martedì 28 ottobre 2008

Bush colpisce duro la Siria perché l'Europa intenda. Carlo Panella

La spettacolare operazione di elicotteri e truppe speciali statunitensi che hanno colpito domenica un gruppo terrorista iracheno, comodamente installato in Siria, ha un senso che va ben oltre la normale attività di pacificazione dell'Iraq.
Sicuramente è stata motivata dalla volontà di colpire duro un gruppo che infastidiva molto la pacificazione irachena, ma ha avuto una predominate funzione di warning. L'azione infatti dimostra -come la Rice ha confermato la scorsa settimana a chiare lettere- che la Siria di Beshar al Assad continua a non pagare nessun prezzo a fronte delle ribadite aperture di credito da parte della Francia di Sarkozy (e purtroppo anche dall'Italia di Frattini). Con questa operazione, Damasco è stata colta ancora una volta con le mani nel sacco: nonostante le tante dichiarazioni verbali, Assad continua ad appoggiare le guerriglia quaidista in Iraq, esattamente come continua a armare Hezbollah (vedi l'ottima oinchiesta di Guido Olimpio sul Correre di domenica) ed Hamas (come peraltro dichiarano sfrontatamente i pasdaran iraniani).
La lunga fase ''obamiana'' di dialogo a tutti i costi con l'asse Siria-Iran, si è aperta con largo anticipo l'estate scorsa, con la sciagurata decisione di Sarkozy di ospitare come ospite d'onore al Assad alla sfilata del 14 luglio a Parigi (con scandalo non solo di Chirac, ma anche di molti generali francesi). E' poi continuata negli ultimi mesi, con continua aperture di credito da parte delle cancelleire europee, Farnasina inclusa.
Il problema, però, non sta al solito nel dialogo, ma nel fatto che a fronte delle continue legittimazioni europee, Beshar al Assad non ha poi pagato alcun prezzo, non ha modificato minimamente la sua politica di destabilizzazione dell'area e anzi si prepara con tutta evidenza ad una nuova micro invasione del Libano (avendo a pretesto gli scontri tra alauiti filosiriani e sunniti nella zona di Tiro).
Colpire il ''santuario'' terrorista dei quaidisti iracheni, ben protetto dentro i confini siriani è stato dunque il modo scelto dall'amministrazione Bush per chiarire agli europei che la loro politica è avventurista, che Assad continua ad essere un interlocutore inaffidabile.Nella speranza che l'Europa capisca.

Per Veltroni i sondaggi dicono il vero solo quando bocciano il Cav. L'uovo di giornata

Quando Berlusconi sale nei sondaggi e legittimamente se ne rallegra, Veltroni e la sinistra lo accusano di vivere rinchiuso nel suo mondo virtuale dove l'unico indicatore che conta è il segno più nella curva del gradimento. Gli dicono che è scollato dal paese reale e preda di una ossessione costante da sondaggio.

Stranamente la musica cambia se i sondaggi mostrano qualche flessione. Allora il rimprovero è opposto: l'accusa diventa quella di ignorare i segnali che provengono dal paese, di rimanere sordo verso lo scontento che si agita nelle masse popolari. Se i sondaggi calano, come in una certa misura accade in questi giorni di manifestazioni, proteste e crisi economica incalzante, allora è il momento per Berlusconi di assecondare le loro indicazioni, di inchinarsi al volere della doxa e rimettersi sulla careggiata che l'opposizione gli indica. "Berlusconi ha perso il 18 per cento in un mese e mezzo - ha detto Veltroni dopo la manifestazione del Circo Massimo - farebbe bene a dare ascolto alla società italiana".

Allora sappiatelo in anticipo: i sondaggi in crescita sono frutto del delirio autorefenziale del Cav.; quelli in calo sono la vera voce della società italiana. E' un po' lo stesso meccanismo per cui l'Italia è meglio di chi la governa solo se a governare è il centro-destra. (l'Occidentale)

lunedì 27 ottobre 2008

Seppellito il riformismo, sono tornati alla politica con la clava. Peppino Caldarola

