lunedì 23 marzo 2009

La riforma delle pensioni serve anche se l'Inps è in attivo. Giuliano Cazzola

Il 18 marzo è stato il giorno di Antonio Mastrapasqua, il presidente-commissario dell’Inps, nuovo astro nascente nel firmamento degli enti previdenziali, che ha presentato il rapporto annuale del suo Istituto, alla Camera, nella Sala della Lupa, alla presenza del presidente Fini, del ministro Sacconi e del sottosegretario Gianni Letta che ha tessuto un elogio senza riserve (e con un’evidente esagerazione) di Mastrapasqua e della sua azione all’Inps.

Il succo politico della relazione ha finito per portare acqua al mulino del Governo: l’Inps ha 11 miliardi di attivo e pertanto non c’è bisogno di fare una nuova riforma delle pensioni perché i conti sono in equilibrio.

Il ragionamento è un po’ forzato; dalle conclusioni – sicuramente corrette – manca qualche passaggio indispensabile per esprimere un giudizio pertinente e compiuto. Anche in materia di previdenza, è opportuno tentare qualche puntualizzazione. Innanzi tutto, un conto è l’andamento della spesa pensionistica, un altro quello dei saldi dell’Inps, il cui bilancio mette insieme almeno una trentina di gestioni pensionistiche, previdenziali, assistenziali, attinenti alla famiglia, al mercato del lavoro e agli ammortizzatori sociali, agli sgravi contributivi al sistema delle imprese e a quant’altro.

Per svolgere i suoi compiti l’Inps incassa più o meno 130 miliardi di contributi sociali e 75 miliardi di trasferimenti dello Stato (per finanziare le prestazioni che la legge mette a carico della fiscalità generale). In tale contesto è la spesa pensionistica da tenere sotto controllo per la sua incidenza sul Pil e per gli squilibri che essa determina – in forza dei trend demografici – sull’insieme della spesa sociale. Ed è la spesa pensionistica che deve essere attentamente monitorata nelle sue tendenze di lunga durata dal momento che gli effetti delle riforme – per loro natura – si muovono in una prospettiva di medio-lungo periodo.

Come viene prodotto, poi, questo colossale avanzo dell’Inps? Vi sono sicuramente delle cause principali e delle concause. Cominciamo da queste ultime. Vanno annoverate questioni come la lotta all’evasione e l’aumento ininterrotto (negli ultimi 8 anni) degli occupati. Ma le cause principali sono altre. L’aumento delle aliquote contributive su tutta la platea degli occupati disposto dal Governo Prodi nella legge finanziaria del 2007 ha determinato maggiori entrate per circa 5 miliardi di euro. Ci sono poi i "grandi elemosinieri": la Gestione delle prestazioni temporanee (quella che, all’interno del Comparto dei lavoratori dipendenti, eroga le seguenti prestazioni: assegno al nucleo familiare, cigo, disoccupazione ordinaria, indennità economica di malattia e maternità, tbc) e la Gestione del lavoro parasubordinato. Queste due gestioni assommano complessivamente saldi attivi d’esercizio tra i 12 e i 13 miliardi. Che bellezza! Dirà il lettore. Possiamo risolvere tanti problemi visto che le risorse ci sono e abbondanti: migliorare i trattamenti destinati alla famiglia, fare la riforma degli ammortizzatori sociali, tutelare meglio i precari prosaicamente definiti parasubordinati. Niente di tutto questo, perché non è consentito destinare neppure un euro per migliorare le prestazioni per le quali si incassa strutturalmente di più di quanto si spende.

Quegli avanzi sono rivolti – nella logica del bilancio unitario dell’Inps – a "tappare i buchi" delle gestioni pensionistiche. Proprio così: nell’attuale fase storica le famiglie, i cassintegrati, i disoccupati, i precari sono forzatamente solidali con i lavoratori autonomi e con alcune categorie di lavoratori dipendenti non certo tra i più sfortunati, le cui gestioni pensionistiche sono in rosso sfavillante. (l'Occidentale)

domenica 22 marzo 2009

Ma i figli dei politicamente corretti leggono Biancaneve e i sette bassetti? Paola Vitali

