giovedì 27 settembre 2007

Le donne non "meritano" le quote femminili. Davide Giacalone

Mi faccio del male, tocco un tema del quale parlano solo quelli che puntano all'applauso: le quote femminili per le elezioni. Normalmente gli schieramenti sono questi: attempati signori e capi di partito inamovibili, tutti maschi, dicono che sarebbe meglio adottarle, per dare più rappresentanza alle donne; ma donne che hanno già incarichi di responsabilità o sono già state elette rifiutano, con un certo sdegno.
La riserva di quote è sempre conseguenza di un'accertata inferiorità (in questo caso di potere, visto che sono più numerose e parimenti intelligenti, come parimenti sciocche). Io sono contrario alle quote, ma per ragioni diverse.
L'ordine dei medici ci fa sapere che le donne che praticano la professione sono già il 35% del totale ed il 47 ha una specializzazione. Nel 2003 le laureate erano già il 60% del totale, e ciò significa che presto ci saranno otto donne su dieci medici. Comico, e sessuofobico, è che, nel darne annuncio, si sottolinea come la cosa valga anche per gli urologi, come se per le donne fosse un problema avere un ginecologo maschio. Ma lasciamo perdere.
Indagate in professioni come la magistratura, o l'insegnamento, e trovate fenomeni eguali, se non ancora più forti. Al tempo stesso, però, l'Italia è il Paese con la minore percentuale di parlamentari donne, che non solo è un'anomalia, ma anche la segnalazione di un guasto. Le quote non sono un rimedio, e potrebbero essere controproducenti, limitative (nel campo medico, appunto, dovrebbero tutelare i maschi). E' un bene che sempre più cittadini, e sempre più donne, aspirino a fare attivamente politica, ma è meglio che avvenga premiando il merito, la capacità ed il coraggio, non il genere. Così com'è bene che sempre più donne aspirino a carriere importanti, ma rendendole competitive, non nicchie protette dove far convivere la professione possibile con la vita desiderabile. Sarebbe un vero disastro che la promozione femminile coincidesse con la burocratizzazione della società, e la loro promozione politica con il fiorire delle cortigiane, anziché delle personalità.
Dire questo, forse, è sgradevole, ma più rispettoso che raccogliere il consenso con quote che non mettono in pericolo le oligarchie. Far bello il capo maschio con un contorno di figliole non mi pare sia un gran rinnovamento.

Al Direttore. il Foglio

Sulla fragilità della linea di difesa dell’occidente, io ci andrei giù ancora più pesante. Sono pronto a scommettere che i boati di dissenso contro Ahmadinejad venivano da una platea sostanzialmente etero, che, in nome della solidarietà verso i gay, gli diceva il fatto suo. Ne sono sicuro, perché a New York, dove per altro il movimento gay ha raggiunto livelli di eguaglianza in fatto di diritti e di visibilità come in nessuna altra città al mondo, non si è levata, mai, dico mai, nessuna voce contro le impiccagioni degli omosessuali del regime iraniano o contro le società liberticide dei paesi musulmani. Mai un corteo, mai una protesta, forse sono troppo impegnati a dimostrare davanti alla Casa Bianca contro Bush e la sua politica imperialista. Perché, diciamola una buona volta tutta la verità, il movimento gay, in tutti i paesi nei quali è libero di esprimersi, è da sempre una appendice dei partiti di sinistra, anche se, formalmente, può apparire indipendente dalla politica tradizionale. Succede in Usa, succede in Italia. Le bandiere arcobaleno sfilano nei cortei dove si bruciano le bandiere americane e israeliane, i gay nostrani vanno in visita di solidarietà a Ramallah, magari con fidanzati palestinesi appresso, e anche se ricevono in cambio percosse e calci in culo, come è successo questa estate a dei gay romani, mica capiscono che due più due fa quattro, no, girano la testa verso Israele e gliene attribuiscono la responsabilità. Fregandosene, in più, che a loro, tutto sommato, calci in culo e umiliazione non lasciano traccia, mentre i fidanzati palestinesi chissà che fine fanno. Si dirà, la sinistra strumentalizza i gay per ottenerne i voti, verissimo, basta ricordarsi i vari disegni di legge Dico e simili, vero fumo negli occhi di chi si illudeva che da questo governo sarebbe arrivata una giusta legge, ma anche enorme responsabilità di una opposizione, non mi va di scrivere di destra, ci sono dentro tutti, che di fronte alla modernità non ha saputo rispondere altro che culattoni. Solo un esempio, sfido a trovare nella politica italiana, chiamiamola moderata, un Rudolph Giuliani, conservatore e falco in economia e politica estera e nello stesso tempo sulle posizioni più liberal in fatto di diritti umani e civili. Allora teniamoci i brontosauri che abbiamo e smettiamola di lamentarci. Se i nostri politici sono quello che sono, salvo pochissime eccezioni – penso ai radicali – allora non mi stupisce che anche i gay nostrani riflettano la classe politica che hanno contribuito ad eleggere.
Angelo Pezzana, Torino

mercoledì 26 settembre 2007

Troppo tardi. Maria Giovanna Maglie

Non fosse che il nostro problema è quotidiano e angosciante, che la condizione di vita nelle città sta diventando insopportabile, che crimini, disagi, prepotenze sono stati per un anno denunciati ogni giorno dall’opposizione e bollati ogni giorno dal governo come forme pericolosissime di razzismo risorgente, si potrebbe con umorismo residuo commentare il grido d’allarme di Giuliano Amato, e i gridolini di Paolo Ferrero, ricorrendo alla saggezza popolare: tanto tuonò che piovve, chiudete la stalla quando i buoi sono scappati, e via con tanti altri proverbi. Ma questi sono i ministri che si compiacciono di dichiararsi «ministro dei clandestini» e invitano gli immigrati alla ribellione, che scrivono saggi supponenti contro l’imperialismo dell’Occidente, solo perché la maggioranza degli occidentali disapprova l’imposizione del velo e la segregazione delle donne musulmane nel nostro Paese. Questi ministri e il governo che esemplarmente rappresentano si apprestano oggi a benedire la discussione in Parlamento di una nuova legge, che sostituirà la Bossi-Fini, che tutti già chiamano legge dell’immigrazione libera, e che porta i loro due nomi. Non sono colpevoli solo di un deplorevole ritardo, sono inaffidabili. La sicurezza dei nostri confini è preziosa, loro la disprezzano.
Nel gennaio scorso Romano Prodi ha firmato l’ingresso della Romania nell’Unione Europea, da allora a oggi l’esodo dei rom è stato incessante. Nessuno ha il coraggio di fare dei numeri realistici, Ferrero azzarda uno spaventoso centocinquantamila, ma sono molti di più; forse nessuno ci riesce, troppe sono le baraccopoli nascoste lungo i fiumi dove una volta passeggiavamo, sotto le pinete dove facevamo le gite alla domenica, a pochi metri dai condomini dove la gente viene derubata quando esce a fare la spesa. Solo a Milano, il primo Comune che si è provato a dire basta, ce ne sono diecimila, e i quattro milioni di euro che il ministro della Solidarietà Sociale ostenta come il miracolo, servono a ben poco. Sarebbe bastato applicare una moratoria, uno stop per due anni, invece il governo e i due ministri che ora si dicono preoccupati hanno detto no. Sarebbe bastato che l’Italia facesse non dico come Sarkozy, ma seguisse la direttiva europea che parla chiaro: o hai un lavoro che ti consente di mantenerti o non entri nel nuovo Paese dove vorresti risiedere. Non hanno voluto fare niente, troppo impegnati a tenere buoni i comunisti loro compagni, troppo occupati a fingersi i nuovi paladini di un mondo più buono.
Anche ora non hanno cambiato idea. Si sono spaventati, questo sì, dell’invasione dei rom e dello sdegno degli italiani, e tentano di scaricare le responsabilità di un problema ormai al precipizio sulle istituzioni locali, le stesse che prima hanno spocchiosamente ignorato, accentrando tutte le decisioni al Viminale. Incapaci, in mala fede, pericolosi.(il Giornale)

I debiti degli italiani. Emanuela Melchiorre

Circa la metà del reddito disponibile dell'italiano medio è destinato al pagamento dei debiti. Secondo l'intervento di Mario Draghi all'assemblea ordinaria dell'Abi del luglio 2007, dalla fine degli anni Novanta l'indebitamento delle famiglie è passato dal 31% all'attuale 48% del reddito disponibile. Questo è un dato destinato ad aumentare. La Banca d'Italia ha segnalato, infatti, un aumento dei prestiti alle famiglie consumatrici dell'8,7% sui dodici mesi. Il loro ordine di grandezza oggi è di 342 miliardi di euro circa. Il maggior numero di famiglie indebitate risiede nel centro-nord, dove è concentrato il 78% circa delle consistenze totali. Poiché le voci di debito familiare sono riconducibili a due grandi categorie (il mutuo immobiliare e il credito al consumo), la prima causa di indebitamento è dovuta all'inasprimento dei tassi di interesse sui mutui immobiliari, mentre la seconda all'aumento del credito al consumo per beni non più solo durevoli, ma anche di consumo intermedio (telefonini, computer, vacanze e beni di uso quotidiano).

L'incremento delle esposizioni delle famiglie italiane costituisce un indicatore importante della loro condizione di disagio economico in questo periodo di economia quasi stagnante, in cui aumentano i debiti e si riducono i risparmi. Il disagio ha origini però lontane nel tempo. In primo luogo è dovuto alla perdita di potere di acquisto dei redditi in seguito all'introduzione dell'euro, che in molti casi ha di fatto dimezzato il valore reale dei redditi degli italiani. Ciò che costava mille lire si paga oggi un euro. Allo stesso tempo, la politica monetaria della Bce di alti tassi di interesse ha acuito l'onere finanziario delle famiglie che hanno acceso un mutuo immobiliare. Il tasso di interesse sui mutui in Italia è arrivato a 5,63%, che costituisce il livello più alto di questi ultimi cinque anni e risulta notevolmente superiore alla media europea (4,72%).

Per poter mantenere il medesimo tenore di vita, le famiglie hanno reagito in primo luogo aumentando il credito al consumo, che costituisce per loro una maggiore voce di debito ma allo stesso tempo un modo per disporre di beni di consumo altrimenti non fruibili. In secondo luogo - e questo è un fenomeno degli anni recenti - hanno rinegoziato i propri mutui per allungarne la durata al fine di mantenere inalterata la rata mensile. Ma questa seconda operazione costituisce anch'essa una maggiorazione di debito. La rinegoziazione del mutuo allungandone la durata è un fenomeno che è cresciuto anche per via del divieto di imporre penali per tale rinegoziazione in seguito alla riforma del risparmio. Le banche però hanno contrastato tale «liberalizzazione» evitando e ponendo difficoltà burocratiche alla effettiva rinegoziazione, secondo quanto è stato denunciato dall'Associazione difesa consumatori ed utenti bancari, finanziari ed assicurativi (Adusbef).

È allarmante il fatto, infine, che il valore delle insolvenze aumenti di anno in anno. Un gran numero di famiglie non è più in grado di fare fronte ai propri impegni finanziari. Il rapporto Nomisma evidenzia, appunto, che il numero di queste famiglie, che si vedono costrette a rinunciare all'acquisto della propria casa, è cresciuto del 7,3% rispetto all'anno precedente.(Ragionpolitica)

martedì 25 settembre 2007

Fermate il piano "contro" la casa. Marco Taradash

L’idea di Di Pietro.

Fermate Di Pietro! Dinanzi all’ultimo piano-casa proposto dal ministro delle Infrastrutture viene da pensare che è davvero uno strano Paese l’Italia, la quale dedica una quantità incredibile di energia a discutere delle bizzarrie di un comico volgarotto, simpatico e anche un po’ sprovveduto mentre sembra del tutto ignorare il disastro che l’ex-pm di Mani Pulite sta preparando, con il proposito di inserire una serie di misure riguardanti il disagio abitativo nella prossima legge finanziaria. In primo luogo, qualche cifra. Mentre dalle Alpi al Lilibeo si chiede di ridurre la tassazione, Antonio Di Pietro propone un pacchetto di misure che egli stesso valuta intorno agli 1,5-1,7 miliardi di lire. Si tratta di una cifra mostruosa che egli vorrebbe destinare sostanzialmente ad iniziative di tipo assistenziale: creando un fondo di sostegno agli affittuari, mettendo in cantiere nuovi quartieri-dormitorio, finanziando cooperative edilizie. Lungi dall’aver compreso che i problemi abitativi italiani sono conseguenza dell’assenza (o quasi) di mercato in tale settore, il ministro intende aggravare l’intervento pubblico.

