giovedì 31 dicembre 2009

Grazie, buon anno, con una promessa. Oscar Giannino

Tra qualche ora termina l’anno che ha segnato la peggior crisi nel secondo dopoguerra. Un grande grazie a voi tutti che contribuite su base volontaria – come noi tutti qui – a questo blog. Ottocentoquaranta articoli in 8 mesi mostrano che su molti settori abbiamo capacità di analisi mediamente superiori a quelli della stampa non solo generalista, ma specializzata. Possiamo fare molto meglio e lo faremo, nell’anno nuovo. Vi prometto una cosa sola. C’è una certa differenza tra chi può andare a tappeto e chi tappeto si fa. Noi siamo della prima specie, a me è capitato tante volte e l’essenziale è ritirarsi in piedi a riprendere ad allenarsi per il prossimo incontro. Ma la media dell’informazione economica italiana è del secondo tipo, assai più pericoloso per l’effetto distorsivo che crea. Per chi avesse bisogno di conferme, ecco il numero odierno del primo quotidiano economico italiano: apertura su Tremonti uomo dell’anno, doppia fotona del premiato a pagina uno e tre, e su quest’ultima premiati alcuni poco noti e potenti protagonisti dell’economia italiana, Marcegaglia, Marchionne, De Benedetti, Scaroni etc. Titolo del fondo di apertura - ripeto: a chiusura dell’anno che vede la produzione industriale italiana arretrata di ben 100 trimestri – : “i migliori anni della nostra vita”. Prosit. Tra chi soffre e chi s’offre, in fondo, la differenza sta solo in un apice. Decisivo però: è questo il mio buon anno, grato a tutti voi.
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Globalizzazione incontrollata: come i mass media stranieri stanno soffocando la vera cultura. Ramzy Baroud*

In un paese asiatico a maggioranza musulmana, una famiglia sta seduta di fronte a me in un caffè. Una donna anziana siede china, e con fare timido cerca disperatamente di evitare il contatto visivo con il gigantesco schermo al plasma da cui il popolare canale musicale MTV emette musica a tutto volume. La presentatrice, avvolta in abiti succinti, presenta la ‘canzone’ della settimana. Beyonce, anche lei poco vestita, fastidiosamente ribadisce di essere “una donna single”. Il figlio della signora anziana è ipnotizzato da ciò che vede. Non bada a sua madre, alla giovane moglie e nemmeno a suo figlio, che sta mettendo sottosopra il caffè. Sulla maglietta dell’uomo si legge: “cosa ca… stai guardando?”.

Rispettando il messaggio della sua maglietta, cerco di trattenermi, ma è sempre più difficile. La moglie, ad eccezione del viso, è completamente coperta. Le contraddizioni sono enormi, addirittura travolgenti.

L’abbigliamento della famiglia, l’atteggiamento delle donne, e anche l’uomo dalla maglietta col messaggio provocatorio, sono tutti segni della schizofrenia culturale che permea molte società del cosiddetto Terzo Mondo. Si tratta di un effetto collaterale della globalizzazione di cui pochi vogliono parlare.

Si parla quasi sempre di commercio, di investimenti stranieri, del flusso di capitali, e così via. Ma la cultura, l’identità, le tradizioni e i vari stili di vita, non sono forse anch’essi degni di interesse?

Certo, la globalizzazione ha varie manifestazioni. Se letta dal punto di vista prettamente economico, il dibattito verte sui temi delle barriere doganali, del protezionismo e dei dazi. I paesi più potenti chiedono ai paesi più piccoli di abbattere tutte le barriere doganali, pur mantenendo un livello di protezionismo sulle proprie. I paesi più piccoli, sapendo di non poter far molto per sottrarsi alla natura egemonica della globalizzazione, formano le proprie associazioni economiche, sperando di ottenere accordi più equi. E il “tiro alla fune” economico continua, tra diplomazia e minacce, dialogo e pressioni. Questo è il lato della globalizzazione di cui la maggior parte di noi è a conoscenza.

Ma c’è un altro aspetto della globalizzazione, che è ugualmente dannoso per alcuni paesi, e vantaggioso per altri: la globalizzazione culturale – non necessariamente il dominio di una specifica cultura, in questo caso la cultura occidentale, su tutto il resto – ma lo svantaggio incolmabile dei Paesi più poveri, che non hanno i mezzi per resistere a quella ‘cultura’ abbagliante, ben confezionata, e di marca, che si propone quotidianamente come alternativa ai loro modi di vita tradizionali.

Quello che si può guardare, leggere ed ascoltare nella maggior parte dei paesi al di fuori dell’emisfero occidentale, ovviamente non è proprio la cultura occidentale nel vero senso del termine. E’ il marchio selettivo di una cultura, una “presentazione riduzionista” di arte, intrattenimento, notizie, e così via, che finisce per diventare una piattaforma per promuovere delle idee che alla fine venderanno prodotti. Secondo questa cultura occidentale in miniatura, l’unica cosa che conta sono i valori materiali tangibili, che possono essere ottenuti dal semplice atto finale di estrarre la propria carta di credito dal portafoglio. Per vendere un prodotto, tuttavia, i mass media vendono anche le idee, che spesso riflettono una cultura unica, e creano un fascino ingiustificato attorno a dei modi di vita che difficilmente rappresentano l’evoluzione naturale di molte culture e comunità in estinzione in tutto il mondo.

Ricordo una scena a cui ho assistito di recente in un Internet café di un paese del Golfo, dove alcuni adolescenti turchi erano impegnati in un violento videogame, accompagnando il gioco con grida da stadio. Cercavo disperatamente di farmi gli affari miei, ma le loro grida di vittoria e di sconfitta erano assordanti. “Uccidi il terrorista”, urlò uno di loro in inglese, con un forte accento turco. Il suono “R-S” in “terrorista” suonava così innaturale nella sua bocca. Per un attimo, era diventato un “americano” che uccideva dei “terroristi”, il quale, stranamente, sembrava più turco che americano. Mentre stavo per uscire, ho guardato lo schermo. Tra le macerie, c’era una moschea, o ciò che ne restava. Gli amici del giovane musulmano turco si congratulavano con lui per l’abile lavoro svolto.

Naturalmente, non c’è niente di male nello scambio di idee. Le interazioni culturali sono storicamente responsabili di molti grandi progressi nell’arte, nella scienza, nella lingua, e persino nell’alimentazione e molto altro ancora. Tuttavia, prima della globalizzazione, le influenze culturali venivano introdotte a velocità molto più lenta. Ciò permetteva alle società, grandi e piccole, di riflettere, considerare, e di adeguarsi a queste nozioni uniche. Ma la globalizzazione dei mass media è ingiusta. Essa non dà alcuna possibilità di riflettere su un dato aspetto, di determinarne i benefici o i danni, di analizzarne il valore. Le notizie, la musica e persino la pornografia vengono trasmesse direttamente su tutti i tipi di schermi e gadget. Quando Beyonce canta che è una ‘donna single’, tutto il mondo lo deve sapere, all’istante. Questo può sembrare un atto innocuo, ma le contraddizioni culturali alla fine si trasformano in conflitti e scontri, in senso figurato e reale.

Inoltre, non ha molto senso, per esempio, che il pubblico asiatico guardi Fox News e Sky News, mentre entrambi questi canali nei loro mercati di origine sono considerati delle piattaforme multimediali di destra. Ma cosa può fare, ad esempio, la televisione nepalese per controllare i magnati mediatici e gli imperi televisivi di tutto il mondo? I giovani crescono, definendo sé stessi in base agli standard di qualcun altro, come il giovane turco che, adottando temporaneamente il ruolo dell’ “americano”, fa saltare in aria la sua stessa moschea.

La globalizzazione non è un gioco equo, naturalmente. Coloro che godono di economie potenti fanno la parte del leone nel processo decisionale ‘collettivo’. Coloro che hanno più soldi e una visione globale tendono ad avere mass media più influenti, anch’essi con una visione globale. In entrambi gli scenari, i paesi piccoli si smarriscono tra il tentativo disperato di negoziare per ottenere una migliore situazione economica, e quello di mantenere la propria identità culturale, che ha definito il proprio popolo, generazione dopo generazione, nel corso della storia.

La famiglia musulmana alla fine ha lasciato il caffè. Il marito aveva guardato MTV per tutto il tempo che era rimasto seduto nel caffè, la giovane moglie pigiava all’infinito i tasti del suo iPhone, e la donna anziana guardava la TV a tratti, di tanto in tanto, voltando rapidamente lo sguardo dall’altra parte. Ciò che è certo è che solo alcuni anni fa i componenti di questa famiglia avrebbero avuto un’esperienza completamente diversa. Ahimè, tra alcuni anni essi potrebbero anche non sedersi più allo stesso tavolo.

*Ramzy Baroud è un giornalista palestinese di nazionalità americana; è direttore del Palestine Chronicle

Fonte: CounterPunchTraduzione: MedArabNews

domenica 27 dicembre 2009

Sulla crisi una lezione dagli immigrati. Luca Ricolfi

Nessuno sa se la crisi è davvero finita, né quando l’economia mondiale tornerà a correre, né se capiterà ancora di sperimentare lunghi periodi di crescita. Quel che invece si può già tentare è un primo bilancio della crisi in Italia, a oltre due anni dal suo inizio oltreoceano, quando scoppiò la bolla dei mutui immobiliari americani (agosto 2007). Sull’impatto della crisi circola da tempo una diagnosi - accreditata da diverse e autorevoli istituzioni, dalla Chiesa alla Banca d’Italia - secondo cui la crisi avrebbe colpito soprattutto i deboli. Ma è davvero così?

Molti elementi fanno pensare il contrario. Il primo impatto della crisi, si ricorderà, fu di tipo finanziario, con il crollo dei titoli azionari: questo meccanismo colpì innanzitutto i ceti superiori, ben più esposti a questo genere di rischi di quanto lo siano i piccoli e medi risparmiatori. Poi, poco per volta, la crisi si estese all’economia reale, in alcuni casi distruggendo posti di lavoro, in altri casi congelandoli attraverso la messa in cassa integrazione di operai e impiegati. Ma quali furono i gruppi sociali maggiormente colpiti? I cittadini del Mezzogiorno o quelli del Nord? I lavoratori dipendenti o quelli indipendenti? Gli stranieri o gli italiani?

Qui i dati riservano diverse sorprese. Secondo la serie storica dell’Isae le famiglie in difficoltà, quelle che «non arrivano a fine mese», sono da sempre più numerose al Sud che nel Nord, ma durante la crisi sono aumentate più al Nord che al Sud, con conseguente riduzione del divario. La crisi sembra dunque aver ridotto le diseguaglianze territoriali, probabilmente anche grazie alla social card, il cui meccanismo di accesso non tiene conto del costo della vita, molto minore nelle regioni meridionali: e infatti il Sud, con il 45% dei poveri, ha ottenuto il 70% delle social card.

Ancora più sorprendenti i dati dell’occupazione. In due anni, ossia fra l’estate del 2007 e quella del 2009, l’occupazione totale è diminuita di 407 mila unità, ma le vittime di questo calo non sono stati i gruppi sociali considerati più deboli, bensì quelli più forti.Per operai e impiegati i nuovi posti di lavoro hanno sostanzialmente eguagliato i posti di lavoro perduti (il saldo è negativo per sole 5 mila unità).
Per i lavoratori indipendenti, invece, le chiusure di attività hanno largamente superato le aperture, con un saldo negativo di 402 mila unità. Una parte di queste chiusure è costituita da contratti di lavoro parasubordinato non rinnovati, ma la parte preponderante è dovuta alle difficoltà finanziarie delle partite Iva, strangolate dalle restrizioni creditizie e dai ritardi nei pagamenti, a partire da quelli della Pubblica amministrazione.

Quanto alla nazionalità dei lavoratori coinvolti nella crisi, i dati Istat ci riservano l’ultima sorpresa: gli oltre 400 mila posti di lavoro perduti sono il saldo fra un crollo per gli italiani (quasi 800 mila posti di lavoro in meno) e un sensibile aumento per gli stranieri regolari (quasi 400 mila posti di lavoro in più). Insomma, comunque lo si rigiri, il prisma della crisi mostra invariabilmente la debolezza dei gruppi sociali forti: i ricchi possessori di attività finanziarie, il Nord, le partite Iva, gli italiani se la sono cavata peggio dei piccoli risparmiatori, del Sud, dei lavoratori dipendenti, degli stranieri. A due anni della crisi siamo mediamente più poveri, ma c’è meno disuguaglianza. Un esito che contrasta con la retorica della crisi («la crisi colpisce soprattutto i deboli»), ma non con ciò che si sa del funzionamento dei sistemi sociali di mercato, in cui è del tutto normale che la crescita amplifichi gli squilibri e la crisi li attenui.

