre tutto, non sta scritto da nessuna parte che sia inconciliabile con la cultura letteraria, artistica o musicale). Abbiamo tolto ai professori il loro ruolo sociale, costringendoli ad amministrare un gregge da portare compatto al compimento degli studi, non più coincidente con l’acquisizione di conoscenze, abbiamo, così, creato un ambiente adatto per quanti salgono in cattedra per prendere uno stipendio, in attesa di percepire la pensione, e inadatto a chi abbia passione e vocazione per l’insegnamento. La società tutta s’è prestata a questa degradazione, facendosi rappresentare da genitori che un tempo erano il potenziamento della severità dei docenti, mentre ora sono, per la gran parte, i sindacalisti dei propri figli, sempre più viziati e familisticamente protetti. Contro tutto questo dovrebbero ribellarsi i giovani, la cui testa sarà il trofeo polveroso di tanta dissipazione culturale ed economica, mentre, invece, le pantere e le onde si levano solo allorquando taluno pretende mettere mano alla realtà per cambiarla. Sono colpevoli, questi ragazzi, perché complici dei loro peggiori professori.

Ho letto le reazioni ai nuovi regolamenti, sempre le solite: sono solo tagli, diminuiscono le ore d’insegnamento, è un attacco all’istruzione pubblica. Magari, ci fosse bisogno d’attaccarla! La realtà è fotografata in pochi numeri, aprite gli occhi: nella scuola primaria le ore annue d’insegnamento, in Italia, sono 990, la media Ocse è 796; nella secondaria inferiore i due numeri sono 1.089 e 933; in quella superiore 1.089 e 971. Veniamo al numero di docenti ogni 100 studenti: nella primaria italiana sono 9,4, la media Ocse è 6,2; nella secondaria inferiore 9,7 e 7,5; in quella superiore 9,1 e 8. Quindi, abbiamo più ore d’insegnamento e più docenti della media Ocse, ma risultati largamente inferiori, accertati dai test Pisa, che ogni anno ci umiliano. Secondo voi, come si fa ad ottenere un risultato simile se non mettendo nel conto ore inutili e docenti incapaci? Ecco, le proteste, invece, sono tutte indirizzate a conservarci entrambe, quali beni preziosi.

E’ vero, invece, che per l’istruzione spendiamo meno della media Ocse: il 3,3% del prodotto interno lordo, contro il 3,8. Spendiamo meno, ma abbiamo più personale che lavora, e ciò significa che usiamo i soldi quasi esclusivamente per la spesa corrente, con tanti saluti all’innovazione e alla ricerca. Ma basta toccare questa situazione che subito salta il sindacato, e appresso a quello si muovono i cortei degli studenti, che manifestano contro se stessi. E siccome non lo capiscono, ciò non depone a favore della loro lucidità.

I conti relativi all’università li faremo un’altra volta, per adesso bastino due numeri, a illustrare il fallimento del mito egualitario: nel 2003 si iscriveva all’università il 56,5% dei diciannovenni e il 74,4 dei diplomati; nel 2009 i primi affluiscono per il 47,4 e i secondi per il 59,1. Il titolo di questo film dovrebbe essere: 2010, fuga dall’università. Ma non perché difficile e selettiva, bensì perché inutile. Non si torna all’università classista, si galleggia in quella declassata.

Dubito che i regolamenti possano porre argine a questo straripare di fallimenti. Il salto di qualità lo si farà imboccando tre strade: a. l’abolizione del valore legale del titolo di studio; b. la trasparenza statistica sui risultati formativi, seguendo gli studenti nella loro vita lavorativa e professionale; c. fine del finanziamento uguale per tutti. Ciascuno di noi può studiare, per tutta la vita, al fine di coltivare l’animo. Ma gli studi istituzionalmente organizzati devono servire a conquistare una vita migliore e un livello di reddito superiore, devono essere meritocratici e selettivi, a cominciare dalle persone che stanno in cattedra. Questa sì, che è una rivoluzione. Che non vedo, però, all’orizzonte.

lunedì 8 febbraio 2010

La moglie, il figlio, la zia e il nipote di Di Pietro dicono no al familismo nell'Idv. Lodovico Festa

“A mezzogiorno di domani i cinque figli di Silvio Berlusconi sono attesi a Villa San Martino” Dice Angela Frenda sul Corriere della Sera (8 febbraio) Menù: Mediaset in umido, Mondadori scottadito, Endemol all’amatriciana, Medusa ai ferri, Mediolanum impanata e fritta.

“Abbiamo votato una mozione sul rifiuto del familismo come principio” Dice Pancho Pardi al Corriere della Sera (8 febbraio) E la mozione è stata votata compattamente da tutto il gruppo dirigente dell’Idv: la moglie, la morosa, il figlio, la morosa del figlio, il cognato, il marito della morosa di Di Pietro.

