mercoledì 18 febbraio 2009

Ci ha lasciato col Tonino acceso. Vittorio Macioce

Viene quasi da ridere, in questo ventunesimo secolo dove la realtà è una macedonia di frammenti, la sinistra porta il nome e il cognome di un ex poliziotto: Tonino Di Pietro. Basta poco per raccontare il miracolo veltroniano. Basta questo. Il resto è la biografia di un fallimento. Walter Veltroni, raccontano i suoi amici, non è mai stato un lottatore. È il suo punto debole. È un uomo che deve sentirsi amato, come la versione italiana di certi poster globali. Veltroni soffre le personalità dure, decise, i cinici e i contadini. Quest’uomo era la speranza della sinistra raffinata, con una mano sul cuore e i mercatini vintage dietro piazza San Giovanni, un po’ equa, un po’ solidale, disgustata, sofferente, che mangia Sacher Torte e non va da McDonald’s, spesso ricca, come i figli di architetti, assessori e giornalisti fotografati, e scarnificati, nella Torino di Culicchia. Veltroni era il simbolo di ciò che resta di una certa cultura del Novecento, quella che si racconta moderna, ma vive di nostalgia: elitaria, oligarchica, lontana dai precari e dagli operai, velleitaria, senza carisma, con un retrogusto di muffa e di retorica. Quella con i libri giusti, in biblioteche tutte uguali, dove non spunta mai uno scrittore a sorpresa, un romanzo fuori posto. Veltroni, per questi figli del Novecento perduto, era come un vecchio amico, qualcuno che magari non ti affascina più, ma di cui ti puoi fidare.
Il fallimento di Veltroni è il segno che questa sinistra è ormai fuori dalla storia. È una finzione letteraria. È una madeleine, un club di statue di cera, che si porta dietro qualcosa di patetico, come una partita di calcio in bianco e nero, con la retorica delle magliette di lana senza sponsor e i numeri dall’uno all’undici. Tutto questo condito con una certa dose di masochismo, che ricorda l’Inter delle tante sconfitte, con i tifosi che si crogiolavano nell’etica del pessimismo. Questo è stato il Pd di Veltroni, la sua creatura. Ci aveva messo dentro tutte le parole che si possono trovare su Google alla categoria “frasi celebri”, una sorta di baci perugina della politica. Tutto spazzato via. Inutile, fragile, retorico, banale. Dannoso. Forse alla fine lo stesso Walter si è ribellato al suo masochismo e ha scelto di lasciare con una frase, questa volta, sincera: «Basta farsi del male». Il guaio è quello che resta. È il suo fallimento.
Il guaio è che questa sinistra moribonda si è lasciata succhiare il sangue, giorno dopo giorno, da un vampiro giacobino. Quello che resta, a sinistra, è Di Pietro, le sue manette, le sue piazze di comici e saltimbanchi, l’astio, il livore, le parole sempre più grezze e grosse, l’astuzia contadina, il giustizialismo. È lui l’opposizione. È la sua voglia di guerra civile. È l’antiberlusconismo come religione. Lo dice anche Di Pietro: «Noi siamo l’unica opposizione rimasta nel Paese. Quando uno non decide se essere maschio o femmina finisce per non essere nessuno». Questa è la filosofia dell’uomo di Montenero di Bisaccia (con buona pace dell’identità gay). Ecco, alla fine Veltroni è rimasto nudo, orfano delle sue maschere. Sono caduti uno alla volta tutti i suoi vestiti, come foglie d’autunno: via Obama, via Kennedy, via Clinton, Blair, Martin Luther King, Gandhi, via anche Madre Teresa di Calcutta, via il missionario, via l’Africa, via tutto. È rimasto solo lui, la maschera non voluta, l’uomo che ha cannibalizzato i suoi voti, le sue tante identità, la sua visione del mondo. È rimasto il poliziotto, il pubblico ministero, quello con l’indice alzato e la forca all’orizzonte. Veltroni è riuscito a cancellare anche l’odore della sinistra. È questo il suo più grande, paradossale, assoluto fallimento. Sognava Obama e ha partorito Di Pietro. Qui finisce l’avventura di Walter Veltroni. Lui magari andrà in Africa e lascia l’Italia con un Tonino acceso tra le mani. (il Giornale)

