lunedì 31 agosto 2009

La favola multietnica e la realtà dell'immigrazione. Il suicidio della sinistra. Claudio Moffa

Non è bastata alla sinistra ufficiale l’ennesima batosta elettorale del giugno scorso; non le è bastato lo snaturamento della propria identità sociale, la perdita fino alla mutazione genetica del proprio tradizionale elettorato operaio e “proletario”. Alemanno ha vinto due anni fa nei quartieri popolari della capitale, non ai Parioli dove l’ha spuntata il PD; nel Nord la classe operaia vota da più di dieci anni Lega, nella Torino della Fiat come a Milano, ma pare che nessuno a sinistra voglia riflettere su questa tragica deriva che sta trasformando tutte le anime dell’ex PCI nel partito dei corifei del multiculturalismo e dei neo-salsicciari delle feste dell’Unità, tanto tragicamente neo-liberals quanto entusiasticamente “antirazzisti”.
Non le è bastato tutto questo alla sinistra ufficiale, perché alla prima occasione pur di dare addosso a Berlusconi e di assecondare il patron De Benedetti e i suoi giornali, ricomincia il coro. Anche i suoi leaders più responsabili: Bersani alla festa genovese del PD accusa il centrodestra di ideologismi a proposito delle ultime vicende di Lampedusa: il candidato principale alla successione a Franceschini pensa alle pagliuzze altrui ma non vede le travi che hanno impalato la leadership ex piccista alla croce dell’autodistruzione. Idem Fini che – da destra - parla di emotività con riferimento alla questione sicurezza, ma non guarda con la stessa lente alla questione immigrazione, dove chi vuole un controllo del fenomeno è immediatamente tacciato di razzismo e di violazione dei “diritti umani”.
Che è successo a Lampedusa nei giorni scorsi, tanto per cominciare? Sembrò a ingenui e furbi che il gommone dei 5 eritrei fosse carico di un’ottantina di persone, morte in mare prima che i sopravvissuti sbarcassero a Lampedusa. Un dramma, frutto del“razzismo” della nuova legge che ha reso reato l’immigrazione clandestina. Ma il 26 agosto il TG ha diffuso una foto pubblicata dal governo maltese sul sito del Corriere della Sera, nella quale si vede dall’alto il gommone ben pulito e di dimensioni tali che mai avrebbe potuto contenere 80 persone. Domanda, che ci si sarebbe dovuti porre subito: per caso i 5 eritrei hanno mentito sulle presunte decine di vittime durante la traversata? E’ stato trovato qualche segno (borse, sacchetti etc.) sul gommone della presenza degli 80 presunti compagni di viaggio dei fortunati eritrei? Il dubbio non è affatto assurdo, così come non è assurdo indagare con spirito obbiettivo sulle dichiarazioni di tutti i disperati che sbarcano con l’obbiettivo di entrare in Italia e in Europa magari come “rifugiati”, cioè a dire come perseguitati per motivi politici o razziali nel paese di provenienza: è chiaro che gli immigrati irregolari hanno tuttol’interesse a drammatizzare la loro condizione originaria e le fatiche del loro viaggio. Sarebbe, se vero, un fatto normale, una tentazione umana comprensibile. Il problema non sta in loro, sta in chi ciecamente gli crede o fa finta di credergli: un comportamento che fa parte questo sì di un approccio tutto ideologico al problema
dell’immigrazione, riassumibile in quattro dogmi intoccabili che accomunano quasi tutta la Chiesa cattolica, i laici e postcomunisti del centrosinistra e l’estremismo no-global e Cobas: primo dogma,chiunque chiede di poter entrare nel nostro paese (e di qui inEuropa) ha il diritto di farlo.
Secondo, chi si oppone è un razzista né più nè meno che gli estensori delle leggi razziali del 1938.
Terzo, tutti gli immigrati sono rifugiati, e questo aggrava la colpa dichi vuole vietare il loro ingresso in Italia.
Quarto, opporsi all’immigrazione costituisce non soltanto una violazione dei “diritti umani”, ma anche un danno per l’ “economia”italiana.