Il Circo Massimo è una grande piazza per i numeri, dai concerti di Antonello Venditti, allo scudetto della Roma con spogliarello di Sabrina Ferilli, ai festeggiamenti per il mondiale dell’Italia. È una piccola piazza per la politica. Cominciò Sergio Cofferati, ha finito ieri Walter Veltroni. Due milioni e mezzo di persone sono una cifra da sogno. La realtà dice molto meno. La politica toglie ancora qualcosa. Il Pd ha mobilitato meno persone di quella Cgil che protestava contro l’abolizione dell’articolo 18, ma in tutte e due le occasioni il leader ha volato basso. Cofferati stupì tutti con un discorso grigio che deluse chi sperava di sentire battere il cuore della sinistra. Veltroni ha provocato una tachicardia che rischia di essere mortale per il cuore riformista del Partito democratico.
Il discorso del capo del Pd è stato un tuffo nel passato. C’era tutto l’ultimo Berlinguer, quello che, pentito dell’unità nazionale, chiamava a raccolta tutto il radicalismo comunista per nascondere una sconfitta che si avvicinava a grandi passi. La stessa operazione ha fatto ieri Veltroni. La chiave del suo ragionamento è stata fondata sulla estraneità della destra rispetto al Paese. La diversità comunista era un dato ideologico e morale. La diversità veltroniana diventa oggi un connotato antropologico. Siamo oltre la damnatio che i vecchi comunisti agitavano contro i nemici del popolo, e siamo al di sotto della vis polemica che caratterizza gli scontri politici negli Usa e nella Gran Bretagna. Veltroni ha scelto la strada impervia della genetica superiorità morale della sinistra sulla destra. Non siamo tornati indietro. Siamo tornati alle palafitte e alla politica con la clava. L’ultimo Veltroni seppellisce il Veltroni blairiano e dialogante dell’esordio.
Forse è quella piazza che porta male alla politica. Al Circo Massimo si concluse, nel momento del bagno di folla, la carriera politica di Cofferati e forse al Circo Massimo è morto ieri il Veltroni riformista. È nato il capo di un partito radicale di massa, che resterà a lungo all’opposizione. Veltroni ha detto in buon italiano quello che Di Pietro avrebbe detto violentando sintassi e grammatica. Ha parlato il linguaggio di Furio Colombo, di Flores D’Arcais, di Travaglio e di Santoro. Ottima audience, fallimento elettorale alle viste. Per i riformisti di sinistra inizia un viaggio catacombale. (il Giornale)

venerdì 24 ottobre 2008

Giovani reazionari. Davide Giacalone

La scuola non è un problema di ordine pubblico. Occupare gli edifici pubblici è sicuramente un reato, ma l’intervento della forza pubblica, per prevenirlo o rimuoverlo, deve essere sollecitato dai rettori e dai presidi, non dal governo e dal ministro degli interni. L’avviso ai naviganti, pertanto, era errato od ingannevole. Al governo devono stare bene attenti a non giocare di sola rimessa, neanche adagiandosi sul fatto che le proteste possano far apparire quale vasto e profondo intervento riformatore quelli che restano provvedimenti limitati e settoriali. Giusti, aggiungo, ma incapaci di aggredire il problema.
All’opposizione, del resto, non si creda di poter fare da sponda alla protesta studentesca, sol perché non si trovano a governare e, quindi, sperano di mettere quel vento nelle proprie vele. Quello che sta prendendo forma non è un movimento rivoluzionario (ove mai abbia senso parlare di rivoluzione), ma reazionario.
Molti di questi ragazzi non sono strumentalizzati, sono accecati. Li sento animarsi perché l’odiosa politica governativa minaccia l’esistenza della loro scuola e della loro università. Peccato che detta politica sia cosa da poco e che le loro scuole e le loro università è difficile possano fare più schifo di così. Escludo che ad uno studente possa venire in mente di occupare per difendere i maestri doppi (delle elementari), l’educazione civica che nessuno ha mai fatto o le scuole con meno di cinquanta alunni che non si trovano manco per niente in montagna, ma servono a curare interessi clientelari. Eppure questi ragazzi si ribellano, ma a cosa? Temo si stiano opponendo alla fine del mondo dei loro padri, in gran parte mantenuti dalla spesa e dal debito pubblico. Temo credano sia un loro diritto fare gli avvocati, o meglio ancora i magistrati, se hanno conseguito una laurea in giurisprudenza ma di diritto non sanno un bel niente. Temo credano sia normale essere analfabeti, perché quel che conta è diventare famosi ed entrare in Parlamento.
Invece no, non solo quel mondo sta finendo, ma è un gran bene che crepi. Solo che non cade sotto i colpi di un riformismo intelligente e responsabile, bensì sotto le mazzate della crisi finanziaria e dell’insostenibilità della spesa. Dopo di che, nella globalizzazione, servono ingegneri che facciano star su i ponti e che si spieghino in inglese, pertanto quelli che conoscono l’arte di fare un muro meno di un capomastro e si esprimono in italiota resteranno dove meritano: all’ultimo posto. Sgradevole? Sicuro. Ma altrettanto sicuro che opporsi a che le cose cambino, sperando così di conservare anche il companatico, è il tipicissimo abito mentale dei reazionari. Con o senza l’intervento della polizia.