Quello che invece non è scontato, e merita forse una riflessione, è la divaricazione fra i destini degli italiani e quelli degli stranieri. Perché la crisi colpisce di più gli italiani?
Le ragioni possono essere tante, ma quella di fondo mi sembra questa: il nostro sistema economico riesce a creare quasi esclusivamente posti di lavoro poco appetibili, che gli italiani rifiutano e gli stranieri accettano. E tuttavia, attenzione, questo non avviene perché gli italiani siano troppo istruiti bensì, semmai, per la ragione opposta. La nostra forza lavoro ha un livello medio di preparazione bassissimo: abbiamo la metà dei laureati rispetto agli altri Paesi sviluppati, e i nostri studenti medi fanno una pessima figura nei confronti internazionali (vedi i risultati dei test Pisa). Se i nuovi posti di lavoro creati fossero davvero di qualità, probabilmente mancherebbero tecnici, ingegneri, bravi insegnanti, e così via. E infatti i nuovi posti sono spesso di livello modesto, e finiscono per essere accettati soltanto dagli stranieri. Non per la ragione che molti immaginano, però, ossia a causa della bassa qualificazione degli stranieri. Il livello di istruzione degli stranieri è analogo a quello degli italiani (10,2 anni di studio contro 10,9). La differenza è che «loro» vivono in un altro tempo, che noi abbiamo dimenticato. Un tempo in cui l’importante era avere un lavoro, non importa quanto adeguato alla nostra immagine di noi stessi, un tempo in cui fare sacrifici era normale, un tempo in cui il benessere non era considerato un diritto.

In questo senso gli stranieri, con i loro 400 mila nuovi posti di lavoro conquistati nel bel mezzo della crisi, ci stanno impartendo una meritata lezione. Una lezione su cui, a conclusione di questo drammatico 2009, varrebbe forse la pena riflettere. (la Stampa)

mercoledì 23 dicembre 2009

I rischi delle scorie nucleari? Tutte bufale. Franco Battaglia

Quando nacque il movimento antinucleare, negli anni Settanta del secolo scorso, gli attivisti strillavano che una eventuale esplosione in un reattore nucleare avrebbe causato 100.000 morti immediati. Quando, alla fine, l'esplosione ci fu (a Chernobyl) i morti furono 3. E furono 3 perché quella di Chernobyl non fu un’esplosione nucleare, né poteva esserlo: per ragioni tecniche che spiegherò un’altra volta, un'esplosione nucleare in un reattore nucleare è impossibile. I disinformatori in servizio permanente effettivo cambiarono mantra: quello delle scorie - stanno ripetendo, come un disco rotto - è un problema irrisolto. Lo hanno ripetuto talmente tante di quelle volte che è diventata una verità data, urbi et orbi, per assodata. Ma è una delle tante leggende metropolitane, perché l’allocazione sicura dei rifiuti radioattivi è invece un problema di ingegneria semplicissimo e facilmente risolvibile. Innanzitutto, senza sapere né leggere né scrivere, basta guardare i fatti. Avete mai visto qualche cittadino francese o giapponese additare il problema da cui la Francia o il Giappone - che pure hanno quasi 60 reattori nucleari ciascuno - dovrebbero essere assillati, nel caso fosse, quello delle cosiddette scorie, come un problema veramente irrisolto? Per capirne meglio la portata, dovete poi sapere che per produrre 1 gigawatt-anno elettronucleare è necessaria 1 t (tonnellata) di uranio fissile. I consumi elettrici italiani si attestano, oggi, a 40 GW, quindi se tutto il fabbisogno elettrico italiano fosse soddisfatto dal nucleare, gli elementi di combustibile (che contengono il 99% della radioattività) conterrebbero 40 t di scorie radioattive, di volume nominale di circa 4 metri cubi. I volumi reali sarebbero molto maggiori, anche perché l'uranio fissile (U-235) è solo il 5% dell'uranio nell'elemento di combustibile, essendo il 95% U-238, che non è fissile. Esso, però, sia chiaro, non è rifiuto prodotto dalla centrale, ma è presente in natura, e dalla natura è stato prelevato per essere poi utilizzato. E non è neanche rifiuto in sé, perché, pur non essendo fissile, l'U-238 è però fertile, cioè è ottimo combustibile per i reattori cosiddetti «veloci», come lo sono alcuni reattori della ventura IV generazione. A ogni modo: sarebbero questi volumi di rifiuti radioattivi - 5 o 5000 mc/anno che siano - un problema? C'è un'altra cosa che dovete sapere: ogni anno l'Italia produce 50 milioni di mc di rifiuti solidi urbani e 5 milioni di mc di rifiuti tossici altamente pericolosi (cioè pericolosi come le scorie radioattive). Come si vede, i volumi di rifiuti radioattivi in più - anche nell'ipotesi che tutto il fabbisogno elettrico italiano fosse soddisfatto dal nucleare - non sposterebbero la realtà attuale più di tanto. Un'altra scemenza che viene detta e a pappagallo ripetuta è che le scorie radioattive sarebbero pericolose per migliaia di anni. Chi la dice non capisce che è, questo, un pregio e non un difetto dei rifiuti radioattivi: la pericolosità dei rifiuti radioattivi diminuisce nel tempo, fino ad esaurirsi del tutto; al contrario di ciò che accade per i (mille volte più voluminosi) rifiuti tossici altamente pericolosi che già produciamo, la cui pericolosità è, invece, per sempre. L'allocazione sicura dei rifiuti radioattivi, lungi dall'essere un problema irrisolto, è invece, dicevo, un problema di ingegneria semplicissimo e facilmente risolvibile. Ma esso diventa un problema risolto a una sola condizione: che si individui il sito per un deposito, anche solo di superficie, di questi rifiuti, e si metta in cantiere la sua rapida realizzazione. Energia elettronucleare o no, il Paese produce rifiuti radioattivi, e allocarli in un appropriato deposito come fa tutto il resto del mondo non è un'opzione, ma un dovere, verso noi stessi e verso le generazioni future.
Il successo di quanto detto dipende solo dal successo con cui si veicola il seguente messaggio: un deposito di rifiuti radioattivi non è, come irresponsabilmente strillano gli ambientalisti, una discarica radioattiva, ma è un centro di radioprotezione a tecnologia avanzata, e gli abitanti vicini a esso - oltre a godere dei benefici per la presenza di tal centro e per gli inevitabili compensi da chi vi alloca i propri rifiuti radioattivi - potranno vantarsi di essere, senza alcun dubbio, i cittadini meglio radioprotetti del Paese. (il Giornale)

lunedì 21 dicembre 2009

La vera storia di un grande carabiniere sotto processo, Mario Mori. Claudio Cerasa

Se Leonardo Sciascia avesse conosciuto il generale Mario Mori prima di scrivere “Il giorno della civetta” il suo capitan Bellodi non sarebbe stato un giovane poliziotto con gli occhi chiari, i capelli scuri, il viso tirato e l’accento emiliano, ma sarebbe stato piuttosto un piccolo brigadiere triestino con i capelli bianchi, i baffi corti, la voce bassa, gli occhi azzurri, un curriculum da sballo, il vaffanculo facile facile e sei numeri che hanno cambiato la sua vita: 2789/90. Quelle del generale Mori e del capitan Bellodi sono due storie che viaggiano su binari paralleli: un uomo sceso dal nord per andare in Sicilia disposto a rompersi la testa per combattere la mafia, e che dopo essere riuscito ad arrestare il più temuto dei capi-cosca improvvisamente si ritrova contro ora i politici, ora gli avvocati, ora i magistrati, ora i giudici, ora le procure e ora naturalmente i giornali. E i giornali ne riparleranno presto del generale, e c’è da scommettere che non ne parleranno bene. Il 16 giugno del 2008 la procura di Palermo ha aperto un’indagine contro Mori per “favoreggiamento aggravato” a Cosa Nostra, e gran parte delle prossime settimane il generale le dedicherà a quel processo. Sarà in aula alla fine di gennaio, quando i giudici dovranno valutare se rinviarlo a giudizio oppure no.

Di che cosa è accusato il capitan Bellodi? La procura di Palermo ha indagato Mori come responsabile della mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, ma il processo per favoreggiamento nasconde una storia molto particolare. A Mori è successa la stessa cosa capitata all’eroe di Sciascia: si è ritrovato di fronte a qualcuno che vuole riscrivere la storia di un periodo cruciale per l’Italia e che vuole offrire a uno dei protagonisti di quei giorni la parte dell’antagonista brutto, sporco, cattivo e, perché no?, pure compromesso. Il processo a Mori è un modo come un altro per tentare di dimostrare che una parte della stagione delle stragi, nel 1992, in particolare quella che coinvolse il giudice Paolo Borsellino, fu causata dallo stesso generale che “voleva a tutti i costi trattare con la mafia”. Ma molti non conoscono un particolare. In quegli anni Mori iniziò a raccogliere i suoi giorni in 29 agende a righe con la copertina rigida: dagli anni 80 a oggi non c’è appuntamento che Mori non abbia segnato su questi fogli, e dalla lettura di quelle pagine, tenute segrete per molto tempo, emergono delle verità molto interessanti.

Roma, due dicembre 2009. Mario Mori siede dietro la scrivania al terzo piano di un ufficio che si affaccia a strapiombo su Piazza Venezia: ha lo sguardo vispo, gli occhi un po’ scavati, i capelli tagliati corti, le mani distese poggiate sulle cosce e un libricino aperto a pagina 37 con una “x” segnata a matita accanto a un aforisma di uno degli scrittori più amati dal generale, Giacomo Leopardi. Il dettato piace molto a Mori: “La schiettezza allora può giovare, quando è usata ad arte, o quando, per la sua rarità, non l’è data fede”.
Il generale accetta di riceverci nel suo piccolo studio privato e inizia a raccontare come è cambiata la sua vita. Sono tante le ragioni per cui la carriera di Mori risulta affascinante ma vi è un aspetto che rende la sua storia molto significativa. Ed è la prima cosa che ti colpisce quando ti ritrovi di fronte a lui: ma come è possibile che un super sbirro, un grande carabiniere che ha acciuffato i capi di Cosa Nostra, che ha messo in galera tipacci come Toto Riina e che ha contribuito a smantellare numerose cupole mafiose sia, e sia stato, processato con le stesse accuse degli stessi criminali che per anni ha perseguito e arrestato? Vuoi vedere che forse c’è qualcosa, qualcosa della sua vita, qualcosa dei suoi anni a Palermo, qualcosa della sua esperienza al Sisde, che sfugge ai grandi accusatori di Mario Mori? Mori si è chiesto più volte le ragioni per cui la magistratura siciliana gli si è accanita contro, il perché di quelle pesantissime inchieste costruite con le parole di pentiti non proprio affidabili, i motivi per cui, dovendo scegliere se credere alle sue parole o a quelle di un pentito, i pm tendano a dare retta al secondo anziché al primo. E quando glielo chiedi il generale Mori che fa? Alza un po’ lo sguardo, gioca con i polsini della camicia, si dà un colpetto all’indietro sulla poltrona, allarga le braccia e poi sussurra: “Non so. Davvero. Proprio non so”.

A Roma il generale c’è tornato da qualche mese: alla fine del 2008 il sindaco Gianni Alemanno gli ha offerto la direzione delle Politiche della sicurezza della Capitale e Mori ha accettato di tornare in quella città dove ha studiato per cinque anni al liceo classico (era al Virgilio nella sezione C negli stessi anni in cui Adriano Sofri era nella sezione D), dove ha seguito le lezioni dell’accademia delle Armi, dove ha lavorato con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e da dove ha iniziato a costruire la sua carriera, diventando nel corso degli anni prima comandante del gruppo carabinieri di Palermo (dal 1986 al 1990), poi comandante dei Ros (dal ’96 al 2000) e infine numero uno del Sisde (fino al 2006). Sono proprio questi – gli anni del Sisde, gli anni dei servizi segreti, gli anni in cui condusse le indagini sulla morte di Massimo D’Antona, sull’omicidio di Marco Biagi, sulle conseguenze italiane dell’undici settembre – i tempi in cui Mori rimase affascinato da alcune sottili ma importanti differenze tra il combattere la mafia e combattere il terrorismo. Mori era sorpreso dalla capacità di fare gruppo dei brigatisti, e da quel loro cerchio chiuso, quasi impenetrabile. Nei brigatisti – racconta Mori – vi era un livello culturale superiore alla media della criminalità e il loro era un legame ideologico non un legame familistico, di cosca o di sangue.