Oltre a pesare gravemente sull’Italia produttiva, il piano prefigura conseguenze gravissime. Invitiamo allora Di Pietro a farsi un viaggetto a Parigi e a visitare un Paese che ben più dell’Italia ha investito nell’edilizia popolare. Si addentri un po’ nei quartieri HLM (habitation à loyer modéré) e – anche grazie alla sua esperienza da poliziotto – valuti un po’ qual è il decoro e la qualità della vita delle periferie parigine. Ebbene: quel disastro sociale, che periodicamente si converte in rivolte e violenze, è figlio di un’edilizia pubblica che ha finito per creare ghetti in cui i figli dei più derelitti conoscono solo bambini come loro. Nei decenni scorsi, per nostra fortuna, l’Italia ha investito assai meno in quella direzione. Ma dove l’ha fatto i risultati sono assai simili: come dimostrano alcune periferie di Milano o Napoli, di Bari o Roma. Anche se sono costate cifre da capogiro, le grandi aree dei quartieri ex Iacp sono state un fallimento proprio perché non sono affatto riuscite a dare quelle risposte al disagio per le quali erano state realizzate.

Poiché è ancora in tempo, Di Pietro farebbe bene a lasciar perdere il suo progetto e a dirigersi esattamente nella direzione opposta. Un progetto che voglia aiutare concretamente la povera gente sarebbe assai meno oneroso per i contribuenti e assai più efficace per i poveri. Al primo punto dovrebbe prevedere l’abolizione completa dell’Ici e dell’Irpef sulla casa, insieme ad ogni altro tributo che finisca per gravare sul costo reale delle abitazioni. In secondo luogo dovrebbe realizzare il superamento di quella tassa impropria che è il balzello riscosso dai notai in occasione di ogni transazione: se una coppia che compra casa potesse risparmiare le molte migliaia di euro che oggi consegna al notaio, è chiaro che la proprietà si amplierebbe con facilità. In terzo luogo, è necessario liberalizzare il mercato delle locazioni, dato che il sistema attuale induce molti a non affittare la seconda casa di proprietà, per timore di non poter rientrarne in possesso nel momento in cui essa dovesse servire al figlio o a qualche altro parente. Faciliti gli sfratti ed elimini ogni regolamentazione del settore e vedrà che molti appartamenti torneranno sul mercato, con la conseguenza che i canoni attuali finiranno per calare sensibilmente.

Non solo. Se volesse veramente aiutare quanti fanno fatica a trovare casa, pagare i mutui o sostenere l’onere delle locazioni, Di Pietro dovrebbe avere il coraggio di mettere in discussione l’apparato pianificatorio di stampo sovietico che grava sulle città italiane. Dovrebbe insomma avere il coraggio di contestare a voce alta i piani regolatori, difendendo la proprietà privata e quindi il diritto di ognuno a disporre dei propri beni (terreni inclusi) quando ciò non arreca danno ad altri. Restituire la piena proprietà delle aree ai legittimi proprietari, abilitati a costruire quanto vogliono, permetterebbe di superare il vincolismo attuale e farebbe crollare il costo delle aree, eliminando al tempo stesso quella costante fonte di corruzione che sono i piani regolatori. Per molti paesi e città, sarebbe la fine del dispotismo di quei geometri-assessori che arricchiscono loro stessi e i partiti di cui fanno parte spostando qualche riga e decidendo a loro piacere quali aree sono verdi, quali agricole e quali fabbricabili. Infine, Di Pietro dovrebbe privatizzare interamente le case di proprietà pubblica, utilizzando gli introiti per creare fondazioni locali incaricate di attribuire – anno per anno – un aiuto monetario a chi non ha i soldi per trovare casa. Queste fondazioni private dovrebbe essere gestite da chi volontariamente contribuisce ad incrementarne il patrimonio complessivo. C’è insomma bisogno di più libertà e responsabilità, perché se lo statalismo ha creato il disastro attuale, esso non può essere certo la soluzione ai problemi che siamo chiamati ad affrontare. (l'Opinione)

lunedì 24 settembre 2007

Napolitano telegenico. Davide Giacalone

Basta con politici ed istituzioni in continua passerella televisiva. Parola del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Parlava dal Quirinale, si rivolgeva alle Camere, come previsto dalla Costituzione? No, si trovava in un contesto informale, davanti alle telecamere. Era a Napoli, dove nel viaggio precedente, dopo averci fatto sapere che preferiva far colazione da Gambrinus (che merita la pubblicità) nello stesso bar intrattenne tutti sui temi del lavoro e della napoletaneità. Nessuno ebbe da ridire e, oggi, l'approccio ginocchioni del giornalismo preposto alla raccolta della fondamentale tesi presidenziale era spinto così innanzi da far definire “coraggiosa” la domanda rivoltagli da una ragazza. Mi sfugge cosa ci si guadagni nell'accettare tanto servilismo.In realtà Napolitano sembra confermare, giorno dopo giorno, la previsione fatta da Cossiga: passai per un esternatore forsennato, ma parlai meno di Scalfaro, meno di Ciampi, ed assai meno di quel che parlerà Napolitano. Detto questo, la questione non è solo di protocollo presidenziale ed è giusto chiedersi se, al di là delle forme e della coerenza, il richiamo del Presidente sia fondato, nel merito. Non credo.Nell'era della comunicazione elettronica è naturale che anche chi fa politica ed ha incarichi istituzionali sia più esposto. Non infastidiscono i minuti impiegati per parlare, ma il tempo sprecato senza dir nulla. Non indispettisce un politico in televisione, ma il suo degenerare a buffone quando canta, balla, cucina, si tira le torte in faccia. Torniamo alla tesi di Prodi: gli italiani non sono migliori dei loro politici. Ed i politici non sono migliori dell'idea più triste che ci si possa fare degli italiani. Questo mi pare sia il problema.Alla fine il risultato è paradossale: chi ha qualche cosa da dire è cancellato dai grandi mezzi di comunicazione, perché non intrattiene e non fa spettacolo, non fa il buffone. Chi, invece, preferisce non dir nulla sta sempre lì, a rappresentare il vuoto d'idee e spirito civile. Nel caso Napolitano volesse dire qualche cosa di un po' meno arraffazzonato e scontato, magari anche un filo più significativo, gli suggerisco questo tema. Tenuto anche conto che la Rai è un'azienda di Stato ed ancora pretende di svolgere un servizio pubblico.

sabato 22 settembre 2007

Lemuri.com. Filippo Facci

Le demoscopie sul grillino medio si sono dispiegate, e la severa disponibilità di un gruppo nutrito di politici, aperti e cortesi dopo esser stati mandati affanculo a 300.000 watt, si va normalizzando. Non dispiacerà se dico qualcosa anch’io, visto che la famosa «rete» la conosco a sufficienza e scrivo e interloquisco sul secondo blog italiano. Primo: «la rete» non esiste, è così varia da equivalere a un target che vada dai 15 ai 50 anni. Secondo: a una grandissima parte di costoro il grillo comicante sta tremendamente sulle palle. Terzo: il popolo titillato da Grillo è il peggio di questo Paese e di qualsiasi Paese. Non c’è da capire o da intercettare: è una categoria dello spirito, sono i bruti e gli informi di Nietzsche, ignoranti nell’anima, invidiosi sociali. Odieranno sempre il politico e chiunque spicchi, perché nell’altrui compiutezza e appariscenza scaricheranno le colpe della loro mediocrità. Nulla basterà mai loro, neanche se un ministro guadagnasse 50 euro al bimestre e girasse in bicicletta blu. Presi da soli sono amebe annichilenti, in gruppo invece si fanno tipicamente squadristi, insultano, fanno mucchio, godono per chiunque rotoli nella polvere. Ovvio che un domani potrebbero farlo tranquillamente anche per Grillo.(il Giornale)

venerdì 21 settembre 2007

Biglietto prego. Filippo Facci

Ci accodiamo a tutti i complimenti rivolti a Riccardo Capecchi e alle sue dimissioni cosiddette «irrevocabili», espressione che nel mondo normale suonerebbe ridondante. Peraltro, beccato da quel Dagospia che tanti fingono di schifare, Capecchi ha mandato la lettera di dimissioni anzitutto a Dagospia: altri, per annunciare dimissioni revocabilissime, avrebbero suonato il corno inglese e contattato al minimo il New York Times o la Santa Sede.

Resta evidente che nella classifica dei goffi e dei tracotanti abbia primeggiato infine il solito Mastella, ma è pur vero che Rutelli ha riguadagnato posizioni. In sostanza, per dare il famoso «passaggio» a Mastella, il nostro Rutelli ha disdetto un Falcon da 12 posti e ha optato per un Airbus presidenziale da 48 posti: sennò non poteva allungare le gambe. Poi ha fatto diramare un grottesco comunicato secondo il quale Capecchi «si è presentato all’imbarco di sua iniziativa e non è stato assolutamente autorizzato». Fantastico. Capecchi è entrato di nascosto su un volo di Stato, è l'unica: complimenti alla security. Fatelo anche voi: provate a entrare su un volo qualsiasi, anche di linea, senza biglietto e senza comparire in alcun elenco: portatevi però delle bende e il numero dell’avvocato. (il Giornale)

Caro Pirani, la presa in giro è il Pd. Emanuele Macaluso

Mario Pirani, ieri su “Repubblica”, ha iniziato il suo lungo articolo sul Partito democratico con queste parole: «Non prendiamoci in giro». E già, occorre anche, dico al mio amico Mario, non prendere in giro se stessi. La descrizione del sistema elettorale «barocco» per eleggere il segretario del partito e l'assemblea costituente escogitato dal veltroniano Bettini, e adottato da tutti gli oligarchi del Pd, non è solo un incidente tecnico che produce un quadro indecente. È, invece, esattamente la fotografia di Ds e Margherita «al capolinea», come scrisse Eugenio Scalfari sulle stesse colonne su cui scrive Pirani, che si fondono per ripartire con le stesse macchine, gli stessi vagoni, gli stessi macchinisti. Un convoglio più pesante, più zavorrato. L'idea che Veltroni dovrebbe fare le cinque cose indicate da Pirani tra cui «un governo con 15 ministri e 45 sottosegretari, il disboscamento delle migliaia e migliaia di società a partecipazione pubblica, degli assessorati inutili, delle sovvenzioni clientelari, la fine della lottizzazione, ecc.» è come prendersi in giro, caro Mario. Occorreva il Partito democratico per fare ciò che non hanno fatto Ds e Margherita che si sommano così come sono? (il Riformista)

giovedì 20 settembre 2007

Dal "benaltrismo" al "perorismo". Orso Di Pietra

Dicesi “benaltrismo” la pratica di rinviare la soluzione di qualsiasi problema affermando che la vera questione sul tappeto è molto più articolata e complessa. In una parola è “ben altro”. Storicamente i più tenaci e costanti utilizzatori del benaltrismo sono stati i dirigenti comunisti italiani. De Gasperi sfamava gli italiani con il grano del piano Marshall? “Si - dicevano a Botteghe Oscure - ma ci vuole “ben altro” che la farina“. Fanfani s’inventava le case popolari rispolverando i vecchi piani del ventennio per dare un alloggio ai baraccati? “Si - bollavano alla direzione del Pci - ma ci vuole “ben altro” che due camere, cucina e bagno”. Insomma, con la scusa che il meglio è sempre superiore al bene, i benaltristi di un tempo con la scusa del meglio disdegnavano il bene. Ora la pratica è desueta. Al suo posto si è sostituito il “perorismo”. Che è una variante del “benaltrismo” in chiave futuribile.