Sono quattro assurdità. Da che esistono gli Stati e i passaporti, per entrare in un paese occorre un regolare visto, oppure un accordo fra Stati che lo renda non necessario. Se poi l’ingresso non certificato e non concesso si trasforma in residenza di fatto permanente, si è oggettivamente clandestini nel paese di imposta accoglienza. Non si capisce perché a questo punto uno Stato non possa e non debba normare come reato un simile comportamento, ormai diventato drammaticamente di massa. Tutto questo è razzismo? Il paragone fatto durante la campagna elettorale del maggio-giugno scorso in un editoriale di Liberazione e ripreso pochi giorni dopo dal segretario del PD Franceschini, che i respingimenti delle ondate di immigrati in Italia ricordano le leggi razziali del 1930, è veramente privo di logica: è l’ennesimo segnale della perdita di qualsiasi approccio razionale e obbiettivo alle grandi questioni sociali della nostra epoca da parte della sinistra postmarxista. Le leggi razziali del 1938 discriminavano ingiustamente cittadini italiani di origine ebraica, ultimi discendenti di una minoranza da secoli se non da millenni residente nel territorio della penisola. Nel caso degli immigrati si è di fronte a cittadini stranieri che pretendono di entrare in Italia e in Europa in assenza di qualsiasi regola e programmazione della forza lavoro economicamente assorbibile. Un paragone che è l’altra faccia delle famose dieci domande di Repubblica, il tragicomico gossip con cui si cerca coprire l’assenza di qualsiasi programma politico serio alternativo a quello realizzato mese dopo mese dal centrodestra.
Ma gli immigrati, tutti gli immigrati, sono rifugiati? Anche questa è una idiozia. Mi è capitato di attivarmi un paio di anni fa per il riconoscimento dello status di rifugiato per il figlio di un ministro di Saddam Hussein, in carcere a Bagdad, la cui famiglia era effettivamente perseguitata dai nuovi padroni dell’Iraq occupato dagli anglo-americani. Ma in quel caso lo status di rifugiato – poi ottenuto - era un atto dovuto, perché si era di fronte ad una persona direttamente immersa, sia pure in quanto figlio di un ministro, nel conflitto in atto nel paese. Invece, nel caso della stragrande maggioranza degli immigrati non è così: è possibile che manchi una codificazione di uno status intermedio fra il vero e proprio rifugiato politico e l’immigrato per motivi sociali ed economici, ma è un fatto che in base alla stessa Convenzione di Ginevra del 1951 non è possibile concedere lo status di rifugiato a chiunque entri in Italia, se privo di alcuna dimostrata esperienza politica, militante, di impegno civile. Non bastano le guerre o le dittature nei paesi di provenienza per trasformare automaticamente ogni emigrato in rifugiato. Chi insiste su questo argomento lo fa o per speculazione politica o per “buonismo” qualunquista, un sentimento di solidarietà privo di alcuna base logica e spesso dannoso per la costruzione di una vera e concreta solidarietà sociale.
Gli immigrati come risorsa: ma per quale “economia”?
Ed eccoci dunque alla decantata “risorsa” che gli immigrati rappresenterebbero per l’economia italiana, un tema rilanciato recentemente anche da uno studio della Banca d’Italia. E’ il più grande equivoco della questione immigrazione in Italia, fatto proprio da una sociologia e una politologia dell’immigrazione“facile” che non regge ad una critica razionale. In un articolo recente Famiglia Cristiana, citando appunto la ricerca dell’Istituto di via Nazionale, titola: “Senza il loro lavoro saremmo tutti più poveri”.
Un titolo ad effetto (“loro” sono gli immigrati) che non regge all’analisi dei fatti, a meno che non la si articoli compiutamente: un conto sono le colf e le badanti che possono risolvere i problemi di gestione quotidiana di tante famiglie a reddito medio-basso; un conto sono i lavoratori nell’industria nell’agricoltura e nel commercio.
In questi settori non è affatto vero che gli italiani non vogliono fare più certi lavori: non li vogliono fare – compresa la raccolta dei pomodori in Puglia, che a qualche studente italiano bisognoso di soldi per le vacanze potrebbe far comodo – per paghe basse o bassissime, come quelle che si sono diffuse proprio grazie alla concorrenza della massa di immigrati: un classico “esercito industriale di riserva”, per dirla alla Marx, che in questo ultimo quarto di secolo ha svolto la funzione storica di colpire – certo non da solo, ma in concomitanza con altri fenomeni e politiche“autoctone” - le conquiste salariali e occupazionali guadagnate dai lavoratori nazionali in decenni di lotte sindacali.
