martedì 26 marzo 2013

Classe (non) dirigente. Davide Giacalone

Il capo della Marina vola a Brindisi e parla ai corpi scelti di quell’arma. Le forze armate non trattengono più lo sdegno, per il modo in cui è gestita la vicenda dei due marò. Eppure il ministro della difesa, quindi componente decisivo del governo che criticano, è un loro collega. Non solo è militare, ma già capo di stato maggiore. Sono gli uomini in divisa a essere in contraddizione? No, credo sia un problema più complicato: il crollo qualitativo della classe dirigente e la perdita di cervello politico.

Nel corso della scorsa settimana abbiamo descritto gli strafalcioni tecnici di diversi tecnici. Non sto a ripeterli, ma uomini come i ministri Vittorio Grilli, Giulio Terzi o Giampaolo Di Paola sono espressioni di vertici tecnocratici. Il meglio, dal punto di vista dei gradi e della carriera, nelle rispettive famiglie professionali. Eppure sono largamente al di sotto del minimo necessario. Ciò è dovuto a due ragioni. La prima: sono in quei posti in omaggio ad una lunga e suicida campagna contro la politica. Condotta senza ritegno e coerenza, un po’ come farne una contro i cuochi e le cucine: passi quella contro il cibo cattivo e l’incapacità ai fornelli, ma se ci metti gli idraulici puoi essere fortunato in un paio di casi, per il resto si mangeranno schifezze. La lunga stagione dell’anticastalismo ha prodotto veleni capaci di portare i più inetti nei posti più delicati. La differenza fra un politico e un tecnico sta nella visione generale, nella considerazione complessiva di interessi e limiti, di idee e forze: ovvio che anche un tecnico può avere visione, benissimo, ma allora si mette a far politica (ove ne senta la vocazione). Mentre il tecnico senza visione è solo un inutile ricettario in mano a gente inabile all’uovo sodo.

La seconda ragione è che la selezione s’è inceppata da tutte le parti. La politica ha partorito ominicchi, divenuti mostri a causa della dissoluzione dei partiti (quelli veri). In cima alla carriera diplomatica è arrivata gente che può al massimo organizzare delle cene, e a patto che non cucini. Ai vertici delle istituzioni economiche è arrivato un personale anglofono e masterizzato, ma privo di idee, irresponsabile e immerso in giganteschi conflitti d’interesse (quel che vogliono è tornare a professione e soldi). Si sono chiamati i “professori” al governo, facendo finta di non sapere che sono i protagonisti della peggiore università d’Occidente (e anche d’Oriente). Si adorano le sentenze come fossero fonte di verità, ma si tralascia d’osservare che in quelle si sfregia il diritto e si violenta la lingua italiana. Insomma, ci siamo messi a credere che l’abito faccia il monaco, sicché vanno avanti manichini sartoriali.

Non è un fenomeno solo italiano. Guardate in che mani è l’Unione europea! Jean-Paul Fitoussi, economista dalla cultura poliedrica (la cultura lo è sempre, se è vera) ed egli stesso incarnazione di ottima classe dirigente, l’ha definita “Europa stupida”. La governano gli stupidi, essendo tali quelli che credono di perseguire il proprio interesse immediato, ma non sanno vedere gli effetti successivi delle loro scelte. Ciò discende dall’adagiarsi nel benessere e dall’illudersi che la storia consenta tregue e oasi ove non entri il sangue del conflitto. Da lì deriva l’idea che la buona politica sia sinonimo di buona amministrazione, come anche la superstizione che il giudizio dei tribunali possa sovrastare quello elettorale. Sono equilibri complessi, non sviscerabili in poche battute, ma quando si pende troppo da un lato è certo che si finisce o nelle mani degli incapaci o in quelle dei criminali. Due opzioni non invidiabili, che a loro volta alimentano il settarismo diffuso e il moralismo rabbioso.

Di qualità ne abbiamo tanta, in Italia. Nelle stesse forze armate c’è una larga fascia di altissima specializzazione. Il fatto è che non tocca a loro comandare, nel senso di stabilire priorità e interessi, ma eseguire. La guida non può che essere politica. Mi rendo conto che il lungo e inconcludente rito governativo la fa apparire come un detrito, quindi la dico schietta: paghiamo il conto di avere cancellato la politica, venti anni fa. Riprenderla non è facile, ma non si può farne a meno.
Pubblicato da Libero

sabato 23 marzo 2013

ArchivioAndrea's Version

23 marzo 2013

Con l’aria che tira, con le perplessità del Quirinale, con una parte dei suoi che tentenna da mo’, gli occhi dell’Europa addosso, la necessità di non esagerare, l’urgenza di dare un governo al paese, e senza sottovalutare il buon senso di cui l’uomo ha dato sempre segno di disporre, ma considerando in più l’esperienza, la specchiata onestà personale, la formazione ricevuta, per la quale chiudersi ogni via d’uscita sarebbe il peggiore degli errori, e valutato infine che la pur ammirevole forza della volontà poco può, al cospetto delle disumane regolette della matematica, scommetterei che entro il prossimo giovedì santo, a occhio e croce, Bersani potrebbe smettere di lavare i piedi a Grillo.

