lunedì 31 dicembre 2007

Rottamazioni: sono utili solo per le casse delle case automobilistiche. Tutti folgorati sulla via di Marchionne... Michele De Lucia

Una delle regole di base per cui un imprenditore possa essere considerato tale, è che faccia impresa con i soldi propri, non con quelli della collettività sotto forma di - più o meno mascherati - aiuti di Stato.

Per quanto riguarda l’industria automobilistica del nostro Paese, continua regolarmente a realizzarsi la seconda ipotesi: Cassa integrazione su misura, mobilità lunga su misura – vero, Marchionne? – e, ora e ancora una volta, in perfetta continuità da un governo all’altro, da una maggioranza all’altra (alternanza, non alternativa), rottamazione.

Se solo si facessero davvero i controlli, e numerosi, sulle emissioni delle vetture circolanti, gli effetti per l’ambiente potrebbero essere superiori a quelli di mille rottamazioni. Gli unici effetti sicuri e consistenti delle rottamazioni sono invece, ad oggi, quelli per le casse delle case automobilistiche.

Nota a margine per i Verdi all’italiana, per i quali le rottamazioni di oggi servono ad aiutare l’ambiente. Esattamente nella logica, ci pare, per la quale, sempre secondo i Verdi, la Tav è il nemico, salvo poi continuare a soffocare di trasporto su gomma.

Non c’è dubbio, a Torino possono stare contenti. E festeggiare in Borsa… (Notizie radicali)

L'operazione di potere del governo con gli enti previdenziali. Giuliano Cazzola

All’ultimo Consiglio dei ministri dell’anno era tutto pronto, ma poi l’operazione non è riuscita e il commissariamento dei maggiori enti previdenziali (si veda l’articolo di Emanuela Zoncu del 26 dicembre) è stato rinviato. Ma – se il governo tirerà avanti ancora per qualche mese – è assai probabile che saranno superati i dispareri presenti nel gabinetto. Così la maggioranza andrà decisamente ad impadronirsi di Inps, Inail ed Inpdap, che, in termini di potere, rappresentano quello che furono le partecipazioni statali durante la prima Repubblica.

I tre enti vantano insieme bilanci per circa 400 milioni di euro, hanno rapporti, più o meno, con 22 milioni di famiglie e con milioni di imprese, costituiscono gli avamposti del welfare state all’italiana. E’ addirittura Prodi, spalleggiato da Giulio Santagata, a voler mutare in profondità gli assetti istituzionali degli enti (fu il dlgs n.479/1994 a introdurre un regime dualistico, affidando le funzioni di indirizzo e vigilanza ai Civ composti da rappresentanti delle parti sociali e i compiti gestionali ai CdA i cui membri erano nominati dai governi e quindi dai partiti); tutto ciò, allo scopo dichiarato di realizzare quei 3,5 miliardi di risparmi nel prossimo decennio indicati nel piano finanziario a copertura della revisione dello “scalone” e della normativa sui lavori usuranti.

Il premier – pur conoscendo la linea di maggior prudenza del ministro Damiano – ha voluto sottolineare il tema della riforma degli enti persino in occasione della conferenza stampa di fine anno. In realtà, nessuno è disposto a scommettere un solo centesimo sulla possibilità di ottenere dei risparmi importanti attraverso l’unificazione degli Istituti. La legge recentemente approvata in attuazione del protocollo del 23 luglio ha stabilito infatti che vi sarà un incremento dello 0,09% delle aliquote contributive se nel 2011 non saranno alle viste i risparmi derivanti dalla c.d. razionalizzazione degli enti. La stessa Commissione bicamerale di vigilanza – dopo aver condotto un’accurata indagine – ha concluso i suoi lavori formulando delle relazioni molto abbottonate.

Nella sua audizione la Ragioneria Generale è andata oltre, evidenziando che “eventuali economie derivanti dall’operazione di accorpamento degli enti non possono essere utilizzate per la copertura finanziaria di nuove spese nel senso che gli eventuali risparmi di spesa derivanti da tale operazione non possono essere utilizzati come fonte di copertura per eventuali disposizioni recanti oneri certi, derivanti ad esempio dal potenziamento delle tutele e dei diritti soggettivi nell’ambito delle prestazioni sociali”.

Comunque vadano le cose Prodi ha in mente soprattutto una grande operazione di potere (anche di carattere personale); è disposto, infatti, ad investirvi persone di sua stretta fiducia. Lo schema è chiaro nella testa (e non solo) del premier: come primo atto il governo nomina un supercommissario unico per tre enti riformandi. Per individuare la personalità chiamata a svolgere questo ruolo sono girati nomi prestigiosi: da Tiziano Treu, insigne giurista e presidente della Commissione Lavoro del Senato, ai manager Enrico Bondi e Corrado Passera. Pare però che nessuno dei tre sia disposto a diventare il Mister Pensioni (e Infortuni), in un contesto politicamente così instabile. Ma il clou dell’operazione sta nella nomina dei vice commissari individuati nelle persone dei direttori generali degli enti: Vittorio Crecco per l’Inps (il fedele esecutore delle direttive di Prodi ancorché debba il suo posto al governo di centro destra), Giuseppina Santiapichi (per lei è il caso di ricordare che la regola nomina sunt consequentia rerum vale anche per i cognomi) e Piero Giorgini dell’Inail, nell’ordine assegnati in quota Uil, Cisl e Cgil.

Se ci è consentito aprire a questo punto una parentesi, nei giorni scorsi i soliti scopritori dell’acqua calda si sono accorti che, nella sanità pubblica, si diventa primari sulla base delle tessere di partito. Invece di meravigliarsi vadano a fare un giro negli enti previdenziali se vogliono rendersi conto di tecniche spartitorie tra partiti e forze sociali che fanno diventare il manuale Cencelli una sorta di tombola per allietare le serate delle educande.

Ma la rete prodiana nella previdenza non si limita agli enti. Al posto di Maria Teresa Ferraro (che ha lasciato la Direzione generale Previdenza ed Assistenza del Lavoro per andare a presiedere il collegio dei sindaci dell’Inps) sarà nominato Gianni Geroldi, presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale e consulente di Damiano. Stefano Patriarca, anch’esso stretto collaboratore di Damiano, sarà assunto all’Inps (grazie ai buoni uffici di Crecco) dove andrà a dirigere il servizio studi e ricerche. Sia Geroldi che Patriarca sono persone sicuramente capaci ed hanno alle spalle brillanti curricula, uno nell’università, l’altro nell’Ires Cgil. Ma il disegno del premier è chiaro ed agisce in profondità, se si considera pure il prossimo arrivo all’Inps, in un incarico di primo piano, di Giampiero Scanu, una volta dismessi i panni di sottosegretario. Sempre che non si verifichi – cosa sempre più improbabile – qualche folgorazione sulla via di Damasco. (l'Occidentale)

Good bye Sessantotto. Lucia Annunziata

«Good vibrations» dei Beach Boy ha fatto quarant’anni, peccato che quel che rimane di quelle fantastiche vibrazioni somigli sempre più al Parkinson. Del resto la leggendaria Marianne Faithfull, cantante e musa del rock, fa la nonna nel film Irina Palm, appena uscito. Nonna palmo-erotica, ma sempre nonna. Bill Clinton, il presidente che ha portato alla Casa Bianca la baby boom generation, ha quattro by-pass; e l'altro presidente che ha portato alla Casa Bianca la stessa generazione da destra, George Bush, sta per andare in pensione, dove è già andato Tony Blair. Benazir Buttho, prima donna degli Anni 60 salita al potere nel mondo musulmano, è stata uccisa, e Bob Dylan si trasforma nell'icona di se stesso, nel film fatto con Martin Scorsese, «No direction home: Bob Dylan», una terribile operazione commerciale con tutti i resti dei suoi ricordi e canzoni.

E se questi Dei del firmamento globale sixties non appaiono più così dorati, anche le star italiane di quei tempi accusano qualche mal di testa. Paolo Mieli, direttore due volte del Corriere, il più importante giornalista uscito dalle fila degli Anni Sessanta, è oggi un astro dell'establishment italiano, Ferrara fa la dieta contro l'aborto, D'Alema vive elegantemente fuori dal Paese, Capanna si occupa di Omg, Sofri è un gentile signore che dispensa saggezza, e tutti noi ci guardiamo allo specchio venti chili e quarant’anni più tardi. Più grassi, più comodi e più che mai convinti di noi stessi - in completo diniego del nostro transito su questo palcoscenico. Abbie Hoffman qualche anno fa pronunciò una epigrafe per questo mondo: «We were young, we were foolish, we were arrogant, but we were right». Boh! Non è certo nemmeno che avevamo ragione. La ragione si vedrà da quanto questa generazione globale, la prima ad esserlo, nata negli stessi anni e cresciuta con gli stessi omogeneizzati e la stessa musica, capirà ora la sua mortalità. Non quella fisica - perché i citati, e non, di quegli anni a noi piacciono ancora tutti - ma quella spirituale. Trasformare il quarantesimo genetliaco che il 2008 propone, dalla galleria di celebrazioni in un onorevole funerale, sarà forse la più dura prova da affrontare per questo gruppo. Good By sixties - la pace sia con voi.

Naturalmente, questo è un consiglio, non un tradimento. Se mai la generazione Anni 60 ha davvero quella superiore capacità creativa e analitica che vanta, dovrebbe oggi essere la prima a capire che un vasto movimento le preme contro. Il cambiamento è infatti il tema sociale più pressante dello sviluppo dei nostri Paesi occidentali, e in questo passaggio, i baby boomer fanno la parte del tappo, dell'élite, della conservazione insomma.

Sono poi, come sempre, le vicende politiche che per prime afferrano gli umori dei tempi. A questa onda devono le loro fortune Zapatero e Sarkozy (ognuno a modo suo); in Inghilterra sono oggi i Tory ad afferrare la bandiera del nuovo contro l'invecchiato Labour, interpretato dal catatonico Brown; in Germania è una donna il cambiamento - e anche se viene da vecchia scuola politica, nuovo è il mix che propone fra governo e gender, interpretando bene la fine della cultura della Guerra fredda. Ma è in due Paesi, lontanissimi tra loro eppure uniti dai profondi segni lasciati dai sixties, che questo clima fra il vecchio e nuovo è più visibile e più insoluto: gli Stati Uniti e l'Italia. Le primarie democratiche in Usa, e il tentativo di fondare il Pd hanno infatti in comune l'esaurimento dell'establishment politico nato da quegli anni. Hillary Rhodam Clinton e Barak Obama sono il caso lampante di quella che, nata come una sfida tra due valori Anni Sessanta, una donna e un nero, si è presto disvelata come guerra intestina per il rinnovamento del Partito democratico.