Questa verità indubitabile non è frutto di ideologismi: è raccontata dai fatti ed è stata ammessa anche (qualche volta) persino dalla CGIL. “Cipputi dice no all’operaio squillo” titolava un articolo de La stampa del 4 luglio 2000, che riportava il giudizio di un sindacalista di sinistra contro la sleale e crumira concorrenza degli immigrati. “E’ necessario superare lo stereotipo espresso dallo slogan che recita ‘gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare’ … - scriveva nel 1999 un sindacalista della CGIL bolognese - ci sono infatti moltissimi esempi che testimoniano quanto questo slogan sia sbagliato”.
Parole sacrosante. Ma la questione immigrazione non viene quasi mai affrontata a sinistra per quella che è, allora come oggi: quella citazione la lessi durante un convegno all’Università di Teramo promosso nel 2000 nell’ambito di un progetto sulle“discriminazioni etniche” finanziato dall’Unione Europea. Fra gli oratori c’era l’on. Evangelisti dei DS, e sperai ingenuamente nell’apertura di un dibattito: ma non successe nulla. Intervenendo poco dopo il deputato ripeté semplicemente la solita solfa dell’immigrazione come “risorsa” dell’ “economia”. Punto e basta.
Né a Bruxelles, nei lavori di coordinamento fra i project-leaders di altre consimili ricerche si respirava aria migliore. Anzi, lì il solo opporsi ad una visione fatalistica dei fenomeni migratori – come da sociologia e politologia imperanti – il solo parlare di controlli da una parte e di politica di pace dall’altra (le guerre degli anni Novanta hanno provocato ondate migratorie terribili) rischiava di farti giudicare in odore di “razzismo” e/o di pacifismo “estremista”.
Certo la pace non basta, occorre anche il rilancio della cooperazione internazionale e un commercio equo. Certo il razzismo esiste, in Europa e in Italia: ma costituisce l’humus sì e no del 5-10 per cento degli episodi denunciati come tali dalla stampa e dai mass media. O gli operai che oggi votano Lega e Pdl sono diventati tutti razzisti? E per caso, non è proprio l’immigrazione senza regole a diffondere il rischio razzismo in tutto il paese?
Tabù, miti privi di logica e furbizie mediatiche impediscono ieri come oggi di affrontare correttamente da una parte la questione delle minoranze e dall’altra il rapporto oggettivamente non armonico – che riguarda per altro anche i servizi e il bene casa – fra lavoratori stranieri e nazionali.
Il mito delle minoranze sempre e comunque “brava gente” è noto: per certi militanti e politologi “buonisti” tutto il male viene dall’esterno, dall’ “oppressore” autoctono, italiano nel nostro caso.
Non c’è nessuno o quasi a sinistra che denunci il razzismo diffuso dei cinesi e il bestiale sfruttamento cui coloro che detengono il controllo di queste comunità sottopongono i loro connazionali, minori compresi. Assolutamente nessuno a sinistra che avanzi almeno il dubbio che i Rom sono anch’essi razzisti, fino a costruirsi un’etica tribale che rende per loro assolutamente “morale” rubare il portafogli col cartone al pensionato, o prendersi i soldi delleAmministrazioni pubbliche non mandando, come loro dovere, i figlia scuola. Come si suol dire, con una fava due piccioni: si intascano sia i soldi dei minori costretti all’accattonaggio quotidiano, sia le 50-70 euro al giorno per una scuola che essi sono costretti a non frequentare dai loro stessi genitori. Ma di tutto questo a sinistra si tace: c’è l’Opera Nomadi a convincere i rivoluzionari e i multiculturalisti che “Rom è bello” sempre e ovunque.