Chissà che non vi sia un legame: da un lato una garbata presentatrice televisiva del canale britannico CBeebies, che si occupa con competenza di programmi per i più piccoli, ma che essendo visibilmente priva di un braccio, solleva indignazione e proteste da parte di molti spettatori adulti, preoccupati che i bimbi nel vederla sullo schermo ne siano spaventati. Dall’altro quei genitori (uno su quattro, secondo il sondaggio realizzato sempre in Inghilterra da TheBabyWebsite.com, che ha intervistato un campione di tremila mamme e papà) che alla sera evitano di leggere ai bambini le fiabe tradizionali (Hansel e Gretel, Cappuccetto Rosso, Bianvaneve) perché potrebbero impressionarsi troppo, e poi anche perché molte di queste sono proprio politicamente scorrette. Troppe cattiverie, troppe idee chiare e forti. Persino quei sette nani a seminare imbarazzo, mentre magari potrebbero essere definiti “individui di statura differente dalla media”. Pare infatti che un genitore su dieci si sia espresso in favore della proposta di cambiare titolo alla fiaba di Biancaneve perché la parola nano non sarebbe un termine sufficientemente rispettoso.

Per fortuna tre persone su quattro ancora ritengono che le favole tradizionali possano contenere messaggi educativi e veicolare principi morali, ben più delle storie per bambini di nuova generazione. Quei genitori che hanno pian piano abbandonato La Bella e la Bestia o Raperonzolo si sono buttati sulla zuccherosa banda di Winnie the Pooh o sul rassicurante mondo Disney. Eppure le fiabe classiche, con i buoni che trionfano sui cattivi anche dopo eventi tragici e violenti come un lupo che mangia una nonna e una bambina, o una vecchina che cerca di mettere nel forno due fratellini mollati dal padre per debolezza nei confronti di una perfida matrigna, lasciano spazio alla fantasia, alla gestione della paura, e alle infinite congetture dei piccoli nello sforzo di elaborare codici morali. Non presentano uno stucchevole mondo di armonia dove tutti si vogliono bene, non ci sono mai difficoltà reali, e il buonismo è una valanga incontrastabile.

Disabituati a sentir parlare normalmente dell’abbandono, della malattia, della morte, della naturale perfidia degli esseri umani, i bambini finiscono per trovarsi in difficoltà nell’incontro con questi aspetti della vita. Così di fronte a una signora con un braccio solo, quando rivolgono agli adulti che hanno accanto una spontanea e niente affatto imbarazzata domanda, chiedendo spiegazioni per quella evidente diversità, trovano genitori terrorizzati in primis per il possibile spavento dei figli. Tutti tesi a evitare loro turbamenti, incapaci di dare risposte serene e di abituare i piccoli a convivere con le cose che non sempre e non per tutti vanno per il verso giusto.
Se si osservano i bambini a contatto con la disabilità o con i devianti dalla media, la loro naturalezza è spettacolare, priva di sovrastrutture e soprattutto dei cretinismi del pensare da buoni a tutti i costi.

E se alle loro domande sugli individui differenti dai “normodotati” si risponde parlando con tranquillità di incidenti che possono anche capitare, di maggiore fatica a fare le cose che paiono così scontate a chi ha un meraviglioso funzionamento senza intoppi, si vedrà che reagiscono con una pacata accettazione della differenza.

Saranno i figli dei figli del politicamente corretto a spaventarsi per una persona menomata o per una storia serale dove ci sono i brutti e i cattivi, perché nessuno vuol crescerli nel quotidiano confronto con l’imperfezione o la sfortuna, e soprattutto nella sua accettazione. (l'Occidentale)

giovedì 19 marzo 2009

Una rete Rai senza pubblicità. Davide Giacalone

La proposta di togliere la pubblicità da una rete Rai, in modo da affrancarla dalla schiavitù dell’audience e restituirle l’occasione della qualità, è stata formulata da un ministro. Sandro Bondi, lo sanno tutti. Ma la notizia è imprecisa, perché fu Oscar Mammì, nel 1987. La contropartita immaginata consisteva nell’obbligo, per Fininvest (il nome originario di Mediaset) di cedere una delle sue tre reti. La proposta fu bocciata dai comunisti, per bocca di Veltroni (Natta avrebbe voluto ragionarci). Berlusconi, allora solo imprenditore, non vestì di certo a lutto.