Barak Obama, ci raccontano ormai quotidianamente le cronache dagli Stati Uniti, ha mobilitato un attivismo giovanile, femminile, bianco e nero, come non se ne vedeva da anni, diverso da quello che muove il Partito democratico a ogni elezione. La passione per Obama è suscitata dalla sua età, dalla sua linea post-ideologica, dal non voler più contare su differenze come bianchi e neri, dal suo essere un outsider senza molti soldi, e dal non essere mai incorso nell'errore politicista di cambiare opinione sulla guerra irachena. A semplificare questo scontro, la frattura passa anche tra i neri: da una parte la potente nera star tv Ophra, totalmente trasversale nel suo appeal, dall'altra per Hillary, i neri degli Anni 60, Angela Davis e Andrew Young, pezzo da novanta dell'establishment del Partito democratico. Del resto cosa ha significato la proposta della signora Clinton, dopo il marito, alla presidenza? Avrebbe dovuto indicare la parità delle donne, in realtà ha solo svelato come i Democratici si siano appiattiti sui Repubblicani. La politica è per I Clinton una professione e un business, fondato su una macchina di potere e soldi, che oggi con Hillary propone di fatto la trasformazione della presidenza del Paese più democratico del mondo, in un modello ereditario e familista, come del resto già hanno fatto i Bush. Quella dei Clinton è la metamorfosi da innovatori (rieccoci ai 60s) a élite. Ma non è questa metamorfosi la ragione anche dello scontento che muove le ondate di antipolitica in Italia? E che non a caso è indirizzata più a destra che a sinistra: compromessi, inefficaci, privilegiati, è l'accusa a una generazione che invece di portare il cambiamento è diventata un'altra élite. Cosa siano oggi, del resto, i politici, i giornalisti, i professionisti venuti dagli Anni 60 (chi scrive inclusa) è nelle cose: dopo aver anni fa portato il mutamento generazionale dentro il sistema, oggi lo dominano e il suo non volerlo cedere è nella evidente resistenza a ogni cambio generazionale che non sia attentamente scelto, selezionato, e cooptato per somigliarle. Che è poi il dilemma in cui si dibatte oggi anche la vicenda politica del Pd e del suo segretario, Walter Veltroni, uomo degli Anni Sessanta lui stesso, mosso da una forte comprensione di questo rinnovamento: il Pd nasce così attraverso la diretta decapitazione delle vecchie élites Dc e Pci; ma il nuovo proposto appare per ora solo un debole esperimento genetico, invece che una autentica trasfusione di sangue fresco. (la Stampa)

domenica 30 dicembre 2007

La dignità di un uomo che non chiede pietà. Mario Cervi

Il ritorno in cella di Bruno Contrada - che di sua volontà ha voluto lasciare l’ospedale Cardarelli, dove era stato ricoverato - non chiude questo «caso» che è insieme giudiziario, umano e politico. Semmai lo rende ancor più controverso. Una pronuncia del Tribunale di sorveglianza aveva stabilito alcuni giorni or sono che l’ex dirigente del Sisde - su cui pesa una condanna definitiva a 10 anni di carcere per associazione mafiosa - poteva essere ben curato in carcere e che le sue condizioni non erano tali da richiedere il ricovero. Diagnosi, questa, che aveva ottenuto ampia approvazione negli ambienti della sinistra, dove l’ex poliziotto è inviso. Invece è avvenuto un ripensamento.

Contrada è stato trasferito nel Cardarelli per una verifica delle sue condizioni di salute. Ma nel tardo pomeriggio di ieri lo stesso Contrada ha firmato le sue dimissioni dall’ospedale dov’era piantonato. Nonostante il parere contrario dei medici, preferisce attendere nel penitenziario militare di Santa Maria Capua Vetere gli sviluppi delle procedure avviate per accertare se debba o no godere di agevolazioni quali il differimento della pena o gli arresti domiciliari.Questi garbugli cavillosi s’intrecciano con le proteste d’innocenza che Contrada ribadisce - proprio perché si ritiene innocente non ha chiesto la grazia - e con l’opposizione delle associazioni antimafia a ogni misura di clemenza nei suoi confronti. Contrada ha in sostanza rifiutato la benevolenza dello Stato così come ne rifiuta le sanzioni. «Non vuole la libertà, ma il suo onore», spiegano i familiari.

La polemica coinvolge - non poteva essere diversamente - Adriano Sofri: altro condannato in via definitiva che si proclama vittima d’un errore giudiziario, ma che a differenza di Contrada gode di un sostegno politico e mediatico formidabile. Cosicchè la sua detenzione, finché è durata, ha avuto le caratteristiche d’una passerella da star, con interviste e articoli a profusione.
Un dibattito sulla innocenza e sulla colpevolezza di Sofri e di Contrada porterebbe solo alla ripetizione di elementi d’accusa e di difesa già detti e ripetuti fino alla nausea. Ma nell’alluvione di parole spiccano, sulla barricata «progressista», alcuni concetti di stupefacente arroganza. Sofri è stato punito, si dice o si sottintende, per un crimine non esecrabile, l’uccisione d’un commissario di polizia. E poi c’era stata la morte dell’anarchico Pinelli, e poi sono trascorsi da quell’ammazzamento 35 anni, non stiamo a sottilizzare. Contrada è stata ritenuto responsabile d’un qualcosa di odioso e di inescusabile, la vicinanza alla mafia. Niente indulgenza...
La mia personale opinione è che il fenomeno mafioso e i reati dalla mafia compiuti siano ripugnanti, da punire con spietata severità. A patto tuttavia che ci si muova nell’ambito dei fatti, e non di quel «concorso esterno in associazione mafiosa» che è stato senza dubbio uno strumento utile per colpire certi legami pericolosi, ma che si presta a una utilizzazione giudiziaria smisurata (vedi Andreotti). La mia personale opinione è inoltre che il poliziotto siciliano in Sicilia si muova professionalmente tra contaminazioni, compromessi, frequentazioni facilmente trasformabili in collusione con la mafia. Ma altra cosa è spargere sangue - di Calabresi o di vittime delle cosche - e altra cosa è l’intrattenere contatti equivoci e subire pesanti condizionamenti ambientali.

L’altalena di assoluzioni e condanne che ha contrassegnato il percorso giudiziario di Contrada - nell’ambito, ripeto, di quel reato a volte gassoso che è l’associazione mafiosa - non placa le perplessità, anzi. Ma questo concerne la sostanza delle accuse, sulla quale la giustizia ha posto il suo sigillo irrevocabile. Tutt’altro discorso vale per la «qualità» dei crimini addebitati a Sofri e a Contrada. Deaglio e Fo la pensino come vogliono, io resto del parere che l’assassinio di Calabresi sia stato più feroce d’ogni concorso esterno mafioso. (il Giornale)

La secessione di Roma. Geminello Alvi

È inevitabile dopo le cibarie di queste feste bighellonare, e, anche per svuotarsi i polmoni dell'aria viziata, vagare. Così finisco nella piazza di una città come tante del centro Italia e arrivo fin dove la luce nitidissima di queste giornate orna di un'ombra azzurrognola uno scalone. Sotto ci sono le lapidi con scritti i nomi di due miei giovani antenati morti con Garibaldi, all'assedio di Roma. Non me n'è scemato l'orgoglio; anzi ancora mi fanno una certa commozione. Ma non riesco a evitare di chiedermi, se non sarebbe stato meglio, per tutti, fare a meno di Roma. E se ora me lo chiedo io, cosa mai si chiederà quel veneto o lombardo, che scopre in una lapide del Risorgimento o della Grande Guerra il suo cognome? È possibile che non si chieda per chi costoro sono morti, e a cosa ci serva ormai Roma? Perché non c'è battito di ciglia di Mastella oppure confusione erotica dei comunisti o discarica bassoliniana, che per il Nord non evolva a nuove tasse. E in cambio di cosa? Per sentirsi adesso insicuri a casa propria, e impoveriti, o per vedere la Lombardia trattata, nella vicenda dell'Alitalia, come l'Etiopia ai tempi del Duce?Le piccole anime del governo Prodi non se ne accorgono, ma stanno consumando il nesso residuo, persino sentimentale, tra Roma e l'Italia più operosa. Hanno onorato, dacché sono stati eletti, solamente le clientele che li hanno fatti vincere. Ed ecco spiegato un governo che non ha la dignità per costringere alle dimissioni Bassolino, ma dove non c'è un ministro di Milano. E al Quirinale siede Napolitano, e dalla loro stanno pure le banche, come sarebbe stato impensabile ai tempi di Cuccia. Ovunque ci si giri: un potere esaustivo negli ossequi politici governativi. Il risultato è che mai s'era visto un distacco del Lombardo Veneto da Roma come quello indotto dai tifosi di Prodi.Anche perché una volta si poteva forse rimproverare al Nord di non volere governare, che le sue élite fossero interessate solo all'economia. Ma clamorosamente da anni non è più così. Le novità politiche dell'Italia sono nate al Nord: la Lega di Bossi, Forza Italia. E di voti ne hanno presi tanti, sovvertendo la politica, mentre Prodi non ne ha recuperato uno. Deve la sua incerta elezione a Napoli, indi al genio delle discariche, a Bassolino. E perciò persino le uscite più rodomontesche di Bossi stanno ora divenendo vere. Quei confusionari a Roma stanno rovinando l'Italia, molto più di quanto si potesse immaginare. Del resto lo scenario si va drammatizzando anche altrove. Il Belgio, è in predicato per una secessione. E persino nella quieta Svizzera, dove non succede mai niente, Cristoph Blocher, vincitore delle elezioni, è stato escluso dal governo. Non è valsa per lui e i suoi «la concordanza». La consorteria elvetica di centrosinistra lo ha infatti escluso da un governo sempre unanime, con rare eccezioni. Anche all'estero dunque il peggio della globalizzazione è assecondato dallo statalismo. Però come al solito in questo difetto cinese noi siamo ormai tra i primi. I giochi romani, continuassero, si stanno alla fine giocando l'unità della nazione, e non se ne rendono conto... (il Giornale)

venerdì 28 dicembre 2007

La lampadina di Prodi. l'Occidentale

Stavolta bisogna ammetterlo. Abbiamo pensato male troppo presto. Sono bastate poche parole pronunciate dal Presidente del consiglio di fronte ai giornalisti di tutto il mondo stamattina, nella consueta conferenza stampa di fine anno, per capire che c’eravamo sbagliati e che l’Italia ha finalmente cambiato strada.