lunedì 20 ottobre 2008

Tv, la soluzione non risolutiva. Davide Giacalone

Molti giudicheranno astruso, ed anche noioso, il tema, decidendo di non leggermi. Invece questo capitolo di surrealtà televisiva ha anche aspetti divertenti, comunque indicativi di come vanno le cose nella nostra Italia. Mi riferisco alla storia di Europa 7, l’emittente televisiva cui il governo del 1999, con decisione irrazionale, assegnò una concessione televisiva nazionale. L’irrazionalità non si riferisce alla natura dell’emittente o dell’editore, naturalmente, ma al fatto che non aveva le frequenze per trasmettere ed il governo non era in grado di fornirle. Tutte quelle concessioni, nessuna esclusa, mancano del requisito di regolarità, perché prive di frequenze, ma chi le aveva poté continuare a trasmettere, mentre a chi ne difettava non restava che incorniciare il pezzo di carta.
Europa 7, giustamente, non si è rassegnata e s’è sentita dar ragione in più di un giudizio. Ora pende il Consiglio di Stato (prossimo dicembre) ed il governo è nei guai. Dice di non potere assegnare frequenze pianificate, ma omette di aggiungere il perché: non sono mai state pianificate. O, meglio, lo furono, ma poi decisero di buttare tutto a mare e continuare a campare nel caos. Confusione che si trova anche in molti commenti, che ritengono Europa 7 antagonista di Rete 4, quando, invece, vince le cause contro lo Stato, che è il vero inadempiente. Ecco il grottesco: tutti i canali che vediamo sullo schermo emettono in modo legittimo, ma la cosa è incompatibile con il legittimo diritto di chi ne è rimasto fuori. Roba da manicomio.
Sperano di avere trovato un rimedio: approfittare della ricanalizzazione, richiesta dalla conferenza di Ginevra, per assegnare ad Europa 7 un canale vicino a quello di Rai 1, che si restringerà senza perdere nulla. Il guaio è che nello scombiccherato sistema italiano da quelle parti si trova la radiofonia digitale, Dab, che non ha spazio dove legittimamente gli spetta perché colà si trova, irregolarmente, Rai 2. Così si moltiplicheranno i torti e l’edifico sarà sempre più pericolante.
Da anni il legislatore, d’ambo le parti politiche, spera di risolvere la faccenda dicendo che si passerà tutti al digitale, solo che non azzecca neanche una delle date entro le quali ciò dovrebbe avvenire. Con tanti saluti al diritto, alla libertà d’impresa ed al pluralismo.

domenica 12 ottobre 2008

Furbetti laureati in finanza o speculatori. Giorgio Arfaras

La crisi in corso è quasi sempre descritta con uno schema che asserisce che i tassi di interesse troppo bassi hanno spinto i prezzi degli immobili troppo in alto, con gli immobili medesimi che finivano nella pancia delle obbligazioni che tutto il mondo lietamente comprava. Con il tutto che è precipitato, perché i prezzi degli immobili e delle obbligazioni incinte degli stessi erano assurdi. Le persone chic dicono che il mercato era “mispriced”, ossia che aveva dei prezzi non efficienti. Tutti, salvo alcuni liberisti, che, al contrario del sanguinario Stalin che purgava gli oppositori, desiderano solo le purghe dei prezzi, hanno invocato, tremuli, il ritorno dello Stato. E’ vero che è andata così, ma per quale ragione è andata così? Gli investitori raffinati non potevano prevedere che i prezzi che salivano troppo, poi sarebbero scesi? E se potevano prevederlo, perché non si sono mossi in anticipo? Ci deve essere qualcosa in più per arrivare alla spiegazione. Se si riceve un bonus enorme per vendere le obbligazioni con dentro i mutui ipotecari, e se tutti le vogliono, i venditori sono incentivati, anche se sanno che i prezzi saranno assurdi e che precipiteranno. Intanto guadagnano molto. Quando le obbligazioni che hanno venduto saranno precipitate di prezzo, avranno comunque incassato. Questo dal punto di vista dell’offerta, ma quale è quello della domanda?