“Intanto mettiamoci d’accordo su questa storia dell’antiberlusconismo. Hanno ridotto a una caricatura l’opposizione dell’Italia dei valori” Dice Susanna Mazzoleni alla Repubblica (8 febbraio) Secondo la Mazzoleni l’opposizione dipietrista sarebbe pensosa e ricca di contenuti: ci vuole proprio l’amore di una moglie per trasformare un rutto in una poesia.

“Lascerei la politica solo per la Juve” Dice Walter Veltroni alla Repubblica (8 febbraio) In effetti il povero Ciro Ferrara è uno dei pochi che in tempi così stretti abbia fatto peggio di Walter.(l'Occidentale)

giovedì 4 febbraio 2010

Morgan e l'elogio dell'ipocrisia. Michele Brambilla

Ipocrisia. Tutti coloro che hanno contestato l’esclusione di Morgan da Sanremo hanno fatto ricorso a questo vocabolo-totem, uno dei più gettonati per ridurre al silenzio chiunque si azzardi a evidenziare un comportamento sbagliato (gli altri sono «moralismo» e «perbenismo»). Di «ipocrisia» ha parlato Claudia Mori. Di «ipocrisia proibizionista» i radicali Michele De Lucia e Andrea De Angelis. Di «festival dell’ipocrisia» Mario Adinolfi del Pd.

Di «trionfo dell’ipocrisia» Flavio Arzarello del PdCI. «Escludere Morgan da Sanremo è ipocrisia» è la battuta dettata alle agenzie da Adriana Poli Bortone dell’Udc. «Ipocriti» è poi l’aggettivo più presente nei commenti, quasi tutti versus esclusione, che leggiamo sui siti on line dei maggiori quotidiani italiani.

L’argomentazione di tutti costoro è semplice: si drogano tutti, nel mondo dello spettacolo e perfino in Parlamento, perché prendersela con uno dei pochissimi che ha l’onestà di ammetterlo?

Un’argomentazione dalla logica davvero stringente. Ragionando allo stesso modo, si potrebbe sostenere che, siccome quasi tutti evadono le tasse, è «ipocrisia» punire l’evasore che viene scoperto; siccome ci sono legioni di ladri, sarebbe «ipocrita» arrestare quelli che vengono beccati con le mani nel sacco; lo stesso vale per i dipendenti licenziati perché in ufficio passano più tempo a guardare i siti porno che a lavorare, e così via. Ci pare un «moralismo al contrario», per il quale è sufficiente dire urbi et orbi che si fa una cosa sbagliata per passarla liscia, anzi per guadagnarsi una medaglia.

Ma l’argomentazione appare ancora più debole, per non dire miserevole, se si tiene conto di un particolare non proprio secondario. E cioè: Morgan non ha detto solo che si droga. Ha detto che la droga fa bene. Ne ha esaltato le proprietà terapeutiche. Ecco le sue parole testuali: «Io non uso la cocaina per lo sballo, a me lo sballo non interessa. La uso come antidepressivo. Gli psichiatri mi hanno sempre prescritto medicine potenti, che mi facevano star male. Avercene invece di antidepressivi come la cocaina. Fa bene».

Se escludere da Sanremo uno che lancia al pubblico messaggi del genere è ipocrisia, viva l’ipocrisia. La quale non è una bella cosa ma, tra i comportamenti umani riprovevoli, è uno dei pochi che possono vantare anche un lato positivo della medaglia. Il lato negativo è appunto l’ostentazione di una rettitudine che non corrisponde alla propria vita. Ma quello positivo sta nel fatto, paradossale quanto volete, che nascondere le proprie malefatte vuol dire anche riconoscere che sono, appunto, malefatte. Qualcuno ieri ha scomodato il Vangelo. Ora, è vero che Gesù annuncia un destino terribile per gli ipocriti; ma dice anche che il peccato più grande è confondere: dire che il bene è male e che il male è bene. E Morgan (non sappiamo quanto consapevolmente: il personaggio induce più alla compassione che al biasimo) questo ha fatto: ha detto che un male - perché la droga è un male - è un bene. E chi accusa di ipocrisia coloro che lo hanno escluso da Sanremo fa, indirettamente, la stessa cosa.

L’ipocrisia, l’occultamento delle proprie miserie, è insomma certamente una finzione tra le più deprecabili. Ma è anche l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Ci si nasconde perché si riconosce che, di quel che si fa, non c’è da menar vanto.

Per questo oggi facciamo qui un elogio dell’ipocrisia. Ben sapendo che ci prenderemo dei «moralisti» e ovviamente anche degli «ipocriti» da coloro che - forse, in qualche caso - parlano pure per difendere stili di vita personali. (E che però, naturalmente, si guarderebbero bene dal mandare i loro bambini su uno scuolabus guidato da un cocainomane. Ipocriti un po’ anche loro, no?). (la Stampa)