Anno nuovo, vita nuova. Basta paralisi dell’azione di governo, basta dietrofront dell’ultim’ora non accetteremo più i facili ricatti, non ci faremo intimidire. E’ l’ora di passare dalle parole ai fatti! Sembrava un arringatore un po’ rauco ma convinto il nostro presidente. Altro che pugile suonato! Avete visto con che piglio ha trovato finalmente una soluzione alla questione energetica del nostro paese?

Ha zittito tutti. Mettendo la parola fine ai fiumi di parole sull’apertura di nuove centrali a carbone, alle polemiche sui rischi dell’installazione dei rigassificatori alle porte delle nostre città. Rendendo vani anni e anni di confronto sul ripristino del nucleare nel nostro paese. Facendo praticamente lettera vuota degli sforzi del povero ministro dell’ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, che delle pale eoliche e dell’energia alternativa ha fatto ormai il suo cavallo di battaglia.

Mentre il mondo si affama di energia e va alla ricerca - a destra e a manca - di soluzioni per porre rimedio alla crescita dei consumi, eureka!, la soluzione ce l’abbiamo noi: “dall'inizio di gennaio verrà introdotto l'obbligo per la Pubblica amministrazione di acquistare e installare esclusivamente lampade ad alto livello di risparmio energetico per assicurare entro tre anni la completa sostituzione delle lampadine a alto consumo. Entro il 2011 saranno in vendita in Italia solo lampade a basso consumo energetico”. Fantastico. E poi, Presidente? “Non possiamo non intervenire limitando l'uso della carta per la quale spendiamo spropositi con elevatissimi danni all'ambiente".

E’ il caso di dirlo, trattasi proprio della lampadina di Archimede! Per fortuna che le questioni dell’Arcobaleno ormai non riguardano più il Pd.

giovedì 27 dicembre 2007

"E'anoressico". Per Bompressi fu subito clemenza. il Giornale

Due pesi due misure. Chiàmati Ovidio Bompressi, milita per anni in Lotta continua, uccidi il 17 maggio 1972 il commissario di polizia Luigi Calabresi, beccati una condanna a 22 anni di carcere, renditi latitante per un po’ fino a quando non scattano le manette, entra ed esci di cella per gravi problemi di salute (depressione e anoressia), chiedi ripetutamente un atto di clemenza, gioisci per una sospensione della pena sempre per motivi di salute, sconta la pena in casa tua e poi (giugno 2006) la tanto agognata grazia.
Eccola la storia in pillole di Ovidio Bompressi, graziato dal governo dell’Unione appena insediato. Il decreto, firmato da Giorgio Napolitano, è stato subito sottoscritto dal guardasigilli Clemente Mastella. Un tempismo che ha risolto con una decisione tanto netta quanto controversia una vicenda che si è trascinata a lungo durante il precedente governo Berlusconi. Il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, infatti, aveva aperto un braccio di ferro con il Colle. Carlo Azeglio Ciampi era disposto a un atto di clemenza ma il leghista no. Poi, l’epilogo: libero.

Un governo per crescere. Luca Ricolfi

La minaccia al premier è un classico di questa legislatura: se non fai come dico io non ti sostengo più, e se io non ti sostengo tu sei costretto a fare le valigie. Più o meno scopertamente l’hanno esercitata un po’ tutti, partiti, sindacati, ministri, sottosegretari, singoli politici della maggioranza. Che ora ci riprovi per l’ennesima volta Lamberto Dini non sarebbe una notizia, se non fosse che - con l’approvazione della Finanziaria - la minaccia è diventata improvvisamente credibile. Fino a ieri si scherzava, perché tutti avevano qualche motivo - talora buono, più spesso cattivo - per evitare il naufragio della Finanziaria.

E con essa della solita miriade di provvedimenti di spesa caldeggiati da partiti, correnti, gruppi, singoli parlamentari. Ma adesso non più, il carrozzone è ormai transitato e possiamo ricominciare finalmente a litigare sul serio. Dini, dopo aver ingoiato il rospo della Finanziaria, ha fatto la prima mossa del nuovo gioco, gli alleati gli sono subito volati contro, l’opposizione di centro-destra gongola. Forse Prodi cadrà e nel giro di qualche mese avremo un nuovo governo, nuove elezioni, o entrambe le cose. Anno nuovo governo nuovo. Sarebbe un bene per l’Italia?

Non è affatto detto, anche se è difficile immaginare un esecutivo ancora più dannoso e scomposto di quello che ci ha governati in questa legislatura. Se Prodi dovesse cadere lo scenario più probabile sarebbe quello di un governo che dimentica i (noiosi) problemi della gente comune - potere di acquisto, sicurezza, Stato sociale, infrastrutture - e si concentra sulle delizie dei professionisti della politica: riforme istituzionali, legge elettorale, regolamenti parlamentari. Insomma, un 2008 divertentissimo per loro e noiosissimo per noi. Perché è improbabile che un nuovo governo affronti i problemi che più stanno a cuore alla gente comune?

Una prima ragione è che i nostri politici si sono autoconvinti che se non riescono a decidere non è colpa loro, ma delle istituzioni. Si sentono come Schumacher alla guida di una Cinquecento. Non riuscendo a fare un solo metro di strada, aspettano che il Parlamento regali loro una Ferrari - ossia istituzioni nuove di zecca - per farci vedere di che cosa siano capaci. Ma c’è una ragione più seria che mi rende scettico sulle chance di un nuovo governo. Se Prodi cadrà, sarà per mano del «partito del rigore», anche se - verosimilmente - la colpa verrà addossata a Rifondazione comunista e ai suoi satelliti. Il nuovo esecutivo, di fatto, governerà contro Rifondazione e i sindacati, e proverà a fare quel che Prodi e Padoa-Schioppa hanno sempre promesso nei loro Dpef, senza però mai mantenere l’impegno a causa dell’opposizione della sinistra estrema: una politica tecnocratica, che punta a risanare i conti tenendo alta la pressione fiscale e tagliando la spesa corrente. È facile prevedere che una simile politica, anche ammesso che sia ragionevole, non avrebbe alcuna possibilità di passare in un Paese con i problemi dell’Italia di oggi. Ma è ragionevole una simile politica?

A mio parere no. La sinistra estrema ha torto a snobbare il problema del debito pubblico, a invocare ogni volta nuove spese senza mai concedere contropartite, a credere che le risorse che mancano si possano mettere sul piatto semplicemente evocando Robin Hood, ossia un trasferimento massiccio di quattrini dai ricchi ai poveri, dai profitti ai salari. Ma la sinistra estrema ha perfettamente ragione a ricordarci che il potere di acquisto delle famiglie è drammaticamente insufficiente e ha subito proprio quest’anno una serie di colpi gravissimi. Così come ha ragione a ricordarci che lo Stato sociale italiano è sì sprecone ma è anche incompleto: mancano asili nido, servizi agli anziani, ammortizzatori sociali, politiche contro la povertà, tutte cose che i difensori del rigore non amano sentirsi ripetere.

Il problema centrale che un nuovo governo dovrebbe affrontare, in altre parole, non è di liberarci finalmente dalla sinistra estrema, ma di prenderne sul serio i problemi senza sposarne le soluzioni.

Insomma, liberarci dal partito della spesa senza consegnarci a quello dei banchieri. Questa doppia liberazione richiederebbe, a mio parere, tre impegni fondamentali. Il primo è di non destinare i risultati della lotta all’evasione a nuove spese bensì ad azioni incisive di promozione della crescita, a partire da una vera riduzione delle imposte che gravano sulle attività produttive (il contrario di quel che si è fatto con le ultime due finanziarie), per poi passare a sgravi in favore delle famiglie. Il secondo impegno è quello di rafforzare lo Stato sociale esclusivamente mediante meccanismi virtuosi, come l’obbligo di copertura di qualsiasi nuova spesa mediante una quota rilevante - ad esempio il 70% - ricavata dall’eliminazione di sprechi. In concreto, un meccanismo abbastanza simile al cosiddetto cofinanziamento: il ministro X vuole spendere 100 per un nuovo servizio, il governo gli concede 30 ma solo dopo che il ministro ha già raccolto 70 eliminando sprechi in un servizio preesistente (secondo valutazioni prudenti, gli sprechi eliminabili senza ridurre i servizi erogati superano ampiamente i 50 miliardi di euro all’anno). Il terzo impegno è a non bruciare l’intero avanzo primario per la riduzione del debito, puntando invece sulla crescita e - fintantoché la crescita da sola non bastasse - su un piano oculato di dismissioni e privatizzazioni (a qualcuno sembrerà sorprendente, ma un misero 0.8% in più di crescita del Pil sarebbe bastato, negli ultimi dieci anni, ad abbattere il rapporto debito/Pil dell’Italia senza alcun sacrificio aggiuntivo).

Un programma del genere, allo stato attuale, non piace né alla destra né alla sinistra, perché non promette miracoli a nessuno. Esso ha però forse il vantaggio di salvare le ragioni che hanno condotto tanti italiani a sperare nel centro-sinistra, e al tempo stesso di non ignorare le ragioni che portano oggi tre italiani su quattro a voltare le spalle al governo Prodi. (la Stampa)

venerdì 21 dicembre 2007

Gli stipendi di Giordano. Paolo Della Sala

Ci avviciniamo alla fine dell’anno. E’ tempo di bilanci. Qual è la peggiore battuta dell’anno? Quella pronunciata da Franco Giordano, segretario di Rifondazione Comunista, alla trasmissione Ballarò di questa settimana: “Per salvare l’Italia bisogna calmierare i prezzi e aumentare i salari”. E’ la formula migliore per mandare a catafascio una nazione. Ai tempi del fascismo la gente diceva: “Lo zucchero ci dà amarezza, il riso ci fa piangere e il calmiere ci fa perdere la calma”.Secondo il segretario dei comunisti il rialzo dei prezzi è una manovra ordita dai commercianti e dai capitalisti per affamare i propri clienti... Ma non sanno questi Cacasenno che spopolano a Ballarò, loro patria virtuale, che nel mercato si vince offrendo il meglio al minor prezzo? Quale mercante, in una situazione di crisi economica, rialzerebbe i prezzi per speculare? Andrebbe contro il proprio interesse. E’ il mercato malato, quello regolato dal dirigismo statale e dai burocrati, a produrre inflazione, crisi e aumento dei prezzi.