Le cose presero una piega diversa, al governo arrivò il segretario della Dc, capo della sua sinistra, De Mita, e, con il contributo attivo del Pci, si stabilì che ciascuno si sarebbe tenuto le reti che aveva, con la pubblicità, mentre chi aveva giornali non poteva entrare in televisione. Il “nemico”, allora, era Agnelli. La storia è diabolica, per questo alcuni la falsificano e molti non la studiano.Ora la cosa riciccia a babbo morto, in un mercato post-duopolistico, tale anche perché quella legge non è mai stata applicata. Sottoposta, semmai, ad un calvario giudiziario dal quale emerse immacolata, ma oramai demolita. Ha un senso, nel mercato attuale e nel corso della digitalizzazione, parlare ancora di una rete senza pubblicità? Posto che si tratta di cosa ben diversa da quella di allora, la riposta richiede di mettere meglio a fuoco la domanda. Se ci si ostina a non cambiare la Rai, si deve trovarle delle specificità, qualcosa che giustifichi il fiume di denaro pubblico che da quelle parti viene quotidianamente incenerito. Diminuire la pubblicità, interrompere meno o per niente le veltroniane emozioni, può essere una strada. Limitata, però, perché nel mondo del digitale, prossimo venturo, è lo spettatore che sceglie i contenuti e, quindi, rivoluziona anche il mercato della pubblicità. Del resto, se ad un canale si toglie la pubblicità, delle due l’una: o la si aumenta sugli altri o (il cielo non voglia) si danno più soldi. Concordo con chi vuole toglierli ai baracconi falso-culturali, elargitori di serate per razza cafona e non pagante, ma non per darli al principe dei baracconi.Detto in breve: da molti anni, e per il futuro, non si sente il bisogno della Rai. Più che toglierle la pubblicità, va venduta.

lunedì 16 marzo 2009

Madoff, Cirio e Parmalat. Davide Giacalone

Tutti hanno pubblicato la notizia, ma senza commentarla, senza cercare di capirne il significato: Bernard Madoff, finanziere statunitense, entra in un’aula di giustizia, ammette di essere colpevole, di avere truffato e mentito al mercato, da lì si trasferisce in un carcere da dove rischia di non uscire più. E’ matto? Da noi non sarebbe mai successo, e la ragione va cercata nell’italica, scassatissima giustizia.
Madoff sapeva che l’accusa avrebbe dimostrato la sua colpevolezza. A quel punto poteva fare tre cose: a. spararsi; b. tentare di scappare, senza riuscirci (era già sorvegliato) o per essere ripreso; c. trattare. In un sistema accusatorio, come sono gli Usa e vorrebbe essere l’Italia, nel processo non si cerca la “verità”, ma c’è chi accusa e chi si difende, tanto da rendere ovvio che il giudice non può essere collega di nessuna delle parti. Se l’accusato ammette la colpevolezza il processo è inutile, lo Stato risparmia, gli riconosce la collaborazione e lo premia. Madoff, in attesa della sentenza, che sarà letta il 16 giugno, ha potuto scegliere in quale carcere andare. La pena sarà severa, ma meno che al processo. Da noi si nega sempre, perché conviene: a processarti ci mettono lustri, nel frattempo arrivano indulti e cambi di legge. Pensate a processi come Cirio e Parmalat.
Neanche confessando, si accelera. Da noi la confessione non chiude la partita: ha ucciso lei suo marito? Sì, l’ho fatto a pezzi e messo nel congelatore. Bene, facciamo il processo. E che lo facciamo a fare? Il reo confesso potrebbe mentire. A parte che mentendo commette un reato, anche nel caso Madoff le indagini continuano, solo che si libera il tribunale.
Al termine dell’udienza le parti lese gioivano. In Italia è già tanto se sopravvivono fino alla fine. Anche su di loro, però, si rifletta: Madoff non era una banca o un fondo pensioni, gestiva un sistema speculativo che assicurava (si fa per dire) rendite favolose. Gli investitori lo avevano scelto per avidità. Nel caso delle banche che avevano creduto in lui, l’avidità si è sommata all’incapacità. Le leggi tutelano dai criminali, e difatti il finanziere è e resterà in galera, ma il mercato punisce chi crede di potersi arricchire senza lavorare e senza rischiare. Madoff è colpevole, i suoi clienti, le sue “vittime”, non sono innocenti.