La gente non ne può più della pressione fiscale che svuota le tasche e serve solo ad ingrassare la “casta”? Romano Prodi va a “Porta a porta” e spiega che “per ora” di diminuire le tasse non se ne parla nemmeno. In futuro chissà! Tutti gli scienziati più seri, compreso il fratello Franco, dicono al Presidente del Consiglio che il ministro Alfonso Pecoraro Scanio ha detto una sequela di cazzate sull’aumento del clima del paese ed andrebbe messo rapidamente alla porta per non compromettere ulteriormente la credibilità del governo? Romano Prodi, sempre a “Porta a porta” chiarisce che “per ora” il caldo non è poi così insopportabile e che il ministro cazzaro rimane al suo posto. In futuro chissà! Mezza maggioranza chiede la riduzione dell’Ici per dare un segnale al paese? Romano Prodi, sempre nel salotto vespertino, precisa che “per ora” l’Ici rimane dov’è. In futuro chissà. Insomma, il “perorismo” significa che al momento il governo non fa niente. In futuro anche peggio. (l'Opinione)

Insanità cubana. Giordano Lupi

Meno male che non sono andato a vedere l’ultimo film di Michael Moore. Ho letto tante recensioni entusiaste e magari la pellicola dirà pure cose giuste, tipo la sanità statunitense fa proprio pena, se non hai denaro non ti muovi, nessuno ti cura e il povero cittadino vale meno di niente. Certo, tutto vero. Non sono andato a vedere il film perché ho letto che Moore prende la sanità cubana come metro di paragone per far capire ciò che non funziona nel suo Paese. Peggiore operazione di demagogia non la poteva fare, solo per strizzare l’occhio alla sinistra più becera e populista.

La sanità cubana funziona alla perfezione, ma è proprio come quella statunitense: se hai soldi (e sei straniero) ti curano, ti disintossicano dalla droga, ti fanno anche operazioni estetiche in una stupenda clinica dell’Avana che si chiama Cira García. Se non hai una lira (e sei cubano), ti guardano appena, se hai bisogno di cure ti internano in un ospedale per poveracci, sudicio, senza ventilatori con quaranta gradi all’ombra e privo di attrezzature. Ti tengono dentro un po’ di giorni, poi ti rimandano a casa con una bella ricetta e il consiglio di trovare pesos convertibili (dollari o euro, per chi non conosce la lingua monetaria cubana) per comprare le medicine, ché nelle farmacie cubane non si trovano. Dico questo perché mi trovo a stretto contatto con la meravigliosa sanità cubana, non sono come il signor Moore che va a Cuba in gita di piacere e dopo parla bene di Castro. Vi racconto una storia personale. Forse parlare di casi concreti aiuta più che fare demagogia, magari qualcuno comprende e separa il grano dalla crusca. Oggi telefona una cugina di mia moglie che vive in Italia, dice che ha parlato con la famiglia a Cuba, aggiunge che la madre di mia moglie ha avuto un principio di peritonite e l’hanno ricoverata d’urgenza in un ospedale per poveri dalle parti di Guanabacoa. Ha rischiato grosso, ma dopo un paio di giorni, visto che non correva pericolo di vita, l’hanno dimessa con una prescrizione medica.

Mia suocera deve prendere un medicinale importante per la salute, ma si dà il caso che questo farmaco nelle farmacie per cubani non si trova. Pare che lo vendano solo nelle farmacie internazionali e che vada pagato in divisa, alla modica cifra di 20 pesos convertibili (circa 20 euro). Per noi italiani sembra una cifra irrisoria, ma si dà il caso che mia suocera riscuote una pensione pari a 40 pesos cubani mensili (circa 2 euro). Non si può permettere di comprare una medicina tanto costosa. Per fortuna che è una privilegiata, ha una figlia in Italia che può inviare denaro e magari in un secondo tempo pure le medicine. Mia suocera ha un’altra figlia che vive a Cuba, ma pure lei riscuote uno stipendio statale che si aggira intorno ai 5 euro mensili. Non può spenderne 20 per una medicina e l’unica soluzione praticabile sarebbe quella di prostituirsi con uno straniero per salvare la vita alla madre. Ho provato la stessa sofferenza quando è morto di cancro il nonno di mia moglie e anche allora il meraviglioso sistema sanitario cubano non aveva antidolorifici da somministrare. Sono stato io a sopperire a queste mancanze e a inviare scorte di medicinali ogni volta che potevo. Vorrei che certi comunisti d’accatto provassero certe esperienze prima di continuare a sostenere Fidel Castro. Vorrei anche che il Presidente della Camera dei Deputati si vergognasse per aver fatto gli auguri a un dittatore in occasione del suo compleanno. Bertinotti si definisce comunista, ma non sa niente della povertà e della sofferenza dei cubani che lottano per sopravvivere, altrimenti non scriverebbe a un dittatore che affama il suo popolo. Il sistema sanitario cubano non è migliore di quello statunitense, perchè funziona solo per gli stranieri e non si preoccupa di realizzare una rete di cura, prevenzione e sicurezza sociale per tutto il popolo. Le cose vanno bene solo per chi possiede dollari, pesos convertibili, divisa internazionale, altrimenti sei soltanto carne da macello. (LibMagazine)

mercoledì 19 settembre 2007

Il guru di Pecoraro: "Come fare carriera barando sul clima". Vincenzo Ferrara

Quello che pubblichiamo è un articolo del 1982 tratto dalla rivista dell’Aeronautica Militare nel quale si teorizzava il catastrofismo climatico come scopo di lucro. L’autore, Vincenzo Ferrara, 25 anni dopo, è consulente del ministro Pecoraro Scanio. E gli fornisce dati catastrofici.(il Giornale)


'Se io fossi un climatologo a contatto con il pubblico, mi comporterei esattamente come il medico di fronte ad un malato più o meno immaginario. Questi malati, infatti, sanno tutto di medicina dai più remoti sintomi alle più catastrofiche prognosi perché seguono freneticamente tutte le rubriche televisive del tipo: «Curatevi da soli con lo zabaione », comprano puntualmente tutte le grandi enciclopedie illustrate a fascicoli settimanali della serie: «Tutta la salute minuto per minuto», leggono insaziabilmente libri e riviste di medicina della collana: «Tutto quello che dovete sapere dalla cefalea al cancro fulminante» e, infine, tanto per sgranchirsi il cervello, imparano a memoria il nome di qualche migliaio di medicine al giorno dal prontuario in 78 volumi delle «Specialità medicinali nazionali ed internazionali».

Ebbene, per il climatologo succede la stessa cosa. Pertanto appena il tempo fa le bizze e le temperature sono appena un po' più fredde del normale, coloro che tutto sanno si agitano furiosamente. In queste condizioni anche i più ignoranti e trogloditi sanno farsi una diagnosi e una prognosi sul clima e sulla lampante variazione climatica, e, come nel caso del malato di cui sopra, si interpella l'esperto climatologo con la frase di rito: «Il clima sta cambiando?». Orbene, se voi siete climatologo e contemporaneamente desiderate sopravvivere come un climatologo, accrescendo magari la vostra fama, non avete che da comportarvi come il medico, fornendo proprio la diagnosi e la prognosi che la gente si aspetta. Guai a rispondere: «Ma no, è tutto normale», oppure: «Sono tutte balle montate dai giornali e dalla televisione» o peggio ancora: «Ogni volta che il tempo cambia ci state a rompere le scatole con queste variazioni climatiche», perché la gente vi guarda prima sbigottita, poi con antipatia e infine conclude all'unanimità che voi meritate il confino in Siberia perché non capite un accidente né di tempo, né di clima. Sarebbe la fine della vostra carriera e vi converrebbe mettervi in pensione prima che vi buttino fuori a calci nel sedere. Ma, direte voi, come fa un climatologo serio a fornire previsioni climatiche, attualmente impossibili, e per giunta previsioni, o meglio predizioni, così opposte senza sentirsi un buffone? Non temete c'è la scienza che vi sorregge, perché la scienza in questo campo ha pensato a tutto e fornisce la soluzione per ogni caso, anche per quelli più disperati. Perciò, se fa freddo, il discorso «scientifico» da fare è il seguente: «Il clima sta cambiando e ci avviamo verso una nuova glaciazione. Questo fatto è già stato accertato perché a partire dal 1940, la temperatura media dell'emisfero nord è diminuita di circa 0,4˚C, a causa probabilmente della minor trasparenza dell'atmosfera intorbidita dal sempre maggior inquinamento dell'aria.

Il raffreddamento dell'aria provoca una maggiore estensione dei ghiacciai e dei mantelli nevosi, i quali essendo altamente riflettenti (albedo elevata) per la radiazione solare provocano a loro volta un successivo raffreddamento e quindi nuovi e più vasti ghiacciai, e così via in una spirale che porterà ad una nuova glaciazione nel giro di un secolo e forse meno». Già, ma se fa caldo come si fa a giustificare una previsione di era torrida con questi dati di fatto sul raffreddamento? State calmi. Basta affrontare il problema da un altro punto di vista altrettanto «scientifico». In questo caso il discorso è: «Il climasta cambiando e ci avviamo verso un'era torrida.

Tutto ciò è stato già scientificamente accertato perché a partire dal 1850 il contenuto di anidride carbonica nell'atmosfera è andato progressivamente aumentando e solo in questi ultimi venti anni si è passati da 315 a 334 parti per milione. Ciò significa che nel 2020 l'accumulo di anidride carbonica sarà più che raddoppiato se si tiene anche conto dei sempre crescenti consumi di energia e di utilizzo dei combustibili fossili. L'aumento di anidride carbonica riduce le perdite di radiazione ad onda lunga dalla terra verso lo spazio (effetto serra) e nel giro di meno di mezzo secolo la temperatura media dell'aria aumenterà di circa 2 o 3˚C; ci sarà scioglimento dei ghiacci polari ed un aumento medio del livello del mare che sommergerà parecchie località costiere »'.

Le idee confuse di Padoa Schioppa. Emanuela Melchiorre

Che le previsioni del governo Prodi sulla crescita del Pil (stimata dall'esecutivo al 2% per il 2007 e all'1,9% per il 2008) siano una favola per bambini è da tempo evidente a molti. Ma il ministro Padoa-Schioppa lo ha constatato solo ora. A fargli ridimensionare le sue troppo rosee previsioni hanno contribuito molti pareri autorevoli. La prima doccia fredda è venuta dall'OCSE, che ha affermato che la crescita del Pil italiano non avrebbe raggiunto il 2% auspicato. La seconda dal FMI, che ha confermato questa pessimistica previsione. Da ultimo, anche il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, non si è più voluto rendere complice di stime campate per aria e ha rivisto al ribasso quelle di Bankitalia. Così ora Padoa-Schioppa ammette che dopo il calo repentino della produzione industriale di luglio e dopo la crisi dei mutui subprime di agosto anche il nostro prodotto interno lordo finirà per crescere di appena l'1,7% per il 2007 e che crescerà ancora meno nel 2008.

Nella prossima legge finanziaria (la cui presentazione è stata fissata dal ministro dell'Economia per il 28 settembre) sarà dunque difficile evitare un'altra impennata della pressione fiscale. Ciò, purtroppo, non farà altro che rafforzare il nostro triste primato di Paese europeo con la maggiore pressione fiscale, preceduto soltanto dall Francia, che però offre prestazioni e servizi pubblici di gran lunga migliori dei nostri. L'europarlamentare di Forza Italia Renato Brunetta ha ipotizzato il raggiungimento della soglia del 44% del Pil di prelievo fiscale. Per comprendere quanto una simile politica sia inadeguata a migliorare l'andamento economico del nostro Paese giova costatare che gli Stati Uniti, una Nazione che viaggia al 2% circa di crescita del Pil, ha una pressione fiscale del 25% circa (dati OCSE), ovvero poco più della metà della nostra. Inoltre incombe sull'economia mondiale il pericolo di una crisi dell'edilizia, il cui moltiplicatore del reddito è elevato. Se si dovesse fermare l'edilizia, lo spettro della recessione sarebbe dietro l'angolo.