Non è il segno di una volontà di fare i pescicani, ma l’unica arma di difesa per spostare più in là la chiusura. Purtroppo questa è l’unica scelta per dilazionare la crisi. Le imprese e i negozi alzano i prezzi perché nessuno ha più denaro da spendere, persino per i generi di prima necessità. Commercianti e impresari pagano le tasse sulla produzione e la vendita delle merci. Come se ciò non bastasse sono chiamati a pagare i tributi sulla propria persona fisica, che non torneranno mai indietro (andate a vedere le pensioni dei commercianti). Oltre a queste due imposizioni obbligatorie, devono anche pagare, oltre agli stipendi, anche tutte le tasse dei propri dipendenti. Sono loro quelli che pagano davvero tutto, anche per i lavoratori. E’ l’esatto contrario di ciò che sostengono sindacati e sinistre. L’equazione da fare è un’altra: se i prezzi salgono si vende di meno. Se se si abbassano per mano del Comitato centrale di Prodi, mentre insieme le imprese vengono obbligate a pagare di più i dipendenti, non per merito ma per legge, nessuno sopravviverà, i salari resteranno bassi e gli imprenditori faranno gli oligarchi cercando di sfuggire a un mercato che non c’è, oppure chiuderanno.

Ma se le imprese chiudono o vanno all’estero i dipendenti restano senza lavoro. Esattamente ciò che sta succedendo nella nazione dove il settore pubblico improduttivo supera il 51% del Pil (in Spagna siamo al 38%). Difendere le imprese significa salvare i loro dipendenti e ridurre il potere del dirigismo statale che si finanzia prelevando denaro dal mercato. Questo lo sanno ormai gli stessi lavoratori, ma non i Giordano del Politburino nostrano, che ormai sparano boiate televisive non più per difendere i poveri o se stessi, ma solo perché hanno una cultura uguale a “meno di zero”. Il bello è che Alemanno, ogni volta che c’era da fare populismo nella tribuna di RaiTre, dava ragione a Giordano e a quell’altro buontempone da conversazione con grappino e carte da scopa, il sindacalista Angeletti. Quest’ultimo sciorinava soluzioni alla Catalano che -nel nulla generale- figuravano come la teoria della Relatività. Lo stesso faceva Della Valle, grande oligarca del villaggio. Eppure il capitalismo è nato nei Comuni italiani del Medio Evo. Fino al ‘500 eravamo i più ricchi al mondo e prestavamo denaro alle corti di tutto il mondo. Purtroppo, per risolvere le nostre beghe e divisioni, abbiamo chiamato i francesi di Francesco I, e poi Carlo V. Da allora ne abbiamo fatta tanta di strada, all’indietro. (l'Opinione)

Ciò che il centro destra non ha fatto allora. Valerio Fioravanti

“Dini era con noi, poi hanno minacciato di arrestare sua moglie...”. È l’ennesima accusa di Berlusconi contro quella parte di magistratura “militante” che si presterebbe a favorire la sinistra in politica. Solo pochi giorni fa aveva lamentato che dei pubblici ministeri a Napoli avevano “interrogato” alcuni senatori di centrosinistra intimidendoli nel caso volessero passare a destra. E due settimane prima avevano fatto trapelare sui giornali le sue telefonate in Rai, eccetera. Inutile continuare ad elencare i casi, tutti li conosciamo e tutti, tranne i suoi odiatori esasperati, siamo abbastanza convinti che il Cav non abbia tutti i torti a lamentarsi. Cosa avrebbe potuto fare in cinque anni di governo per neutralizzare questo ricorrente e sempre incombente pericolo? Ben poco, perché spesso i suoi nemici sono convinti di avere ragione, e sentono la loro come una “missione” che li autorizza a fare qualsiasi cosa, senza il minimo scrupolo di coscienza. Aggiungiamoci che la sinistra è anche molto potente, e quindi non solo non si fanno scrupoli, ma nemmeno temono ritorsioni di sorta. Detto questo, c’era solo una cosa che poteva essere fatta per limitare lo strapotere di alcune procure: assumere alcune migliaia di nuovi magistrati ed immetterli rapidamente nei ruoli. Dopo, ovviamente, aver vigilato che i concorsi fossero stati fatti bene. Era l’unica cosa che si poteva fare, ma, presi da altro, non è stata fatta. (l'Opinione)

giovedì 20 dicembre 2007

Il Garante della privacy non ha nulla da dire? Benedetto Della Vedova

Il fatto che sul sito Internet di Repubblica (e presto ovunque sulla "rete") sia disponibile l’audio di una recentissima conversazione telefonica tra Berlusconi e Saccà, di cui la magistratura ha disposto l’intercettazione, dimostra che nelle speculazioni politiche e giornalistiche contro il capo dell’opposizione si è ormai sconfinati nella barbarie.
Barbaro, solo barbaro, può infatti definirsi un sistema in cui le intercettazioni disposte nell’ambito di una inchiesta (che è solo, come è ovvio, ai suoi inizi) possono essere date in pasto al pubblico (addirittura nella versione audio integrale) senza alcuna garanzia per gli interessati, come aprioristica prova di una "colpevolezza", che non potrà mai essere appurata in sede giudiziaria.
Il degrado che segna i rapporti tra magistratura, politica e informazione è una emergenza democratica che il nostro paese deve affrontare.
Ci chiediamo se il Garante per la privacy non abbia davvero nulla da dire al riguardo. (Riformatori Liberali)

mercoledì 19 dicembre 2007

Contro il Cav. e Piroso cattedre etiche al lavoro. Paolo Pillitteri

E’ sempre spiacevole fare le pulci a persone che stimiamo, al di là delle reciproche distanze. Ma la lettura del saggio “giuridico” di C.F. Grosso su “La Stampa” di lunedì a proposito di intercettazioni in cui il Cav promette vantaggi a senatori di maggioranza per votare contro il governo, ravvisando in ciò l’ombra grave e colpevole della corruzione, sulla scia della Procura partenopea che ha inoltre ipotizzato il reato di istigazione alla corruzione per raccomandazioni di starlets alla Rai (correggeteci se sbagliamo), ci ha catapultato all’indietro, ai tempi della teorizzazione dello stato etico e della liceità del controllo della magistratura sull’attività del Parlamento. In un Paese dove l’illegalità e l’illiceità sono lo sport preferito da ogni corporazione, e non solo.

Ci siamo chiesti, alla luce delle esperienze politiche di molti, quale presidente di giunta, quale sindaco, quale premier non abbia mai promesso posti, enti, assessorati, sedie, fringe benefits, auto blu, abbonamenti al cinema/teatro, impieghi e quant’altro pur di ottenere la maggioranza al proprio governo. Quale giunta comunale o regionale, di destra o di sinistra, bianca o rossa o verde è stata composta senza patteggiamenti, accordi, proposte, offerte, ricatti politici? In che film? Questa è la politica. Questa è la lotta del e per il potere, da sempre. E il “Parlamento dei giudici”, il mitico Csm, con le sue correnti esplicite e organizzate, ebbene, il Csm non imita, non frequenta, non attua le “peggiori” lotte intestine della politica, coi suoi aggiustamenti, i calcoli da manuale Cencelli, i suoi accordi sopra e soprattutto sotto banco? Forse, perché i magistrati, sono al di sopra dei giudizi, sono esenti da critiche in quanto togati, in quanto potere altro, morale? Ma va là... Diciamocelo, questa del Cavaliere che tenta di catturare questo o quel senatore errante dell’Oceania (Tremaglia, pentiti!) rientra nella dinamica, nella logica, nell’ordine naturale delle cose della politica. Semmai, è l’aver chiesto la sistemazione di qualche starlets in Rai che stona, che è una caduta di stile, dato che il Cav possiede ben altre chance personali. Ma tant’è, è il (suo) vizietto.

Per un Grosso che tuona dal pulpito etico del principio di legalità (per gli altri, per il Cav), c’è un Padellaro che pontifica dalla cattedra de “L’Unità”, per di più contro un capacissimo collega, il Piroso di “La 7” accusato duramente per le sue critiche al sobrio Luttazzi quando attaccava la Chiesa e andava giù pesante sulla figlia di Berlusconi. Tu quoque, Padellaro?! In realtà questo attacco ad Antonello Piroso e ad alcune “copertine” del Tg 7 che dirige è sembrato un debito interno da pagare alla corrente forcaiola del giornale fondato da Gramsci, e diretto, fra gli altri, da Veltroni. La risposta pirosiana a Padellaro è un piccolo capolavoro: “Le chiedo - così scrive Piroso - se un comico avesse detto in tv di scoparsi la figlia di un politico, che so, di Berlinguer o di Veltroni, così tanto per fare satira e senza farci ridere, io e lei avremmo fatto sì o no un balzo sulla sedia? Io sì”. Prendi, pesa, incarta e porta casa. (l'Opinione)

Soldi ai palestinesi? La storia non insegna. Dimitri Buffa

Stavolta i dirigenti palestinesi avranno qualcosa come 5 miliardi di euro, cioè 7,4 miliardi di dollari. Eppure state sicuri che si lamenteranno lo stesso. Già dicono che i soldi non bastano. Sembra di vedere i soliti democristiani di annata all’assalto di qualche finanziaria. La storia quindi non insegna niente a europei, americani, arabi e agli stessi israeliani? La verità è che questi soldi neanche questa volta garantiranno un’evoluzione democratica dei territori sotto l’egida dell’Anp. E infatti tutti sanno che Hamas già si appresta a lanciare la terza Intifada mentre i suoi capi partecipano a manifestazioni oceaniche dove sullo sfondo si leggono centinaia di cartelli che inneggiano alla distruzione dello Stato ebraico. E comunque sia Khaled Meshaal, dal suo esilio dorato in Siria, sia l’ex premier Ismail Haniyeh, hanno già rassicurato da settimane i più fanatici: Hamas non riconoscerà mai lo stato di Israele.

Ciò nonostante, come tutti abbiamo letto nei giornali dei giorni scorsi, la famosa conferenza dei “donors” per il Medio Oriente è pronta a mettere nelle tasche dei burocrati dell’Anp una somma pari a una manovra di bilancio in un paese industrializzato come l’Italia. Tanto, per i passati i fallimenti economici dei palestinesi, non si chiamano in causa le ruberie e il terrorismo, ma le presunte restrizioni dei check point degli israeliani. Come se un paese dovesse sopportare, per forza maggiore di politically correct, un attacco suicida al giorno pur di favorire la ripresa economica del paese confinante. Nessuno poi che abbia l’onestà intellettuale di dire che, se i soldi verranno impiegati solo per comprare armamenti e per pagare gli stipendi agli scherani di Abu Mazen, al massimo si svilupperà un esercito di mercenari che un domani potranno anche essere ricomprati dall’Iran. Cui di certo non mancano mezzi in tal senso.

No, questo realismo ormai è bandito dalla politica internazionale che invece, almeno a livello americano, si ostina a seguire i fallimentari progetti di Condoleeza Rice, che sta a Bush come Fini sta a Berlusconi. Recita sempre il ruolo dell’amica del giaguaro.
Così nei giorni scorsi abbiamo di nuovo dovuto assistere al paradosso di metà della diplomazia mondiale che per ingraziarsi l’Arabia Saudita puntava l’indice contro i check point israeliani come fattori ostativi dello sviluppo palestinese, nel momento che l’Europa e l’America sbloccavano i fondi a favore dell’Anp pur non essendo affatto chiarito il ruolo di Hamas in tutto ciò. E infatti negli scorsi giorni hamas organizzava bellicose adunate oceaniche islamo-naziste.