Era proprio per questo che Mori riteneva fosse più semplice combattere il terrorismo piuttosto che Cosa nostra. “La mafia è come un tumore che si autoriproduce: è un mondo che resiste da molto tempo non tanto per la sua forza ma perché è una forma di costume che è legata a certe forme di cultura. I poliziotti e i magistrati potevano e possono arrestare tutti i mafiosi del mondo ma l’unico modo per distruggere alle radici la mafia – come già scritto anche da Marcelle Padovani in Cose di Cosa Nostra – è il tempo, la trasformazione dei costumi, la rivoluzione della cultura”.
“Le Brigate rosse e tutte le forme di terrorismo italiane sono state invece una cosa diversa: una malattia circoscritta difficile sì da individuare ma per cui una cura esisteva: bastava solo trovarla”. Quando nella primavera del 2001 Claudio Scajola, ministro dell’Interno per un anno, chiamò Mario Mori per comunicargli che Silvio Berlusconi lo aveva appena nominato a capo dei servizi segreti, il generale pensava fosse uno scherzo. E lo credeva per due ragioni.

La prima è che il presidente del Consiglio che l’aveva appena scelto Mori non lo aveva mai visto prima, se non una sera alla fine di una cena a Monza. La seconda era invece una ragione caratteriale. Il generale sostiene che le tecniche strategiche di chi lavora nell’arma e di chi lavora nell’intelligence presentano pochi punti di contatto, e offrire dunque a uno sbirro la gestione dell’intelligence nazionale, in teoria, potrebbe nascondere alcune difficoltà non solo metodologiche. “Siete pazzi! – disse senza neanche scherzare troppo Mori a Scajola – io di intelligence non ne so nulla, al massimo, se volete, potrei guidare il Sismi”.
Racconta chi con Mori al Sisde ha lavorato a lungo che “il modo più semplice per spiegare i due diversi approcci alla criminalità che hanno forze dell’ordine e intelligence è che il poliziotto spera di catturare Osama bin Laden mentre l’uomo di intelligence, semplicemente, spera di acquisirlo come fonte. Sono due piani paralleli che non si vanno mai a incontrare. Perché l’immagine del James Bond che si arrampica sulle gru per sconfiggere le forze del male non esiste. Semmai, il rischio maggiore per un uomo di intelligence che passa le giornate a colazione, a pranzo e a cena per coltivare le fonti è quello di prendersi una cirrosi epatica”. Mori ha sempre sostenuto che individuare un grosso criminale, pedinarlo, poterne seguire le tracce e circoscriverne il raggio d’azione nasconde un problema non da poco. Che si fa? Si arresta subito il bandito o lo si segue per un po’ usandolo come esca per intrappolare nella rete della giustizia tutto ciò che lo circonda? Mori non lo confesserà mai, ma tra la prima e la seconda opzione lui sotto sotto ha sempre preferito la seconda.

Chi ha vissuto a lungo a fianco di Mario Mori racconta che quando il generale arrivò al Sisde fu rivoluzionata l’intera impostazione del lavoro. Prima di Mori, i servizi segreti tendevano a lavorare con quella che in gergo è definita “pesca a strascico”: una gigantesca rete che intrappola tutti i pesci, grandi e piccoli, che nuotano nel raggio d’azione dell’intelligence. Quando Mori arrivò al Sisde spiegò che la pesca doveva diventare subacquea. Perché la tecnica a strascico – era questa l’idea del generale – funziona quando un servizio segreto dispone di centinaia di migliaia di uomini, ma quando il numero delle truppe è parecchio inferiore la raccolta di informazioni deve essere più precisa, più mirata. E così, non appena arrivato, Mori scrisse un libriccino di cento pagine di procedura investigativa, lo fece pubblicare e lo inviò ai dirigenti dei servizi. A poco a poco, i risultati iniziarono ad arrivare.

Negli anni passati al Sisde c’è un arresto particolare che il generale ricorda più degli altri. Il 13 luglio 1979 una scarica di pallettoni sparati da un’auto in corsa ferì a morte il comandante del Nucleo carabinieri del tribunale di Roma Antonio Varisco; e quel comandante Mori lo conosceva molto bene. Per anni e anni, i servizi segreti italiani hanno tentato di arrestare il killer, e il 15 gennaio del 2004 il Sisde diede istruzione a venti poliziotti egiziani di fermare due persone all’aeroporto del Cairo: i nomi erano quelli di Rita Algranati e Maurizio Falessi, ricercati, tra le altre cose, per l’omicidio di Varisco. Fu uno dei giorni più gratificanti della carriera del generale. Il perché lo spiega lui stesso: “Non dobbiamo essere sciocchi. Chi dice che la pretesa punitiva dello stato non esiste non capisce nulla. Quel giorno passò un messaggio molto importante. Fu un arresto chiave per disgregare la rete terroristica ma fu un anche un segnale chiaro: ci sono alcuni reati che più degli altri non possono essere impuniti. E uccidere un carabiniere è esattamente uno di quelli”.

Gli anni che però formarono davvero il generale Mori furono altri. Furono quelli che trascorse in Sicilia: prima nel nucleo provinciale dei carabinieri e poi nei Ros. Non appena arrivato a Palermo, il generale comprese subito quanto fosse importante riuscire a creare una sorta di sintonia linguistica tra sbirri e mafiosi. Mori ci riuscì, ma solo dopo aver preso una piccola batosta. La prima lezione per Mori arrivò da un piccolo appartamento sulla costa occidente della Sicilia: ad Altavilla. Dopo aver ricevuto la notizia della morte di un carabiniere, i suoi uomini andarono sul posto, entrarono con i guanti di paraffina dentro una vecchia casa colonica, perquisirono le stanze, fecero perizie, raccolsero più notizie possibili e interrogarono molti testimoni: la maggior parte dei quali diceva di non aver visto nulla. Alla fine della giornata, Mori si ritrovò a parlare con un vecchio abitante del paese che al termine del colloquio – a lui che era un triestino con mamma casalinga emiliana, padre ufficiale dei carabinieri a La Spezia, bisnonni inglesi e, come ama ripetere il generale, una formazione culturale sfacciatamente mitteleuropea – gli disse: “Piemontese, chi minchia voi da noi?”. Quelle parole Mori se le ricorderà a lungo e il significato profondo dell’essersi sentito dare del piemontese lo comprese poco più avanti quando fu nominato comandante del primo comando territoriale di Palermo.

Mori ricorda infatti che in quegli anni capitava spesso che la notte le pareti della caserma non trattenessero le parole degli sbirri che interrogavano i mafiosi, e ascoltando quei dialoghi, dagli accenti così marcatamente differenti, si rese improvvisamente conto che in quel nucleo operativo che lavorava nella Sicilia occidentale, beh, il più meridionale tra i suoi colleghi era un campano. Non parlare il linguaggio della Sicilia, e più in particolare non entrare a fondo nel lessico dei mafiosi, secondo il generale era il modo migliore per non capire come portare avanti un’indagine, e questo Mori se lo mise bene in testa: lavorò molto sulla sua pronuncia, iniziò a studiare il siciliano e alla fine ottenne buoni risultati, riuscendo a poco a poco a entrare sempre di più a contatto anche con la grammatica della mafia.
“In quegli anni – racconta un uomo che ha lavorato a lungo a fianco di Mori nei Ros – il generale diceva che far proprio il linguaggio dei mafiosi significava non solo avere le carte in regola per lavorare con maggiore efficienza ma anche avere la possibilità concreta di salvare con un certo successo il culo.

Le lezioni di Mori erano due. Lui, che aveva imparato a non fidarsi eccessivamente dei collaboratori di giustizia, diceva che per definizione il pentito mafioso va preso con le pinze perché un pentito resta sempre un mafioso, e alla fine – qualsiasi cosa ti dirà e qualsiasi verità racconterà – in un modo o in un altro tenterà sempre di compiere un atto utilitaristico per la sua famiglia. La seconda cosa che ripeteva era che il mafioso ti faceva ammazzare solo quando il, chiamiamolo così, rapporto tra sbirri e criminale diventava un rapporto personale: tra me e te. Per questo, Mori ci diceva che tu puoi umiliare un mafioso magari ammanettandolo davanti a una moglie ma non era il caso di farlo quando veniva acciuffato nel cuore della sua vera intimità: per esempio davanti alla sua amante”.
Il più grande successo ottenuto da Mori arrivò il 15 gennaio 1993 di fronte al numero 54 di via Bernini, a Palermo, quando il generale fece arrestare lui, il capo dei capi: Totò Riina. Paradossalmente, però, accadde che l’arresto del mafioso più ricercato al mondo coincise con la proiezione delle prime ombre attorno alla carriera del generale. Tutto cominciò poco dopo l’arresto. Per quindici giorni, l’abitazione del boss corleonese non fu perquisita e in molti sostennero che la mancata perlustrazione di quelle stanze fosse un modo come un altro per dare la possibilità ai mafiosi di ripulire l’abitazione e cancellare le proprie tracce. Mori – ricordando che le indagini vengono sempre coordinate dalla procura e che qualsiasi imput, prima ancora che dai capi dell’arma, deve arrivare da lì – sostiene che fu la procura a non dare l’ordine di perquisire, ma nonostante ciò nel 1997 la procura di Palermo aprì un’inchiesta sulla vicenda a carico di ignoti, “per sottrazione di documenti e favoreggiamento”.

L’indagine andò fino in fondo: nel 2002 i magistrati chiesero l’archiviazione ma il gip dispose nuove indagini. Due anni dopo stessa storia: i pm chiesero ancora una volta l’archiviazione ma questa volta lo fecero in un modo originale: poche paginette per chiedere di archiviare e cento pagine per picchiare duro sull’indagato. A firmare quella richiesta furono i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Michele Prestipino, che chiesero di chiudere il caso con queste concilianti parole: gli indagati, non perquisendo per diversi giorni il covo, “fornirono ai magistrati indicazioni non veritiere o comunque fuorvianti”. Inoltre, la sospensione dell’attività di osservazione del covo “determinerà un’obiettiva agevolazione di Cosa nostra”. Il nome di Mario Mori entra così nel registro degli indagati il 18 marzo 2004: pochi mesi più tardi – era il 18 febbraio 2005 – Mori e il suo braccio destro Sergio De Caprio (l’ufficiale dei carabinieri che ha lavorato a lungo a fianco del generale e che il 15 gennaio 1993 ammanettò Totò Riina) vengono rinviati a giudizio e un anno dopo il processo si conclude con un’assoluzione. Tutto finito? Macché.

Dopo essere stato assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato per non aver perquisito l’abitazione – e non il covo, che è cosa diversa – in cui è stato arrestato Salvatore Riina, Mori si trova costretto a difendersi da altre accuse. E da una in particolare. Perché il generale non ci gira attorno, e quando ha saputo di essere indagato ancora una volta per favoreggiamento dice che è stato certamente quello il giorno più brutto della sua vita: perché è come se la procura lo avesse sostanzialmente accusato di essere stato la causa scatenante della strage di via D’Amelio.
Nel processo in cui Mori dovrà difendersi in aula il 29 e il 30 gennaio, il principale testimone dell’accusa è il colonnello dei carabinieri Michele Riccio. L’eroe della procura di Palermo, nonché principale testimone del processo contro il generale Mori, è però un personaggio dal passato molto controverso. Controverso perché il grande accusatore di Mori è uno degli uomini che fu denunciato dallo stesso generale. La storia è nota ma può essere utile ricordarla. Il generale Mori contribuì all’arresto di Riccio e fu uno dei primi a denunciare i reati commessi dal colonnello a metà degli anni 90. All’origine dei guai di Riccio vi fu la famosa Operazione Pantera. In quell’occasione – erano gli anni 90 – fu sequestrata una partita di pesce congelato da 33 tonnellate. Nascosto tra il pesce vi erano 288 chili di cocaina proveniente dalla Colombia.

Tre mesi dopo il pesce fu venduto sottobanco dai carabinieri per 54 milioni. L’operazione Pantera costò a Riccio due reati. Non soltanto contrabbando aggravato ma anche detenzione e cessione di stupefacenti: perché nel corso dell’operazione, secondo l’accusa, il colonnello occultò cinque chili di cocaina sottratti alla distruzione del reperto da uno dei suoi uomini (si chiamava Giuseppe Del Vecchio).
Così, dopo essere stato condannato in primo grado a 9 anni e mezzo e poi, in secondo grado, a 4 anni e 10 mesi, nel 2001 Riccio chiese di essere sentito dal pm Nino Di Matteo su “gravi fatti riguardanti la mancata cattura di Provenzano e la morte di Luigi Ilardo”. E’ una storia complicata quella di Riccio: l’ex colonnello sostiene che nel 1995 il suo confidente Ilardo (trovato morto pochi mesi dopo) offrì la possibilità di catturare Bernardo Provenzano; racconta che i suoi uomini avrebbero seguito Ilardo fino al bivio di Mezzojuso – un piccolo comune di 3.711 abitanti a 34 chilometri da Palermo – che si sarebbero appostati in attesa del via libera e che Mori disse di non voler agire. Mentre – dice Riccio – noi “eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire”. Le deposizioni di Riccio sono però contestate. Uno dei testimoni dell’accusa, l’ufficiale dei carabinieri Antonio Damiano che nel ’95 prestava servizio al Ros di Caltanissetta, lo scorso 10 novembre ha raccontato una versione diversa.