martedì 10 marzo 2009

"Capelli più grigi, per Obama i segni dello stress". Christian Rocca

Pensate che con questo titolo, Camillo abbia perso il lume della ragione e si sia messo a fare pezzi sui capelli grigi di Obama, come tutte le prime pagine dei giornali italiani di oggi? Sbagliate. La frase tra virgolette è un titolo del Corriere, ma uscì anche su tutti gli altri giornali, del 5 luglio 2008. Sì, avete capito bene. A Obama sono venuti i capelli bianchi già un anno fa e un anno fa tutti lo notarono e fecero pezzi sullo stress, sul potere eccetera eccetera. Ora di nuovo. Si potrà continuare così ogni anno, tutti gli anni, fino alla celebrazione del centesimo compleanno. (il Foglio)

Cemento e cervelli, cantieri e tribunali. Davide Giacalone

Attenti a non cementificare i cervelli ed aprire i cantieri in tribunale. L’opposizione è un disco rotto, Franceschini un verboso capo sezione a corto d’aggiornamenti. Ma al governo dovrebbero evitare d’annunciare un venerdì quel che vareranno il successivo, per giunta discutendone fra di loro, come capita con le pensioni delle statali.
I capitoli sembrano essere tre. Il primo riguarda l’edilizia popolare, prevedendo la costruzione di 5000 alloggi e la spesa di 550 milioni. Non è molto, ma è bene. Il secondo si riferisce alla possibilità di abbattere e ricostruire i vecchi edifici, non vincolati, con un premio del 30% sulla cubatura. Non solo è bene, ma la sinistra ha subito pensato alle ville dove vacanzeggiano i propri dirigenti, mentre la cosa è interessante per riparare gli sfregi inferti alle periferie, dove italiani normali abitano edifici fatiscenti. Ogni ipotesi di scempio paesaggistico è esclusa. Sarebbe “de sinistra” applaudire, non atteggiarsi a nemici dei “palazzinavi”, ovvero dei costruttori non concretamente amici. Il terzo capitolo non l’ho capito: si potranno ampliare gli appartamenti del 20%. Immagino soppalchi e verande, ma trattandosi di un provvedimento governativo e non di un concorso d’architettura creativa, sarà meglio che spieghino.
Osservo, però, che è un gran bene semplificare la burocrazia, salvo ricordare che non esiste solo il conflitto fra cittadino e Stato, ma anche quello fra cittadini. Se quelli del piano di sotto tirano via un muro maestro, o quelli accanto trasformano in bunker la terrazza, mi tocca rivolgermi al giudice. E lì ci rivediamo fra dieci anni, quando avranno condonato l’abuso ed indultato l’assassinio condominiale. Ove, al governo, abbiano un modo per evitarlo, lo dicano.
Il detonatore della crisi è stata l’esplosione della bolla immobiliare. I cittadini italiani sono poco indebitati, quindi è saggio chiamarli ad investire nell’abitazione, anche accendendo mutui. Siccome si sente il rumore delle stamperie americane ed inglesi, intente a sfornare banconote, è ragionevole prevedere che la ripresa porterà inflazione. Se i mutui saranno indicizzati, quelle famiglie soccomberanno. Se non lo saranno le banche finanzierebbero la stanza degli ospiti, o lesinerebbero quattrini. Una parola di chiarimento, non guasterebbe.