Proprio la scorsa settimana se ne è tenuta una a Gaza nella convinzione di una futura azione di forza della Forza di Difesa Israeliana entro quei confini. Due i protagonisti: l’ex premier Ismail Haniyeh e il finto esule Khaled Meshaal.
Haniyeh ha detto che Hamas non soccomberà: “Il messaggio che oggi viene da voi è che Hamas e tutta questa gente non si arrenderà di fronte alle sanzioni”. Poi un appello alla lotta armata: “Oggi è il giorno del Jihad, della resistenza e della sommossa. Questo è Hamas che rimane fermamente ancorato ai diritti della sua gente e che crede che l’America e l’occupazione sionista siano il nemico”. Infine il giuramento di non riconoscere mai Israele come tutti invece chiedono al popolo palestinese: “Chiunque insista sul non riconoscere Israele, abbraccia Allah e non si arrende di fronte ai blocchi americani e israeliani: la sua popolarità cresce a dispetto dell’ostilità americana”.

In pratica la lotta contro Israele è un precetto divino, come afferma anche un altro leader dei terroristi, il famigerato al-Masri che giura: “Giudei, abbiamo già scavato le vostre tombe”. A campeggiare sulla folla poi, giusto per dissipare ogni dubbio, uno striscione nero con un concetto scritto in arabo, inglese e francese: “Non riconosceremo Israele”. A rendere tutto ancora più chiaro poi è arrivato il messaggio televisivo del leader supremo di Hamas Khaled Mashaal, che si è rivolto al popolo di Gaza parlando da Damasco. Meshaal dice che “Hamas non abbandonerà la violenza”, definita “la nostra scelta reale, la nostra carta vincente, quella che farà soccombere l’avversario”. Meshaal ha gettato la maschera: “La nostra gente è in grado di lanciare una terza e una quarta Intifada, finché non arriverà la vittoria”. E Abu Mazen? “E’ un cane infedele, un presidente illegittimo che non si può permettere di trattare con i sionisti”. E noi a questi signori andiamo a dare altri 5 miliardi di euro? Con quali garanzie? (l'Opinione)

Passi in avanti. Massimo Gaggi

Quando, qualche giorno fa, il governatore del New Jersey, Jon Corzine, ha firmato la legge che abolisce definitivamente la pena di morte, alcuni parenti delle vittime dei delitti più gravi hanno giurato di fargliela pagare alle prossime elezioni. E i sondaggi dicono che il 53 per cento degli abitanti dello Stato è ancora a favore delle sentenze capitali.

Storie come questa possono spingere a catalogare la moratoria approvata ieri dall'Assemblea generale dell'Onu come una vittoria morale, una bella pagina della battaglia per i diritti umani scritta col contributo determinante dell'Italia, che, però, non è destinata a produrre cambiamenti reali. Abbiamo risvegliato molte coscienze, ma non sarà questo a cambiare il comportamento dei regimi autoritari e, forse, nemmeno quello di un Paese democratico come gli Usa.

Tutto ciò è vero solo per chi pensava che bastasse un voto per sovvertire regole antiche, per cambiare lo stato d'animo di un'opinione pubblica. Chi, invece, è consapevole che questa sarà, comunque, una battaglia lunga e difficile, non può non considerare un successo che l'anno apertosi con l'esecuzione di Saddam Hussein si chiuda con l'approvazione della moratoria. E, mese dopo mese, le cose hanno cominciato a muoversi in Asia — dove la Cina continua a fare largo uso della pena capitale, ma nella quale la Corte Suprema ora cerca di frenare i tribunali — come negli Usa. Qui è vero che i più restano favorevoli alla pena di morte (che nessuno dei principali candidati alla Casa Bianca pensa di abolire), ma la maggioranza non è più lo schiacciante 80 per cento di 12 anni fa. La decisione votata ieri può rappresentare una metà — quella etica — di una tenaglia capace di trascinare avanti, accelerare questo processo.

L'altra metà è composta da tre evidenze pragmatiche: la condanna a morte rende irreparabile il danno in caso di errori giudiziari (scoperti sempre più spesso con le verifiche sul Dna), non funziona come deterrente (gli Stati Usa con la pena di morte sono anche quelli nei quali si commettono più delitti gravi) e, addirittura, costa di più rispetto a un sistema che prevede al massimo l'ergastolo.

Nel '92, pochi mesi prima del voto che lo avrebbe portato alla Casa Bianca, Bill Clinton interruppe la campagna elettorale per presenziare nel suo Stato, l'Arkansas, all'esecuzione di un minorato mentale condannato a morte. Oggi non lo rifarebbe. E quell'uomo non sarebbe più mandato a morire. Oggi vediamo, invece, Barack Obama che, pur non respingendo le sentenze capitali, dice apertamente che uccidere il condannato non rappresenta un deterrente contro il crimine. (Corriere della Sera)

martedì 18 dicembre 2007

Lavoriamo per il Fisco. Nicola Porro

Prendiamo un grande pensatore musulmano del XIV secolo, Ibn Khaldun e la sua Muqaddimah. E prendiamo Luciano B., quadro di una grande azienda italiana del XXI secolo e la sua busta paga di dicembre. I due signori probabilmente non si conoscono, eppure nei loro testi sono scritti i medesimi principi: le tasse fanno male.
Ma andiamo per ordine. Il Signor Luciano nel 2007, grazie ad un piccolo scatto, è riuscito a portare il suo reddito lordo annuo ad un soffio sopra i 33mila euro. L’anno prima era un pelo sotto: parliamo di una retribuzione netta poco superiore ai 1600 euro al mese. Stipendio non certo da ricco. Ebbene, Luciano nella sua busta paga di dicembre, comprensiva della tredicesima, si becca 150 euro in meno rispetto all’anno precedente. Avete capito bene: questo è uno degli effetti distorsivi della riforma fiscale introdotta da Visco.
Khaldun, chissà se può essere definito un berlusconiano, alla fine del 1300 scriveva: «Agli inizi, gli Stati applicano percentuali di tassazione bassa, ma raccolgono comunque grandi somme. Con il tempo i governanti diventano più avidi e alzano le aliquote, le attività economiche vengono disincentivate e le entrate per le casse dello Stato diminuiscono». Dopo più di sei secoli, più o meno la stessa cosa, la disegnò su un fazzoletto di carta anche uno degli economisti di Reagan, Arthur Laffer.
Luciano B., Khaldun, Laffer, e chiunque lavori conosce perfettamente questa regoletta empirica: più si tassa e più si disincentiva a lavorare e dunque a generare risorse per la collettività.
La cosa incredibile è che questo principio base non sia ancora chiaro. Meno incredibile, è circa un anno che lo andiamo ripetendo, è che solo oggi ci si accorga delle mostruosità fiscali fatte dalla riforma Visco. Il vantaggio di una pessima riforma fiscale è che i suoi effetti si dispiegano nel tempo e non sono immediati. Solo a dicembre, con il conguaglio di fine anno, i lavoratori si renderanno conto, nella loro ultima busta paga, che le riforme introdotte e annunciate come difensive della classi più deboli, sono un salasso praticamente per tutti. E solo nei prossimi anni ci accorgeremo che la fiscalità eccessiva che continua ad essere la regola di questo Paese è la causa del suo impoverimento. L’incentivo a fare di più, a rischiare maggiormente, a sacrificare il proprio tempo libero, con un fisco di questo genere è inesistente. (il Giornale)

lunedì 17 dicembre 2007

Prodi sul Dalai Lama: ragion di Stato. Corriere della Sera

«In questi casi bisogna usare prudenza. Ho la responsabilità di un Paese e devo rendermi conto delle conseguenze finali delle mie azioni. Uno, ero all'estero; due, non lo abbiamo invitato. E comunque la ragion di Stato esiste e io ne sono responsabile». Così il presidente del Consiglio Romano Prodi, ospite ieri sera a Che tempo che fa, in risposta al conduttore Fabio Fazio che gli chiedeva perché non ha incontrato il Dalai Lama nella recente visita che il leader tibetano ha fatto in Italia. «Ero ai vertici europei», ha detto il premier innanzitutto. Per poi aggiungere: «Comunque si deve usare prudenza in questi casi. Se è indispensabile si possono fare eccezioni, sennò debbo rendermi conto delle conseguenze finali delle mie azioni. C'è un discorso: la ragion di Stato esiste, io ne sono responsabile». Durante la permanenza del Dalai Lama in Italia da più parti si erano levate critiche perché non era stato previsto alcun incontro ufficiale con esponenti di governo. Prodi chiude così la polemica: «C'è la ragione di Stato, esiste, e io ne sono responsabile».

domenica 16 dicembre 2007

Alta velocità: iniziato il conto alla rovescia. Corriere della Sera

L'INAUGURAZIONE UFFICIALE DEL PRIMO TRATTO E' PREVISTA FRA UN ANNO

Con un viaggio di prova su cui ha viaggiato il Premier Romano Prodi le Ferrovie dello Stato hanno cominciato ufficialmente il conto alla rovescia per l'Alta Velocità. Mancano infatti 365 giorni di lavori prima della sue entrata in esercizio tra Milano e Bologna. Alle 14 un treno dedicato è partito con il Presidente del Consiglio e con i vertici delle Ferrovie alla volta di Milano.

«UNA NUOVA ERA PER I TRASPORTI ITALIANI» - «L’augurio - ha detto il Presidente del Consiglio - è che cominci una nuova epoca per i trasporti italiani». «Trecentosessantacinque giorni - ha sottolineato il Premier - speriamo in bene; sono consapevole che si tratta di un’opera di straordinaria importanza. Da cento anni il sistema ferroviario italiano è immutato, il raddoppio Bologna-Verona è stato progettato nel 1919, la stazione di Bologna è così da un secolo. In pochi anni dobbiamo cambiare la struttura ferroviaria sostituendo un semplice trasporto con un sistema moderno».