martedì 17 febbraio 2009

Stupri e fisco. Davide Giacalone

C’è un filo rosso che lega gli stupri al fisco, quello dell’impotenza e dell’incattivimento sociale. Meno si è capaci di rimediare, più si sollecitano esagerazioni. Circa gli stupri le si spara sempre più grosse: ma sì, lasciamo che la gente metta le mani addosso a questi animali, castriamoli, così volendo tener duro rispetto al dilagare dell’immigrazione clandestina, volendo preservare le nostre specificità culturali, accediamo direttamente alle punizioni corporali, di marca islamica. Alziamo il tiro, lo dice anche il governo: niente arresti domiciliari per gli stupratori. Giusto, bene, in galera, e buttiamo la chiave. Già, ma chi sono, gli stupratori? Di norma, nel mondo civilizzato, sono quelli di cui è stata riconosciuta la colpevolezza, a seguito di un regolare processo. E quelli, anche da noi ed a legislazione vigente, non stanno a casa, ma in carcere. Solo che, piccolo particolare, noi il processo non sappiamo farglielo.
Le condanne, se arrivano, raggiungono persone libere, che magari hanno stuprato altre volte. E non importa un fico secco se la custodia cautelare l’hanno fatta in carcere od a casa, tanto saranno poi liberati. Far funzionare la giustizia, però, richiede riforme serie, risposte dure alle corporazioni, che hanno strarotto l’anima. Non se ne è capaci? Allora si fa credere al popolo irato che inasprendo le pene si otterrà qualche cosa. Falso.
La Cgil vuol aumentare le tasse ai redditi alti. Non sono sindacalisti, piuttosto cimeli della lotta di classe. I redditi alti, oggi, non sono tassati, sono espropriati. I cittadini onesti lasciano al fisco più della metà di quel che guadagnano. Ma che ne sanno, i papaveri sindacali? Campano a spese della collettività, facendo i nababbi scarrozzati, con redditi falsamente bassi. La progressività della tassazione è un principio giusto, oltre che costituzionalizzato, ma le aliquote sono da rapina. Se avessero sale in zucca, questi burocrati della rendita, dovrebbero chiedere meno tasse per tutti, a cominciare dai più disagiati. Il che comporta meno spesa pubblica e riforme serie. Siccome non sanno neanche pensarle, ecco che soffiano sul fuoco dell’invidia sociale.
La congrega degli incapaci sollecita la rabbia collettiva, per indirizzarla contro fantocci ideali. Allevano un mostro, che non sapranno gestire.

venerdì 13 febbraio 2009

Contro le forze dell'oscurità. Carlo Stagnaro

Alle 18 accendete la luce. Alle 18 non ascoltate la voce di chi, porgendovi il miele sulla lingua biforcuta, spaccia per battaglia ecologica la scelta, anche simbolici, di ingranare la retromarcia della storia. La trasmissione di Radio 2 Caterpillar si è inventata - facendo grave torto a Ungaretti - la campagna "M'illumino di meno", con la quale chiede agli italiani di spegnere la luce, per sensibilizzare l'opinione pubblica ai temi del risparmio energetico. Cazzate. Cioè, loro ci credono sul serio, ma sono cazzate. Cazzate pericolose. Perché insinuano sottotraccia il dubbio che si stava meglio quando si stava peggio. Che per salvare il mondo, bisogna sacrificare la civiltà. In fondo, se il mondo è in pericolo a causa dei consumi energetici, due e due soli sono i responsabili: troppa gente consuma troppo o, se preferite, troppa gente sta troppo bene. Quindi, l'ideale a cui tendere è che meno gente stia meno bene. E' questo che voleve, è questo che vogliamo? No. Il progresso - come nota un editorialino sul Foglio di oggi - "consiste proprio nella lotta contro le tenebre, in tutti i sensi, concreti e figurati del termine". Ed è significativo che, per convincere la popolazione a sacrificare una quota simbolica del suo benessere oggi, allo scopo di attuare politiche che sacrificherebbero una quota ben maggiore del nostro benessere domani, si faccia leva sulla più ancestrale delle paure: la fine del mondo. La paura è la via per il lato oscuro. (Realismo Energetico)