Ma torniamo al tema principale, il rapporto fra lavoratori stranieri e nazionali: anche qui le perle non mancano. Come l’inconsistente analisi di Bernocchi a La 7 durante uno dei dibattiti sulle elezioni europee. Per il leader dei Cobas ci sarebbe stata e ci sarebbe in Italia un’alleanza degli industriali con i “penultimi” (cioè la classe operaia nazionale) ai danni degli “ultimi”, gli immigrati. E’ una assurdità: l’alleanza semmai è stata ed è fra industriali e forza lavoro immigrata ai danni dei lavoratori italiani, come da articolo prima citato, e come da semplice logica: con quali paghe, con quale disponibilità al lavoro iperprecario vengono assunti gli immigrati in tante aziende italiane? A quanto ammonterebbe un salario secondo tariffe contrattuali nell’edilizia, contro i 25 euro giornalieri (e per 12 ore di lavoro al giorno) garantiti agli immigrati, in condizioni peraltro di forte insicurezza, a rischio della vita, nei cantieri?
Lo slogan “gli immigrati sono una risorsa per l’economia italiana”, condiviso da fior di ricerche economiche e sociologiche, parte da un assunto astratto e monolitico dell’economia. E’ chiaro che ci sono diversi interessi economici, secondo settori economici e secondo classi sociali. All’industriale senza scrupoli va bene l’immigrato, possibilmente clandestino, perché più sfruttabile; per l’operaio o il disoccupato italiano lo stesso immigrato costituisce una minaccia per il proprio posto di lavoro o almeno per la propria paga. Al cittadino di qualche quartiere bene – zona ricca, disponibilità di case per immigrati zero – l’immigrazione geograficamente lontana potrebbe apparire, con buona dose di scemenza o di ipocrisia, nientemeno che un arricchimento multiculturale grazie all’ astratto incontro col mitico “diverso”; ma al cittadino delle grandi periferie, la stessa immigrazione appare, in tutta la sua concretezza quotidiana, come uno dei tasselli del degrado urbano in cui è costretto a vivere: e il “diverso”, privo di un reddito sufficiente, di un lavoro garantito e di una vita affettiva e sessuale normale, può diventare molto meno poeticamente colui che ti rapina o ti stupra.
E’ così difficile capirlo? Evidentemente per il centrosinistra sì: il centrosinistra preferisce demonizzare le leggi sull’immigrazione del centrodestra e i centri di permanenza degli immigrati, anziché svolgere una critica interna alla concreta applicazione della (necessaria) politica di contenimento e controllo dell’immigrazione straniera in Italia. Non interviene per criticare il singolo operatore di polizia o funzionario di stato per eventuali comportamenti“caricati” di arroganza razzista; vuole semplicemente abolire la Bossi Fini, la legge sulla sicurezza, i centri di permanenza, ogni forma di controllo. Non difende semplicemente il sacrosanto diritto dei musulmani in Italia ai loro luoghi di culto , ma semplicemente vuole che entrino nel nostro paese tutti i musulmani del mondo, altrimenti si è razzisti. Il tutto dentro una politica più o meno culturale che ha ben digerito il giornalismo islamofobo di Oriana Fallaci e di Magdi Allam; e una politica estera che prende in tanti modi le opportune distanze dall’Islam mediorientale, l’Islam autoctono con i suoi Stati sovrani e suoi movimenti di liberazione nazionale.
Così la sinistra ha perso le elezioni europee e la possibilità di governare in Italia; così ha mutato la base del proprio elettorato, come dimostra la geografia del voto nelle consultazioni degli ultimi dieci vent’anni. Classe operaia addio: adesso l’ex Partito di Togliatti e Berlinguer pensa agli immigrati come bacino di (improbabili?)voti per far fronte alla sua crisi senza scampo, dovuta alla sua subalternità totale al carro di Repubblica e di De Benedetti e all’assenza di ogni reale programma riformatore.
L’immigrazione non è certo il solo terreno in cui si scopre e verifica “la sinistra che non c’è” – ce ne sono ben altri, a cominciare dalla politica economica per proseguire con la riforma della Giustizia, dell’Università, o la politica estera - ma sicuramente il principale, soprattutto per una forza che un tempo faceva del legame con le masse popolari la base dei propri successi in Parlamento e nel paese. (www.claudiomoffa.it)