Damiano sostiene infatti di essere stato incaricato da Riccio di effettuare “un’osservazione con rilievi fotografici” al bivio di Mezzojuso ma il punto è che in quello che Riccio considera il mancato arresto di Provenzano non solo era già stato concordato preventivamente che l’operazione avrebbe avuto la finalità di studiare il territorio ma il grande accusatore di Mori, nonostante la relazione di servizio di quel giorno riportasse la sua presenza, in realtà – lo ammette Damiano – non era affatto presente: era rimasto in ufficio.A ogni modo, le parole di Riccio hanno offerto alla procura la possibilità di fare due calcoli rapidi rapidi: la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 più la mancata cattura di Provenzano nel 1995 sarebbero “strettamente connesse” alla presunta trattativa tra apparati dello stato e Cosa nostra. E’ proprio questa la tesi di uno degli uomini che alla fine di gennaio verrà ascoltato come teste dell’accusa nell’aula bunker del carcere Ucciardone: Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito. Tesi che in sostanza si potrebbe riassumere così: Borsellino sarebbe stato ucciso dopo che il giudice venne a conoscenza della trattativa portata avanti tra la mafia e lo stato condotta in prima persona da suo padre e dal generale Mori. Borsellino era contrario alla trattativa e per questo, per evitare problemi, la mafia lo fece saltare in aria.

La cronaca di quei mesi offre però una storia un po’ diversa e gran parte della verità di tutta la vicenda sembrerebbe proprio girare attorno a quel codice lì: 2789/90. Il codice fa riferimento a una delle inchieste più delicate che le forze dell’ordine portarono avanti durante gli anni 90 in Sicilia. Tutto nacque nel corso del 1989: in quegli anni Mori era già a capo del gruppo dei carabinieri di Palermo e sotto la direzione di Giovanni Falcone avviò l’inchiesta sul sistema di condizionamento degli appalti pubblici da parte di Cosa nostra. Il primo plico contenente le informative sull’indagine fu consegnato il 20 febbraio del 1991 da Mori al procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone. Ancora oggi Mori ricorda che “Giovanni sollecitò insistentemente il deposito dell’informativa rispetto ai tempi che ci eravamo prefissati per una ragione semplice: perché – diceva Falcone – non tutti vedevano di buon occhio l’indagine, e alcuni sicuramente la temevano”. In quei giorni, il giudice stava però per essere trasferito alla direzione degli affari penali del ministero della giustizia, e da Palermo dunque si stava spostando a Roma. Ma quell’inchiesta – ricorda il generale – lui voleva seguirla lo stesso e per questo Mori continuò a mantenere i contatti con Falcone. E fu proprio il giudice a riferire al generale che l’inchiesta “Mafia e appalti” non interessava più di tanto al nuovo procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco. Era davvero così?

Fatto sta che al termine dell’inchiesta “Mafia e appalti” i Ros di Mori avevano evidenziato 44 posizioni da prendere in esame per un provvedimento restrittivo ma il 7 luglio del 1991 la procura ottenne soltanto cinque provvedimenti di custodia cautelare. Mori si arrabbiò e chiamò subito Falcone. La reazione del giudice è riportata dai diari consegnati alla giornalista di Repubblica Liana Milella, e fu questa: “Sono state scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”.
Non solo. Pochi giorni dopo che Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno consegnarono il rapporto alla procura di Palermo vi fu una fuga di notizie. De Donno ne venne a conoscenza attraverso il suo informatore Angelo Siino (il così detto ex ministro dei Trasporti pubblici di Cosa nostra) che raccontò ai Ros di aver saputo dell’inchiesta da fonti vicine alla procura. “Mai come in quei mesi – racconta Mori – ebbi la sensazione di agire da solo e senza referenti certi a livello giudiziario”. Successivamente, ci furono altre due valutazioni che fecero infuriare il capitano dei Ros. La prima fu quando il Tribunale del riesame consegnò agli avvocati difensori degli indagati e degli arrestati non uno stralcio dell’informativa relativa ai singoli indagati, come da prassi, ma qualcosa di più: ovvero tutte le 890 pagine di testo. “In quel modo – ricorda Mori – furono svelati i dati investigativi fino a quel momento posseduti dall’inquirente e furono chiare le direzioni che le indagini stavano prendendo”.

La seconda fu quando la procura di Palermo – ravvisando la competenza sul caso di più procure – inviò i fascicoli in mezza Sicilia ottenendo il risultato di moltiplicare il numero di occhi che osservavano da vicino quell’inchiesta. Ecco: secondo Mori il filo che lega le stragi di quell’anno – l’anno in cui furono uccisi nel giro di poche settimane prima Falcone e poi Borsellino e poi ancora un comandante della sezione di Perugia che insieme con i Ros aveva iniziato a lavorare su “Mafia e appalti”: Giuliano Guazzelli – sarebbe legato all’attenzione che Mori e Borsellino credevano fosse opportuno dare a quell’inchiesta, a quel codice maledetto. Poco prima di essere ucciso, infine, Borsellino partecipò a un incontro molto importante. Era il 25 giugno 1992 e il magistrato convocò in gran segreto nella caserma di Palermo – dunque negli uffici dei Ros – Mario Mori e il capitano De Donno. Borsellino confessò ai due che riteneva fondamentale riprendere l’inchiesta “Mafia e appalti”. Perché – sosteneva Borsellino – quello “era uno strumento per individuare gli interessi profondi di Cosa nostra e gli ambienti esterni con cui essa si relazionava”. Qualche anno più tardi, nel novembre 1997, nel corso di un’audizione alla Corte d’assise di Caltanissetta, a confermare che Paolo Borsellino credeva che studiando il filone “Mafia e appalti” si poteva giungere “all’individuazione dei moventi della strage di Capaci” fu uno dei pm che oggi indaga su Mori: il dottor Antonio Ingroia.

Le ragioni per cui l’incontro nella caserma dei carabinieri di Palermo fu mantenuto segreto vennero ammesse in quelle ore dallo stesso Borsellino. Ricorda Mori che Borsellino “non voleva che qualche suo collega potesse sapere dell’incontro”. “E nel salutarci – prosegue Mori – il dottor Borsellino ci raccomandò la massima riservatezza sull’incontro e sui suoi contenuti, in particolare nei confronti dei colleghi della procura della Repubblica di Palermo”. Secondo il generale, in quei giorni Borsellino era molto preoccupato per una serie di fatti accaduti. Uno in particolare era legato a una data precisa. Il 13 giugno 1992 uno dei mafiosi arrestati dalla procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta “Mafia e appalti” – il geometra Giuseppe Li Pera – si mise a disposizione degli inquirenti dicendo di essere disposto a svelare “gli illeciti meccanismi di manipolazione dei pubblici appalti”, ma i magistrati di Palermo risposero dicendo di non essere interessati. “Sì, è vero: i fatti di quei tempi – ricorda Mori – mi portarono a ritenere che anche una parte di quella magistratura temesse la prosecuzione dell’indagine che stavamo conducendo”.

Pochi giorni dopo l’attentato in cui rimase ucciso Paolo Borsellino, Mori iniziò a stabilire contatti con l’uomo che all’epoca impersonificava meglio di tutti la sintesi perfetta dei legami collusivi tra mafia, politica e imprenditoria: l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Tra il 5 agosto e il 18 ottobre 1992, Ciancimino e Mori si incontrarono quattro volte (prima di quella data con Ciancimino vi furono dei contatti preliminari del braccio destro di Mori, De Donno) e iniziarono così a costruire un rapporto confidenziale senza renderlo però noto alla procura di Palermo. Mori non comunicò subito i contatti che aveva stabilito con Ciancimino per tre ragioni. Primo perché – e lo dice la legge – i confidenti delle forze dell’ordine non devono essere necessariamente rivelati alla procura. In secondo luogo – e queste sono parole di Mori – fu fatto “per evitare premature e indesiderate attenzioni sulla persona e per tentare di acquisire elementi informativi sicuramente nella disponibilità del Ciancinimo e cercare di giungere a una piena e formale collaborazione”. Infine, è ovvio: se ci fosse stato Borsellino, dice Mori, “glielo avrei detto subito”. Ma quando Mori parlò con Ciancimino, Borsellino era già stato ammazzato.

Nonostante in molti sostengano che Mori avesse mantenuto a lungo segreti quei colloqui, in realtà gli incontri tra Mori e Ciancimino non sono una novità di oggi. Nell’autunno 1993 fu lo stesso Mori a raccontare all’allora presidente della Commissione antimafia Luciano Violante non soltanto dei suoi incontri con Ciancimino ma anche della volontà di quest’ultimo di essere ascoltato dalla commissione. Mori lo disse più volte a Violante e ogni volta che Violante se lo sentiva ripetere gli rispondeva più o meno allo stesso modo. Ponendo una condizione: “L’interessato – disse Violante il 20 ottobre 1992 nel corso di un incontro riservato con Mori – deve presentare un’istanza formale a riguardo”. Il 29 ottobre 1992, quindi, Violante convocò la commissione per spiegare qual era il suo programma di lavoro sulla materia che riguardava le inchieste sulla mafia e la politica. Nel verbale di quella seduta, tra le altre cose, si legge quanto segue: “E’ necessario sentire quei collaboratori che possono essere particolarmente utili”.

Violante fece un lungo elenco di “collaboratori”, e tra questi c’era anche Vito Ciancimino. Ecco però il giallo: giusto tre giorni prima che Violante riunisse la commissione, Ciancimino si decise a scrivere una lettera. Una lettera datata 26 ottobre 1992 indirizzata a Roma, alla sede della commissione antimafia di Palazzo San Macuto. In calce alla lettera – che negli archivi della commissione sarà registrata solo diversi anni dopo con il numero di protocollo 0356 – c’è la firma di Vito Ciancimino. Il quale sostiene di essersi messo a disposizione della commissione già dal 27 luglio 1990, e di aver ormai accettato le condizioni che aveva posto per l’audizione il predecessore di Violante (Gerardo Chiaromonte): audizione sì ma senza quella diretta televisiva che secondo Ciancimino era necessaria per essere “giudicato direttamente e non per interposta persona”. Scrive l’ex sindaco di Palermo: “Sono convinto che questo delitto (quello di Lima, ex sindaco di Palermo ed ex eurodeputato della Democrazia cristiana che il 12 marzo 1992 fu ucciso a colpi di pistola di fronte la sua villa di Mondello) faccia parte di un disegno più vasto. Un disegno che potrebbe spiegare altre cose, molte altre cose. Ancora oggi sono, pertanto, a disposizione di codesta commissione antimafia, se vorrà ascoltarmi”. Nonostante Violante avesse detto che avrebbe ascoltato Ciancimino solo se questi avesse fatto una richiesta formale alla Commissione, la commissione antimafia ricevette la lettera ma decise di non ascoltarlo.

C’è poi un altro aspetto che della storia di Mori non può essere trascurato. Perché la storia di Mori è l’esempio di come una visione burocratica della lotta alla mafia non contempli la possibilità che un super sbirro possa imparare a combattere il nemico studiandolo, osservandolo da vicino, tentando persino di parlare con il suo stesso linguaggio. E con ogni probabilità il grande peccato originale di Mori è stato quello di essere diventato un simbolo della lotta alla mafia senza aver avuto bisogno di indossare l’abito del professionista dell’antimafia. Anzi, quell’antimafia con cui Mori ha lavorato fianco a fianco per anni è stata spesso ferocemente criticata dallo stesso generale. E sulla testa di Mori la scomunica dell’antimafia palermitana arrivò quando il generale testimoniò nel processo Contrada: l’ex agente del Sisde è stato arrestato il 24 dicembre 1992 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Quando Mori fu sentito come teste non si scompose affatto e, dopo aver detto che Contrada era il “miglior poliziotto antimafia che abbia mai avuto a Palermo”, il generale disse quello che la procura di Palermo non voleva sentire. Gli chiesero se Giovanni Falcone avesse mai sospettato di Contrada e lui rispose secco così: no. La procura aveva un’altra idea e indagò persino Mori per falsa testimonianza.

Ma dietro alle accuse di connivenza fatte nei confronti del lavoro siciliano di Mori esiste anche un filone di critica culturale di cui ultimamente si è fatto portavoce lo scrittore Andrea Camilleri. La visione burocratica della lotta alla mafia ti trascina spesso anche verso conclusioni molto avventate e ti porta a credere che stabilire contatti con il nemico, studiare da dentro il suo mondo, arrivando persino a parlare il suo lessico, significhi sostanzialmente diventare suo complice. In una recente intervista, Camilleri sostiene che Leonardo Sciascia era molto affascinato da quella mafia che sembrava invece combattere. La dimostrazione pratica è nascosta dietro alcune parole del protagonista del Giorno della civetta. Sempre lui: il capitano Bellodi. “Sciascia – dice Camilleri – non avrebbe mai dovuto scrivere ‘Il giorno della civetta’: non si può fare di un mafioso un protagonista perché diventa eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del romanzo, invece giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini – ‘omini, sott’omini, ominicchi, piglia ‘n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi finisce coll’essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue.