Ancor più penosa e incoerente è la cura che Padoa-Schioppa, dal suo pulpito dell'Ecofin in Portogallo, ha proposto, auspicando nuovi investimenti in Italia. Non si è mai visto, infatti, un aumento degli investimenti per effetto di una maggiore tassazione. Il ministro, inoltre, sostiene che la soluzione per risolvere il problema del deficit pubblico sia la riduzione della spesa pubblica. Sorge il dubbio che egli non sia stato ben informato dai suoi collaboratori a proposito dell'accrescimento di circa il 3% della spesa da parte dell'attuale governo rispetto al precedente, causata, tra l'altro, dalla creazione di nuovi ministeri e dal ricorso sfrenato all'ausilio di costosissimi consulenti esterni. Poiché la politica di maggiore tassazione del «peggior ministro delle Finanze in Europa», come non molto tempo fa è stato definito Padoa-Schioppa, è comunque sostenuta dal governo, egli proseguirà per la strada intrapresa, con il conseguente ulteriore rallentamento dell'economia italiana.(Ragionpolitica)

martedì 18 settembre 2007

I veri tagli che servono. Pietro Ichino

L'anno scorso, quando s'incominciò a discutere dell'idea di ridurre la spesa pubblica accelerando il pensionamento di 100 mila dipendenti statali anziani e assumendo un giovane esperto di informatica ogni tre o cinque messi a riposo, il Presidente della Corte d'Appello di una grande città manifestò la propria netta disapprovazione. «Se mi togliete i cancellieri anziani — disse l'alto magistrato —, cioè i più esperti, quelli che possiedono i segreti e la memoria storica dell'ufficio, non vi illudete che io possa sostituirli in quattro e quattr'otto con degli sbarbini: sarebbe un grosso guaio! Volete ridurre gli organici del 5 per cento? Vi indico io chi licenziare, giovane o vecchio che sia, senza che nessuno poi ne senta la mancanza ».
Lo sfogo dell'alto magistrato metteva il dito nella piaga di un'amministrazione statale incapace di distinguere, tra i propri dipendenti, quelli che lavorano e quelli che non fanno nulla; tra i propri uffici, quelli utili e quelli inutili. Ma sottolineava anche un'altra cosa vera: vi sono molti casi nei quali la totale improduttività di un dipendente statale, o persino di un'intera struttura amministrativa, è evidentissima; casi in cui, dunque, non occorrerebbero sofisticate tecniche di valutazione per individuare la persona che andrebbe licenziata, l'ufficio che andrebbe chiuso, o drasticamente ridimensionato a vantaggio di quelli che mancano di personale.
Da queste considerazioni prendemmo lo spunto, un anno fa, per proporre che ciascuna amministrazione pubblica si dotasse di un organo di valutazione (peraltro già previsto dalla legge Bassanini del 1999, per lo più disapplicata), garantito nella sua indipendenza e guidato sul piano tecnico da un'autorità indipendente centrale, capace di individuare subito almeno i casi più evidenti di nullafacenza individuale o di inefficienza e improduttività di un'intera struttura: quei molti casi clamorosi, sui quali non può esserci discussione. Fatta questa prima «mappatura» dei casi più gravi, non sarebbe più utopistico pensare che possa essere licenziato chi con grande evidenza lo merita, a cominciare dai dirigenti di strutture totalmente improduttive; e sarebbe possibile, in queste strutture, vietare l'erogazione ai dipendenti di aumenti retributivi di qualsiasi genere. Ai rinnovi dei contratti degli statali il governo ha destinato quest'anno quasi quattro miliardi; quanto di questo denaro avrebbe potuto essere risparmiato se le strutture da chiudere o da ridimensionare drasticamente fossero state almeno escluse, come sarebbe stato logico, dagli aumenti contrattuali?
Certo, per funzionare a dovere un'amministrazione dovrà in futuro avere dirigenti ben motivati e capaci di provvedere efficacemente assai prima che si determinino i casi di nullafacenza o improduttività totale di cui stiamo parlando. Ma oggi siamo in una situazione eccezionale di emergenza, nella quale il governo si propone di sfoltire i ranghi statali per ridurre la spesa pubblica e al tempo stesso riqualificarla. Incentivando ad andarsene gli anziani in quanto tali, si rischia che se ne vadano soltanto gli anziani migliori, quelli che trovano facilmente qualcun altro per cui lavorare. Che cosa trattiene il governo dal dirigere, invece, le proprie forbici verso i casi assolutamente indifendibili?
L'opinione pubblica è ormai sensibilissima su questa materia; per ragioni di equità prima ancora che di efficienza. Se non sarà questo governo a voltar pagina in modo molto incisivo rispetto a decenni di inerzia, dei quali la politica porta una pesantissima responsabilità, su questo terreno si giocherà probabilmente gran parte della prossima campagna elettorale.(Corriere della Sera)

lunedì 17 settembre 2007

Ecco perché il Pd non funzionerà. Geronimo

La decisione dei metalmeccanici della Cgil di contrastare l'accordo governo parti sociali su pensioni e welfare non è soltanto uno scontro duro con il proprio gruppo dirigente confederale a cominciare dal segretario Guglielmo Epifani. Non è neanche la minaccia di una scissione che non ci sarà mai. È qualcosa di più e di diverso. È una frattura politica che va anche oltre la Cgil e dovrebbe stimolare in tutti una riflessione meno urlata e più ragionata sul rapporto tra partiti e sindacati e tra questi e parte rilevante della società italiana.
Già in occasione della scissione nel partito di Fassino dei Mussi, dei Salvi, degli Angius segnalammo l'adesione al nuovo partito della sinistra democratica di un folto gruppo di dirigenti nazionali della Cgil. Quell'adesione era la testimonianza della natura del futuro Partito democratico, un'operazione cioè da laboratorio, con un innesto tra due culture politiche profondamente diverse che fondendosi smarrivano ogni profilo identitario scivolando così in un accordo di potere tra i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita. Questa nostra diagnosi più volte ripetuta non è figlia di uno sciocco pregiudizio e men che meno di una stupida smania di polemica, costume, peraltro, molto diffuso nella attuale stagione politica. Al contrario quella fusione nel partito democratico di due diverse culture appare sempre più come il portato di un'offensiva di potere di alcuni finanzieri e dei loro quotidiani.
Questa offensiva può avere certamente ricadute in termini di denaro e di potere come avvenne per la tangentopoli dei primi anni Novanta quando, appunto, chi aveva ordito il disegno scellerato portò a casa il bottino dei beni pubblici svenduti. Un esempio per tutti. Il giorno prima di lasciare Palazzo Chigi nel 1994 Carlo Azeglio Ciampi firmò la licenza della seconda telefonia mobile alla Olivetti di Carlo De Benedetti e qualche anno dopo Giuliano Amato costrinse Lorenzo Necci a dare sempre a Carlo De Benedetti la rete telefonica delle ferrovie dello Stato per soli 700 miliardi da pagare in 14 anni. Dopo poco quella rete fu venduta per migliaia di miliardi. Una ricaduta di denaro, dunque, che spiega molto bene quegli interessi che erano in gioco nel ’92-94 e che puntualmente ritornano oggi con la nascita del Partito democratico ed in particolare con la candidatura di Veltroni.
Questo intreccio di interessi, però, non mobilita gli elettori dei Democratici di sinistra e dei «margheritini» sempre più stretti nella tenaglia di un populismo straccione e di un'identità negata. E la prova provata sta proprio nel rapporto tra il futuro partito democratico e i due maggiori sindacati, la Cgil e la Cisl. La storia dei rapporti tra Cgil e il vecchio Pci è troppo nota per ripeterla. È sufficiente ricordare il comune comportamento di contrasto alla riforma della scala mobile del governo Craxi del 1984 sfociata poi nel referendum e il veto ella stessa Cgil a qualunque ora di sciopero nel periodo ’96-2001, il quinquennio del governo di centrosinistra.
La Cisl nacque alla fine degli anni 40 grazie all'iniziativa della Dc di Giulio Pastore che ruppe con la Cgil di Di Vittorio diventando l'interlocutore forte del partito di De Gasperi, Fanfani e Moro. Un rapporto forte anche se decisamente più autonomo nel concreto dei comportamenti. Con questi ricordi vogliamo solo sottolineare che i grandi partiti non possono non avere influenza nel tessuto sociale di riferimento. Se l'operazione Partito democratico fosse davvero un fatto politico e non un accordo di potere non solo sarebbero attutiti i contrasti nella Cgil ma gli stessi rapporti tra questa e la Cisl dovrebbero tendere alla ricomposizione di quella frattura avvenuta alla fine degli anni ’40 tra Pastore e Di Vittorio per giungere ad un grande sindacato unitario. Ed invece mai come ora Cgil e Cisl sono tra loro lontane e nessuno pensa a fare nel mondo sindacale quella fusione che tenta di fare, invece, il partito democratico tra due culture, quella cattolica popolare e quella socialista, che restano profondamente diverse. Insomma, ciò che non incide nel tessuto profondo della società, politicamente non esiste e finisce per essere solo una sovrastruttura di potere che scalda poco gli animi ma molto gli appetiti. E non è certamente di questo che l'Italia di oggi ha bisogno.(il Giornale)

Brambilla: "Il 6 ottobre calerò le mie carte". Marco Galluzzo

La fondatrice dei Circoli della Libertà: ho scompaginato il modo di lavorare di tanti politici doc.

«Io sono 9 mesi che vado ripetendo che il nostro movimento non è un partito. I nostri obiettivi sono altri».
Quali?
«Schemi diversi dalla politica tradizionale. Far partecipare, partendo dal basso, tutti coloro che non credono, o non si avvicinano, ai partiti. O che hanno voltato le spalle alla politica, nel fronte liberale e moderato ».
Prima o poi l'appuntamento delle urne verrà.
«Oggi gli obiettivi sono questi, poi vedremo. Il progetto del Partito della Libertà riguarda anche i circoli ha detto Berlusconi. Quindi...».
In Forza Italia la rossa Michela Brambilla fa notizia anche quando sta zitta. Organizza i Circoli della Libertà, dietro l'occhio attento del Cavaliere. Soprattutto suscita gelosie e diffidenze. Tanto che ieri l'altro l'ex premier ha dovuto, per tranquillizzare i dirigenti azzurri, scrivere una nota assicurando che i circoli non saranno mai un partito.
Perché lei fa tanta paura? C'è anche chi dice che sia tutto fumo.
«Della paura non posso curarmi. Sul fumo le rispondo invitandola a guardare la nostra tv delle Libertà. Il centralino è intasato ogni giorno dalla gente che vuole intervenire in diretta, tanto che abbiamo dovuto creare un call center».
Ma lei è consapevole di aver creato un vero e proprio psicodramma dentro Forza Italia?
«Il nostro attivismo può dare fastidio, ma di questo non m'importa. Noi rispettiamo i partiti che oggi fanno politica, ma riteniamo di doverla fare in un altro modo e a chiederci questo sono proprio i cittadini ».
Un po' come Beppe Grillo. Lo teme?
«Sono giorni che il pallino della politica sembra nelle sue mani, più per le reazioni che per quello che fa, o per i suoi insulti. Ma la sua protesta è più provocazione mediatica che altro. Noi raccogliamo l'insofferenza della gente e cerchiamo di strutturarla in proposte che servano a cambiare il modo di gestire questo Paese».
Torniamo a Forza Italia.
«Psicodramma? Noi non abbiamo alcuna intenzione di prevaricare l'azione di Forza Italia. Non ho mai risposto alle provocazioni, soprattutto gratuite. Mi rendo conto, però, che i nostri circoli hanno scompaginato il modo di lavorare di tanti politici doc. Io faccio l'imprenditore da tanti anni, conosco i problemi di questo Paese come li conoscono tanti politici di professione. Eppure ci sono stati tentativi di metterci nell'angolo, come se per fare politica occorresse possedere quei tre quarti di nobiltà che servono per essere accettati al circolo della caccia. Non le sembra assurdo?».
Ci sarà qualcuno che l'apprezza dentro Forza Italia.
«Tanti, da Pisanu a Frattini».
Finita qui la lista?
«Non sono mai stata esibizionista. L'importante è che il nostro movimento continui a raccogliere, come accade, consensi sempre più larghi. Ora ci stiamo dotando di comitati esecutivi provinciali e regionali».
Dell'Utri dice che i suoi circoli sono numeri, in realtà non esistono.
«Le opinioni sono libere. Vedremo il 6 ottobre, nostro primo meeting nazionale. Non vedo l'ora di giocare a carte scoperte».
Lei dice di avere tanti iscritti pentiti di aver votato a sinistra.
«Nel nostro movimento lavorano insieme elettori dell'intera area moderata, compresi tanti delusi dalla Margherita e dal Partito democratico, che non hanno alcuna intenzione di spostarsi a sinistra».(Corriere della Sera)

venerdì 14 settembre 2007

Una minaccia per l'uomo. Carlo Lottieri

http://www.opinione.it/pages.php?dir=naz&act=art&edi=196&id_art=5895&aa=2007

"La naturale alleanza tra verdi e rossi è proprio il frutto non casuale di un’identica passione per il controllo politico della società".

giovedì 13 settembre 2007

Una bella minestrina è di destra, il minestrone è sempre di sinistra. il Domenicale

Note a margine del dibattito sugli intellettuali liberali indecisi tra Berlusconi e Veltroni. Aveva ragione Giorgio Gaber quando sfotteva i pensatori engagé e le loro pretese tassonomiche. L’unico distinguo che vale è tra chi è libero e chi no. In ogni caso l’intellettuale, organico o frondista che sia, meglio ancora se autorevole, serve ai partiti perché genera consenso. Cosa da capire anche nel Centrodestra.