Chi voleva le obbligazioni incinte dei mutui pensava che intanto guadagnava perché queste obbligazioni rendevano più dei titoli di Stato, e quindi che la redditività dei suoi investimenti aumentava e che poi si sarebbe visto. Questo comportamento, allo stesso tempo avido e razionale, possiamo etichettarlo come quello dei “furbetti del quartierino”. Tutti si appellavano alle valutazioni delle società di rating, che sostenevano che le obbligazioni erano di qualità, ed ai modelli di controllo statistico del rischio, che dicevano che le cose erano sotto controllo. Era una “razionalizzazione”, un comportamento “non logico” che si nasconde dietro un comportamento “logico”. Non è infatti logico pensare che esista il “moto perpetuo” dei prezzi. Esiste solo il “moto temporaneo”. I giudizi di rating ed i modelli di controllo del rischio erano il “latinorum” per impressionare. Questo comportamento, avido, razionale, e coronato da giustificazioni obiettive, possiamo etichettarlo come quello dei “furbetti del quartierino” che hanno “una laurea in finanza”. In ogni caso, se si comprendono sia le motivazioni sia le giustificazioni di quelli che hanno investito con i prezzi in ascesa continua, non si capisce perché chi pensava che i prezzi erano assurdi non si sia messo a vendere fino a farli precipitare. Chi lo pensava ed agiva di conseguenza non deve avere, nel nostro ragionare, un’etica superiore, ma le stesse semplici motivazioni di guadagno degli altri. Non stiamo cercando degli “arcangeli e semidei”, ma solo dei normali operatori che spingano i prezzi assurdamente alti al ribasso.

Un mercato si definisce “completo” se sono possibili tutte le operazioni. Quelle a pronti, come comprare le uova, quelle a termine, come accendere un contratto future, quelle condizionate, come incassare l’assicurazione quando si manifesta l’evento definito dal contratto. Fra le operazioni attuabili, se si vuole un mercato “completo”, vi sono quelle che scommettono che le cose possano prendere una piega negativa. Se penso che la società X abbia un prezzo assurdo, vendo la sua azione “allo scoperto”, ossia mi faccio prestare il titolo di X e lo vendo. Quando è caduto il prezzo, lo ricompro e rendo il titolo. Se i prezzi sono assurdi ed allo stesso tempo sono possibili le vendite scoperte, i prezzi assurdi non dovrebbero manifestarsi. Se la crescita dei prezzi delle azioni tecnologiche fino al 2000 e degli immobili fino al 2006 era assurda, perché mai non sono entrati in pista i venditori allo scoperto? Supponiamo che l’azione della società (o dell’immobile) X abbia un prezzo di 10 euro. Abbiamo chi pensa che sia una grande impresa e chi pensa che sia un bidone. Chi pensa che sia una grande impresa compra, ma la società fallisce, e quindi perde 10 euro. Se invece ha ragione e sale fino a 100 euro, guadagna ben 90 euro. Chi pensa che la società X sia un bidone vende allo scoperto. Se ha ragione e la società fallisce, guadagna 10 euro. Se invece si sbaglia, e la società sale fino a 100 euro, perde ben 90 euro. I risultati sono diseguali.

Chi compra e basta, chi è “lungo”, può perdere al massimo quel che investe, 10 euro, ma può guadagnare molto, 90 euro. Chi vende allo scoperto, chi è “corto”, può perdere molto più di quello che investe, 90 euro, ma può guadagnare, se ha ragione, 10 euro. Lo spettro dei risultati non è proprio un incentivo a vendere allo scoperto. Per questa ragione i venditori allo scoperto non sono importanti quando i mercati salgono, e quindi non possono diventarne “i pompieri”. Solo quando i mercati stanno precipitando la probabilità di guadagnare vendendo allo scoperto aumenta molto. I venditori scoperti allora si fanno coraggio, diventano molti e quindi importanti. Peccato che a quel punto i politici e la stampa, che “lisciano il pelo” all“uomo della strada” solo quando i mercati sono in caduta, denuncino gli operatori scoperti come i “becchini” del pubblico risparmio. In conclusione, i mercati non sono completi, perché, salvo quando precipitano, le vendite scoperte sono troppo rischiose. I mercati non hanno quindi un meccanismo tutto interno che impedisca la crescita irragionevole dei prezzi. Il risultato sono “i furbetti del quartierino con laurea” nella fase ascendente, gli “speculatori” da additare al pubblico disprezzo nella fase discendente, e l’intervento pubblico, naturalmente per aiutare i “nostri concittadini meno fortunati”, alla fine. (l'Opinione)