E il fatto che Sciascia faccia dire dal capitano Bellodi a don Mariano mentre lo va ad arrestare ‘Anche lei è un uomo’ è la dimostrazione che in fondo Sciascia la mafia l’ammira e la stima”.
La mafia sembra invece che non apprezzò le inchieste portate avanti da Borsellino e da Mori. Pochi giorni dopo aver tentato di accelerare le indagini sull’inchiesta “Mafia e appalti”, in una 126 rossa parcheggiata in via d’Amelio, nel cuore ovest di Palermo, esplosero cento chili di tritolo e uccisero il giudice Borsellino e i suoi cinque agenti della scorta. Era il 19 luglio 1992. Solo un giorno dopo, quando ancora la camera ardente di Paolo Borsellino non era stata neppure aperta, la procura di Palermo depositò un fascicolo con una richiesta di archiviazione. Sopra quel fascicolo c’era un codice fatto di sei numeri: 2789/90. Era l’inchiesta “Mafia e appalti”. (il Foglio)

domenica 20 dicembre 2009

"Di Pietro avrà bisogno di nuovi nemici dopo gli attacchi a Berlusconi". Intervista a Filippo Facci di Giorgio Demetrio

Non ci libereremo facilmente di Antonio Di Pietro. Secondo Filippo Facci, nell’Italia orfana di Berlusconi, il leader dell’Italia dei Valori sarà pronto a fabbricare nuovi nemici, per conquistarsi altri voti. Nella corposa biografia “Di Pietro, la storia vera”, uscita quest'anno per Mondadori, Filippo Facci racconta tutto quello che non sappiamo sul principe di Tangentopoli. L'ascesa e le parole d'ordine dell'ex magistrato che decapitò un'intera classe politica. Abbiamo chiesto al giornalista di "Libero" di tracciare un profilo di questo artista della spregiudicatezza.

Facci, Antonio Di Pietro è stato l’unico a non esprimere solidarietà incondizionata a Berlusconi dopo l’aggressione a Milano. Prima di correggere il tiro, aveva detto che il premier se l’è cercata perché abituato a istigare. Ha veramente superato il segno, e rischia conseguenze politiche, o passerà all’incasso anche stavolta?

Incasserà. E lo dimostrano precedenti di reazioni altrettanto dure, come quelle che gli piovvero addosso quando accusò Napolitano – nel gennaio scorso, durante la manifestazione dell’Idv in Piazza Farnese contro la riforma della giustizia – di silenzio mafioso sui temi chiave dell’agenda politica, o quando acquistò una pagina dell’Herald Tribune per demolire l’Italia berlusconiana durante il G8 a L’Aquila. Prescindendo dalla capacità di Di Pietro di prevedere gli effetti delle sue uscite, non gli importa nulla delle conseguenze visto che è sempre, ossessivamente, proteso alla ricerca (e al furto) di voti. Quanto al ridimensionamento – sempre obliquo – delle sparate iniziali, è lui e non Veltroni l’inventore originale del “ma anche”.

Formalmente mobilitata dai blogger, la piazza del “No B-Day” in realtà è stata l’apice del dipietrismo. I manifestanti hanno chiesto la testa del Cavaliere per poter ripristinare la “legalità”. Ma quanto sono pulite le mani di Antonio Di Pietro?

Nel febbraio scorso, su reiterata richiesta di Di Pietro, il Parlamento europeo respinse l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti per una causa civile relativa alla diffamazione di un giudice. L’avrebbe persa sicuramente avendo lo stesso Di Pietro ammesso la fondatezza dell’accusa. Quel giorno peraltro, nel consueto “stile” del personaggio, Tonino pensò bene di distrarre i riflettori dichiarando che Berlusconi avrebbe dovuto rinunciare all’immunità parlamentare – giuro. Si trattava di una querela che aveva presentato contro il Presidente del Consiglio per alcune dichiarazioni in cui Berlusconi metteva in dubbio l’autenticità della sua laurea.

Ci sono altri esempi del genere?

Il secondo, che è una sintesi di più fatti opachi, riguarda i contenuti della sentenza che nel gennaio del ‘97 spiegò le ragioni per le quali Di Pietro smise la toga, e quanto fossero nell’alveo della liceità penale alcuni suoi comportamenti relativi alle famose Mercedes, ai prestiti, agli appartamenti, alle frequentazioni con personaggi dubbi. E’ bene ricordare che Di Pietro non fece neanche appello contro quella sentenza scritta da Francesco Maddalo che, in 100 pagine, riassume un pezzo importante della storia recente d’Italia. Ai seguaci di Tonino non conviene chiedere spiegazioni, perché quel dispositivo, in sintesi, racconta che sarebbe stato degradato se non avesse abbandonato la magistratura, e che nulla – se fosse stato un cittadino normale – gli avrebbe risparmiato la voragine dei processi penali che è solito invocare per gli altri.

Alle contraddizioni del capo corrispondono quelle del partito: le figure “esemplari” a Strasburgo (i De Magistris, i Vattimo...) e i personaggi poco raccomandabili in provincia.

E’ imbarazzante l’elenco di riciclati della politica, spesso inquisiti e al più imbarcati dall’Udeur del da lui odiatissimo Mastella, che Di Pietro schiera sul territorio. L’unica spiegazione è che il numero uno dei moralizzatori si sia preso il lusso di ignorare la storia di questi personaggi badando, più concretamente, ai pacchetti di voti da loro consolidati in decenni di impegno politico. Due episodi, su tutti, fanno emergere palesemente la spregiudicatezza di Di Pietro. Nel 2007 ad Amantea, in Calabria, fece due comizi con un tizio già allora indagato per brogli elettorali e condannato per abuso, riarrestato con l'accusa di aver ricevuto aiuti elettorali dalla ’ndrangheta, e in attesa di giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Evidentemente Di Pietro non va per il sottile. Ma c’è un episodio che credo vinca il primo premio. Nella stagione di influenza massima del grillismo sulla politica, tra il 2007 e il 2008, il capo dell’Idv chiese a Veltroni, all’epoca segretario del Pd, di non ricandidare i parlamentari con due mandati alle spalle. L’ex sindaco di Roma obbedì escludendo dalle liste una serie di personaggi ai quali Di Pietro chiese di... candidarsi con l’Italia dei valori.

Nell’economia della sua storia politica Di Pietro deve tutto solo a Veltroni?

Non solo. La scelleratezza del patto che alle politiche del 2008 Veltroni fece con Di Pietro (a spese dei socialisti) ha prodotto risultati evidenti. Le fortune vere dell’ex magistrato, tuttavia, si devono a quella specie di “maledizione” della sinistra, una parte significativa della quale resta fatalmente legata alla pancia su cui Di Pietro lavora da sempre. La conferma è nell’approccio alle manifestazioni: su chi non partecipa, tra gli alleati, pesa sempre il ricatto morale dell’accusa di fiancheggiamento di Berlusconi. E’ una spada di Damocle che induce il Pd nella sua interezza (a parte poche eccezioni) a scappare dalle piazze dell’Idv che, al contrario, si riempiono di blogger, dell’anima gruppettara della sinistra che crede che Di Pietro sia l’unico a fare opposizione dura, ovvero a fare casino. Il merito della sua consacrazione va ascritto all’incapacità della sinistra di divorziare una volta per tutte dalla sua fetta distruttiva.

Si riesce a immaginare Di Pietro in uno scenario politico orfano del Cavaliere?

Sì, resisterà; ma trovo più difficile che torni a fare il ministro. Non credo che Di Pietro esista solo in funzione di Berlusconi perché, per lui e i suoi seguaci, l’odio nei confronti del Cavaliere è una sorta di antagonismo culturale. Questo, dunque, lo rende un nemico intercambiabile. Il premier rappresenta in definitiva la summa non politica, ma esistenziale, che spiega le difficoltà di chi ha bisogno di trovare a tutti i costi un colpevole per giustificare i colpi bassi che la vita gli ha riservato. Riesco a immaginare Di Pietro senza Berlusconi; non riesco a pensare a Di Pietro senza un qualsiasi nemico, sempre facilmente fabbricabile.

Per Lei non deve essere stato difficile puntare al cuore dell’elettorato di Berlusconi scrivendo delle magagne di Di Pietro. Punta al gradino più alto del podio, con un libro su Travaglio?

Se mi cimentassi lo finirei in cinque, sei giorni al massimo per la mole di materiale che ho a disposizione. Non credo di farlo, però, perché non penso ne valga la pena: non voglio fare lo snob, ma nello stesso tempo non vorrei sprecare tempo ed energie per un libro del genere.

Tirando le somme sul clima nel Paese, e senza troppi giri di parole, la mano di Tartaglia è stata armata da Di Pietro?

E’ stata armata – chiedo scusa per la risposta che potrà sembrare democristiana ma non lo è – da un odio politico che in Italia c’è da diciotto anni. Esiste da quando una serie di personaggi, che oggi parlano di clima intossicato nel Paese, hanno contributo ad alimentare l’odio verso i bersagli dell’epoca. Adesso invoca il ritorno dell’immunità parlamentare una parte di classe politica che nel ’93 era all’Hotel Raphael per protestare contro il no della Camera all’autorizzazione a procedere contro Craxi per corruzione. (l'Occidentale)

sabato 19 dicembre 2009

Perché non vado ad Annozero. Antonio Polito

Ho ricevuto il cortese invito della redazione di Annozero a partecipare alla puntata dedicata ai fatti di Milano. Ho altrettanto gentilmente risposto di no. E la ragione è una sola: la presenza in quel programma di Marco Travaglio. Penso infatti sia giunta l'ora in cui anche chi di noi non ha fatto del moralismo una professione debba cominciare a sollevare qualche pregiudiziale morale. E io ne ho molte nei confronti di Travaglio.

La prima è che si tratta di un sedicente combattente per la libertà di infomazione che sta facendo una campagna di stampa il cui obiettivo dichiarato è la chiusura di un giornale, quello che dirigo (lui pensa che sia possibile, abrogando solo per noi i contributi all'editoria). Trovo la cosa moralmente ributtante.
Del resto Travaglio è lo stesso cattivo maestro che, citando un suo sodale, ha scritto l'altro giorno sul blog di Grillo un elogio dell'odio: «Chi l'ha detto che non posso odiare un uomo politico? Chi l'ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto?». Con uno così non vorrei mai trovarmi nella stessa stanza.

Tutto ciò sempre ammesso che Travaglio sia davvero e ancora un giornalista, visto che si esercita ormai apertamente nella fiction, recitando da attore testi le cui fonti le sa solo lui, ma ciò nonostante la tv pubblica lo paga sempre come giornalista. Evitare ogni contatto è dunque anche questione di deontologia professionale. In più c'è un problema di civiltà; lui non è una persona civile, vive di insulti, come quello che ha rivolto ieri ai giornalisti di Speciale Tg1: «Chiunque ha avuto lo stomaco di vedere quella merda di trasmissione...».

Io non credo, come ha detto ieri Cicchitto a Montecitorio, che Travaglio sia un «terrorista mediatico», perché paura non ne fa a nessuno. Ma un parassita mediatico certamente lo è. E, per dirla con Togliatti, sarebbe bene che nessun destriero offrisse più a questa cimice ospitalità nella sua criniera. (il Riformista)

Sondaggio Euromedia, fiducia in Berlusconi sale al 66,1%. il Velino Sera

Roma, 18 dic (Velino) - Secondo l'ultimo sondaggio politico-elettorale di Euromedia Research, l'istituto di ricerche guidato da Alessandra Ghisleri la fiducia in Silvio Berlusconi, dato di giovedì 17 dicembre e quindi successivo all'aggressione subita in piazza Duomo a Milano, è salita notevolmente ed è pari al 66,1 per cento. Il consenso tra gli elettori di Pdl e Lega nord nel Cavaliere è addirittura al 99,2 per cento (rispettivamente 99,5 e 97,8 per cento). La fiducia degli elettori di Centrodestra in Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, è del 39,1 per cento (44,3 e 17 per cento). Renato Schifani, presidente del Senato, si attesta al 59,3 per cento (63,7 e 40,5 per cento). Infine Gianfranco Fini, presidente della Camera, apprezzato soltanto dal 36,3 per cento (41,8 per cento Pdl e 12,8 per cento Lega). Infine le intenzioni di voto. Il Popolo della libertà si attesta al 39,2 per cento e il Carroccio al 9,1. Il Partito democratico vale il 29,5 per cento e l'Italia dei valori il 6,5. L'Unione di centro ottiene nel sondaggio il 5,9 per cento. Al 2,4 per cento la Lista Anticapitalista (Rifondazione comunista+Comunisti italiani+Socialismo 2000+Consumatori uniti), al 2,2 per cento Sinistra e libertà. L'Autonomia (La Destra+Mpa+Pensionati+Alleanza di centro) vale l'1,1 per cento, mentre Alleanza per l'Italia di Francesco Rutelli lo 0,6 per cento. Radicali-Lista Pannella/Bonino al due per cento e 'altri' all'1,5. Affluenza alle urne stimata tra il 75 e l'80 per cento. Scheda bianca/nulla 1,5 per cento, indecisi 21,8 e non risponde 25,4 per cento.

mercoledì 16 dicembre 2009

Sabina for president! (al posto di Rosy). l'Occidentale

La pasionaria e la pasdaran. Per una volta, a parti rovesciate. Può sembrare un paradosso ma non è così se si mettono a confronto le dichiarazioni di Rosy Bindi, presidente del Pd e di Sabina Guzzanti, cabarettista-militante della sinistra “senza se e senza ma”, a proposito dell’aggressione a Berlusconi. La Bindi dà solidarietà al premier ma subito dopo dice che in fondo quella statuetta del Duomo in pieno viso se l’è cercata perché “tra gli artefici di questo clima c’è anche Berlusconi” che per questo “non può sentirsi la vittima”. Insomma, la violenza va sempre condannata, mai giustificata epperò qualche volta simili gesti “sono spiegabili”. Come?