lunedì 9 marzo 2009

8 marzo. Davide Giacalone

Mimosa per tutte, auguri. C’è poco da festeggiare, però, perché le donne sono la misura di quanto sia arretrato il nostro mercato del lavoro e umiliato il merito. Per metterla in positivo: sul lavoro femminile potrebbe misurarsi la volontà e la capacità di cambiare l’Italia, rendendola più giusta e più ricca. Quel che segue non ha nulla di politicamente corretto.
Le lavoratrici italiane godono di molte protezioni, con il risultato che sono poche. In Europa solo Malta ha una percentuale inferiore di donne al lavoro. Dal punto di vista culturale battiamo i Paesi islamici, ma già perdiamo con l’Africa sub sahariana. Restano forti sperequazioni interne: il nord sarebbe sopra la Spagna, il sud sprofonda. In Francia, per citare un esempio, le lavoratrici hanno meno garanzie, anche per la maternità, ma sono più numerose. Il loro interesse e quello del mercato coincidono: non si deve proteggere “quel” posto di lavoro, ma offrire a chi lo desidera la possibilità di lavorare. Le protezioni che abbiamo adottato si ritorcono contro le donne, ma prima di tutto ne sanciscono la sconfitta culturale, perché presuppongono che la figliolanza sia faccenda loro. Una specie di angelo del focolare in salsa welfare state. Invece si deve investire nel sostegno alle famiglie, con più attenzione ai figli, cui offrire scuole selettive, non depositi.
Poche sono le lavoratrici in posti di comando. Perché, fra l’altro, da noi la relazionecrazia soffoca la meritocrazia, ed i maschi sono, fra loro, più solidali delle femmine, e perché molte lavoratrici si trovano nel settore pubblico, pensando al reddito ed al momento d’uscire. Fra qualche anno avremo, nelle aule di giustizia, i tribunali al femminile e l’avvocatura a tradizionale prevalenza maschile. Non vocazioni contrapposte, ma lavoro protetto contro libera professione. Nelle scuole è già accaduto. Posto che, mediamente, le ragazze escono dagli studi meglio preparate dei ragazzi, dovrebbero essere in prima fila a chiedere di premiare chi sa e sa fare, a parità di diritti e doveri, quindi anche di protezioni.
E’ stupido, invece, difendere il pensionamento anticipato delle statali, perché conferma il peggio di quanto detto, facendo coincidere femminilizzazione con statalizzazione. Prospettiva orrida, che costa a tutti e penalizza le donne.

sabato 7 marzo 2009

Le indagini e la stampa carente. Valerio Fioravanti

Ci risiamo, la polizia scientifica non riesce a trovare prove risolutive, e la stampa, invece di prenderne semplicemente atto, si sente in dovere di supplire alla scienza con la fantasia, con i pareri personali dei giornalisti, o più spesso, semplicemente, con la superficialità. Hanno arrestato due rumeni con l’accusa di stupro, e una volta fatte le prime analisi si scopre che il Dna non corrisponde. Cosa ci dicono i media? Che il test Dna dovrà essere ripetuto. E nessuno trova che ci sia qualcosa di strano. Che vuol dire ripetere un test che si presume essere scientifico? Che era fatto male la prima volta? Una ipotesi del genere è terrificante: se i nostri specialisti sbagliano due test su due, che razza di specialisti sono? E soprattutto, se la percentuale di errore è così alta, con che criterio usiamo i loro risultati in altri procedimenti penali come “prove inoppugnabili”? Era già successo a Cogne, a Garlasco, a Perugia, a Trieste con il presunto Una Bomber. In questi casi la stampa avrebbe dovuto spiegare al pubblico che ci sono dei limiti a quello che la scienza può scoprire, e soprattutto che ci sono dei limiti a quello che i nostri tecnici possono scoprire se non vengono fatti massicci investimenti economici in attrezzature e formazione. Invece no, si riprende l’antica passione italiana, e ognuno si schiera tra innocentisti o colpevolisti, e lo si fa più che altro basandosi sulle impressioni, sulle simpatie o antipatie, sul pressappoco. Adesso, nel caso dei due stupratori, come a supplire al fallimento del test del Dna si dice che un’altra donna avrebbe riconosciuto in foto uno dei due. Aberrazione nell’aberrazione. Come si può prendere sul serio il riconoscimento fotografico fatto su una persona che nel frattempo è stato mostrato su tutti i giornali e tutte le televisioni centinaia di volte? Il riconoscimento fotografico andava fatto prima, non adesso. Se le forze dell’ordine avessero resistito alla tentazione, umanissima ma sbagliata, di esibire davanti alle telecamere i loro trofei, oggi non correremmo il rischio di veder invalidate le indagini. E se non le invalidano sarà anche peggio, almeno per quella cosa astratta ma fondamentale che è il “Diritto”. Ma è di questo che dovrebbe parlare la stampa, del fatto ad esempio che tutti i politici preferiscono stanziare semplici aumenti a pioggia per tutti i poliziotti, che portano più voti, piuttosto che fare investimenti massicci sulle nuove tecnologie, che portano magari più risultati, ma pochi voti. Di queste ed altre cose si dovrebbe parlare, non dare la stura alle congetture. (l'Opinione)