giovedì 9 ottobre 2008

Gheddafi viola gli accordi, ma noi preferiamo far festa. Dimitri Buffa

“Di fatto gli accordi del 30 agosto la Libia non li rispetta”. Lo dice il ministro dell’Interno Roberto Maroni a Radio Padania stigmatizzando il fatto che il regime di Gheddafi a tutt’oggi ancora non abbia ottemperato agli impegni presi, aggiungendo che “il 99,9% degli sbarchi dei clandestini a Lampedusa è colpa della Libia”. Insomma da lì provengono. A fronte di tutto questo il Corriere della Sera ha raccontato ieri di un’indegna passerella di politici e di politicanti vari davanti alla solita tenda del finto beduino Gheddafi nel deserto. Tutti a festeggiare gli accordi (per ora non mantenuti) in questione, che risalgono allo scorso 30 agosto. D’altronde “la dignità chi non ce l’ha, non può darsela da solo”. E la parafrasi del grande Alessandro Manzoni, potrebbe essere il commento migliore per l’incredibile figura che politici come Giulio Andreotti, Lamberto Dini, Nicola Latorre, Beppe Pisanu e altri ancora hanno fatto qualche giorno fa andando a farsi “premiare” da Gheddafi. L’uomo che, dopo avere preso il potere nel 1969 in Libia con un colpo di Stato, dopo avere cacciato da quella terra gli italiani “discendenti dei colonialisti” nonché gli “odiati ebrei” e dopo essere stato per decenni lo sponsor del terrorismo internazionale, adesso si accredita come leader arabo moderato riuscendo a ottenere che l’Italia gli paghi per l’ennesima volta i danni di un colonialismo ormai remoto.

Miracoli della politica estera dell’Eni cui l’attuale ministro in carica Franco Frattini si accoda come uno scolaretto. Miracoli anche del realismo berlusconiano che qualche volta partorisce effetti collaterali veramente pericolosi. Ma miracolo soprattutto dell’opportunismo italiota e di chi, nella burocrazia della Farnesina, altamente “se ne frega”, ad esempio, del contenzioso tuttora in atto con oltre 110 ditte italiane che semplicemente non riescono a farsi pagare il dovuto dalle contro parti libiche e dallo stesso governo della Jamahiryia. Il presidente del Consorzio che li rappresenta, l’Airil dell’eroico Leone Massa, è diventato un personaggio di quei film western tipo “un uomo solo contro tutti”. In quei “tutti” ci sono anche i politici che vanno nel deserto a farsi premiare con la fascia verde da Gheddafi e che se ne ritornano in Italia con gli aerei privati, o con i charter messi a disposizione non si sa bene da chi, carichi di pesce fresco e datteri del Sahara. Che poi in arabo significa semplicemente “deserto”. E in questo deserto della moralità e della politica che il nostro paese rischia di diventare una repubblica delle banane. Anzi del dattero libico. (l'Opinione)

martedì 7 ottobre 2008

Tutti i perché di un lunedì nero. Fabrizio Goria

Quello che le borse mondiali hanno vissuto è stato l’ennesimo lunedì nero dall’inizio della crisi subprime. La picchiata è stata la risposta al piano Paulson, da 850 miliardi di dollari, per il salvataggio del sistema finanziario statunitense, ma non solo. Sono pesanti le ombre che sono calate sull’Europa: Fortis, Hypo Real Estate ed UniCredit fanno tremare gli operatori. Proprio quest’ultima ha contribuito Piazza Affari ad essere una delle maglie nere di ieri, con un secco –8,24% per il Mibtel e l’S&P/MIB.

Con 444 miliardi di euro per le sole borse europee e oltre 1750 per quelle mondiali, la giornata di ieri è stata la peggiore dal 19 ottobre 1987. L’indice newyorkese Dow Jones è sceso sotto l’importante soglia psicologica dei 10mila punti e sarebbe sceso ancora di più, se non fosse scattato un meccanismo di autoprotezione degli stessi traders, che hanno fatto risalire l’indice in chiusura di contrattazioni. Anche il Nikkei ha fatto pensare al peggio, scendendo per pochi istanti sotto i 10mila punti, salvo chiudere appena sopra, dopo una difficile seduta. Il passaggio che ha portato a questo crollo vertiginoso è da ricercare in una serie di fatti, fortemente interdipendenti fra loro, che hanno investito i mercati.