Ecco che la Bindi dà fondo all’armamentario antiberlusconiano buttandola sui “motivi di esasperazione” legati agli effetti della crisi economica che “alcuni pagano con prezzi altissimi” per poi planare sullo scontro politico che “si porta dietro sicuramente frange estremiste o persone che perdono la testa, ma chi ha più responsabilità fa di tutto per dividere il paese”. Imbarazzi nel Pd con Bersani costretto a metterci una pezza sopra.

A tutt’altre latitudini, la Guzzanti per la prima volta, come del resto lei stessa ammette, prova stima per la fierezza dimostrata dal Cav. negli istanti concitati dell’aggressione a Milano. E lo scrive sul suo blog: “Sì, mi ha fatto moltissima pena vedere Berlusconi ferito. Ho visto il volto insanguinato. Ho visto un vecchio ferito. Quando è uscito per vedere in faccia il suo aggressore ho provato anche stima per la fierezza e ho visto anche un politico, credo per la prima volta”. Certo, poi anche lei torna sull’armamentario di repertorio recitato in ogni occasione e indica nel Cav. tutto il male del mondo, quello che “ci avvelena la vita da vent’anni”.Tuttavia la consapevolezza di essere rimasta sconvolta dalle immagini del volto sanguinante di Berlusconi, merita di essere sottolineata. Anche perché viene dall’incendiaria Guzzanti, quelle che contro Berlusconi ha detto di tutto e di più, e non dalla politicamente corretta e pure abbondantemente buonista Bindi.

Lungi da noi la prosopopea di dare consigli a Bersani, ci permettiamo soltanto un piccolo suggerimento: per una settimana si prenda Sabina Guzzanti alla presidenza del suo partito e “distacchi”, con tanto di autorizzazione (come per il “No B-day”), Rosy Bindi sul palcoscenico di un teatro o davanti a una telecamera a satireggiare con l’elmetto in testa contro quel diavolo di un Silvio.

A parti rovesciate, forse Bersani potrebbe guadagnarci. Almeno per una settimana.

Le mistificazioni della Alfano, anti-mafiosa da operetta. Vittorio Sgarbi

Non l’ho mai incontrata, ma mi sono scontrato con lei a distanza. Mi riferisco a Sonia Alfano. Ma so che io combatto la mafia in modo diverso. Ne indico le azioni criminali e non mi accontento di esprimere generiche formule diffamatorie come piace a lei e a Salvatore Borsellino. Di Borsellino abbiamo parlato ieri. Ed io ricorderò quando si agitò per dissuadere sua cognata, Agnese, la moglie del magistrato ucciso, dall’accettare la cittadinanza onoraria di Salemi che io le avevo offerto dopo una sua visita spontanea e affettuosa nella quale aveva manifestato la sua stima nei miei confronti, per antica conoscenza come studioso d’arte, arrivando a definirmi missionario per aver scelto di fare il sindaco a Salemi. Apriti cielo! I due Borsellino e Sonia Alfano aprirono un caso come se la cittadinanza di Salemi fosse inquinata dalla mia presenza continuando a rinfacciarmi le critiche, fondatissime, a Caselli che non mancherò di continuare a manifestare.

Combattere la mafia non vuol dire non essere criticabili, non dover rispondere dei propri errori. Del metodo di Sonia Alfano abbiamo un esempio oggi, nel rifiuto di dare solidarietà al Berlusconi ferito giacché «sarebbe ipocrita, visto che sono scesa in piazza contro di lui. Non posso dare solidarietà a un presidente del Consiglio che è un frequentatore di minorenni, un piduista, un corruttore, un frequentatore di mafiosi». L’elenco è avvincente e si indicano quattro condizioni del tutto estranee da ogni colpa o responsabilità di reato. Cosa vuol dire «frequentatore di minorenni»? Occorre capire che cosa ci fa e ricordare che dai sedici anni in su qualunque persona, in tempi in cui, soprattutto le donne, hanno una maturità precoce, può disporre di sé, del suo corpo e della sua anima come vuole. Cosa vuol dire «piduista»? Come finge di non sapere Sonia Alfano l’associazione P2 è stata riconosciuta con sentenza della Cassazione, del tutto estranea ad attività criminali e organizzate, condannando per i suoi specifici reati il solo Licio Gelli. Essere stati iscritti alla P2 non vuol dire assolutamente niente, e nessuno è stato condannato per questo. Non è colpa né reato esserne stati iscritti.

Sarà bene quindi ricordare che, demonizzati e diffamati sono stati iscritti alla P2 senza aver fatto nulla di male personaggi come Roberto Ciuni, Alfredo Sensini, Franco Di Bella, e perfino Roberto Gervaso. Giornalisti considerati rispettabili. Sono stati iscritti alla P2 Enrico Manca, Maurizio Costanzo e anche Alighiero Noschese e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Forse la Alfano non esprimerebbe solidarietà al compianto Noschese e al generale Dalla Chiesa ucciso dalla mafia? Singolare iperbole, piduista e ucciso dalla mafia: come uscirà la Alfano da questa antinomia? E cosa vuol dire «corruttore»? Probabilmente la Alfano si riferisce alla vicenda Mills in cui è dimostrato che l’avvocato inglese ha ricevuto soldi da Carlo Bernasconi. Esiste il ragionevole dubbio che Berlusconi possa essere giudicato responsabile in questa vicenda, ma grazie - incredibilmente - al lodo che porta il suo nome, l’Alfano non può chiamare, se non diffamandolo, «corruttore» Berlusconi, non potendosi riferire neppure a una sentenza di primo grado.

Si tratta in tutti e tre i casi di presunzione di colpevolezza, in contrasto con la Costituzione, cui sempre si appellano i rappresentanti dell’Italia dei valori, oggettivamente diffamatorie. Quindi perseguibili penalmente. L’ultima ragione, la quarta, per la mancata solidarietà, poi, è enorme. Cosa vuol dire frequentatore di mafiosi? È la stessa, travagliesca, osservazione di Borsellino il quale ha dichiarato che bisogna «cacciare Berlusconi perché il suo partito è sorto con i capitali della criminalità organizzata, la quale ora lo ricatta». Parole in libertà, affermazioni indimostrate e indimostrabili, sommamente diffamatorie per un partito che è stato quello di Lucio Coletti, di Saverio Vertone, di Marco Taradash, di Piero Melograni, di Antonio Martino e di tante persone oneste che hanno creduto a ideali sui quali si basa la fondazione di un partito. I finanziamenti, che non mancavano a Berlusconi, non hanno niente a che fare con i soldi della mafia. Non vi è alcuna testimonianza di incontri tra Berlusconi e mafiosi. Al caffè Doney in via Veneto si incontrarono Gaspare Spatuzza e Giuseppe Graviano.

Nessuno dei due incontrò Berlusconi, anche volendo credere alla deposizione di Spatuzza. Dovremo considerare frequentatore di mafiosi, nell’interpretazione dell’Alfano, anche Aldo Moro perché frequentava Salvo Lima? Ma lei vorrà riferirsi allo stalliere Mangano, assunto a casa Berlusconi quando ancora non era stato accusato di associazione mafiosa. Dunque la solidarietà dell’Alfano è negata per quattro ragioni inesistenti, inventate. Forse farebbe meglio a stare con me nella battaglia contro lo scandalo degli interessi della mafia nella cosiddetta energia pulita. Nelle orrende pale eoliche che sfigurano la sua Sicilia lasciandola incredibilmente indifferente. (il Giornale)

martedì 8 dicembre 2009

Processando (al)l'americana. Davide Giacalone

Ah, se Hillary Clinton avesse sentito Gaspare Spatuzza! Sai le risate. Invece le toccherà occuparsi di Amanda Knox, condannata a ventisei anni di carcere, per omicidio. Una senatrice democratica, eletta nello stato di Washington, si è domandata se, in assenza di prove decisive, quella condanna non sia il frutto di sentimenti antiamericani, presenti in Italia. Le rispondiamo subito: no. La questione è più delicata e profonda. Aggiungo: con ogni probabilità, negli Stati Uniti, i due imputati sarebbero stati assolti.
Non è una questione di severità, ma di sistema. Gli Stati Uniti, del resto, non scherzano, né in quanto ad errori giudiziari, né in quanto a durezza. Ne sono stati commessi, di errori, anche mandando a morte degli innocenti. E l’esistenza della pena di morte, non è certo un sintomo di morbidezza. La Corte Suprema, oltre tutto, ha ribadito che possono essere giustiziati anche assassini che non ci stanno del tutto con la testa, o persone che erano minorenni quando commisero l’omicidio. Da noi, invece, una Corte d’Assise giudica colpevoli d’assassinio due persone, ma concede le attenuanti generiche, in modo da non dovere condannare all’ergastolo. Non entro nel merito, non prendo parte alle tifoserie giudiziarie, ma osservo che siamo noi, eventualmente, i “troppo buoni”. La logica statunitense non è spietata, bensì semplicemente logica, con forti radici morali e religiose: tu, individuo responsabile e padrone di te stesso, tu, uomo libero, potevi scegliere, ed hai scelto di fare del male, quindi tu, colpevole davanti alla collettività, devi pagare, in ragione del male compiuto. Se hai tolto la vita, perderai la vita. Il punto, però, non è la pena, ma come si arriva a comminarla.
E qui le cose si capovolgono, perché siamo noi ad essere i cattivi, per approssimazione. L’individuo responsabile deve pagare, anche conti mortali, ma lo Stato americano, prima di condannare, deve essere certo della colpevolezza. Al di là di ogni ragionevole dubbio. Tale certezza è data dal giudizio indipendente della giuria, e dal rispetto scrupoloso delle regole e delle garanzie, assicurato da un giudice professionale (il “vostro onore”). Ricordate il caso di O. J. Simpson? E’ istruttivo.
Il ricco e nero giocatore di football americano era accusato di avere ammazzato la moglie, bella e bianca. Una prova, forse decisiva, consisteva in un guanto, che si suppone fosse stato utilizzato per l’omicidio. Si suppone soltanto, perché il poliziotto che lo raccolse lo fece in modo irregolare, facendo venire meno la genuinità della prova e spingendo il presidente a considerarla non utilizzabile, talché impose alla giuria di non tenerne conto. Simpson fu assolto. In Italia lo avrebbero condannato un centinaio di volte, e se qualcuno avesse avuto da ridire circa il modo in cui il guanto era stato trovato ed acquisito, lo avrebbero ricoverato al manicomio. Chi se ne frega, avrebbero detto tutti, è evidente che il damerino ha scannato la moglie, quindi non importa stare a cincischiare su come raccattarono il guanto. Ergastolo. Dal punto di vista “sostanziale”, sarebbe stato anche giusto. Dal punto di vista “formale”, hanno ragione gli statunitensi. Ed è qui che s’incarnano due culture.
Da noi se avanzi dubbi su un sospettato, ti dicono: qualcuno deve pur averla ammazzata. Da noi conta che ci si convinca di una ragionevole colpevolezza. Vale, spesso, la sostanza. Nel processo accusatorio, invece, conta la forma, perché solo quella garantisce la genuinità del verdetto. Che può sempre essere sbagliato, naturalmente, ma non imposto dal pregiudizio o dalla piazza. La forma è sostanza, nel diritto, mentre, da noi, troppo spesso, il sostanzialismo distorce le regole. Gli americani, difatti, impallidiscono al sapere che i giurati del processo ad una loro concittadina fossero costantemente esposti a televisioni, radio e giornali, potendo leggere e guardare, in diretta, il loro stesso lavoro. Negli Usa vengono isolati, altrimenti sono i giornali a scrivere le sentenze e la camera di consiglio si tiene al bar. Hanno ragione loro.
Escludo, invece, i sentimenti antiamericani. Certo andazzo lo pratichiamo anche a noi stessi. Si prenda Spatuzza e si ragioni formalmente: questo signore, killer di professione, arriva in aula e si prostra innanzi al suo padrino, deponendo non su cose che conosce, ma che gli hanno raccontato. “De relato”, si dice, e significa: per sentito dire. In un’aula statunitense il presidente avrebbe chiamato a sé l’avvocato della difesa e quello dell’accusa (l’idea che possa essere un suo collega neanche lo sfiora, supponendo sia un’ipotesi tribale, mentre è la legge italiana) e avrebbe detto loro: quanto dura, questa buffonata? Ritenete che il teste abbia qualche cosa da dire, su cose che conosce direttamente, o avete scambiato la mia aula per un teatro? Dopo di che, si sarebbe rivolto alla giuria ed avrebbe detto: di quel che avete sentito non dovete tenere alcun conto, è stato un errore dell’accusa presentare un simile teste, che non aveva nulla di pertinente da dire. Ammonisco tutti ad attenersi alla procedura.
Noi, invece, ne parliamo da giorni, con le menti che si pensan pensanti tutte pronte a dire la più colossale delle scemenze: ci vogliono i riscontri. Ma di che? Se non c’erano di già quello neanche avrebbe dovuto parlare! Leggendo la stampa internazionale, del resto, la stessa Clinton avrà trovato traccia di questa roba, che, ora, la aiuterà a capire quanto il problema non consiste nell’avercela con gli americani, ma l’essere un Paese nel quale ancora può circolare chi sostiene che “il sospetto è l’anticamera della verità”, anziché della barbarie.