giovedì 5 marzo 2009

Così la sinistra crea le scuole ghetto. Mario Giordano

Adesso le classi ghetto ci sono davvero. Colpa dei rozzi leghisti? Degli insensibili lumbard? Colpa del cuore celtico di qualche amministratore cresciuto a pane, gorgonzola e Padania? Macché. Al contrario. Le classi ghetto nascono grazie al buonismo della sinistra, al politicamente corretto in salsa rossa, alle nenie ipocrite in stile Livia lacrimans Turco e Rula Jebreal. E mi piacerebbe vedere che cosa dicono adesso questi esemplari del falso in rilancio, dietro quale bugia andranno a nascondersi per spiegare il loro clamoroso autogol: dicevano di no alle classi ponte? Perfetto: adesso abbiamo le classi speciali. Dicevano di no alle quote per stranieri? Perfetto: adesso abbiamo la fuga degli italiani. E chissà se questo piccolo choc, questo ennesimo risultato opposto rispetto ai principi sbandierati e dichiarati, non porti un po’ di luce dentro il buio della loro retorica. E non dia finalmente la sveglia alle belle addormentate nel bosco dei finti sentimenti.
La notizia del giorno la trovate a pagina 3 ed è facile da riassumere: a Milano, elementare Paravia, il prossimo anno ci sarà una prima classe composta solo da alunni stranieri. Un caso isolato? Macché: succede anche a Torino (elementare Fiocchetti), mentre alla Pisacane di Roma c’è una classe che il prossimo anno prevede tutti scolaretti stranieri tranne uno italiano. Siamo pronti a scommettere il collo, cui pure siamo piuttosto affezionati, che nel giro di qualche settimana anche l’ultimo mohicano tricolore della Pisacane annuncerà il suo ritiro. E siamo pure pronti a scommettere che situazioni del genere si ripeteranno altrove.
Il problema degli stranieri nelle scuole, in effetti, non solo è reale ma diventerà sempre più serio. Nel 1982 gli studenti non italiani erano seimila in tutto il Paese, dieci anni fa erano poco più di 50mila. Oggi sono oltre 600mila, cioè il 7 per cento del totale. La crescita è esponenziale: nel 2011 saranno oltre un milione. Già oggi in molte zone d’Italia la percentuale di stranieri iscritti a scuola è molto superiore alla media: nelle grandi città si supera facilmente il 50 per cento (alla scuola Di Donato di Roma per esempio: 52 per cento, con il record di 56 nazionalità diverse). Ma non è raro trovare classi che sfondano il tetto del 70 per cento, e anche dell’80 per cento. Fino, appunto, ad arrivare al caso limite: 100 per cento stranieri.
È inevitabile: anche perché se in un istituto aumentano i compagni romeni, albanesi o marocchini, gli italiani ritirano i loro figli e li iscrivono altrove. Magari non è bello da dirsi, però è così. Accade. Del resto, se una classe si riempie di stranieri che non sanno nemmeno una parola d’italiano, come fanno gli insegnanti a svolgere il programma? Tirare diritto non si può. Andare avanti e bocciare chi non ce la fa? Non si deve, non si usa. E così tutti fermi. Tutti in coda dietro l’ultimo banco. E se gli alunni (tutti gli alunni) arrivano in seconda elementare senza sapere la differenza fra l’acca e un soprammobile? E se arrivano in terza elementare convinti che la q sia un segno grafico da tenere sul quore? Non è un piccolo disastro? Non sono carriere scolastiche compromesse fin dall’inizio? E i genitori non hanno forse diritto di preoccuparsi di tutto ciò e di cercare soluzioni alternative?Le buoniste con o senza testa, le lacrimanti dei salotti radical chic, magari non se ne accorgono perché i salotti radical chic stanno in centro e non in periferia, e loro magari non accompagnano i figli alla scuola Paravia o alla Pisacane. Ma se almeno avessero la bontà di leggere le ricerche del ministero scoprirebbero che il 42 per cento degli studenti stranieri è in ritardo con gli studi. E alle superiori la percentuale sale al 71 per cento. La commissione istituita per combattere il bullismo scrive inoltre che, negli episodi di violenza in classe, «il ruolo di vittima o di carnefice è quasi sempre assunto da ragazzini stranieri, ovvero quelli maggiormente esposti al senso di emarginazione che genera questi comportamenti». Non è legittimo che un genitore voglia togliere i propri figli da queste situazioni? Non è legittimo che speri per i suoi bambini una preparazione migliore?
A Mestre, qualche mese fa, i genitori della scuola Giulio Cesare hanno inscenato una protesta, poi hanno ritirato i bimbi da scuola. All’istituto Gabelli di Torino è successo lo stesso. Si tratta di un fenomeno carsico, costante, quotidiano, che solo a volte finisce sui giornali. Come porre rimedio? Quando sono state proposte «classi ponte» per permettere agli scolari stranieri di mettersi al passo con gli italiani, come accade in tutto il mondo, le anime belle hanno scatenato la polemica: «Così si creano ghetti». Quando viene proposto un tetto di stranieri per classe (del 20 per cento a Como, del 30 per cento a Bolzano...) le anime belle scatenano la polemica: «Così si creano ghetti». Risultato: non si fa nulla. E così si creano davvero ghetti. Nelle scuole senza ponti e senza tetti restano solo i muri, quelli sì invalicabili, eretti dall’ipocrisia e dalla stupidità. (il Giornale)