BOLOGNA-MILANO IN UN'ORA - Il progetto è quello di aprire entro il dicembre 2008 la linea ad alta velocità/alta capacità fra Milano e Bologna su cui i treni potranno viaggiare fino a 300 kmh (media di percorrenza a 210 kmh) coprendo la distanza in un'ora. Oggi è di 1h e 42'. La linea è lunga 182 km, da Melegnano a Lavino con 28 km di interconnessioni con la linea esistente. Sarà realizzata una nuova stazione in linea a Reggio Emilia. Nel primo anno secondo le Fs viaggeranno sulla nuova linea 64 treni in servizio no stop tra le due città. Il numero dei convogli che percorreranno la linea è destinato a crescere ulteriormente dal dicembre 2010, includendo anche quelli diretti o provenienti dalla linea adriatica. Con la nuova linea i collegamenti fra Bologna e Milano si svilupperanno su quattro binari, aumentando la capacità complessiva dell'infrastruttura che sarà in grado di di sostenere un traffico di oltre 500 convogli giorno al 2011 (attualmente sono 244). Nel dicembre 2009 dovrebbero essere concluse anche le linee fra Bologna e Firenze e fra Torino e Milano. A quella data dunque sarà completato (nodi esclusi) il sistema da Torino a Napoli (entro il 2008 è prevista l'apertura anche della nuova tratta Napoli-Salerno) con questi tempi di percorrenza indicati da Fs: 4h10' da Napoli a Milano, 3h da Milano a Roma, 1h da Torino a Milano e 35' da Bologna a Firenze.

Tir e taxi: dalla teoria alla realtà della lotta di classe. Luigi De Marchi

Mai come in queste settimane, che hanno visto la rivolta dei tassisti e dei camionisti, la mia Teoria liberale delle lotta di classe aveva trovato, a mio parere, conferma più evidente ma anche più drammatica.La protesta dei tassisti ha portato alla paralisi delle grandi città, quella dei camionisti ha paralizzato l’Italia intera. Ma non sono state rivolte inevitabili: sono state rivolte scatenate dalla politica discriminatoria che da sempre caratterizza una certa classe politica statalista e che ha prodotto anno dopo anno un sistematico favoreggiamento della casta burocratica parassitaria e sfruttatrice e un’altrettanto sistematica persecuzione e criminalizzazione dei lavoratori autonomi.

E’ la classe politica che anche nel recente rinnovo contrattuale, come in passato, ha assicurato alla burocrazia aumenti salariali nettamente superiori sia al tasso d’inflazione che agli aumenti accordati ai lavoratori del settore privato. E’ la classe politica che, come confessò Lamberto Dini quand’era primo ministro, dissipa i tre quarti del gettito fiscale prelevato dalle tasche dei lavoratori dipendenti e indipendenti del privato per foraggiare le sue sterminate e inutili burocrazie, lasciando solo le briciole per gl’investimenti propulsivi. E’ la classe politica che , ogni anno, trova normalissimo il licenziamento o il fallimento di centinaia di migliaia di lavoratori del settore privato ma considera disumano e assurdo licenziare anche un solo burocrate o accettare il fallimento d’un qualsiasi carrozzone deficitario e parassitario dello Stato o del parastato. E’ la classe politica che addita al pubblico obbrobrio i lavoratori autonomi come responsabili, in quanto evasori di questa o quella imposta, del dissesto delle nostre finanze pubbliche e non ha mai detto una sola parola contro una casta burocratica che di quel dissesto, e del relativo mostruoso debito pubblico, è la principale responsabile dato che rende la nostra spesa pubblica enorme e incomprimibile e sequestra la maggior parte delle nostre risorse finanziarie, impedendo un serio ridimensionamento del debito pubblico e sputtanandoci anche a livello internazionale, per pagare stipendi inutili a passacarte inutili. Al contrario, per bocca del Ministro Padoa Schioppa, questa classe ha recentemente negato che vi siano molti fannulloni tra i nostri burocrati, chiudendo perentoriamente la scomoda discussione con le parole: “Dei fannulloni, si è parlato fin troppo”. Infine, è la classe politica che, mentre trova normalissimo che una turba di cosiddette guardie forestali calabre (in realtà non di rado complici dei piromani) blocchino per giorni i collegamenti ferroviari col Mezzogiorno o che il personale sindacalizzato degli aeroporti lasci i passeggeri a bivaccare giornate e nottate intere aggrappati ai loro bagagli, improvvisamente trova “intollerabili” le proteste dei tassisti o dei camionisti da essa stessa provocate e non esita a minacciare e ad arrestare gli scioperanti, mentre i suoi strapagati e stragarantiti pennivendoli dei giornali e delle TV di regime chiamano sprezzantemente “padroncini” i camionisti (che stanno al volante dei Tir anche 12 ore al giorno per quattro soldi e passano 4 notti nel gelo per farsi sentire) e gli altri lavoratori autonomi più bistrattati.

Già, perché mentre prodigava le sue energie per difendere la burocrazia e i suoi privilegi, questa classe politica statalista, che ha proprio nel Ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi (sviscerato ammiratore di Fidel Castro) un esponente emblematico, lasciava marcire per anni le richieste dei tassisti e dei camionisti, portandoli a concludere che solo la protesta selvaggia poteva costringere i politici statalisti locali e centrali ad ascoltarli. E, difatti, così è stato per i tassisti e così è stato per i camionisti, dato che la classe politica statalista, abituata da sempre a vivere col culo in caldo, non ha la minima idea della tremenda capacità di lotta e sacrificio che può esplodere in un gruppo di lavoratori indipendenti umiliati nei loro elementari diritti.

Ma questa vicenda dei camionisti, se da un lato conferma la validità sempre più inconfutabile della Teoria liberale della lotta di classe, dall’altra ci dimostra anche che la scarsa coscienza di classe dei lavoratori autonomi, ostacolando lo sviluppo di una loro volontà unitaria di lotta e di un’organizzazione capace di gestire le tensioni e le trattative prima che giungano alla fase esplosiva, approda spesso all’isolamento della categoria sfruttata all’interno stesso dei Popolo dei Produttori del privato. Così in questi giorni si è vista la protesta dei camionisti suscitare comprensibilmente l’esasperazione degli altri lavoratori dipendenti e indipendenti del settore privato e l’invocazione di provvedimenti repressivi. Insomma, come i polli di Renzo, i lavoratori del privato rischiano di litigare e beccarsi tra loro mentre la razza padrona (cioè gli alti burocrati e i politici statalisti) li tiene, appesi a testa in giù, tutti bloccati nella morsa delle sue mani rapaci. (il Blog del Solista)

Quel caffè tra Violante e il pm Mancuso. Massimo Malpica

Il caffè, dicono a Napoli, deve avere tre «c»: caldo, comodo e corto. La «c» di corruzione, invece, non è contemplata. Dunque non si può sapere se nell’incontro conviviale di metà novembre tra il presidente della Commissione Affari costituzionali di Montecitorio, Luciano Violante, e il magistrato napoletano Paolo Mancuso si sia parlato anche della delicata indagine che il procuratore aggiunto, capo del pool Criminalità finanziaria della procura di Napoli, coordina. Un’inchiesta che vedrebbe tra gli indagati Silvio Berlusconi, accusato dalle toghe napoletane, secondo Repubblica, della tentata corruzione del senatore «australiano» Nino Randazzo.Violante e Mancuso, come ha rivelato Italia Oggi, si sono incontrati alla «Caffettiera» di piazza di Pietra, a due passi dalla Camera, a metà novembre. E l’appuntamento è quantomeno singolare, se inserito nel clima e nelle dichiarazioni di quei giorni, alla vigilia del voto della Finanziaria. Giorni che vedevano moltiplicarsi le accuse più o meno esplicite di corruzione a proposito della campagna acquisti del capo dell’opposizione, che meditava la «spallata» al governo Prodi proprio a Palazzo Madama. Ad aprire le danze era stato il Professore bolognese, che il 20 ottobre dichiara: «Il governo cade per corruzione», denunciando che sette senatori del centrosinistra stavano per passare dall’altra parte. La mattina dopo, in edicola, proprio su Repubblica Eugenio Scalfari dedicò l’editoriale alla trappola in Senato, scrivendo di «reati penali». Poi era toccato a Randazzo, il 12 novembre, diffondere una lettera scritta due giorni prima a Berlusconi per declinare l’invito del Cavaliere a passare con l’opposizione. Infine Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd a Palazzo Madama, nelle dichiarazioni di voto parlò esplicitamente di «corruzione».
Lo stesso reato a cui, riferendosi a Berlusconi, accenna pure Luciano Violante, chiacchierando alla Camera con i colleghi di schieramento del rischio che il governo finisse a terra in Senato.Lo stesso reato, ricordiamo, che poi avrebbero ipotizzato proprio il pm Vincenzo Piscitelli e il suo «coordinatore» Mancuso, che negli stessi giorni interrogano Randazzo come «persona informata dei fatti».
Forse solo una coincidenza, di certo una «strana coincidenza», ricorda il leader dei Riformatori liberali, e deputato di Forza Italia, Benedetto della Vedova. «Mi sembra almeno singolare - sospira - che in questo clima Violante ritenesse opportuno mostrare la sua frequentazione con Mancuso, proprio negli stessi giorni in cui poi lui stesso ha parlato di corruzione». «Per fortuna - prosegue l’esponente azzurro - non c’è un’intercettazione di quanto si sono detti i due bevendo il caffè, magari erano solo auguri natalizi molto anticipati. Ma l’incontro in sé disvela la strumentalità di questa ondata moralistica sollevata dalla sinistra, sia quella politica, che quella mediatica e giudiziaria». Una moralità che, in Italia, secondo l’ex radicale procede a due velocità: «Si dà scandalo per le telefonate tra dirigenti Rai e Mediaset, ma poi è pacifico che Violante incontri il magistrato che coordina l’inchiesta su Berlusconi, Saccà e Randazzo. La cautela di Violante avrebbe dovuto essere massima, per non dare adito a sospetto che ci siano interferenze tra politica e magistratura. Ma quel caffè è la prova che la sinistra considera gli altri al di sotto e se stessa al di sopra di ogni sospetto. Qualsiasi contiguità, se riguarda loro, è lecita». (il Giornale)

sabato 15 dicembre 2007

Finché morte... Davide Giacalone

“Finché morte non vi separi”, non è solo la formula dell’amore canonizzato, ma anche quella del divorzio dilazionato. Abbiamo il divorzio più lento d’Europa: a parte i tre anni di separazione ci mettiamo circa seicento giorni per una sentenza di primo grado e circa cinquecento per il secondo. Più di sei anni da quando ci si è detti addio. La morte, così messi, è una probabilità, ma anche una tentazione.
Al presidente Sarkozy, che del divorzio è frequentatore recidivo, è sembrato troppo che in Francia ci si metta, nel caso sia consensuale, tre o quattro mesi. Il ragionamento è questo: quei due decisero da soli di piacersi, poi di convivere, poi di sposarsi. Auguri. Ora, sempre da soli, decidono di divorziare: che si accomodino da un notaio, rendano ufficiale e pubblica la rottura del contratto che li lega, e se ne vadano per la loro strada senza imporre agli altri i costi di un giudice e di un tribunale, ed a se stessi quello degli avvocati. Applaudo. Le cose non possono che andare diversamente se c’è conflitto e se ci sono minori, ma è proprio perché le leggi favoriscono l’accordo che, in quel Paese, più della metà dei divorzi è consensuale. Da noi no, da noi il giudice deve sempre dire la sua, deve anche provare a riconciliare la coppia, come se fossero cavoli suoi o ci fosse un vantaggio collettivo a vederla trascinare il matrimonio.
Magari qualcuno pensa che agendo in questo modo si tutela il sacro istituto del matrimonio, si tenta di tenere unite le famiglie, che è gran bella cosa. Chi lo pensa non conosce la realtà, perché avviene l’esatto contrario: in Italia ci si sposa di meno e si fanno meno figli che altrove. Quindi non si tutela un bel niente, semmai si disincentiva. Fingiamo di non saperlo e paghiamo cara l’ipocrisia, continuando a pompare soldi del contribuente in una macchina giudiziaria che gira a vuoto ed inquinando il principio di responsabilità individuale con una pretesa morale giudiziaria. Portiamo fino in cassazione anche le speranze sessuali, facendo entrare il giudice nel letto e senza che l’affollamento risulti eccitante. Ma tacciono, di questo, le corporazioni togate, le cattedre di diritto, le coscienze sempre vigili. Capirei vi fosse un’inchiesta su fornicazioni ministeriali, ma qui si parla di cittadini e di diritto, roba per maniaci.