mercoledì 26 agosto 2009

Quando De Benedetti tramava in politica: come ha fatto fortuna. Geronimo

La verità, come si sa, è sempre rivoluzionaria. Pochi la cercano e molti la temono. Altri, invece, pensano di poterla «governare» a proprio uso e consumo e tra questi, da sempre, ci sono gli amici di Repubblica. Ogni tanto partono in quarta come se fossero scesi qualche minuto prima dal monte Sinai sul quale avrebbero ricevuto, di volta in volta, le tavole della verità da comunicare al mondo. E come sempre è capitato nella storia dell’Uomo, chi inveisce moralisteggiando contro tutti dimentica di avere alle sue spalle ombre lunghe e inquietanti. Ma veniamo al fatto. Chi, come il Giornale ed altri, ha cominciato a indagare sui conti di casa Agnelli e sulle probabili evasioni fiscali lo ha fatto solo perché ha raccolto le notizie da uno dei massimi esponenti di quella famiglia, la figlia dell’Avvocato signora Margherita. Apriti cielo. Il simpatico Giuseppe D’Avanzo che sa sempre tutto su tutti tranne che sul suo editore Carlo De Benedetti, ha intimato di fatto al nuovo direttore del Giornale (ma perché solo a lui?) di dire anche tutte le malefatte, vere o presunte, di Silvio Berlusconi se voleva continuare le indagini sulle evasioni fiscali, anch’esse vere o presunte, di casa Agnelli. D’Avanzo sa che noi lo stimiamo e che per tale stima seguiamo passo dopo passo le sue orme.

Se dobbiamo fare la storia di Mediaset o quella personale di Berlusconi, come chiede D’Avanzo è giusto che anche lui faccia la storia personale e politica di Carlo De Benedetti, l’editore autorevole e illuminato del gruppo Repubblica-Espresso. Se dobbiamo sposare la Verità, e noi più di altri ne siamo affascinati, volgiamo dunque lo sguardo a 360 gradi cominciando proprio da chi predica legalità e santità e cioè dall’editore di Repubblica. In questa ricerca vogliamo dare una mano al caro D’Avanzo che forse non ricorda alcune vicende della storia italiana, quelle vicende che pure tanta devastazione produssero sul sistema politico-economico italiano. Per brevità non vogliamo ricordare la vicenda del gruppo alimentare Sme che De Benedetti stava acquistando per poche lire e che Giuliano Amato, per nome e per conto di Bettino Craxi, impedì con un intervento durissimo nella commissione Bilancio della Camera dei deputati.

Vedremo tra poco come Giuliano Amato, anni dopo, si fece perdonare dall’amico Carlo. Partiamo, invece, dal progetto «politico» che Carlo De Benedetti, con l’accordo anche di Gianni Agnelli, mise a punto nei primi mesi del 1991 per cambiare gli assetti politici che l’Italia si era democraticamente dati e per portare al governo del Paese il vecchio Pci che a Rimini stava «espellendo» la sua area più dura, quella che poi assunse il nome di Rifondazione Comunista. Nel marzo del ’91 De Benedetti chiese all’allora ministro del Bilancio Cirino Pomicino se voleva «essere il suo ministro» dopo avergli spiegato le ragioni del progetto e i suoi protagonisti. Quell’offerta, tra l’altro, per come fu fatta, dimostrò la concezione «proprietaria» che De Benedetti aveva della politica e che si impose in Italia sin da quegli anni anche se, per l’eterogenesi dei fini, con altri protagonisti.
Ma la vocazione proprietaria della politica di Carlo De Benedetti era sempre finalizzata a questioni economiche. E, infatti, il 28 marzo 1994 il carissimo Carlo Azeglio Ciampi quando stava per lasciare Palazzo Chigi perché gli amici sponsorizzati da De Benedetti (Occhetto e compagni) erano stati sconfitti alle elezioni un giorno prima da Berlusconi, decise il vincitore della gara d’appalto per il secondo gestore dei telefonini in Italia. Il vincitore fu naturalmente Carlo De Benedetti. Gli sconfitti, la cordata Fiat-Fininvest. Siccome «ciascun dal proprio cuor l’altrui misura» Carlo De Benedetti immaginò che il proprietario della Fininvest sconfitta, una volta arrivato a palazzo Chigi, avrebbe di fatto revocato alla Olivetti la licenza di secondo gestore della telefonia mobile. Così naturalmente non fu e il moribondo governo Ciampi, figlio dell’intrigo di palazzo, si comportò come i generali nazisti che con gli americani alle porte fuggivano bruciando le ultime carte e fece nascere la Omnitel di Carlo De Benedetti che realizzò uno dei migliori affari della sua vita. Ma all’ingegnere d’Ivrea non bastava. Il compianto Lorenzo Necci presidente delle Ferrovie di Stato,