lunedì 7 dicembre 2009

Le chiacchiere da bar sport dell'antimafia. Vittorio Sgarbi

Riscontriamo, dunque, che Monica Setta ha incontrato al Bar Doney in via Veneto il direttore di Raidue Massimo Liofreddi, che le ha confidato, con atteggiamento gioioso, di «aver ottenuto quello che cercavo grazie alla civiltà delle persone che avevano portato avanti questa cosa», e che per conseguenza aveva deciso di mettere Raidue nelle mani di Sgarbi, affidandogli un programma di punta. E' avvenuto questo incontro? C`è stato questo dialogo? Diciamo di sì. Ma nella realtà io non ho saputo nulla da Liofreddi. Il programma non si farà; la Rai ha regole discutibili che limitano l`accesso di persone che hanno un ruolo politico amministrativo. E io dunque cosa c`entro? Sono piaciuto a Liofreddi, sono ammirato dalla Setta, tengo alto l`ascolto in televisione, ma non ho alcuna possibilità di determinare o incidere sulla decisione. Torniamo al Bar Doney, per un altro incontro, nel gennaio del 1994, il 23. Chi incontra chi? Non c`è memoria né notizia della presenza di persone «serie» come Berlusconi e Dell`Utri. Si incontrano tale Spatuzza e tale Graviano che, al caffè, si scambiano considerazioni davanti un bancone a forma di cavallo. Sono compiaciuti, soddisfatti, di come si mettono le cose nella politica italiana dopo la débàcle di quei «crasti (cornuti, ndr) dei socialisti» che gli hanno fregato i voti senza dare nulla in cambio. Finalmente sta cambiando aria. «Arriva quello di Canale 5» che, peraltro, non ha ancora vinto le elezioni e non è ancora al potere, non ha alcun potere e può dire e pensare quello che vuole, come d`altra parte in Parlamento diciamo pubblicamente almeno in 52, fra i quali Pannella, Taradash, Biondi, la Maiolo, Cicciomessere, puntualmente messi all`indice da la Repubblica perché abbiamo manifestato perplessità sul regime del 41 bis che limita i diritti umani come poi si dirà di Guantanamo. Io, tra l`altro, lavoro e parlo anche a Canale S. Seguirò da vicino l`avventura di Forza Italia. E dunque? Due mafiosi si incontrano al bar e parlano di promesse e garanzie di uno che non è al potere e che nessuno dei due dice di avere incontrato. Neppure un bacio. Come toccò ad Andreotti. Due mafiosi s`incontrano al bar e parlano di Berlusconi e del «compaesano» dell`Utri. E perché non dovevano parlarne? E perché non dovevano confidare le loro speranze, anche attraverso le mie parole da Canale 5, così come Pannella da Radio Radicale? Ma c`è un altro elemento di riscontro interessante. Tanto seri e tanto rassicuranti sono i loro referenti, e a tal punto hanno messo il Paese nelle mani della mafia, che il 27 gennaio, 4 giorni dopo l`incontro con Spatuzza, Giuseppe Graviano viene arrestato. Sarà andato euforico. E questa è la storia. Dopo più di 16 anni u tignusu, il cui cognome è quasi l`anagramma di «spazzatura», con determinazione, tenacia, e memoria un po` traballante, racconta la sua storia con un fervorino moralistico, illuminato dalla lettura della Bibbia «perché se un tempo ho messo la vita nelle mani del male, non capisco perché ora non dovrei metterla in quella del bene». In nome del bene, non ha detto niente, ma ha voluto sottolineare che, «quello che dico, non è il sentito dire del mercato ortofrutticolo». E infatti sono chiacchiere da bar, anche se in via Veneto, al Doney. E ai magistrati, non ai politici, tocca ora il riscontro. E il riscontro di che? Di come è tollerabile, in questa caricatura di Striscia la notizia, l`assoluta mancanza di dignità dello Stato, i distinguo e le sospensioni del giudizio dei politici, imbarazzati quelli di destra, perplessi, per paura di essere smentiti dai fatti (cioè dai non fatti) quelli di sinistra, l`assoluta assenza di indignazione davanti ad una sceneggiata di questo ignorante demente convertito a un Dio di comodo, che viene esibito in Tribunale con 27 poliziotti, il berrettino in testa e in mano la bottiglia di plastica dell`acqua minerale come una modella anoressica, disgustoso spettacolo della mortificazione della magistratura e dello Stato affidato agli «uffici stampa» della mafia. Una vergogna senza nome. Con la spudoratezza di un imbianchino assassino che dichiara, come uno statista, «e ora bisogna restituire la verità alla storia e non mi fermerà nessuno. Perché la sua è «una missione in onore di tutti i morti innocenti», bambini compresi, che ha fatto lui. Lo spavento dell`aula di Torino è proprio nell`assenza dello Stato, nel vuoto, di uomini che hanno perduto la capacità di indignazione. «Spazzatua» non ha dichiarato di avere incontrato al Doney Berlusconi. In modo inverosimile dichiara esplicitamente che, dopo l`incontro con Graviano «ricollegando il ragionamento, ne dedussi che anche noi eravamo interessati alla pubblicità dei signori Dell`Utri e Berlusconi». Posso aggiungere: anch`io, anche Antonio Ricci. E anche Gerri Scotti e, all`epoca, certamente, più di tutti Mike Bongiorno. E, ovviamente, Maurizio Costanzo, rivale diretto dei Graviano. Che, forse per questo, cercarono di eliminare. Una deduzione. Non una rivelazione. Non un dato certo. Una deduzione, con un evidente obiettivo: infamare «quello di Canale 5». Storico obiettivo delle opposizioni. «Spazzatua» ragiona come Di Pietro. Deduce. Un atteggiamento tipico dell`antimafia parlante. Di Dario Fo. Di Salvatore Borsellino. Di Leoluca Orlando. I quali parlano e non hanno mai fatto niente contro la mafia. Io, che in Sicilia l`ho combattuta denunciando lo sporco affare dell`energia pulita e portando a Salemi tutto quello che avrei fatto a Milano, Bergamo o Brescia senza vittimismo e senza l`alibi di ciò che non si fa per colpa della mafia, non li ho mai visti denunciare la distruzione della natura e del paesaggio e partecipare alle iniziative di Salemi, dalle mostre di Caravaggio e Rubens a quelle di Modigliani e Licini, al Festival della Cultura ebraica. Mai visto nessuno se non Agnese Borsellino, pronta a riconoscere con la irritazione dei suoi cognati, il mio ruolo «missionario». Basta vederla l` antimafia in televisione. Gli Orlando, i Lirio Abbate, pronti a credere ad ogni sospiro mafioso che rimandi a Berlusconi. E perfino esponenti del Popolo della Libertà, come il senatore Centaro, accodarsi alla retorica delle parole seguendo la facile protesta. E si rimprovera il sindaco di Comiso di aver tolto a un aeroporto non funzionante la titolazione a Pio La Torre (ancora ieri Veltroni s`indignava su l`Unità) dimenticando che non si tratta di uno sfregio, ma di un atto di giustizia, ripristinare cioè la denominazione precedente che ricordava il generale Magliocco, che è evidentemente considerato un uomo di serie B, di cui si può cancellare la memoria, come se non ci fossero altri luoghi (io ho offerto l`avio superficie di Salemi) per ricordare con una intitolazione Pio La Torre. Accettando questa retorica di una giustificata damnatio memoriae, potremmo cancellare tutti i riferimenti ai personaggi del Risorgimento, da Garibaldi a Mazzini, e sostituirli con gli eroi dell`antimafia. Faremmo un pessimo servizio alla storia, alla memoria e alla formazione dei giovani. Difficile che seguano questo ragionamento i Veltroni, gli Orlando e anche i Centaro, per i quali Magliocco non merita di essere ricordato. Loro hanno il monopolio della verità, e con il monopolio anche la manipolazione. Magliocco è stato medaglia d`oro: non importa. La Storia dev’essere riscritta. Ed è bene ricordare che molti anni fa - ma ero già deputato - incontrai, libero, in attesa della sentenza definitiva, un mafioso riconosciuto, Vito Ciancimino, che era tranquillamente in vacanza all`Hotel Savoy di Cortina. Ciancimino mi parlò per 5 ore, dalle 11 di sera alle 4 del mattino. Mi disse molte cose, con ansia, affanno, parlava sotto voce, come in confessione, e mi disse i nomi di amici, di politici, in una ricostruzione della propria vita e della propria visione, anche parlando dei reati attribuitigli. Non finiva più di confessare. Mai nessuno mi ha mai chiesto cosa mi avesse detto. Eppure c`erano ragionamenti, riflessioni, confessioni, racconti di episodi che forse erano riferiti anche alla magistratura. Ma certo non erano deduzioni e neppure testimonianze di ammirazione per Berlusconi come quella attribuite da «Spazzatua» ai Graviano. Ciancimino ammirava me, e per questo mi volle parlare. Ma io non feci nulla per lui, come nulla fece e nulla potè fare Berlusconi per Graviano che, oltretutto, non incontrò mai. «Spazzatua» dixit. O, se fosse stato, non l`avrebbe detto? (il Giornale)

Il rinnegato Bersani. Ernesto Galli della Loggia

Ha fatto benissi­mo il segretario del Pd Pier Lui­gi Bersani a te­nere il suo partito, alme­no ufficialmente, lontano dalla manifestazione del «No B-day». Quella che si è conclusa sabato a San Giovanni, infatti, non è stata «la rivoluzione vio­la », «l'ingresso ufficiale della politica nell'era di in­ternet », «un miracolo ita­liano », «un giorno che ha cambiato la storia», «la fi­ne decretata della secon­da repubblica» come si è subito proclamato con l'abituale sobrietà dalle co­lonne di Repubblica . In una democrazia che sia minimamente tale cortei e comizi oceanici non cambiano mai realmente il quadro politico. Un an­no fa, per esempio, Veltro­ni radunò al Circo Massi­mo almeno il doppio dei manifestanti di domeni­ca: e cosa è cambiato? Nul­la. Sei mesi dopo, anzi, do­vette dimettersi. Comizi e raduni sono al più un segnale. Ma nel nostro caso il «No B-day» non indica uno di quei sommovimenti epocali che a partire dal '68 ci ven­gono regolarmente an­nunciati ogni sei mesi, tut­te le volte che qualche fol­la, specie se giovanile, si fa una passeggiata per le vie di Roma e che poi al­trettanto regolarmente non avvengono mai. Se­gnala solo il principale problema politico del Par­tito democratico: quello di riuscire a difendere e affermare una propria au­tonoma identità e dun­que una propria linea. Un problema che il Pd si tira dietro da quando è nato, ma per risolvere il quale — si deve essere giusta­mente detto Bersani — la via migliore non può esse­re certo quella di aderire a una manifestazione che, seppure spontanea, ha però assunto da subito le forme e i contenuti del radicalismo giustizialista dell’Italia dei Valori. Vale a dire di un altro partito, diverso dal Pd e in un senso profondo suo con­corrente.