venerdì 15 marzo 2013

Omertà di casta anche fra i giornalisti? Federico Punzi

  
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I cosiddetti retroscena - un genere letterario, più che giornalistico, tipico della stampa italiana in cui si mischiano maliziosamente fatti e opinioni - ricevono smentite più o meno credibili quasi tutti i giorni. E' capitato spesso anche che il Quirinale smentisse la Repubblica, ma il caso di oggi è particolarmente esemplare e merita una riflessione. Giorgio Napolitano, infatti, ha perso la pazienza e firmato personalmente una brutale smentita dell'ennesimo editoriale/retroscena di Massimo Giannini, il vicedirettore del Repubblica, quindi non proprio l'ultimo arrivato, non l'inesperto stagista. Nella lettera il giornalista viene accusato di aver dato «una versione arbitraria e falsa dell'incontro» tra il presidente della Repubblica e il segretario e i capigruppo uscenti del Pdl tenutosi martedì al Quirinale. E' «falso - tuona Napolitano - che mi siano stati chiesti "provvedimenti punitivi contro la magistratura": nessuna richiesta di impropri interventi nei confronti del potere giudiziario mi è stata rivolta». «Né la delegazione del Pdl - aggiunge - mi ha "annunciato" o prospettato alcun "Aventino della destra"». Con l'aggravante che un comunicato ufficiale del giorno stesso aveva già chiarito tutti questi aspetti. «Comunicato che Giannini - rincara Napolitano - ha ritenuto di poter di fatto scorrettamente smentire sulla base di non si sa quale ascolto o resoconto surrettizio».

Il capo dello Stato imputa a Giannini, in una suprema sintesi dell'essenza dell'antiberlusconismo, una «tendenziosità tale da fare il giuoco di quanti egli intende colpire». E poi la chiusura della lettera, dalla quale ricaviamo l'impressione che per Napolitano i «sediziosi» di cui ha parlato il vicedirettore di Repubblica non militano solo nel campo berlusconiano ma anche in altri campi: nella magistratura, per esempio, nella stampa e nei partiti di sinistra. «Mi auguro che da parte di Giannini, anziché deplorare aggressivamente il Capo dello Stato per non avere manifestato lo "sdegno" e la "forza" che il bravo giornalista avrebbe potuto suggerirgli, ci siano in ogni occasione rigore e zelo nei confronti di tutti i sediziosi, dovunque collocati e comunque manifestatisi». Che Napolitano abbia voluto dare dei «sediziosi» anche ai "bravi" giornalisti di Repubblica è una lettura troppo maliziosa?

Nella sua controreplica Giannini ricorre al più classico rigirare la frittata: «Non dubitiamo», esordisce, che sia andata come dice il presidente, ma anziché dare spiegazioni nel merito della versione «arbitraria e falsa» da lui maliziosamente suggerita nel pezzo incriminato, risponde come se si fosse trattato di una sua semplice analisi politica sulla base di concetti «già espressi pubblicamente» dal Pdl, e che hanno fatto da «sfondo all'incontro», e di sue «impressioni» sul «comunicato dell'altroieri» del Quirinale. In realtà, come chiunque può verificare, nel suo editoriale/retroscena Giannini ha tratto il suo severo giudizio politico fondandolo su precise richieste e assicurazioni formulate tra il presidente e i vertici del Pdl durante l'incontro, da lui riportate come se ne fosse venuto a conoscenza: richieste e assicurazioni che Napolitano ha smentito di aver ricevuto e dato.

Il vicedirettore di Repubblica, colto in fallo, non può cavarsela come se le sue fossero solo deduzioni sulla base di un comunicato, mentre ha surrettiziamente lasciato intendere ai lettori una vera e propria versione dei fatti. Ora, delle due l'una: o Giannini cita una fonte, anche anonima, per confermare la sua versione, oppure bisogna concludere che si è inventato ciò che il Pdl avrebbe chiesto al presidente e ciò che questi avrebbe assicurato.