Ma Giuliano Amato, nominato alcuni mesi dopo da Silvio Berlusconi presidente dell’Antitrust, si mise di traverso suggerendo addirittura a Lorenzo Necci quale dovesse essere il destinatario della rete telefonica ferroviaria e cioè la Omnitel di Carlo De Benedetti probabilmente per farsi perdonare il suo acerrimo contrasto all’acquisto della Sme di alcuni anni prima. E così fu. Il prezzo concordato fu di 750 miliardi di lire (350 in meno del prezzo pattuito tra Stet-Telecom e Fs) e il pagamento fu rateizzato in 14 anni con rate annuali di 76 miliardi sempre di vecchie lire. Roba un po’ da ridere.

Qualche tempo dopo Omnitel-Infostrada governata a quel tempo dal duo Colaninno-De Benedetti fu venduta ai tedeschi della Mannesman per 14mila miliardi senza, naturalmente, alcuna rateizzazione. Potremmo continuare a «spigolare» qui e là a cominciare dalla scandalosa vicenda Seat-Pagine Gialle che in poco più di 30 mesi passò dalla Telecom pubblica alla società Otto e poi di nuovo alla Telecom privata con una plusvalenza di oltre 14mila miliardi. Nella cordata iniziale che si candidò a comprare la Seat dalla Telecom c’erano insieme a Comit, De Agostini, Bain Cuneo, B.C. partner, Cvc partner, Investitori associati, anche il gruppo editoriale Espresso-Repubblica, che comunque ne uscì prima che l’acquisto fosse concluso.

Resta il fatto che ben il 42% della società che acquistò la Seat e che quindi realizzò la scandalosa plusvalenza era nelle mani di azionisti sconosciuti e collocati nei paradisi fiscali. Carlo De Benedetti e il principe Caracciolo non c’erano più nella cordata ma un tarlo malizioso c’è sempre nella nostra testa. E, come dice il vecchio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma si indovina. Ci fermiamo qui lasciando al nostro amico D’Avanzo di continuare la carrellata. Se ha difficoltà potrà sempre chiamarci, ricordandogli, in ultimo, che senza l’iniziale progetto politico di De Benedetti, Berlusconi non sarebbe mai sceso in politica. aveva concluso nel dicembre del 1993 con la Telecom pubblica di Ernesto Pascale la vendita della rete telefonica ferroviaria per 1.100 miliardi di vecchie lire. (il Giornale)