In primis i mercati hanno risentito dell’effetto del piano stilato dal segretario del Tesoro Usa, Henry Paulson, per mettere al riparo i mercati dai “toxic assets” dei subprimes. Inizialmente di 700 miliardi di dollari, poi bocciato alla Camera, passato al Senato ed incorporato di ulteriori 150 miliardi, infine ratificato dalla stessa Camera e varato, il piano prevede la formazione di un enorme fondo per il recupero di tutte le posizioni a rischio di banche ed assicurazioni a stelle e strisce, per evitar nuovi casi Lehman Brothers o AIG. Peccato che queste misure non siano state recepite come utili dal mercato, che le ha bocciate in pieno: troppa l’incertezza che si nasconde dietro ai bilanci di molte società. Infatti il problema principale è proprio la mancanza di fiducia degli addetti ai lavori. Sia Calisto Tanzi, ai tempi di Parmalat, sia Richard Fuld, CEO di Lehman, pochi giorni prima del fallimento avevano sempre garantito personalmente che la situazione economica delle società che guidavano era florida: uno è finito in galera, l’altro è chissà dove con oltre 160 miliardi di liquidazione.

Seconda concausa del crollo di ieri la decisione del governo tedesco di garantire tutti i depositi bancari dei cittadini e di effettuare un maestoso bailout per Hypo Real Estate, il colosso bavarese dei mutui immobiliari. L’iniezione di 35 miliardi di euro da parte di Bundesbank per il salvataggio e l’esposizione dei risparmi teutonici hanno fatto vacillare molte certezze sul treno dell’economia europea. Hypo ha iscritto a bilancio svalutazioni sui derivati per oltre 8,5 miliardi, complice la condizione in cui versa la controllata irlandese Depfa Bank, per il quale il governo di Dublino ha deciso però di non muoversi minimamente. L’azione elemosinatrice di Hypo ha dato i suoi frutti per le casse della stessa, ma ha gettato nel panico gli operatori. Come per gli Usa, anche in Europa si comincia a valutar con sospetto ogni dichiarazione dei banchieri. Una paura che sembrava relegata all’America, con l’Oceano Atlantico a dividere i due mercati, è giunta nel Vecchio Continente, forse prima delle previsioni. La Bce per ora sembra una sfinge ed anche questo non fa che aumentare le tensioni isteriche nei mercati.

Infine, arriviamo all’Italia, che ha vissuto la giornata finanziaria più nera degli ultimi 15 anni almeno. Cosa accade da noi? Da una parte, siamo stati notevolmente protetti dalla crisi per il carattere fortemente territoriale dei nostri istituti di credito, i quali preferiscono investire ed allocare i depositi presso lo stesso territorio in cui si trovano. Questa caratteristica, simile a quella tedesca delle Landesbank (nonostante due fallimenti), ha permesso al nostro sistema bancario di reggere (finora…) l’urto secco della crisi dei mutui. Purtroppo, non tutti sono piccoli, ma a volte sono davvero enormi, come UniCredit. Dopo l’aumento di capitale per 6,6 miliardi (3,6 come monte dividendi, pagato in azioni e 3 miliardi tramite azioni a 3,083 euro) Alessandro Profumo, amministratore delegato del gruppo, ha rilasciato alcune dichiarazioni che hanno il sapore di una liberazione. «So che lo scenario esterno era già negativo prima. Abbiamo sottovalutato le condizioni del mercato e fatto degli errori di valutazione, questo ci è assolutamente chiaro» ha affermato Profumo, valutando l’esposizione della banca alle Asset backed securities (Abs) in 500 milioni di euro, ai quali si debbono aggiungere ulteriori 200 milioni per le obbligazioni bancarie scoperte. Ma Profumo è un fiume in piena, dato che il suo discorso passa poi alle acquisizioni di Hvb e Capitalia, per le quali si «poteva aspettare di più», invece che comprarle ai massimi di mercato, incuranti del mercato che sta mutando.

Molti sono già certi che ci sia un nuovo 1929, che sia la fine di un sistema, che si deve tornare all’economia reale dimenticandosi della finanza e delle sue raffinatezze mefistofeliche. La sensazione è che lo stesso mercato sta piano piano espellendo tutto il marcio che finora aveva assorbito. Solo così potremo vedere in che modo le distorsioni dell’uomo hanno utilizzato un meccanismo sofisticato per lucrar sempre di più. Ma prendersela con lo stesso sistema equivale e non riconoscere i colpevoli ed a non risolvere il problema. In condizioni ottimali, non è la vettura a causare l’incidente automobilistico, bensì il guidatore. (l'Occidentale)

lunedì 6 ottobre 2008

I Maroni di Zapatero

I ministri spagnoli vogliono risolvere l’emergenza Rom con le idee del Cav.