Gli intellettuali non servono per vincere le elezioni. Ma per rivincerle, sì. Anche nel Centrodestra

La domanda più giusta è: servono o non servono gli intellettuali al Centrodestra? Meno importante è sapere perché il Centrodestra non è riuscito a catalizzare pensatori e uomini di cultura. Meno importante sapere perché gli intellettuali italiani amano schierarsi a sinistra e anche quelli liberali disdegnano il Centrodestra.
Su questi ultimi quesiti, dopo anni di dibattito, più o meno sono tutti d’accordo. La questione è chiusa, nonostante alcuni autorevoli intellettuali liberali come Piero Ostellino ed Ernesto Galli della Loggia ripetano per accademia – e forse per un ultimo barlume di speranza nei confronti della parte a cui comunque culturalmente appartengono – le loro circostanziate analisi su Forza Italia partito di plastica e sulla Destra incapace di conquistare menti e cuori degli intellettuali.

Vale comunque la pena riassumere brevemente i punti fermi. Nella sua fase iniziale, la Casa delle Libertà è riuscita ad attrarre numerosi intellettuali, perfino da sinistra, offrendo loro laticlavi e posizioni di comando. Ma il primo governo Berlusconi è durato troppo poco per modificare gli assetti sedimentati da cinquant’anni in un mondo culturale sempre più asfittico. Il secondo governo Berlusconi per una serie di errori strategici e per una quasi inconcepibile sudditanza al pensiero di sinistra non è stato in grado di portare a termine la cosiddetta rivoluzione liberale proprio nei settori chiave della cultura e dell’informazione. è inutile continuare con le recriminazioni: le sviste, le scelte di uomini sbagliati nei posti che contavano, una certa disattenzione verso il “culturame”, hanno impedito che l’azione di governo godesse del meritato consenso, o fruisse di ulteriori spinte ideali.

Nonostante i chiari di luna, siamo però convinti che la classe politica di Centrodestra abbia maturato una sufficiente consapevolezza degli sbagli fatti e si stia attrezzando per farne meno.
Va detto che la tesi di un Centrodestra incapace di utilizzare la cultura meriti alcune precisazioni. Alleanza Nazionale, essendo l’evoluzione della vecchia destra post fascista per anni esclusa dai governi e quindi costretta a battagliare sul piano delle idee, porta con sé un forte retaggio culturale, per certi versi addirittura confliggente nella sua variegata molteplicità. La Lega è nata come partito dell’antipolitica e del fare ed è quindi scevra, quasi per statuto, da velleità intellettuali che anzi sono sempre state apertamente criticate. Forza Italia e l’Udc, tutto sommato, incarnano quel blocco liberal popolare, rappresentato per un quarantennio dalla Dc che, dopo aver sopportato le mene dell’intellettualità fascista, guardava con sospetto quella comunista, in apparenza accettandola e sottomettendovi, punendola però nel segreto dell’urna. C’è da ricordare che la Dc beneficiava comunque di un retroterra culturale millenario, quello della tradizione cattolica, assurto a senso comune. I pochi intellettuali liberali italiani hanno invece sempre militato in partiti nicchia o d’élite, stando a destra in quello Liberale o a sinistra in quello Radicale, disdegnando di confrontarsi con i reali problemi del consenso politico.

A partire dalla Resistenza
Ovviamente questa breve analisi andrebbe contestualizzata in uno scenario più vasto che è quello dell’egemonia culturale di sinistra, incentrata dal punto di vista storico su una lettura ideologica della Resistenza comunista come valore fondante della nostra Repubblica. Un valore che nei decenni è stato assunto come pietra angolare attraverso il quale misurare la democraticità delle idee e il loro poter accomodarsi in un giusto consesso democratico.
Superfluo invece ripetere come e perché una pletora di intellettuali, passati direttamente dal fascismo al comunismo, coccolati dalla sinistra abbia ripagato e ripaghi anche oggi in termini di consenso pubblico il proprio padrone. Ed è inutile ripetere la lezioncina sul progetto gramsciano, adottato nel Dopoguerra da Togliatti, dell’importanza della cultura per giungere al potere in una democrazia matura, nell’impossibilità di una vera rivoluzione armata.

Questione di leadership
Torniamo alla domanda cruciale: servono o non servono gli intellettuali al Centrodestra? Per vincere le elezioni, no. Con buona pace di Galli della Loggia e Ostellino, di Piero Melograni o di Antonio Martino, che hanno animato il dibattito sul Corriere delle Sera, Berlusconi è stato in grado di vincere le elezioni due volte prescindendo dall’apporto degli intellettuali e per certi versi anche dei media, compresi quelli della maison. Anzi, si è quasi giovato dell’acredine che il mondo intellettuale engagé gli ha riservato. L’elettore italiano, checché se ne dica, è abbastanza maturo per decidere prescindendo dai diktat dell’intellighenzia nostrana che ha sempre brillato per prona sudditanza alle ideologie aberranti del Novecento.
In questo senso può essere spiegato il disinteresse del Centrodestra nei confronti della cultura e del mondo degli intellettuali, spesso ritenuti inutili filtri al dispiegarsi di una leadership moderna e diretta, bisognosa di operare in campi più tecnici, come l’economia, la finanza, la gestione della cosa pubblica.

Fondamentali per il consenso
Epperò gli intellettuali servono per rivincere le elezioni. Cioè servono a produrre e mantenere un consenso imprescindibile quando si vogliono operare trasformazioni di grande impatto, quali quelle programmate dal Centrodestra e icasticamente riassunte nella formula “rivoluzione liberale”. L’esempio più eclatante fu durante il tentativo di abbassare le tasse operato da Giulio Tremonti: metà del Paese per semplice resistenza ideologica e viscerale attaccamento al pensiero statalista si schierò contro una riforma che in teoria avrebbe dovuto raccogliere il cento per cento dei consensi.
Stessa cosa accadde sul finire della legislatura, quando Berlusconi lamentò la difficoltà di dare visibilità alle riforme portate a compimento. Proprio in questo momento avrebbe fatto gioco poter contare sul consenso che naturalmente producono gli intellettuali, essendo una élite pur piccola che però a cascata, in virtù dei ruoli che occupa (giornali, televisioni, cinema, teatro, scuola, università...), è in grado di indirizzare il pensiero di molti e creare senso comune. Si pensi solo alla fandonia dell’impoverimento dell’Italia, i cui cittadini non ce la facevano più “a tirare la quarta settimana del mese”, artatamente sostenuta da tutti i media e poi archiviata appena diventato presidente del Consiglio Romano Prodi.

È quasi banale ricordare quanto della percezione del mondo che hanno i cittadini comuni giunga filtrata dai mezzi di informazione e dal lavorio degli addetti ai lavori: guarda caso, per la stragrande maggioranza schierati a sinistra. Gli intellettuali in senso lato (professori, scrittori, registi, cantanti, ma anche pubblicitari e comici...) sono i massimi responsabili dell’immaginario collettivo di un Paese, sono loro che determinano il senso di ottimismo o di pessimismo tra gli elettori, loro che contribuiscono a rendere positivo o negativo il giudizio sull’operato di un leader, loro che stabiliscono i paletti entro i quali si forma la cosiddetta opinione pubblica. Per questo motivo una forza politica al governo non può prescindere dagli intellettuali e dalle loro idee. Non può prescindere dal formare e mettere alla prova una propria classe culturale, comunque libera e autorevole. Non può prescindere dal ruolo dei media e delle persone che li dirigono, preferendo gli uomini liberi agli utili idioti, che al massimo tradiscono o risultano nocivi quando servono.

Impegnarsi per la polis
Se dunque la politica ha bisogno degli intellettuali, diverso è capire se gli intellettuali hanno il dovere di mettersi al servizio della politica. In questo senso, può avere ragione Ostellino quando difende il proprio ruolo di pensatore esterno al palazzo, riservandosi la possibilità «di contribuire a migliorare il panorama politico nazionale facendo semplicemente il suo mestiere». Gli esempi storici degli intellettuali organici ai partiti, o sottoposti ad essi, dimostra che l’impegno spesso conduce all’ideologia. E di persone schiave dell’ideologia e dei pregiudizi, incapaci di guardare il reale, di difendere la propria libertà, è pieno il mondo della cultura italiana.
Ma c’è anche il risvolto della medaglia: un intellettuale rischia di diventare arido se non si confronta con un popolo. Rischia di autocommiserarsi nell’angustia della propria torre se evita la politica, poiché il governo della polis è il più alto compito riservato all’intellettuale, e se non ci va lui ci andrà il politico politicante.

Angelo Crespi


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Le radici del consenso

Avesse ragione il signor G.? Lui, Giorgio Gaber da Milano, l’aveva detto, scritto e cantato che non gli piaceva certa politica ridotta a mode e stereotipi. La politica del minestrone: quella in cui tutto va bene purché si stia al governo.
Crediamo che il signor G., ci fosse ancora, riprenderebbe in mano la chitarra e attaccherebbe a gola spiegata quelle sue strofe agrodolci, davanti al panorama che si prospetta per la nuova stagione della politica italiana. Dove la sinistra, per difendersi da se stessa e dai suoi ingovernabili eccessi, si veltronizza in un Partito Democratico annunciato come «una moderna forza riformista maggioritaria», ovvero un corpo d’occupazione parlamentare in cui dovrebbero cospirare tutti coloro che sono interessati a uno status quo consociativo e immodificabile. Insomma, una nuova Balena: e nemmeno più Bianca, ben che vada grigia.

Proprio contro l’ingrigimento della democrazia italiana il signor G. cantava con melodiche parole di fuoco: «Tutti noi ce la prendiamo con la storia/ ma io dico che la colpa è nostra/ è evidente che la gente è poco seria/ quando parla di sinistra o destra». Ovvero la politica degli stereotipi, dei luoghi comuni, delle convenienze travestite da princìpi. Lui, che di destra certo non era ma nemmeno si riconosceva in una sinistra del genere, attaccava l’ideologia degenerata a modo suo, come soltanto un menestrello disarmato ma intelligente riesce a fare: «Una bella minestrina è di destra/ il minestrone è sempre di sinistra/ tutti i films che fanno oggi son di destra/ se annoiano son di sinistra.../ Le scarpette da ginnastica o da tennis/ hanno ancora un gusto un po’ di destra/ ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate/ è da scemi più che di sinistra». Correva l’anno 2001 quando uscì Destra-Sinistra. In giro c’erano Prodi e D’Alema, mica Togliatti e Nenni. Era il penultimo album della sua vita: quello che Gaber intitolò, col titolo di un’altra canzone, La mia generazione ha perso.

L’attuale dibattito politico-culturale non gli dà torto. Sono settimane di strabismo politico, in cui la maggioranza che governa ha sdoppiato se stessa in un gioco di specchi che sarebbe risibile se non fosse inquietante: al premier reale che traballa s’è affiancato un premier virtuale che straparla, già sicuro di subentrare perché non potrà non vincere il simulacro di elezioni primarie che si sta allestendo per legittimarlo. Noi, visto che perfino il cantautore organico De Gregori storce il naso davanti a simili commediole, scommettiamo che il signor G. strimpellerebbe ancora, con quell’altra sua canzone estrema del 2003, che «io non mi sento italiano».
Ma prendiamola per un momento alla lettera, l’obiezione canticchiata dal signor G. Se la sinistra è un minestrone invadente che occupa tutti gli spazi, democratica riformista progressista ma anche liberale moderata e conservatrice, che spazio rimarrà mai alla destra? E, più precisamente, che spazio di riflessione, di idee, di proposte è possibile elaborare, oggi, in quell’area di riferimento che si è soliti definire “di destra”?

Il dibattito su intellettuali e centrodestra, che rifiorisce tenace sui giornali a ogni prima pioggia d’agosto, quest’anno è approdato a conclusioni perentorie e quasi paradossali. Dalle bocche di un Galli della Loggia, di un Ostellino, di un Severgnini (tutti tranquillamente insediati sulla tolda sedicente bipartisan del Corriere della Sera) viene l’opinione che oggi non sia possibile essere intellettuali, liberali e al contempo di destra. Il “berlusconismo” negherebbe questa possibilità per sottrazione d’aria. Berlusconi, dicono costoro, genera Brambille, non intellettuali. Gl’importa fare e dare spettacolo, non esportare idee e visioni del mondo.