Cosa dicono i colleghi giornalisti? Se il vicedirettore di Repubblica non dà spiegazioni e resta al suo posto dopo una tale smentita da parte della più alta carica istituzionale del paese e nessuno dice niente, come si può, da quegli stessi pulpiti, fare la morale ai politici? E' così assurdo pensare che Giannini debba dimettersi? O forse inventarsi i pezzi fa parte del mestiere, tanto così fan tutti? Perché nessuno s'indigna e chiede le dimissioni di Giannini, sbugiardato niente meno che da Napolitano? Omertà tra colleghi di casta o semplice assuefazione alle peggiori pratiche della professione?
JimMomo

martedì 12 marzo 2013

Tornino a bordo. Davide Giacalone

Tornino a bordo, accidenti. Lo scoglio contro cui s’è schiantata la nave Italia non è mica il voto ingrillato, quella è solo acqua che entra dal buco. Lo scoglio è l’asfissia fiscale e creditizia cui è sottoposto il mondo produttivo, accompagnata dalla paura imposta a quanti vivono di trasferimenti e spesa pubblica. L’inondazione ortottera è solo un effetto, inutile perderci tempo. E’ alimentata da fluidi incompatibili, dalla confluenza di chi vuole meno tasse e di chi spera in più trasferimenti. Allocco chi ci credere, ma irresponsabile chi non capisce che la via d’uscita è nella rimessa in moto del sistema produttivo. Le premesse ci sono, serve lucidità e coraggio.

In declassamento di Fitch non comporta conseguenze immediate. E’ bene ricordare che quella era l’ultima agenzia che ci concedeva di restare nel mondo della A, visto che le altre due ci avevano già collocato a livello B (e che ora ci faranno ancora scendere). Fitch, quindi, non porta novità, semmai si osservi l’imminente risorpasso della Spagna, come nell’agosto del 2011. Tempo e sacrifici buttati via. Il dramma sta nella non reattività del sistema politico, cui s’accompagna la svagatezza mentale di tutta quanta una classe dirigente. Opinionisti compresi. Il ministro dell’economia, Vittorio Grilli, ha detto che l’Italia saprà reagire. Sì? e come? Il modo c’è, ma è quasi l’opposto di quel che Grilli e il governo hanno fatto.

Il mondo non è in recessione. I mercati internazionali crescono. Un Paese esportatore, come l’Italia, dovrebbe essere pronto a cogliere il vento e alzare le vele. Invece siamo qui che buchiamo le poche ancora attaccate a una cima. Il nostro sistema produttivo è fatto da pochi campioni di grandi dimensioni e da una miriade di api operose, di piccole dimensioni, ma di grande qualità. Vediamo quel che succede e cosa si dovrebbe fare.

Sul fronte delle grandi cito due nomi: Finmeccanica ed Eni. L’eccellenza tecnologica e la sicurezza energetica. Il governo le ha abbandonate. La politica estera le ha danneggiate. La magistratura le ha inquisite. Ci stiamo tagliando gli attributi senza neanche far dispetto alla moglie, che da tempo se ne è andata, ma solo una cortesia a quanti, concorrenti esteri, godranno di quel che noi non faremo. Si deve decidere: queste aziende, controllate dallo Stato, sono interesse strategico nazionale o no? Se lo sono, come credo, vanno difese. E se per difenderle occorre (parlo di Finmeccanica) dare vertici competenti e credibili, che lo si faccia (e, per farlo, non puoi avere ministri che piazzano amici, a loro volta amici delle loro prime mogli). Altrimenti si vendano, prima che deperiscano e perdano valore. Sarebbe un grave errore, ma sempre meglio che sopprimerle noi, nella miseria di un mondo che non capisce e ama distruggere.

Sul fronte delle piccole si sta procedendo falcidiandole in due modi: mancando il credito è escluso che possano agganciare la ripresa, mancando supporti professionalmente adeguati è escluso che occupino lo spazio necessario, sui mercati internazionali. Dal lato del credito c’è poco da sperare, perché le banche italiane non hanno patrimonio adeguato e un deterioramento dei crediti superiore a quello delle banche spagnole. Per uscirne si dovrebbe scardinare le fondazioni e aprire le proprietà. Per chi non abbia capito come funziona suggerisco un corso accelerato, a Siena. Allora si deve aprire al capitale di rischio. Il mondo è pieno d’investitori che guardano con interesse all’Italia, ma avrebbero bisogno di tre cose: a. un trattamento fiscale di favore; b. un testo unico delle regole cui attenersi (perché il costo principale non può essere un esercito di azzeccagarbugli); c. un foro di riferimento internazionale, perché nessuna persona sensata si fida, neanche lontanamente, della rottamabile giustizia italiana (civile, penale e amministrativa).

In quanto alle strutture di supporto, indispensabili se si è piccoli in un mercato globale, il governo ha distrutto l’Ice (Istituto commercio estero), che non era una pepita, ma ora implode, e ha distrutto anche pratiche virtuose e risparmiose, come “Italia degli Innovatori” (l’Agenzia che mise a punto quel prodotto, e che per due anni ho presieduto, ha consegnato conti in avanzo, con milioni non spesi, e non per incapacità di fare, ma per oculatezza nel risparmiare, il tutto portando a casa risultati e contratti). Non è il caso di far rinascere carrozzoni, ma questo vuoto dovrebbe suggerire a soggetti privati, come le banche o le organizzazioni imprenditoriali, di coprirlo. I piccoli sono i migliori ambasciatori di quel che il mondo vede nell’Italia: innovazione e qualità. Sto parlando di fare affari e soldi, mica beneficienza.