Dei circa 120 mila Rom che, secondo le stime della Croce Rossa erano immigrati in Italia dopo l’adesione della Romania all’Unione europea e al trattato di libera circolazione di Schengen, pare ne siano rimasti nel nostro paese solo la metà. Le cifre saranno note solo a metà ottobre, quando sarà completato il censimento dei campi Rom, ma già ora il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha anticipato all’Espresso la sensazione che “molti se ne sono andati spontaneamente nella permissiva Spagna di Zapatero”. Siccome, ovviamente, la pressione esercitata dai controlli demografici e di polizia ha inciso soprattutto sull’area dell’immigrazione rom dedita a varie forme di criminalità, questo significa che la Spagna rischia di importare un consistente problema di ordine pubblico. Il ministro del Lavoro spagnolo Celestino Corbacho, considera le osservazioni di Maroni “un cattivo contributo all’Europa che si vuole costruire, una Unione forte”. In realtà non è il governo italiano che ha esportato rom, o gitanos come si chiamano in Spagna, nella vicina penisola. Non è nemmeno la “permissività” citata da Maroni, che in realtà è solo di facciata. Lo stesso Corbacho ha chiesto che, in presenza di un tasso di disoccupazione vicino al 12 per cento, la Spagna blocchi anche l’immigrazione regolare, mentre i migranti subsahariani che cercavano di entrare nelle enclaves spagnole in Africa di Ceuta e Melilla erano già stati accolti a fucilate.

La Spagna che ha espulso dieci volte più clandestini irregolari dell’Italia, in realtà non è affatto tollerante. Quello che attira i gitanos è la retorica antiberlusconiana dei membri del governo e della grande stampa spagnola, che hanno instentemente battuto sul tasto del presunto razzismo italiano e della persecuzione dei Rom per ragioni politiche. Ieri, el Pais titolava sull’“ondata xenofoba” che renderebbe “irrespirabile” il clima italiano. La pressione esercitata dal controllo di legalità in Italia unita all’effetto della propaganda su una presunta maggiore umanità del sistema spagnolo verso immigrati e gitanos ha determinato la migrazione della parte criminale dei rom verso la Spagna. Contenti loro. (il Foglio)

sabato 4 ottobre 2008

La fuga dal rischio. Giuseppe Bertola

La crisi in atto ha un’origine chiara, e due volti. L’origine è nell’andamento dei prezzi delle case che negli ultimi anni erano saliti molto, specialmente negli Stati Uniti dove erano spinti dai bassi tassi d’interesse e da mutui generosi, e nel 2007 hanno cominciato a scendere. Questo volto della crisi non è tanto brutto. Qualcuno ha pagato o ha promesso di pagare le case a prezzi che si sono rivelati eccessivi, ma qualcun altro a quei prezzi è riuscito a venderle. Un trasferimento di ricchezza non è un disastro, come un uragano che distrugge una grande città. Le case ci sono ancora: anzi, le nuove costruzioni e ristrutturazioni degli anni scorsi fanno sì che le case siano un po’ troppe e troppo belle. Anche nel 2001 tra le macerie del crollo dei titoli tecnologici c’era chi aveva perso molto e chi aveva guadagnato molto, e c’erano molti gigabyte di banda larga in eccesso in cavi a fibra ottica che sono poi tornati utili negli anni successivi.