lunedì 2 marzo 2009

Cacicchi sindacali e diritto di sciopero. Davide Giacalone

Prima di assistere all’ennesimo scontro, forsennato ma sul nulla, è bene, a proposito di scioperi, fissare tre paletti: a. i sindacati non rappresentano i lavoratori, visto che gli iscritti sono in maggioranza pensionati e presso la popolazione attiva si aggirano attorno al 25%, presi prevalentemente nel settore pubblico (se ragionassimo in termini di Pil, ci sarebbe da ridere), b. i lavoratori iscritti sono pochi, ma i sindacati sono tantissimi, e si fanno concorrenza fra di loro proclamando scioperi e proteste varie, non a caso demenzialmente contabilizzate per migliaia annue; c. i cittadini non sanno mai perché si proclamano gli scioperi, né gliene importa granché, subiscono il rito e ne pagano i danni.
Per capire se il governo ha imboccato la strada giusta si devono tenere fermi due principi costituzionali: 1. l’organizzazione sindacale è libera (articolo 39); 2. i lavoratori hanno diritto di scioperare (40). Siccome tale diritto deve essere regolato dalla legge, l’intervento governativo è legittimo, oltre che doveroso. Ma non chiarissimo. Per esempio: gli scioperi devono essere proclamati da chi ha almeno il 50% della rappresentanza. Letta così, è come dire: nessuno. Per “rappresentanza”, però, s’intende non i lavoratori iscritti, ma una quota fra questi. Insomma: chi ha la metà di una minoranza. Non è bello, anche perché sembra studiato per dare una mano ai grossi, anzi, li si spinge a star fra loro appiccicati.
Il problema vero è che i lavoratori non sono rappresentati. Pertanto, ho una proposta, che non si limita ai soli trasporti: applichiamo la Costituzione. Così voglio vedere la sinistra cosa s’inventa. Applichiamola dove dice (39) che i sindacati devono essere registrati e che per esserlo devono avere un ordinamento democratico e trasparente. Da noi sono monarchie burocratiche, finanziate in assenza di bilanci leggibili, con iscritti non verificabili, governate da autocrati che terminano la carriera prendendo la pensione da parlamentari. E marameo a tutti gli altri. Si fece anche un referendum sul loro finanziamento, poi aggirato con la complicità di Confindustria.
Vedrete che, una volta affrontato, seriamente, il problema della rappresentanza, anche la conflittualità diminuirà e gli scioperi serviranno a protestare, non a dimostrare d’esistere.