Quelli che la laurea a Mike è uno scandalo. Michele Brambilla

Il quotidiano La Repubblica, che è da sempre il giornale più à la page dell’Italia progressista, che è ricco di grandi firme, che la Cultura la intende davvero con la maiuscola, insomma La Repubblica che è un giornale di fronte al quale ci leviamo riverenti il cappello, si chiede che bisogno c’era di dare una laurea honoris causa a Mike Bongiorno, che sarà anche un grande presentatore, che sarà anche simpatico, ma che in fondo, suvvia.
La Repubblica non se la prende tanto con Mike (anzi) ma con «la destra», che quella laurea l’ha invocata. E con ancor maggiore sarcastica indignazione si chiede come mai la stessa «destra» si spinga addirittura a chiedere al Capo dello Stato di nominare Mike Bongiorno senatore a vita. «È dura - scrive Francesco Merlo - far sventolare Mike come bandiera ideale, ed esaltare come epopea nazionale le sue mille, allegre gaffe dal sapore familiare, la fresca ingenuità del vegliardo signor telequiz e la paterna bonarietà velata di condiscendenza del bravo presentatore». Insomma, ci vuol altro per uno scranno a Palazzo Madama: Mike «non è un modello, non è il cappellano laico dell’Italia del Novecento, non è il nuovo Benedetto Croce».
Ora, si può ironizzare quanto si vuole sull’Italia dell’«allegriaaaa!» e dell’ahi ahi ahi signora Longari mi è caduta sull’uccello. Ma se la sinistra adotta come maître à penser Celentano, non si vede perché la destra non possa proporre per una laurea ad honorem (che in Italia non si nega a nessuno) un uomo che ha contribuito, e non poco, a portare in Italia la televisione, la quale qualcosa avrà pur contato, nella storia del nostro Paese. Sbaglieremo, ma ci pare più fuori posto un premio Nobel a Dario Fo. Quanto poi a una possibile presenza in Senato di Mike Bongiorno, ci susciterebbe meno disdoro di tante pornoattricette ed ex terroristi che pure in Parlamento si sono seduti e in molti casi siedono tuttora.
Ma non è questo il punto principale. Conosco bene Francesco Merlo e ne ho la massima stima, non solo per la bravura professionale ma anche per la sua indubbia libertà e onestà intellettuale. Sono quindi certo ch’egli non si volesse spingere a tanto: ma la sensazione che resta, da queste polemiche sulla laurea a Mike Bongiorno, è che si voglia riproporre il sempiterno luogo comune di una destra italiana incolta e zoticona, grossolana e superficiale; una destra che, al momento di pescare dal proprio cilindro un nome degno di rappresentarne la cultura, non sa tirar fuori niente di meglio che un re del telequiz.
Merlo si chiede come mai la destra che oggi si batte per Mike non abbia fatto altrettanto, ad esempio, per Rosario Romeo o Geno Pampaloni o Mario Praz. Domanda legittima, ma dimentica forse di due non secondari dettagli. Il primo è che spetta al Presidente della Repubblica nominare i senatori a vita, e ci sarebbe piuttosto da chiedersi come mai dal Quirinale non si scelga da tempo un rappresentante della cultura liberale e moderata, come se non ve ne fossero di degni. E qui arriviamo al secondo dettaglio, al tempo stesso causa e conseguenza del primo.
È che c’è un pregiudizio tutto italiano secondo il quale la cultura non può essere di destra, anzi non può non essere di sinistra. È un pregiudizio che provoca esclusioni preventive dai salotti buoni sia nel mondo accademico, sia in quello solo apparentemente più «basso» della letteratura, del giornalismo, del cinema, della musica. Il centrodestra non ha niente di meglio dell’uomo del Rischiatutto? Sarà. Eppure il più geniale regista italiano, Pupi Avati, è escluso dal giro che conta per il solo fatto di essere cattolico, neanche di centrodestra. Eppure un autore come Guareschi, tradotto ancora oggi in tutto il mondo, non figura in alcuna antologia. Eppure un giornalista come Montanelli è stato accettato solo quando si è scontrato con Berlusconi. Eppure una fuoriclasse come Oriana Fallaci, che dalla sinistra veniva, è stata trattata alla stregua di una neonazista quando ha preso posizioni inconciliabili con il politically correct. Eppure una scrittrice come Susanna Tamaro è stata coccolata fino a quando la si è creduta allineata, ma poi espulsa dalle pagine culturali dei grandi giornali quando ha cantato fuori dal coro. Lo stesso decreto di espulsione scattò, negli anni Settanta, per Renzo De Felice, che pure non era di destra, ma che osò infrangere la vulgata ufficiale della storiografia sul fascismo. Ora aspettiamo solo che una scomunica colpisca anche Benigni, reo di aver cantato, dopo Berlinguer, la bellezza del cristianesimo.
Si potrebbe continuare a lungo. Ce ne sarebbero, oltre a Mike, di «bandiere da sventolare». Ce ne sarebbero. Ma non è la destra che non le sventola, è qualcun altro che le vorrebbe ripiegate, e ben nascoste. (il Giornale)

venerdì 14 dicembre 2007

Che pensereste voi dell'Italia. il Foglio

Se foste l’inviato di un quotidiano straniero in questi giorni a Roma?

Ogni tanto succede che un giornale straniero titoli e racconti come in fondo all’Italia restino soltanto la pasta e la pizza, e poi magari nel sottotitolo ci aggiunga la mafia e il calcio. E poi magari si riciccia la chiesa, come lobby che preme d’oltretevere e non come pilastro anche culturale, il bel clima e l’arte che tutti accontentano. Ci mancano le belle mediterranee e i maschi romantici con chitarra, e il quadretto è fatto. Succede, e non è del tutto saggio far pendere il proprio giudizio dalle labbra della pur autorevolissima stampa forestiera. Però, se voi foste uno straniero a Roma, magari il corrispondente del New York Times, in grado di leggere i giornali e di intervistare persone di ogni tipo, che pensereste? Che pensereste di un paese che mentre tutto il mondo alza l’età delle pensioni, la riduce? Di un paese con un governo così debole che non riesce neanche a cadere? Di un paese dove avere figli o è un problema di ammortizzatori sociali o un diritto individuale, invece di essere semplicemente la norma? Di un paese dove per protesta si assaltano le caserme, per agitazione sindacale si prende di mira il Parlamento, per serrata si bloccano le strade? Di un paese dove ogni rivendicazione finisce al grido: assassini? Di un paese dove lo slogan più fortunato è un vaffanculo? Dove il libro più venduto è una condanna della casta o un’epopea nera della camorra? Dove ogni trattativa – Alitalia, welfare, licenze eccetera – finisce con un rinvio che poi nasconde una concessione figlia di un ricatto ai danni di una classe politica debole? Dove ogni decisione dev’essere soppesata per giorni, perché a volte parte dall’idea di garantire più sicurezza e finisce per limitare la libertà di parola? Racconta Ian Fisher sul NYT: gli italiani non credono più alla loro arte di arrangiarsi e l’Italia, più vecchia e più povera, sembra non amare più sé stessa. C’è un legame tra un sistema politico sbrindellato in perenne transizione e un umore generale che peggiora. Lo chiamano malessere, quella cosa che non ci fa andare avanti. Perché manca qualcuno che dia la direzione.

martedì 11 dicembre 2007

Il fantasma del centro. Angelo Panebianco

E’possibile che al termine del processo di dissoluzione degli attuali schieramenti di centrosinistra e di centrodestra, una volta varata una nuova legge elettorale proporzionale, si assista alla rinascita di un partito di centro. Un partito piccolo, certamente. Ma anche un partito che, numeri permettendo, potrebbe diventare l’ago della bilancia, la forza politica indispensabile per qualunque combinazione di governo. Un partito siffatto, anche con una forza elettorale di poco superiore al cinque per cento, potrebbe disporre di un grande «potere coalizionale», non proprio dettare legge ma quasi: potrebbe allearsi oggi con Berlusconi e Fini contro il Partito democratico pronto però a rovesciare le alleanze domani, nel caso che le sue richieste non venissero accettate dai partner del momento.

Che tipo di forza politica sarebbe? Quale contributo darebbe, e in quale direzione, alla soluzione dei problemi italiani? Sappiamo che sarebbe un partito sensibile ai valori cattolici. E che altro? Ad esempio, di quale politica economica e sociale si farebbe assertore? Sappiamo, grosso modo, cosa saranno, da questo punto di vista, il Partito democratico di Veltroni e il Partito del popolo delle libertà di Berlusconi, i due partiti maggiori. Il Partito democratico, probabilmente, si attesterà in un qualche punto di equilibrio fra le istanze modernizzatrici propugnate dal suo leader e le istanze conservatrici della sinistra e della Cgil: una socialdemocrazia moderna ma annacquata.

Il partito di Berlusconi, a sua volta, si attesterà in un qualche punto di equilibrio fra il liberalismo economico (il cosiddetto «liberismo ») che interessa soprattutto al suo elettorato del Nord e le istanze stataliste delle sue altre componenti. Socialdemocrazia annacquata contro liberalismo economico annacquato. E il partito di centro? Cosa sceglierà? La domanda non è peregrina. Se davvero quel partito fosse indispensabile per ogni futura combinazione di governo diventerebbe essenziale conoscere il suo programma economico, le sue proposte su tassazione, spesa pubblica, liberalizzazioni, riforma della pubblica amministrazione, eccetera.