Le telefonate transatlantiche adesso possono costare pochissimo anche perché una parte del loro costo è pagata da chi ha comprato azioni tecnologiche nel 2000 ed è rimasto preso nel loro crollo. Il volto brutto della crisi è quello finanziario. I mercati finanziari stabiliscono il prezzo di pezzi di carta in relazione tra loro ed è normale che i prezzi di quei pezzi di carta oscillino, perché è normale che si commettano errori, come quello di chiedere e concedere un mutuo che poi non si riesce a pagare. Anche se può fare impressione che si parli di 700 miliardi di dollari come possibile ammontare complessivo di quegli errori, quella cifra corrisponde a un calo di due o tre punti percentuali del mercato azionario americano, cosa che si è spesso verificata nell’arco di pochi giorni senza sconvolgere nessuno. Ma i mercati finanziari hanno avuto un ruolo nell’origine di questa crisi e la loro incapacità di gestirla la sta amplificando. Il rischio di mancato pagamento dei mutui non è stato valutato correttamente al momento di erogarli, e operazioni di cartolarizzazione hanno trasferito ad ancor più ignari investitori le conseguenze del fatto che, mentre di solito solo una piccola parte dei mutui va in sofferenza, questa volta i prezzi delle case erano tutti troppo alti, proprio perché i mutui erano così facili da ottenere, e sono scesi tutti insieme. L’aver subito perdite ingenti su investimenti che sembravano promettenti fa perdere fiducia nella propria capacità di valutare i rischi, e fa sì che adesso nel mercato finanziario manchi la voglia di rischiare. Per questo chi è disposto a rischiare adesso è ben pagato nel mercato azionario, dove si comprano a prezzi bassi imprese solide, e nel mercato monetario interbancario, dove chi presta soldi può spuntare 2 o 3 punti percentuali oltre il rendimento dei titoli di Stato. Ed è proprio perché si rifugge da ogni rischio che le banche sono in difficoltà. Se cercassero adesso di cedere i loro crediti su un mercato finanziario senza compratori, non ricaverebbero quel che occorre a ripagare le loro obbligazioni, dalle quali quindi rifuggono gli investitori. Questa spirale negativa non solo fa inceppare la finanza, impedendo al risparmio di incanalarsi verso gli investimenti più produttivi e inevitabilmente un po’ più rischiosi, ma incupisce il volto reale della crisi perché l’incertezza riduce spese e investimenti, e redditi e occupazione. Per ovviare a tutto ciò i governi possono far fronte alla mancanza di fiducia e voglia di rischiare se sfruttano bene i vantaggi che hanno rispetto ai privati cittadini. Possono imporre regole che, almeno d’ora in poi, facciano chiarezza sulla rischiosità degli strumenti finanziari. Certo non è facile far rispettare le regole se l’industria finanziaria ha interesse a mantenere opaca la struttura dei suoi bilanci, anche trasferendo oltre confine le parti più oscure dei suoi affari. Ma un secondo importante vantaggio dei governi è che, osservando il problema da una prospettiva di sistema, possono cercare di evitare che i comportamenti dei singoli si avvitino tra loro in modo da portare il sistema a una situazione senza sbocchi, in cui nessuno può vendere perché nessuno vuole comprare. Per fornire un po’ di quella voglia di rischiare che adesso manca, per evitare che il valore delle attività finanziarie rischiose crolli come succede se tutti nel settore privato vogliono disfarsene, i governi possono offrire una rete di sicurezza o un’ancora di salvezza. In America si punta ad assorbire nel settore pubblico una parte delle attività bancarie rischiose, a un prezzo che dovrebbe essere inferiore a quello a cui è ora possibile collocarne piccole quantità sul mercato ma superiore a quello irrisorio che si realizzerebbe se tutti nel settore privato provassero a disfarsene. Con questo sistema, il governo si comporta da acquirente di ultima istanza, ma non diventa azionista delle banche. In Europa, invece, i governi hanno nazionalizzato in tutto o in parte le banche in difficoltà. Lo strumento è diverso, ma lo spirito è simile: nell’uno e nell’altro caso, se il prezzo di acquisto di mutui o azioni è quello giusto, l’intervento statale può scongiurare la spirale negativa e far sì che la collettività non solo riacquisti un sistema finanziario funzionante ma riesca anche (incassando quel che sarà ripagato dei mutui, o rivendendo al mercato le quote azionarie) a guadagnare qualcosa dal punto di vista finanziario. È bene che i governi seguano queste strade, perché il mercato non sembra in grado di tirarsi fuori da solo dalle secche in cui si è incagliato. Ma bisogna aver ben presenti gli ostacoli che su quella strada si possono frapporre al pieno successo di governi che non sono né onnipotenti, né onniscienti. Se alla fin fine i mutui rilevati dal settore pubblico si rivelassero di ben poco valore, l’intervento può trasformarsi in un regalo a chi ha sbagliato. E può rivelarsi una pessima idea nazionalizzare le banche se chi le gestisce privilegiasse poi gli interessi dei loro impiegati e debitori, e non quelli dello Stato azionista e della società nel suo complesso. In questo momento difficile, l’ostacolo più importante a un efficace intervento pubblico è la mancanza di coesione. Negli Stati Uniti manca la coesione tra politici sotto elezione. E i governi europei, anche loro alle prese con questioni di minor respiro, si ritrovano a gestire un problema di dimensioni più che continentali con risorse e strumenti nazionali. Se al potere politico manca la comunità di intenti, rischia di mancare proprio quella chiarezza di visione di insieme che consentirebbe agli interventi pubblici di risolvere la crisi dei mercati. (la Stampa)