A questo tipo d’obiezione viene da contro-obiettare che fosse anche vera, sarebbe tanto più inaccettabile che “intellettuali liberali” accettino di farsi da parte, e cioè che si pieghino a farsi dettare dalla politica spazi e tempi della loro stessa libertà di pensiero e di parola. Se, come dicono, non si sentono “di sinistra”, com’è possibile che non stiano dove sono sempre stati a parlare, discutere, obiettare? Almeno il signor G. le cantava chiare, quand’era disgustato, senza paura di farsi definire anarchico e senza dare a nessuno la possibilità d’intrupparlo.
Se la “sinistra” veltroniana si stinge e si mimetizza e vola basso per non urtare nessun potenziale elettore, è più necessario che mai che nella “destra” si esalti quel grande margine di autonomia intellettuale che è indispensabile a una politica davvero liberale. Perché, lo sappia e lo veda o no la politica, è il pensiero che orienta e ravviva e genera proposte utili alla vita civile: e non c’è alcun leader politico che possa farne a meno.

Giuseppe Romano

Boeri sbaglia, i blog sono un luogo della politica. Mario Adinolfi

La lettera a LaStampa.it di Mario Adinolfi, candidato alla segreteria del Pd su blog, politica e informazione.

Nell’editoriale di ieri pubblicato su la Stampa, Tito Boeri scrive parole di una qualche rilevanza sul V-Day e su Beppe Grillo, poi arriva al nocciolo della sua riflessione: “Il blog non è forse lo strumento più consono per svolgere la funzione vera della politica, che è quella di mediare fra interessi diversi e trovare una sintesi. Più probabile che Internet continui ad essere uno strumento di informazione e di denuncia. È una funzione comunque molto importante”. Ecco, derubricare la forma blog e addirittura internet nel suo complesso a “strumento di informazione” è l’errore classico che compie chi internet non la vive pienamente. Eppure un sito vivace Tito Boeri ce l’ha ed è il cliccatissimo Lavoce.info, punto di riferimento settoriale per i temi dell’economia dell’intera rete italiana. Io stesso ho tratto, con Michela Murgia che presiede il comitato di sostegno alla mia candidatura alla segreteria del Pd, da La voce.info la proposta per superare la legge Biagi e il precariato endemico, attraverso la forma del contratto a stabilizzazione progressiva. Forse, però, dovrei convincere Boeri ad aprirsi un vero blog personale. Non riesco neanche a convincere la mia fidanzata a farlo, dunque mi arrendo in partenza. Ma se non si pratica, non si capisce. In qualche riga provo a spiegare perché.

I blog non sono solo “uno strumento di informazione e di denuncia”. I blog possono essere (e non da oggi) un luogo della politica. Non della chiacchiera politica, del teatrino, del gossip o della lamentazione perpetua del piove-governo-ladro. I blog sono un luogo dell’aggregazione di idee e consenso, della politica “vera” dunque, da almeno quattro anni. Da quando cioè un signore chiamato Howard Dean e un movimento del web chiamato Move On sono riusciti a raccogliere qualcosa come settantotto milioni di dollari in poche settimane per consentire all’ex governatore del Vermont di sfidare il classicissimo vecchio senatore bostoniano John Kerry in Heinz alle primarie del partito democratico per le elezioni presidenziali americane del 2004. Quel modello, che portò Dean prima a far tremare Kerry per la nomination e oggi a guidare la macchina organizzativa del partito democratico americano, raccontò al mondo che la rete era qualcosa in più rispetto a uno “strumento di informazione”. Era una novità epocale capace di trasformare un signore sconosciuto in un concorrente credibile per la presidenza della più grande superpotenza del pianeta.

Di solito quando racconto la storia di Howard Dean arriva sempre qualcuno con il dito alzato a dire: “Ma Howard Dean ha perso”. Vero. Nel 2004 Dean ha perso quelle primarie. E il 14 ottobre 2007 io con la mia rete di blogger di Generazione U sotto l’insegna della chiocciola di internet, perderò contro Veltroni le primarie del partito democratico italiano. Ora che ricordo, nel 2001 proprio il quotidiano la Stampa con una bella paginata raccontò anche la nostra prima sconfitta, forse la prima in assoluto di un gruppo politico nato dal web. Guarda caso sfidammo proprio Veltroni per la fascia tricolore e il Campidoglio. Avevamo tutti meno di trent’anni e ricordiamo quello come l’inizio della nostra storia. Che ad oggi è fatta di sconfitte. Ma la curva racconta che ogni volta cresce il consenso che dal web riusciamo ad aggregare.

Dean è arrivato a un passo dal traguardo. Ci sarà un Dean che vince, prima o poi. Ed è più prima che poi. Quello che Boeri ed altri dovrebbero saper leggere è la tendenza. Insomma, che sta succedendo in Italia e nel mondo attorno alla rete, quando si incrocia con le forme concrete della politica e della democrazia? La democrazia attuale, quella “fuori dal blog”, gode di splendida salute? Non mi sembra. Trema sotto i colpi dello strapotere di alcuni negli old media televisivi, sotto l’arroganza di una casta di politici prevalentemente delegittimati, sotto una legge elettorale che non ha eletto ma nominato dei rappresentanti che oggi non rappresentano nessuno. E’ questa debolezza della democrazia rappresentativa novecentesca a rendere estremamente appetibile la democrazia diretta del ventunesimo secolo, che si comincia a respirare via web e Grillo è solo l’inizio, forse effimero, di un percorso che effimero non è. Oggi la “democrazia del blog”, quello che noi chiamiamo ‘direttismo’ e cioè il salto della mediazione operata dal politico professionista, per arrivare ad una rappresentazione diretta e rumorosa dei propri interessi e bisogni, è una pratica diffusa e quotidiana. Si pratica quotidianamente in rete. Attende solo le forme istituzionali per esprimersi e se queste forme non verranno immaginate, la rappresentazione sarà extra-istituzionale e allora i rischi di conflitto diventeranno pesanti.

Il tutto sta avvenendo nel silenzio degli intellettuali italiani, che si sono svegliati solo con Beppe Grillo. Ha scritto qualcosa di importante, nei mesi scorsi su La Stampa, Andrea Romano che ha capito per primo che le primarie del partito democratico in Italia sarebbero state un banco di prova importante per la nuova democrazia nata in rete. Per fortuna poi ci sono cinquantenni come Tito Boeri che si sentono interrogati anche loro da quanto sta accadendo all’incrocio tra blog e politica. Sono intellettuali cinquantenni e non politici, perché i politici loro coetanei (con qualche timida eccezione) si guardano bene dall’infilare la faccia in questo rovente calderone, bollando ad esempio Beppe Grillo con la troppo semplice accusa di “qualunquismo”. O, come ha fatto Scalfari ieri su Repubblica, chiudendo il suo articolo infinito con queste parole liquidatorie: “Questioni complesse quando sono semplificate sopprimono la responsabilità personale dell'individuo e ottundono le sue capacità critiche”. A me viene da pensare che in questa teoria elitista, secondo cui la gente non capisce le “questioni complesse” e dunque debbano decidere sul destino di tutti i filosofi di Platone, sta il nodo della crisi anche culturale delle classi dirigenti italiane. Che oggi sono peggiori delle loro “basi”. Per questo la piramide finirà per essere rovesciata.

Dai blog, dove le idee aggregano consensi, i consensi aggregheranno denari e tutto si farà mobilitazione politica. Vincente, molto presto. E destinata a reggere l’urto del tempo e del declinare delle passioni. Insomma, non sarà più una mobilitazione emotiva, come certamente è stato il V-Day. Sarà una stabile costruzione di una proposta alternativa di governare la politica, saltando la mediazione di professionisti ormai inutili e conducendo il mondo verso un’era nuova: l’era della democrazia diretta, fatta di primarie, di leggi di iniziativa popolare, di referendum propositivi e abrogativi, di un esecutivo snello ed efficiente eletto direttamente dai cittadini che governerà con limite di due mandati.

Sta affacciandosi un sistema nuovo di decisione per le comunità in cui viviamo. Passa dalla rete, non siate distratti e non sottovalutate i blog. Sono le avanguardie di questa transizione, inevitabile, verso la politica del futuro.

martedì 11 settembre 2007

Due nuove conferme della Teoria della lotta di classe. Luigi De Marchi

I giornali della prima settimana di settembre gridano inconsapevolmente dalle loro prime pagine due clamorose conferme della Teoria liberale della lotta di classe che vado sostenendo, in una solitudine tutt’altro che splendida, ormai dal 1993, cioè da quando pubblicai con Mondadori il mio libro “Perché la Lega” .Si tratta di due conferme doppiamente significative, perché vengono dal blocco politico, quello del Centro-Sinistra, che da sempre è paladino dello Stato quale “tutore del Bene Universale” (per dirla con Hegel) e nemico giurato del liberismo, come espressione dell’individualismo egoista e reazionario.

La prima di queste conferme viene dal Ministro dell’Economia Padoa Schioppa che, presentando alla stampa il “Libro Verde” di ben 140 pagine fitte di dati e tabelle preparato da una Commissione tecnica da lui stesso nominata, ha dichiarato testualmente: “Lo Stato italiano spende in modo pessimo, cioè spende troppo e male. Siamo in coda a tutta l’Europa per qualità e risultati della spesa”.
La seconda conferma, che ha stupito e indignato solo chi non conosce o finge di non conoscere la Teoria liberale della lotta di classe, è lo scandalo di “svendopoli”, che a sua volta è figlio di “affittopoli” (un altro scandalo esploso un paio danni fa): si tratta di due autentiche rapine consumate in questi anni ai danni degli enti previdenziali pubblici che da sempre vengono foraggiati con i soldi dei contribuenti per ripianare i loro paurosi passivi. Com’è noto, con quelle operazioni, perfettamente legittime perché promosse da apposite leggi votate insieme e appassionatamente dalla cosiddetta Sinistra e dalla cosiddetta Destra, una turba di alti burocrati e politici ha potuto acquistare a prezzi stracciati (con sconti pari anche all’80% sul prezzo di mercato) sontuosi appartamenti che per anni aveva avuto in affitto a prezzi parimenti stracciati. I beneficiari di questa vergognosa rapina realizzata ai danni di un patrimonio immobiliare accumulato con i soldi prelevati con la mano ladra del fisco dalle buste paga e dal reddito faticato dei lavoratori dipendenti e indipendenti del privato, sono stati soprattutto gli esponenti statalisti del Centro Sinistra (da Veltroni a Cossutta), dei sindacati di regime (da Marini a Bonanni) e dell’alta burocrazia, che non a caso cantano da sempre le lodi del cosiddetto Stato sociale, ma non mancano di certo i rappresentanti della Destra inciuciona alla Casini: insomma, si tratta sempre di notabili di quella classe politico-burocratica che la mia Teoria liberale della lotta di classe, ribaltando la teoria marxista classica, definisce da molto tempo la vera classe parassitaria e sfruttatrice della nostra epoca, perché pretende di vivere nel privilegio, nella sicurezza del posto fisso e spesso nell’ozio alle spalle della vera classe sfruttata ( appunto i lavoratori dipendenti e indipendenti del privato) che vive nell’insicurezza e nella fatica tipiche di ogni attività esposta alle leggi del mercato.

La cosa buffa è che Padoa Schioppa, dopo aver documentato ampiamente insieme ai suoi esperti di fiducia (che costano tra l’altro al contribuente la bazzecola di 1,2 milioni Euro, pari a 2,4 miliardi delle vecchie lire), gli sprechi vergognosi di questo Stato parassita e sfruttatore, ha proclamato che l’attuale situazione sta comportando il rischio di “una inqualificabile rivolta fiscale”. Sono corso a consultare il famoso Dizionario della Lingua Italiana di Giacomo Devoto per chiarirmi il significato di quello strano aggettivo “inqualificabile”. Eccolo: “Dicesi inqualificabile di cosa o persona tanto spregevole e offensiva da non poter essere qualificata”. Ma diventa inevitabile domandare a Padoa Schioppa; “Caro Ministro, per Lei è inqualificabile chi (cioè il contribuente) si ribella alla rapina dei frutti del suo lavoro o chi (cioè la classe politico-burocratica parassitaria e rapinatrice) quella rapina ogni giorno consuma ? E la consuma con la minaccia d’un esercito di 68.000 guardie armate di pistola: perché tanti, cioè il quintuplo dei Giappone che ha il doppio della nostra popolazione, sono i nostri finanzieri ?”