lunedì 24 agosto 2009

Naufraghi. Davide Giacalone

L’ennesimo barcone, l’ennesima strage di poveri disperati, l’ennesimo caso di speculazione. Partiti in 78 (almeno così dicono), dalle coste libiche, arrivati in 5, a Lampedusa. Uno sfregio sul volto dell’estate, una ferita non sanabile, un dolore non misurabile. Dicono, i sopravvissuti: “non abbiamo avuto soccorso”.
E qui sbagliano, come chi riprende ed amplifica le loro parole, senza l’aiuto della ragione. Nessuno è morto per mancati soccorsi italiani, mentre in 73 avrebbero perso la vita per colpa dei criminali che organizzano il commercio di carne umana, di chi si arricchisce sulla pelle dei disgraziati, delle organizzazioni umanitarie che assistono al transito senza intervenire, dei soliti pensatori deboli che se non riescono ad attribuire la responsabilità di tutto alle democrazie occidentali, lisciando il pelo di fondamentalismi, dittature e violenze tribali, non riescono a spiegarsi nulla del mondo che li circonda.
Per tutta questa gente noi italiani abbiamo un dovere: individuare i barconi che si mettono in mare e correre, quando ancora sono sulla battigia, a prenderci i clandestini, prima che si facciano del male, anche prima che parta una richiesta d’aiuto. Questo sarebbe un buon comportamento, pregno d’umanità. Invece è una follia, che fa sponda alla criminalità. Lo sanno anche nei più sperduti villaggi africani che il nostro sistema di diritto fa pena, lo sanno ad est come a sud che una volta entrati in Italia la procedura d’espulsione ha tempi lunghissimi e riguarda solo pochi casi. E sanno tutti che abbiamo una legislazione ipocrita, che finge di non riconoscere il bisogno d’immigrati, talché nella categoria dei clandestini mettiamo tanto gli spacciatori quanto le badanti. Siccome lo sanno tutti, ma proprio tutti, ecco che la nostra giustizia scassata ed il nostro legislatore fellone si trasformano nel più grande affare per gli schiavisti: non serve nemmeno attrezzare barche decenti, si mette in mare la merce e la si indica agli italiani, che provvedono al ritiro. Pochi soldi investiti e pochi rischi. Successo sicuro, quindi nuovi clienti. Una pacchia. Se, poi, capita che ci scappi qualche decina di morti, allora la colpa sarà tutta di questi infami e disumani italiani. Sarà colpa della capitaneria che non accorre, o di quei privati che lanciano acqua e viveri, senza provvedere a prendere a bordo, portarsi a casa ed offrire un avvenire a questi umani che non la sorte, ma la criminalità ci ha spediti.
In questo specifico caso, inoltre, la polemica forsennata è partita ancora prima d’avere ascoltato la versione completa, non priva di contraddizioni, dei naufraghi. Già, perché loro dicono d’essere stati assistiti dai maltesi, che qualcuno ha riacceso il loro motore ed indicato la rotta per Lampedusa. Sarà vero? Lo vedremo, di certo non è colpa nostra. Così com’è certo che nessuno era stato avvistato, nonostante il pattugliamento sia costante. Molte cose non tornano, insomma, ma questo non ferma certuni. Ancora una volta avventurosi. E’ temerario, ad esempio, che il quotidiano Avvenire, quotidiano dei vescovi, tracci un parallelo con la Shoa, perché questa è una doppia bestemmia: nei confronti di quel che fu e di quel che accade. La mancata denuncia dell’Olocauso, inoltre, è questione che riguardò proprio il Vaticano. La spara grossa anche monsignor Schettino, della Conferenza Episcopale Italiana, parlando di esseri umani in fuga dalla guerra. Per quel che è vero, si tratterebbe di rifugiati, che l’Onu dovrebbe riconoscere con i propri uffici, presenti in tutti i Paesi che circondano la Libia. Perché monsignore non se la prende con la burocrazia del palazzo di vetro? Il fatto è che nella maggior parte dei casi non è vero, il che non toglie che si tratta di migranti in fuga dalla miseria. Anche in questo caso, però, il problema non può essere solo italiano, e monsignore avrebbe nuovamente sbagliato indirizzo.
A questi svarioni del mondo cattolico si allinea subito la sinistra politica, a cavallo fra il terzomondismo e la voglia di criticare senza troppa attenzione alle cose reali. Che dire? Visto che vi piace, andate a rivedere il film di Nanni Moretti, quello che riprende l’arrivo dei barconi stracolmi d’albanesi. Allora era D’Alema, a sedere a Palazzo Chigi.
Certi protagonisti dell’accoglienza, certi umanitari un tanto al chilo, certi buonisti feroci, sono come i pedofili: vogliono talmente tanto bene ai bambini, che è bene tenerglieli lontani.

martedì 4 agosto 2009

Dura lex, sed lex. Carlo Federico Grosso

La liberazione di Valerio Fioravanti suscita, inevitabilmente, sconcerto. Condannato più volte all’ergastolo perché giudicato esecutore materiale della strage alla stazione di Bologna e per avere commesso altri numerosi omicidi politici, nonostante la pesante gravità dei reati dei quali è stato riconosciuto colpevole è stato giudicato meritevole del beneficio della liberazione condizionale.