I termini della questio­ne sono semplicissimi: se vuole vincere le elezioni il Pd deve conquistare alme­no una parte dell'elettora­to di centro; ma poiché è ovvio che questo elettora­to rifiuta in genere ogni massimalismo, ne conse­gue che anche il Pd deve fare altrettanto. Può farlo, però, solo se marca la pro­pria distanza da Di Pietro, se sottolinea la propria de­cisa avversione verso l'an­tiberlusconismo parossi­stico dell'ex pm, verso la sua idea che il codice pe­nale e i tribunali siano l'al­fa e l'omega di ogni oppo­sizione. In tutti gli altri Pa­esi avviene così senza pro­blemi: in Germania, per esempio, l'Spd è aperto av­versario della Linke (ci fa talvolta degli accordi di governo locale, ma è tut­t’altra questione), in Fran­cia i socialisti non aderi­scono certo alle manife­stazioni dei vari partiti della sinistra trotzkista. Perché solo in Italia, inve­ce, sembra che non possa accadere lo stesso?

La risposta è che nell'in­finita transizione apertasi a sinistra con il crollo del comunismo, con la fine del Pci e con le sue succes­sive trasformazioni in Pds, Ds e ora Pd, l'elettora­to di quella parte ha visto progressivamente disgre­garsi qualunque profilo identitario realmente strutturato nel quale rico­noscersi.Oltre la naturale vischiosità del passato e la nostalgia autobiografica gli è rimasto solo un insieme di principi — costretti peraltro a mantenersi sul vago, troppo sul vago, per la loro difficile traducibilità nell’Italia del grande ceto medio, per giunta paralizzata da un debito pubblico e da una pressione fiscale smisurati, nonché alle prese con la globalizzazione —; oltre a questi vaghi principi è rimasto soprattutto quello che può definirsi «l’opposizionismo». Cioè la volontà di essere comunque contro, l’idea che ogni compromesso è un «inciucio», ogni minimo accordo uno sporcarsi le mani, che i «nostri» interessi sono sempre legittimi mentre i «loro» mai perché in sostanza «noi» siamo il bene e «loro» il male. Dall’«opposizionismo» al radicalismo massimalistico il passo è brevissimo, come si vede.

Il punto cruciale è che quando c’era il Partito comunista almeno due fattori impedivano che tale passo fosse compiuto. Il primo consisteva nel fatto che «loro», gli avversari, erano essenzialmente i cattolici, la Democrazia cristiana, e non era proprio tanto facile dipingere gli uni e l’altra come rappresentanti di un male assoluto: non da ultimo perché in tal modo il «dialogo» con loro sarebbe tra l’altro diventato impossibile. Il secondo fattore era la tradizione comunista plasmata dal leninismo. Una tradizione fatta di diffidenza profonda verso ogni massimalismo che si presentasse come più «radicale», più «coerente»: una tradizione capace di avvalersi dell’estremismo, anche di coltivarlo magari, ma ancora più capace di combatterlo ricorrendo anche ai mezzi più spietati per togliergli qualunque spazio di agibilità politica. Venute meno la tradizione comunista e la sua prassi, è sopravvissuto solo l’«opposizionismo» che ha finito in modo naturale per prendere sempre più spesso, e alla fine in modo abituale, le vesti del massimalismo, minacciando di diventare il vero e unico carattere identitario del popolo di sinistra, a cominciare da quello «democratico».

Che l’avversario ora non fosse più la Dc bensì un personaggio come Berlusconi con tutto il carico delle sue gravi, oggettive, «anomalie» è stato certo importante, ma assai di più secondo me ha pesato altro. Da un lato ha contato l’incapacità del Pd di dare una spiegazione vera e plausibile della fine ambigua della Prima Repubblica, nonché delle ragioni, legate intimamente a quella fine, che sole spiegano la comparsa e il successo dello stesso Berlusconi. Dall’altro il vuoto di programmi veri e di proposte politiche precise, di alleanze strategiche convincenti, di lotte sociali vaste, che il nuovo partito non è riuscito a colmare, finendo così per lasciar sussistere solo «l’opposizionismo» massimalista che lo trascina fatalmente nell’abbraccio stritolante di Di Pietro. A mantenere in vita tale «opposizionismo» contribuisce, per finire, lo spregiudicato uso di sponda che ne fa ai vertici del Pd chiunque intenda far capire di non condividere interamente la leadership ufficiale o voglia comunque mostrare di essere qualcosa di diverso, voglia conservare una propria immagine distinta. Il segretario cerca di opporsi al massimalismo? Di costruire un’opposizione più ragionata?

Bersani non va al «No B-day»? Ed ecco allora che Bindi, Franceschini e gli altri oligarchi, perfino Veltroni, si precipitano immediatamente per far vedere che no, perbacco!, loro invece ci vanno, loro sì che sono contro: loro per fortuna esistono e lottano per la nostra democrazia insieme a Marco Travaglio e Antonio Di Pietro. (Corriere della Sera)

venerdì 4 dicembre 2009

Come difendersi da uno Spatuzza che dà di mafioso a Berlusconi. il Foglio

E’ vero, alla Flaiano, che proviamo uno sfrenato bisogno di ingiustizia, ma come si fa a difendersi da uno Spatuzza, che oggi accusa di mafia in Tribunale Berlusconi e Dell’Utri? Mica facile. Spatuzza non è ancora un pentito in senso formale, il che tenderebbe, secondo gli usi borbonici del momento, ad avvalorarne l’attendibilità anche a prescindere da riscontri oggettivi, ma è pur sempre un dichiarante molto speciale al quale si attribuisce il merito di aver rovesciato la vulgata giudiziaria malaccorta in base alla quale per 17 anni è stata costruita una menzogna processuale sull’assassinio del giudice Borsellino. Insomma, gli stessi togati di procura che hanno creduto per quasi un ventennio al pentito Scarantino adesso garantiscono per la parola di Spatuzza, che dice il contrario e smentisce il collega. E noi, per la proprietà transitiva dell’attendibilità, siamo tenuti a fidarci di tutti: di Scarantino, di Spatuzza e dei magistrati che credono alle loro verità in conflitto, disinvoltamente e alternativamente.

Ora Spatuzza ripeterà in aula quanto ha già confidato ai pm in sede di indagine, ripeterà di aver sentito dire nei primi anni Novanta da uno dei fratelli Graviano, boss mafiosi, che l’Italia era caduta nelle loro mani perché avevano stretto un patto con Berlusconi, quello di Canale5 buttatosi in politica, e con il paesano Marcello Dell’Utri, palermitano e vecchio amico del Cav. nonché suo collaboratore dai tempi dell’Università. Spatuzza aggiungerà che la mafia ha stretto tanti patti con il potere, con i dc compreso Orlando e i socialisti compreso Martelli e perfino con il garantismo radicale, portando voti e offrendo sostegno in diverse epoche, ma era sempre stata mal ripagata, ora sì che i Graviano eccitati si aspettavano una bonanza da “quello di Canale5”.

La calunnia è particolarmente grave, nonostante il grottesco che la connota, per alcuni motivi. La mafia dei primi anni Novanta era stragista, l’alone offensivo è dunque molto fosco. Come per il passato, risulta non si sa perché evanescente l’argomento a difesa desunto dai fatti, e cioè che questi poteri, e in specie i governi Berlusconi, hanno fatto esattamente niente, zero, meno di zero per favorire la mafia, e l’hanno anzi combattuta seriamente, in perfetta continuità con il meglio delle strategie falconiane e borselliniane, fino alle crociate vittoriose di Maroni. Infine il motivo più serio, che rende praticamente indifendibile la posizione di chi venga calunniato con illazioni tanto generiche e forsennate: il “concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso”, l’associazione giurisprudenziale del “concorso esterno” e del 416 bis, un cocktail micidiale di codicilli penali capace di uccidere chiunque si voglia, quando lo si voglia, alla sola condizione di trovare o lasciare che emerga dall’alto mare della delazione e dell’omertà, per qualsiasi ragione, un chiacchierone malintenzionato che sia, beninteso, politicamente equivocabile.

Difendersi in un processo per concorso esterno, non se ne parla. E’ persa in partenza, perché non servono prove all’accusa, bastano chiacchiere. Difendersi da un processo per concorso esterno, ci si espone all’accusa di volersi sottrare alla “giustiziabilità”. L’unica è difendersi da quella fattispecie di reato surreale e balorda, che aggrava il già osceno facilismo con cui si pratica in Italia, tra i pochi paesi al mondo così radicalmente borbonizzati, il reato associativo. Quando si convinceranno Berlusconi e Dell’Utri che una campagna di idee, di cultura, di iniziativa politica e legislativa sul “concorso esterno”, una campagna da portare in Europa e nel mondo perché si sappia di che reati si discute nella situazione penale italiana, perché si conosca questa arma sicaria nelle mani di chiunque per accusare chiunque, è urgente, liberale, necessaria non solo a loro ma ai diritti civili degli italiani?

mercoledì 2 dicembre 2009

Il rampollo De Magistris. Orso Di Pietra

Luigi De Magistris ha sostenuto che in qualsiasi altro paese Silvio Berlusconi sarebbe in galera già da un pezzo. Ma non è vero. Perchè in qualsiasi altro paese non ci sarebbe mai stato un magistrato come Luigi De Magistris. E non perchè il potere esecutivo, come ad esempio in Francia, avrebbe sicuramente impedito al De Magistris in questione di compiere quella serie dei corbellerie giudiziarie che gli hanno fatto guadagnare il seggio al Parlamento europeo. Ma perchè a fermarlo ci avrebbero pensato i colleghi magistrati. Almeno quelli consapevoli che più lo sventurato parla, più l’intera categoria perde credibilità di fronte all’opinione pubblica del paese. Qualcuno si stupisce dell’incredibile capacità dell’ex Pm di danneggiare i vecchi colleghi ricordando che De Magistris è figlio e nipote di magistrati. Ma si tratta di uno stupore ingiustificato. Perchè ci sono rampolli all’altezza e rampolli patate. Quelli che dimostrano come la parte migliore è sotto terra! (L'Opinione)

martedì 1 dicembre 2009

Appello per il Sì B-Day. Giorgio Stracquadanio

Sabato 5 dicembre noi non andremo in piazza a manifestare il nostro sostegno a Silvio Berlusconi, ma continueremo la nostra campagna in difesa della democrazia e del voto degli italiani.
Silvio Berlusconi è l'uomo che ha impedito nel 1994, attraverso libere elezioni, la conquista del potere da parte del Partito Comunista Italiano, che dopo la caduta del Muro di Berlino aveva solo cambiato nome.
Per questo Silvio Berlusconi è oggetto della più impressionante aggressione ad personam della storia contemporanea da parte della magistratura politicizzata. La stessa che aveva spianato la strada ai comunisti eliminando i partiti democratici e occidentali attraverso la galera, la distruzione morale, la violenza giudiziaria, con gli stessi metodi utilizzati nelle dittature comuniste contro i dissidenti.
Per questo Silvio Berlusconi è oggetto della più impressionate campagna di odio ad personam. Contro di lui ogni infamia è stata pronunciata, ogni violenza incitata, tanto da mettere in pericolo la sua incolumità personale.
Silvio Berlusconi è l'unico imprenditore ad aver creato da zero una delle poche grandi imprese private italiane, senza mai ricevere un centesimo dallo Stato.
Per questo è oggetto di una guerra ad personam da parte di quegli affaristi che hanno fatto fallire le loro imprese e hanno costruito la loro fortuna economica sulla predazione del denaro pubblico, attraverso mezzi leciti e, più spesso, illeciti.
Silvio Berlusconi è l'uomo che ha cambiato le regole della politica,che ha rotto la barriera tra la politica e i cittadini eretta dai partiti a difesa dei privilegi dei pochi contro i diritti dei più. Che da quindici anni combatte per cambiare dalle fondamenta lo Stato, perché esso sia al servizio di tutti gli italiani e non delle caste di potere.
Per questo è osteggiato dai protagonisti della vecchia politica, dagli uomini di Palazzo, nessuno escluso. Essi sono mossi dalla volontà di restaurare il passato e, taluni, sono corrosi di odio ad personam per invidia e frustrazione di fronte a un uomo che ha avuto successo dove loro hanno fallito.
Silvio Berlusconi è l'uomo che ha sempre agito rispettando la Costituzione della Repubblica su cui ha giurato; e che si è sempre sottoposto alla più importante prova che esista in democrazia: il voto popolare.
Silvio Berlusconi rappresenta l'argine contro i nemici della libertà e della sovranità del popolo, contro chi, ancora una volta, tenta di sovvertire con la violenza e l'uso politico della giustizia il risultato di libere elezioni e oggi può contare dell'aiuto di chi non ha compreso – per malafede o cecità – che non è in gioco il destino di un uomo, ma il presente e il futuro della libertà. (il predellino)