Per parte mia, già sei anni fa, in uno di questi miei interventi, che appare anche nel mio libro “Il nuovo pensiero forte” di prossima pubblicazione, dicevo: “Come possono, questo Stato ed i suoi politici statalisti, additare al pubblico obbrobrio il cittadino che cerca di salvarsi dalla rapina del 50% (e, con le imposte indirette, del 65%) del suo reddito, proprio mentre assicurano l’impunità a centinaia di migliaia di burocrati e altri parassiti della loro casta che rubano al Popolo dei Produttori del privato i soldi occorrenti per impinguare tutti i propri stipendi e privilegi ?”

Insomma, a mio parere, Padoa Schioppa deve mettersi d’accordo con se stesso e col suo Sottosegretario Visco, che da sempre addita nei lavoratori indipendenti del privato i responsabili del dissesto finanziario italiano: sta dalla parte dei rapinatori o dei rapinati ?

Tutto è cambiato tranne gli intellettuali. Carlo Panella

http://www.loccidentale.it/node/6215

La democrazia non ha mercato nel mondo musulmano d’oggi, non attira, è un prodotto che “non vende. Non è possibile sconfiggere il terrorismo islamico se non si sconfigge il fondamentalismo islamico. Un articolo da leggere oggi, sesto anniversario dell'attacco alle torri gemelle.

lunedì 10 settembre 2007

La tenacia degli smontatori sgretola le invenzioni della setta complottista. Pierluigi Battista

Li chiamano debunkers, pazienti e risoluti smontatori di quelle cervellotiche ricostruzioni dell'11 settem­bre raccolte e distribuite nel mondo attraverso filma­ti, video, foto, libri venduti in milioni di copie come guida spirituale della grande setta dei complottisti. La squadra dei formidabili smontatori si è vista all'opera in una punta­ta di «Matrix» di Enrico Mentana trasmessa venerdì scor­so. O se ne possono leggere le argomentazioni in un libro di Massimo Polidoro, La cospirazione impossibile, pubbli­cato in questi giorni dall'editore Piemme. Tranne rare e lodevoli eccezioni, finora si è lasciato che le fantasie cospirazioniste, quelle che vorrebbero rappresentare come una grande menzogna ciò che tutto il mondo ha potuto vedere l'11 settembre di sei anni fa, potessero dilagare, esercitare la loro forza di suggestione, praticare una specie di monopolio immaginario della controverità. Ma adesso, nell'oc­casione del nuovo anniversario di quel massacro, emerge la volontà di rispondere colpo su colpo, foto contro foto, cifra contro cifra, video contro video. Come è giusto fare nelle guerre culturali serie, il cui esito non riguarda sparu­te minoranze di maniaci ma il modo stesso di leggere gli avvenimenti di questo tempo.

Dà una sensazione tonificante constatare, come si è vi­sto nella controinchiesta trasmessa da Mentana, con quanta tenacia e persino testardaggine siano stati smonta­ti e svelati i mezzi sleali adoperati dai cospirazionisti. Si scopre che in più di un'occasione le testimonianze orali esibite dai filmati negazionisti sono state manomesse, manipolate, decontestualizzate, deliberatamente stra­volte nel loro significato. Che le foto sono state ritoccate. Che l'audio dei video viene appositamente azzerato o addirittura sostituito con colonne sonore montate ad arte per conferire un senso emotivo completamente dif­ferente da come sono andate effettivamente le cose nelle due Torri di New York. Un esempio tra i tanti. Quando i cospirazionisti definiscono il crollo delle Torri gemelle co­me l'effetto di una demolizione controllata evitano con accuratezza di riconoscere che non ci fu la sequenza di detonazioni che sempre accompagnano l'esplosione delle cariche capaci di buttare giù un edificio: figurarsi due e di quelle dimensioni.
Il materiale complottista è indubitabilmente un mate­riale che oggi si definirebbe «taroccato», piegato a una tesi precostituita, cucito per ottenere un disegno diverso da quello reale: è questo il risultato delle indagini degli «smontatori» che hanno investito tempo, energie, talenti con un'azione meritoria di smantellamento dettagliato di una colossale mistificazione. Ciò che conferma ancora una volta quanto sia decisivo il dettaglio, il particolare apparentemente marginale ma che pure illumina un qua­dro d'insieme. E dimostra quanto sia utile la contestazio­ne fattuale di un negazionismo che non è solo maniacalità patologica (è anche questo, basta scorrere i blog e i siti complottisti per coglierne l'atmosfera faziosamente delirante, frutto di un'abbacinante ossessione collettiva) ma è soprattutto alterazione sfacciatamente ideologizzata del­la realtà, un rovesciamento capace di ribaltare radical­mente i ruoli delle vittime e dei carnefici in una vicenda che, come si dice con la ripetitività di un luogo comune, ha cambiato la storia del mondo. Ora la grande setta dei com­plottisti conosce finalmente un'azione di contrasto in gra­do di minarne la stessa ragion d'essere. Non per convince­re i fanatici negazionisti, ovviamente sordi al richiamo del­la ragione, ma per offrire all'opinione pubblica una chia­ve di lettura non inquinata da suggestioni e distorsioni. Con molta fatica, ma ne vale la pena. ( Corriere della Sera )

giovedì 6 settembre 2007

Il vero costo della politica. il Foglio

Parigi-Londra in due ore. La Torino-Lione non è ancora partita.

Il Financial Times di ieri riportava in prima pagina un’immagine del nuovo Eurostar in grado di collegare Londra con Parigi (492 Km) in poco più di due ore. E’ più o meno quel che si impiega ad andare da Milano a Torino (130 km), con una delle linee più moderne d’Italia, tutta in pianura e, naturalmente, senza di mezzo alcun tratto di oceano. I progetti di sviluppo del sistema dei trasporti italiani, a cominciare da quelli su ferro che una volta erano nelle preferenze della sinistra, si sono bloccati a causa del veto dei sedicenti ambientalisti, accettato esplicitamente per bloccare la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, ma altrettanto efficace per quel che concerne la ferrovia ad alta velocità che dovrebbe collegare Torino con Lione (e quindi anche con Parigi e Londra). Le tratte che non sono state bloccate con il pretesto della necessità di raccogliere il consenso popolare di tutti i paesi e le frazioni che stanno sul percorso ipotizzato, sono egualmente bloccate da interventi retroattivi sugli appalti. Insomma, come al solito, in Italia ci sono mille sistemi per bloccare un’iniziativa e pochissimi per realizzarla. Uno di questi era la legge obiettivo, che unificava l’iter amministrativo per le grandi opere; l’altro l’articolo della riforma costituzionale che chiariva le competenze dello stato sulle grandi reti separandole da quelle delle amministrazioni regionali e locali. Queste scelte del centrodestra sono state abbandonate, e ad esse non si è sostituito alcun meccanismo decisionale alternativo. Così la bassissima velocità della decisione politica, gabellata per ricerca della partecipazione democratica, rende impossibile partecipare davvero alla modernizzazione del sistema dei trasporti continentale. Tutta la retorica europeistica si infrange, così, sugli scogli di un sistema politico che regredisce verso il contenzioso giurisdizionalistico dell’epoca premoderna. Il costo vero della politica è questo, quello dell’incapacità di decidere, che reca agli italiani assai più danni dell’abuso, pur criticabilissimo, delle auto blu.

mercoledì 5 settembre 2007

Confindustria e il pizzo. Davide Giacalone

I cittadini non possono sostituirsi allo Stato, i probi viri di Confindustria non possono sostituirsi ai tribunali. Espellere chi, in Sicilia, paga il pizzo ai mafiosi può essere una trovata, utile a sollecitare la solidarietà di tutti, ma è un modo per capovolgere la realtà. Così come una donna violentata non è una poco di buono, ma una vittima, chi subisce il ricatto dei criminali non deve essere accomunato a loro.

Certo, se per “pagare il pizzo” s'intende anche l'accettazione della convivenza, la rassegnazione all'illegalità ed il profittare su di essa, allora è giusto condannare tutti gli attori. Ma chiedere ad un piccolo industriale o ad un commerciante, che già rischiano i quattrini, di mettere a rischio la propria azienda, quando non la vita e la propria famiglia è di un'incosciente superficialità. Denunciare chi viola la legge è un dovere per i pubblici ufficiali ed un diritto per i cittadini. Ma le denuncie aumentano se la repressione si mostra efficace, se chi attenta alla sicurezza ed alla libertà va in galera e ci resta. Invece più si scende a sud e più la giustizia fa pena. E non solo: con una sentenza definitiva, che ancora grida al cielo, si è condannato Bruno Contrada quale collaboratore dei mafiosi. Il capo della mobile, il numero due dei servizi segreti, era dalla parte dei mafiosi. La gran parte della Polizia, con numerosi suoi capi, difese Contrada, il che significa che erano cretini o collusi. A chi presenta la sua denuncia, l'imprenditore cui minacciano di ammazzare il figlio, e già hanno ammazzato il cane?
Durante i dieci anni di processo, nel mentre i criminali sono a spasso, mettiamo tutti sotto scorta? Ma con un dispiegamento di forze di quel genere (ed i costi che comporta) si può setacciare la Sicilia palmo a palmo. Lo faccia, lo Stato, esca dall'impotenza, eserciti il potere della forza, che gli spetta in esclusiva. Non scarichi il peso delle sue incapacità su quanti s'ostinano a non credere che nel Meridione si possa vivere solo di sussidi, false pensioni e piagnistei. La risposta civile, l'avversione alle cosche, è gran bella cosa. Ma ci si fa poco se lo Stato latita, o s'accanisce su chi lavora. La cultura mafiosa non esiste, lo scrivo da siciliano, sono disonorati e vili. Il guaio è che, spesso, anche lo Stato non esiste.

lunedì 3 settembre 2007

Se il nuovo Pd somiglia alla vecchia Dc. Marcello Sorgi

La disputa sulle correnti e il correntismo, male oscuro venuto a minare il futuro del Pd prima ancora della sua nascita, si sta svolgendo in modo un po' astratto: inutile, se non controproducente, per un partito che deve ancora esordire, e che vuol nascere in modo nuovo, chiamando i cittadini a partecipare direttamente alla fondazione e a eleggere il leader nelle primarie. L'eccezione - non l'unica, né la più esplicita, solo la più recente - riguarda Massimo D'Alema, che, nella prima intervista a Repubblica dopo le vacanze, ha detto chiaramente che il partito che si va a costruire è fatto per contenere una pluralità di posizioni e sarà diverso in tutto e per tutto dal vecchio Pci monocratico e accentratore. Di qui una certa tensione nel dibattito interno e l'avvento di più candidature per la segreteria, che non devono stupire, anzi fanno parte del gioco.

Ciò che D'Alema non dice, ma altri dirigenti Ds e Dl hanno detto prima dell'inizio della corsa congressuale, è che il modello scelto per il nuovo partito è quello della Dc. Depurato, certo, di tutte le degenerazioni che portarono il vecchio partitone cattolico e centrista a pagare il prezzo più alto di Tangentopoli e della caduta della Prima Repubblica.

Ma, al tempo stesso, ritrovato come esempio di convivenza possibile tra linee e ispirazioni diverse, anche contrastanti, e come strumento per vincere le elezioni, andare al governo e possibilmente restarci. Che ci fosse stato qualcosa di sbrigativo, retorico, esagerato, nella cancellazione di un pezzo importante di storia italiana come quella della Democrazia cristiana, è ormai un fatto acclarato e oggetto di revisione storica. Ma potrebbe rivelarsi azzardato, oggi, restaurare il modello Dc, senza metterne in conto le conseguenze, e soprattutto senza valutare a fondo se sia in grado di stare al passo coi tempi.

Il modello di cui si parla infatti funzionò benissimo fino agli Anni 70 e all'inizio della lunga crisi democristiana, e consentì al partito cattolico di sopravvivere vent'anni più del dovuto. Era basato su un semplice meccanismo: all'interno della Dc, le minoranze contavano come e più delle maggioranze. Le correnti minoritarie, alleandosi tra loro e cercando sponde tra gli scontenti di quelle maggioritarie, riuscivano ogni anno a imporre un cambio di governo, e ogni due o tre un cambio di segreteria. Il vincitore annunciato, e scelto quasi sempre prima della celebrazione del congresso, sapeva di essere lo sconfitto designato della volta dopo. Tra gli sconfitti, invece, si preparava il prossimo segretario. In una storia di quasi mezzo secolo, le eccezioni (De Gasperi, Fanfani, Moro, De Mita) vennero quasi sempre a confermare la regola. Rivelandosi ininfluenti, più o meno, sulla stabilità dei governi e sul turn-over di ministri e sottosegretari, vero cemento, con la spartizione dei posti di sottogoverno, dell'altalenante unità interna e della buona, buonissima, o discreta, secondo i tempi, performance elettorale del partito.