Eppure non ci si può stupire più di tanto. Il nostro codice penale prevede, infatti, che anche il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena (che in realtà sono ancora meno, grazie all’abbuono di tre mesi per ogni anno di detenzione, stabilito per ogni condannato che abbia tenuto una buona condotta carceraria).

La liberazione condizionale non è, ovviamente, prevista senza condizioni: essa può essere concessa soltanto se il condannato ha tenuto un comportamento tale da fare ritenere sicuro il suo ravvedimento e soltanto se ha risarcito le vittime del reato, salvo che dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempiere alle obbligazioni civili. Evidentemente Fioravanti è stato giudicato dal Tribunale di sorveglianza ravveduto e, poiché non mi risulta che abbia risarcito, deve avere dimostrato l’impossibilità di adempiere alle obbligazioni civili maturate.

Prendiamo atto. D'altronde la legislazione penale italiana prevede, all’art. 27 comma 3 della Costituzione, che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato; pertanto, se non fosse previsto che anche l’ergastolano ravveduto ha titolo per essere riammesso nel consorzio degli uomini liberi, la pena dell’ergastolo sarebbe, inevitabilmente, costituzionalmente illegittima.

Ciò detto, credo che sia comunque importante, nel caso di specie, procedere ad alcune precisazioni ulteriori. Innanzitutto occorre sottolineare che la concessione della liberazione condizionale non ha nessun riflesso sulle condanne a suo tempo inflitte. Esse sono state pronunciate, sono diventate esecutive, in quanto tali hanno scolpito la «verità giudiziale». Per la giustizia italiana, ad oggi, Valerio Fioravanti, nonostante si sia dichiarato innocente, è pertanto, sempre, l’esecutore materiale, insieme a Francesca Mambro e a Luigi Ciavardini, della strage del 2 agosto 1980. E’ stato liberato, ma soltanto perché il suo comportamento carcerario, e le valutazioni sulla sua attuale personalità, hanno convinto un Tribunale che egli fosse soggetto ormai ravveduto, non perché la sua condotta sia stata valutata diversamente da allora.

In secondo luogo, occorre prendere atto che, con il trascorrere degli anni, sono emerse perplessità sulla colpevolezza dei tre (allora giovanissimi) neofascisti condannati come esecutori materiali della strage, e che tali perplessità, alimentate inizialmente soltanto dalla estrema destra (per ragioni evidenti di immagine e di interesse politico), si sono con il tempo rafforzate, fino a coinvolgere ambienti della stessa sinistra. Ciò non può tuttavia scalfire, occorre dirlo con forza, il peso e l’importanza di un processo condotto in un contesto molto difficile, intossicato da ripetuti tentativi di depistaggio, che è riuscito, comunque, a fare emergere qualche brandello di verità: i forti elementi indiziari a carico di alcuni imputati dell’esecuzione della strage, che legittimano a pieno titolo (allo stato) la loro condanna penale, e la prova dell’attività criminale dei servizi nella costruzione delle false piste sulle quali si è cercato di dirottare l’indagine penale.

Il processo di Bologna non è riuscito, è vero, ad individuare, a fianco degli esecutori materiali, i mandanti e gli organizzatori della strage. Il processo era partito con un numero elevato di imputati, nel capo di imputazione aveva individuato mandanti, istigatori e responsabili morali. Nei loro confronti non è stato tuttavia in grado di raccogliere prove o indizi sufficienti per una loro condanna. Capisco, peraltro, che i familiari delle vittime, e la città, nel Paese delle stragi impunite, pur chiedendo che tutti i veli vengano sollevati e che siano finalmente individuati mandanti ed organizzatori, difendano comunque le condanne ottenute, e ne rivendichino la legittimità contro chi vorrebbe cancellarle e, soprattutto, cancellare l’aggettivo «fascista» dalla lapide che, nella stazione, ricorda gli 85 morti del 1980. (la Stampa)