La ripresa non è nei numeri del 2013. Non prendiamoci in giro. Ma è ora che si mettono le premesse per coglierne gli effetti benefici. Tornino a bordo. Conta il futuro, non la lurida guerra degli ultimi venti anni.
Pubblicato da Libero

martedì 5 marzo 2013

I numeri e la paura. Davide Giacalone

L’Italia politica ha le gambe che tremano e la febbre che porta al delirio. Più d’uno straparla, magari provando a rincorrere i consensi persi, ma fuori tempo massimo. Mettiamo in fila qualche numero e vediamo se si riesce a ragionare: dopo le elezioni la Borsa di Milano è stata la peggiore d’Europa e ha bruciato 17 miliardi; lo spread è cresciuto, facendo aumentare il costo del debito pubblico, ma anche riflettendosi sul credito ai privati, tenuto conto che, nel corso del 2012 le imprese italiane hanno pagato 14 miliardi in più delle tedesche, per avere soldi dalle banche; che sono comunque pochi, visto che Unimpresa calcola in 38 miliardi il minor credito dell’anno scorso; e nel mentre la Cgia di Mestre rileva che la metà delle imprese ha cominciato a rateizzare il pagamento di salari e stipendi, l’Istat fissa all’11,7% i disoccupati, con una concentrazione del 38,7 fra i giovani (senza contare quelli in cassa integrazione, che sono disoccupati, ma non compaiono come tali). Ora prendete questi numeri e considerate che nelle parole della politica trovate al primo posto il taglio del finanziamento pubblico dei partiti, che ammonta a 159 milioni. Sono dei deficienti. Il terrore li ha ingrilliti. Io sono per il finanziamento privato e la cancellazione di quello pubblico, ma prima di tutto sono per la serietà e la razionalità: stanno parlando del nulla, mentre l’Italia prende una piega inquietante.

Su tutta questa storia della “casta” s’è giocato e profittato fin troppo. Credo d’essermene tenuto lontano, ma per quel che ho ceduto chiedo perdono. Il problema del mondo politico italiano non sono i privilegi, ma l’incapacità, l’inconcludenza. Certo che certi privilegi, oltre tutto stupidissimi, fanno imbestialire, certo che vitalizzi così pingui gridano vendetta, nel mentre i più giovani sono avviati verso un avvenire senza pensione e i più anziani impediti ad andarci, ma smontare quelle vergogne serve a rendere più credibile e accettabile la vita pubblica, non a risolvere neanche uno dei problemi più impellenti. I pochi numeri che ho messo in fila, cui tanti altri se ne potrebbero aggiungere, dimostrano che l’urgenza è tutta economica e per niente moralistica.

La nuova ondata d’incapaci al potere vuole fare un referendum (on line?!) sull’euro. Ma a parte la strampalatezza di una simile ipotesi si deve considerare che ove una tale forza politica fosse determinante per la nascita di un governo l’Italia sarebbe già fuori dall’euro. E, con la nostra uscita, finirebbe anche l’euro. Tale esito è implicito nel fatto che nessuno potrebbe credere alla nostra capacità di tenere saldo il rispetto del fiscal compact (che criticai), né, del resto, potremmo negoziare alcun cambiamento dei trattati, visto che il Paese più interessato a maggiore integrazione si ritrova con al governo un partito che ne vuole di meno. No, è una strada impercorribile.

Quindi resta solo il bivio: governo retto da Pd e Pdl o nuove elezioni. Farle subito non sarebbe una rivincita, né per il Pd né per il Pdl, ma una riperdita. Ammesso e non concesso che sappiano prendere qualche voto in più, comunque si ritroverebbero, come accadde in Grecia, a dovere fare una coalizione fra loro. Mentre è più probabile che i voti in più li prenda chi punta allo sfascio e usa il moralismo plebeo per attribuire agli avversari le responsabilità e i costi della crisi. Il che, purtroppo, è in parte anche vero. Il Pdl ha manifestato la disponibilità. Tocca al Pd, con la direzione convocata domani, mandare a riposo chi ha perso la testa.

Ripercorrete i numeri che ho citato e preparatevi, in caso di riconvocazione delle urne, a vederli tutti peggiorare. Magari potrà capitare che presi dalla paura taglino i 159 milioni. Ma non sarà un atto preveggente, semplicemente una scelta che segue al suicidio politico.
Pubblicato da Libero