Alla Dc, inoltre, la collocazione centrale, durata (fino a Craxi) per quaranta dei cinquant'anni, consentiva di dichiararsi sempre anticomunista e a favore di alleanze di centrosinistra moderate, ma di praticare in realtà, per dirla con Andreotti, la «politica dei due forni»: alleata al Governo con socialisti e laici, e in Parlamento con il Pci, a cui un'esosa finanza pubblica, della quale ancora si piangono le conseguenze, elargiva i fondi necessari al mantenimento delle regioni rosse, in cambio di un'opposizione morbida su gran parte del pubblico sperpero. Per molti anni, le leggi finanziarie (che non si chiamavano così) non erano quel parapiglia, quello scontro all'ultimo sangue, su tasse e tagli, che sono diventate oggi. L'illusione, funesta a guardarla con gli occhi di oggi, era che a spese dello Stato ce ne fosse per tutti. Era considerato un vanto, durante le trattative in commissione Bilancio o le votazioni finali, uscire dall'aula urlando, orgogliosi, «Abbiamo ottenuto tremila miliardi in più!», per questa o quella causa: ignorando, o fingendo di ignorare, che quel voto e quel compromesso sottobanco avrebbero accresciuto un debito pubblico già enorme, insopportabile e caricato sulle spalle delle successive generazioni.

Adesso che di nuove tasse è rimasta a parlare la sinistra radicale, mentre gli altri fanno i conti con costi e ambiguità delle cosiddette «politiche sociali», riflettere sull'epoca in cui i partiti (all'apparenza) andavano bene e il Paese male può servire, almeno, per non ripetere gli errori. Certo, tutti insieme, Veltroni segretario in pectore, i due avversari forti Bindi e Letta e il gruppo di outsider pronti a costituire una minoranza di blocco, fanno un perfetto quadro di vigilia democristiana. Toccherà a loro convincere gli elettori delle primarie che non sarà così.

Ma la domanda vera da farsi è se il modello post o neo Dc sia ancora adeguato a una moderna, e anomala finché si vuole, democrazia come quella italiana. A un sistema in cui la centralità non è più di nessuno, ma, giorno dopo giorno, di chi la occupa con slogan e strategie di marketing più efficaci. Al quotidiano confronto-scontro, da mattina a sera, nella miriade di interviste e talk-show televisivi. Alla competizione basata sulla faccia tosta, più che sulla proposta. E alla rincorsa a distinguersi, sempre, pur di avere l'ultima parola.

È in questo quadro che il Pd nascituro mostra già qualche affanno, ma tuttavia dovrà misurarsi. E se è sicuro che un partito nuovo, in cui posizioni diverse possano convivere, sia preferibile a una coalizione in cui le differenze devono necessariamente emergere, c'è forse un ultimo, ulteriore elemento su cui riflettere. Pur avendo avuto la possibilità di costruirlo a sua misura, Berlusconi - non va dimenticato - ha vinto ed è andato due volte al governo con un partito monocratico e accentrato di cui detiene il controllo assoluto ormai da quattordici anni. Così, paradossalmente, è riuscito a occupare gran parte dello spazio politico della vecchia Dc con un modello che funziona un po' come quello comunista (e in qualcosa gli somiglia). Proprio quel vecchio Pci, la cui ombra D'Alema vorrebbe cancellare una volta e per tutte.

domenica 2 settembre 2007

"Così ho vinto l'esame di Silvio e a ottobre rilancio la mia sfida". Concita De Gregorio

"NIENTE domande personali. Basta parlare della mia vita privata. Tanto si sa già tutto e poi a chi interessa?".

Basta con le calze autoreggenti, sì. Domande politiche. Michela Vittoria Brambilla, da quattro anni presidente dei giovani di Confcommercio e da pochi giorni titolare del marchio "Partito della Libertà". Lei come ha conosciuto Berlusconi e quando?
"Molti anni fa lavoravo a Mediaset, allora si chiamava Videonews. Facevo la giornalista. L'ho incontrato per la prima volta nella sua veste di imprenditore tv. Conoscersi però è un'altra cosa. È successo molto tempo dopo, un anno fa scarso".

Berlusconi a Telese ha raccontato che lei è stata scelta per guidare i Circoli della libertà essendo risultata la migliore tra i candidati. Di che tipo di selezione si è trattato?
"Non la definirei una selezione. L'autunno scorso mi stavo occupando di una Finanziaria molto punitiva per la categoria che rappresento. Lei sa che questo governo ha escluso la Confcommercio dal tavolo della concertazione per un pregiudizio ideologico contro i commercianti. Sono diventata catalizzatore di un malcontento diffusissimo e radicato. Al meeting di Rimini Berlusconi aveva parlato per la prima volta della sua intuizione: i Circoli della libertà. Alla prima occasione l'ho avvicinato e gli ho detto: i Circoli esistono già nella realtà, basta dargli forma. Così mi sono offerta di costituire l'associazione nazionale per coordinarli. Oggi sono oltre cinquemila".

Gira voce che siano venti, invece. Chi li cerca non li trova.
"Se si riferisce all'articolo pubblicato da Diario le rispondo che mi fa molto piacere: ci attaccano perché ci temono. Entro l'anno avremo un circolo in ciascuno dei novemila comuni d'Italia. Ad ottobre faremo a Roma il meeting nazionale".

Quanti delegati?
"Ancora non posso essere precisa, ci stiamo lavorando".

C'è una struttura di vertice? Lei presidente. Poi?
"No, non è una organizzazione piramidale. Io sono il presidente nel senso che rispondo personalmente alle centinaia di mail quotidiane che mi arrivano da ogni genere di persona, giovani e anziani, elettori del centrodestra e delusi del centrosinistra. Coordino, tengo i contatti coi presidenti di circolo".

Che sono? Può dare qualche indicazione sulle persone?
"Ma sono nomi che non vi dicono niente: pensionati e studenti, imprenditori e lavoratori autonomi. Gente non famosa".

Disillusi dalla politica, voti da recuperare.
"Non è disamore per la politica. È disinganno per questa politica. Per le bugie di questo governo. L'antipolitica è figlia delle promesse non mantenute. Crescono le tasse, aumenta la spesa pubblica, peggiorano i servizi. Ecco che monta l'impotenza".

Berlusconi dice che lei è una "brava figlia". Dice che le darà un sottosegretariato all'Ambiente.
"Ci ho parlato poco fa. Non ha detto così, ha smentito. A me comunque non interessano le poltrone. Nella mia azienda ne ho di più solide di quelle che potrebbero offrirmi".

Al principio dicono tutti così, poi cambiano idea.
"Cambiare idea non è un delitto. Comunque io non considero il tema".

Ha detto che non s'interessava di politica, in un'intervista del 2004, e che aveva votato scheda bianca. E' stato Berlusconi a redimerla?
"Rettifico quell'intervista: non ho mai votato scheda bianca. Sono sempre stata vicina al centrodestra".

Cattolica?
"Sì"

Non è sposata col padre di suo figlio. E' favorevole ai Dico?
"Abbiamo detto niente vita privata".

Vorrei sapere cosa pensa dell'opportunità di regolare le unioni di fatto da politica, da cattolica e da persona che ne costituisce una.
"I diritti individuali sono già garantiti. L'unica cosa che i Dico avrebbero portato sarebbe stata la pensione di reversibilità per i conviventi, che d'altra parte il sistema pensionistico nazionale non sarebbe stato in grado di sostenere. I figli, il diritto alla visita in ospedale: tutto questo già c'è e quel che non c'è si può correggere caso per caso. Esistono le scritture private. Stiamo parlando di una questione che riguarda una minoranza del paese, non sono queste le priorità di un governo".

Che sono invece?
"Sicurezza, riduzione della spesa pubblica, politica fiscale"

Pensa che la legge sull'aborto, la 194, sia da cambiare?
"Non è materia da dare in pasto alle logiche di schieramento. E' un tema delicato, bisogna rispettare la libertà di coscienza".

Ma la legge è da cambiare o no?
"Riprendere in mano un testo datato ed approfondire i temi può essere positivo".

Come risolverebbe la crisi Alitalia?
"Bisognava fare un piano industriale e vendere un anno fa. Il rinvio ha fatto crollare il mercato azionario a danno dei poveretti che ci avevano investito e fatto aumentare i debiti inutilmente".

Come riformerebbe le pensioni?
"Non si può abolire lo scalone. E' una misura che il sistema non sostiene ed è inoltre a vantaggio dei soliti noti. Bisogna pensare alle nuove generazioni. Le revisioni dei coefficienti vanno a danno dei giovani".

Uomini e donne devono andare in pensione ad età diverse?
"In teoria no, ma nella pratica le condizioni di vita e lavoro di uomini e donne sono ancora molto diverse. Riparliamone quando la parità sul lavoro sarà effettiva".

Cioè tra parecchio. Oggi Forbes fornisce una classifica in cui Marina Berlusconi è la donna più potente d'Italia. Lei a che posto è?
"Non credo nella differenza di genere e mi fanno ridere le classifiche. S'immagini l'effetto che mi fa una graduatoria delle donne potenti".

Come si fa a non credere alla differenza di genere? Non è un dato di fatto?
"Intendo che non m'interessa sapere se una persona capace è uomo o donna. Se poi vogliamo proprio parlare di donne non sarò io a stupirmi che ce ne siano di competenti e preparate. A destra come a sinistra".

Lei disse che apprezzava Finocchiaro, Melandri e Prestigiacomo...
"Di donne preparate e capaci in politica ce ne sono moltissime".

Queste le apprezza?
"Non mi faccia fare elenchi di nomi".

Diciamone uno alla volta. Chi le piace al Governo? Emma Bonino?
"Ha una storia importante, è coerente. Ha dignità".

Melandri, Turco?
"Basta. Apprezzo Sarkozy che ha voluto al governo molte donne e giovani e che chiama a lavorare con lui gente di sinistra. Lo farei anch'io".

Se votasse alle primarie del Pd il 14 ottobre sceglierebbe Letta Bindi Veltroni o chi altro?
"Per fortuna non voto. Rispetto chi ha avuto la voglia di cimentarsi, tuttavia".

Intende dire cimentarsi in gara contro Veltroni?
"Ho letto giusto ieri La nuova stagione, il libretto sul programma di Veltroni. Berlusconi e Sarkozy dovrebbero fargli causa per plagio. Lo slogan è suggestivo, purtroppo c'è solo quello di suo. Chi vuol piacere a tutti finisce per non piacere a nessuno".

Non è il suo caso. Si dice che dentro Forza Italia il suo unico sostenitore sia Berlusconi.
"L'epoca dei sospetti e delle gelosie mi pare superata.
Accade sempre che si attivino diffidenze quando compare in scena qualcuno di nuovo. Io aspetto che siano i fatti a parlare e non serbo rancore".

Vediamo. Tremonti è stato un buon ministro?
"Non ha aumentato la spesa pubblica né le tasse, ha lasciato i conti in ordine. Di nuovo: sono fatti".

I numeri ballano molto, come lei sa, dipende dalla mano che li esibisce. Fini è un buon leader?
"Ancora nomi? Non ne faccio".

Scusi: Fini è il suo principale alleato, per il momento An è l'unico partito che sembra disposto a formare con voi il Partito delle Libertà. Bossi non entra, Casini non ci sta...
"Casini e Mastella inseguono un progetto che non ha nessun fondamento nella realtà, il partito moderato di centro è Forza Italia".

Si diceva di Fini. L'ha mai votato prima di aderire a Forza Italia?
"Non rispondo. Quel che ho fatto io in passato non importa. Conta che nei circoli i partiti della coalizione sono già fusi".

Cosa pensa del rapporto di Bossi con le armi?
"Ciascuno ha diritto di rappresentare come crede lo scontento che sente attorno a se. Mi creda, al Nord il livello di irritazione verso la politica fiscale è altissimo. La protesta non va sottovalutata".

Al contrario. Parliamo si inviti ad imbracciare il fucile.
"Intemperanze verbali. Il terrorismo politico è un'altra cosa".