sabato 7 febbraio 2009

Delitto Fortugno, la sentenza senza teoremi. Lino Jannuzzi

La Corte d’assise di Locri, dopo un processo durato 21 mesi con 112 udienze e 300 testimoni, ha condannato all’ergastolo i mandanti e gli esecutori dell’omicidio di Domenico Fortugno, medico e vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, ucciso la sera del 16 ottobre del 2005 mentre votava per le primarie dell’Unione. I giudici hanno confermato la tesi dell’accusa: i mandanti dell’omicidio sono stati Alessandro Marcianò, caposala dell’ospedale di Locri, e suo figlio Giuseppe, e il movente del delitto sarebbe stato tutt’altro che politico-mafioso, tanto che la Corte non li ha condannati per associazione mafiosa, né ha tenuto gran conto che Marcianò era anche il galoppino elettorale di un candidato della Margherita, Domenico Crea, che era stato superato nelle preferenze da Fortugno ed è entrato nel Consiglio regionale solo in virtù dell’assassinio di quest’ultimo. In sostanza Marcianò ha organizzato l’omicidio soltanto perché il potere che Fortugno aveva assunto entrando in Consiglio regionale e diventandone presidente metteva in crisi gli equilibri interni all’ospedale di Locri.

Questo livello “minimalistico” del mandante, dei killer e del movente ha deluso e ha lasciato insoddisfatti la vedova di Fortugno, Maria Grazia Laganà, diventata dopo il delitto parlamentare del Pd, e i ragazzi di Locri, quelli dell’associazione “Ammazzateci tutti”, che hanno disertato l’aula del processo al momento della lettura della sentenza, come del resto tutti i politici (c’era un solo parlamentare, l’onnipresente Beppe Lumia). Intervistata subito dopo, la vedova Laganà ha dichiarato di non aver mai considerato Marcianò un mandante, “semmai un organizzatore”, e che “i mandanti vanno cercati più in alto”, e che “il movente è politico” e che “va al di là della politica locale”.

Verrebbe fatto di rimpiangere che gli inquirenti di Locri non si siano avvalsi, come i loro colleghi di Catanzaro, della consulenza di Gioacchino Genchi: questi sarebbe stato certamente in grado, attraverso gli incroci di migliaia di tabulati delle telefonate intercorse tra i Marcianò e i killer e tutti coloro che, a partire da sette anni prima del delitto, avevano parlato al telefono con loro e tra di loro, di risalire molto “in alto”: come ha fatto nell’inchiesta “Why not”, dove partendo dall’unico indagato, quel Saladino della Compagnia delle Opere, è risalito, oltre che a molti parlamentari e magistrati e agenti segreti, fino al ministro della Giustizia Clemente Mastella e al presidente del Consiglio Romano Prodi e al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Nicola Mancino, e sarebbe potuto risalire fino al Papa.

Perché questa è stata in tutti questi anni la forza di Genchi, quella che lo ha fatto preferire da tanti magistrati, e soprattutto da quelli di Palermo, pur trattandosi non di un poliziotto in servizio (che intercetta gratis), ma di un privato cittadino che è costato fior di milioni di euro: il “sistema Genchi” è quello che si presta perfettamente a sostenere i teoremi di quei professionisti dell’Antimafia che sono sempre a caccia dei “mandanti esterni” e dei “mandanti occulti” e dei “complotti” e dei “comitati d’affari” e della “rete massonica-politico mafiosa”. Se gli inquirenti di Locri si fossero avvalsi della consulenza (e dei “consigli”) di Genchi, dal capo sala dell’ospedale di Locri sarebbero potuti risalire fino al Consiglio superiore della Sanità e al ministro della Salute e delle Politiche sociali e al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che lo sente continuamente al telefono, e, perché no?, al presidente della Repubblica: oggi sui giornali avremmo letto che nell’assassinio di Fortugno è, in qualche modo, implicato il Quirinale. (il Velino)