Se volessimo affidarci ai precedenti, alla storia, non ne ricaveremmo molti lumi. L’Udc di Pier Ferdinando Casini (plausibilmente, magna pars del possibile partito di centro), durante il governo Berlusconi, fu soprattutto visibile nella sua continua tenzone con la Lega di Umberto Bossi e, inoltre, svolse un ruolo, insieme ad An (il famoso sub-governo), nel porre freni agli entusiasmi anti-tasse di Berlusconi. È nella natura dei partiti aghi della bilancia di non poter adottare profili programmatici netti. Poiché un profilo netto rende possibile solo l’incontro con certi partner e non con altri. Il partito di centro è per lo più condannato dalla sua collocazione a una certa «indistinzione programmatica ». Per questo, in genere, è preferibile avere a che fare con due grandi partiti che, da posizioni distinte, competano fra loro per accaparrarsi l’elettorato di centro anziché rischiare di affidare le sorti del Paese a un partito di centro. Il possibile, futuro, partito di centro smentirebbe questa regola? Corriere della Sera)

domenica 9 dicembre 2007

Uranio: giornalisti terroristi. Carlo Panella

Il terrorismo è all’attacco in Italia. Non quello delle Br, non quello di al Qaida: il terrorismo dei giornalisti. Dopo i miliardi di morti di Aids, dopo le fanfaronate sull’aviaria, dopo l’esaltazione del Nobel per l’ambiente a un politico americano fallito –al Gore- che consuma personalmente più energia “sporca” di una città africana, ecco la “campagna sull’uranio”. Campagna ricca di potenzialità eversive, perché scatena, in modo assolutamente irresponsabile- il terrore del “nucleare” dentro la decennale polemica pacifista sulle missioni militari italiane. Tutti i teatri di guerra contestati dal popolo arcobaleno –questa è la tesi dell’accusa- dal Golfo nel ’91, passando per la Bosnia, il Kosovo e l’Iraq, per arrivare all’Afghanistan, sarebbero stati teatro di una demenziale intossicazione dei nostri militari, provocata proprio dalle armi che generali imbecilli –su suggerimento dei “diabolici americani”- hanno consegnato nelle loro mani. Per di più, queste armi, avrebbero mietuto morti sottili, una sorta di strisciante Chernobyl, tra la popolazione civile che abita nelle zone soggetto a bombardamenti. Il tutto, appunto, a causa dell’uranio impoverito utilizzato per aumentare al massimo la concentrazione della massa ponderale nei proiettili d’artiglieria.
Da anni, migliaia di articoli propalano questa tesi. Ma non è vera. Ma siccome deve essere vera, i titoli e gli articoli dei giornali la trasformano in vera. Oggi, tutti i quotidiani italiani titolano grosso modo come Repubblica: “Uranio, 77 i militari morti”. Titoli che obbligherebbero la magistratura italiana –se esistesse una magistratura italiana e non fosse ormai una propaggine di poteri altri- a procedere d’ufficio per varie fattispecie di reato. Non è affatto vero infatti che nulla indichi che 77 militari italiani sono morti a causa dell’uranio, ma è vero l’opposto: il ministro Parisi ha infatti comunicato che 77 sono i militari morti per tumore nel quinquennio 2001-2006 (campagne di Bosnia, Kosovo, Iraq e Afghanistan, per un totale di decine di migliaia di militari “esposti” ai proiettili con uranio impoverito). Morti per tumore –lo ripetiamo- per tutte le tipologie neoplastiche, non “per uranio”. Un cifra, che non solo smentisce già a prima vista ogni allarmismo, ma indica addirittura che la mortalità per tumore tra questi militari è inferiore di un terzo alla mortalità per tumore della popolazione maschile italiana. La stessa proporzione vale per i militari con malattie oncologiche ancora in vita. Se si dovesse usare lo stesso metro degli allarmisti, queste statistiche, quindi, porterebbero alla conclusione opposta: l’uranio impoverito è un potente antitumorale perché i militari che lo maneggiano hanno molto meno tumori della media nazionale.
La pericolosità dell’uranio impoverito, è dunque una palla colossale, dunque, su un argomento delicatissimo,che merita sicuramente ulteriori accertamenti e prove (e approfondimenti statistici più accurati), ma che, al momento, dovrebbe essere quantomeno archiviata.
Invece no. I media italiani –ormai in preda alla sindrome Lele Mora- sciacallano sulla pelle e sulla buona fede dei famigliari di alcuni militari morti di tumore che non si danno pace, che non accettano la terribile casualità del “male oscuro” e che –spinti da avvocati e associazioni antmilitariste- chiedono allo Stato di essere risarcite per avere provocato con l’uranio impoverito la morte dei loro congiunti. Il massimo rispetto umano per queste famiglie, non può però significare anche il silenzio sui propalatori di questa falsa campagna d’allarme. Tra questi, l’ottimo Folco Accade, deliziosa persona che però ha il difetto di avere costruito attorno a sé un clima di totale, assoluta sfiducia da parte di tutte le forze politiche –anche quelle più pacifiste e antimilitariste- con l’estremismo velleitario delle sue denunce.
Continua così ad andare in scena l’ennesima campagna pavloviana del giornalismo più accattone d’Europa che vive di leggende metropolitane, purchè abbiano un qualche risvolto antiamericano.

Il Potere e noi. Ida Magli

Ho provato molte volte a spiegare ai nostri lettori perché con la nostra Associazione non siamo riusciti, pur avendone la massima volontà, a presentarci in forma organizzata sulla scena politica e porre così finalmente le basi per tentare di salvare gli Italiani dalla estinzione, estinzione fisica e di conseguenza culturale. Spinta da molte lettere, delle quali potete leggere qui accanto l’ultima in ordine tempo, ma non ultima nella sua chiarissima forza e nello schiaffone che mi ha dato, cercherò di riassumere sia le cose già dette, sia quelle che forse ho dato per sottintese e che invece necessitano di una spiegazione più esplicita da parte mia. Lo faccio (spero che almeno per coloro che mi seguono da più tempo questo sia facile da capire) per sentirmi dire da voi di non rinunciare; perché attendo che qualcuno trovi delle soluzioni al problema e me le suggerisca; insomma io mi presento oggi a voi come un malato di una malattia inguaribile e che tuttavia si aspetta sempre che la diagnosi sia sbagliata.
Le motivazioni concrete più evidenti sono quelle che ho già fatto notare numerose volte: per organizzarsi occorrono molti soldi. Come abbiamo visto, con i capitali di Berlusconi un Partito nuovo si fa in tre giorni. Noi non ne abbiamo, e in tutti gli anni che sono passati da quando si è formata l’Associazione degli Italiani Liberi, i capitali non sono arrivati. Tuttavia io sono convinta che il motivo per il quale è quasi impossibile oggi muoversi in una qualsiasi direzione che diverga da quelle previste dalla società e dai politici, si fondi su un “ insieme” di fattori, voluti e non voluti, che hanno creato l’enorme distesa di sabbie mobili nella quale stiamo sprofondando.
Ne elenco qualcuno.

Il primo: il sistema politico chiamato “democrazia” è superato. Logoro, inadatto alla società contemporanea, brutalmente ingiusto, sfruttato dai detentori del potere in quanto nessuno osa metterlo in dubbio. Di fatto, però, tutti sappiamo che non è vero che i cittadini hanno il potere. Guardate a ciò che è successo in questi giorni: hanno scioperato tutti, proprio tutti, anche quelli, come i Vigili del fuoco e la Polizia, che non avevamo mai pensato che potessero scioperare, eppure non è cambiato nulla. Lo sciopero, infatti, unica arma “democratica”, è un’arma contro noi stessi, un’arma con la quale imponiamo sofferenze e crudeltà inaudite ai nostri stessi fratelli ( basti pensare allo sciopero totale dei trasporti o a quello della sanità), ma di per sé serve soltanto se i politici si degnano benignamente di prenderlo in considerazione. La sproporzione fra la violenza e il danno per tutta la collettività che si sprigiona da uno sciopero e i risultati che se ne ricavano, ne dimostra l’assoluta irrazionalità. Viene adoperato esclusivamente perché con esso fingiamo di vivere bene in una democrazia.

Il secondo: il potere politico ha inaugurato la dittatura finanziaria, sotto le vesti della democrazia, e ha fatto suo il marxismo impadronendosi del corpo e dell’anima dei sudditi: il sistema sanitario di Stato, la scuola di Stato, il finanziamento di Stato di tutte le religioni, di tutti i Partiti, di tutti i giornali.
Nel frattempo, nell’incapacità di capire e di controllare i cambiamenti in atto della vita biologica e sociale, ha preparato la più grande delle dittature con l’unione europea e la morte delle Nazioni. Nessun popolo può sopravvivere privo del proprio nome, della propria identità, della propria storia, della propria lingua… Nei prossimi giorni sarà firmato dai governi, senza nessun referendum, il nuovo trattato costituzionale europeo ed entreranno nell’unione altri nove Stati. Il silenzio quasi assoluto dei politici e dei giornalisti è la prova che sanno bene che tutto questo è contro di noi. Il tradimento dei giornalisti è forse uno dei fattori più gravi dell’abisso nel quale stiamo per sprofondare. Berlusconi ha detto che il nuovo partito somiglierà al “ partito popolare europeo”. Non una parola di più. Non una parola sull’Europa. Non una parola sulla prossima invasione dell’Italia da parte dei nuovi Stati. Sarebbe sufficiente sospendere il trattato di Schengen, come hanno già fatto, del resto, Francia, Spagna, Inghilterra. Ma nessun popolo è governato da traditori tanto quanto il popolo italiano.

Cosa possiamo fare noi? Io avevo preparato per il Partito degli Italiani un programma che partiva proprio da queste riflessioni, con una proposta di cambiamento della struttura del potere e di tutte le forme obbligatorie di affidamento allo Stato; la chiusura dei confini a tutti gli stranieri; il ripristino di norme giuridiche che assicurino solo e prima di tutto la Giustizia; la consegna della libertà e della responsabilità ad ogni singolo individuo nello scegliere secondo le proprie attitudini il suo modo di vita e il suo ruolo nella famiglia e nella società; la salvaguardia e lo sviluppo dell’intelligenza italiana in tutti i campi del sapere, dell’arte, della musica, della scienza. E, ovviamente, affidare all’Italia il compito di influire politicamente sugli altri Stati d’Europa per cambiare gradualmente lo statuto del progetto d’unione in quanto tutti i governanti sanno che è impossibile da realizzare se non con la dittatura finanziaria e il primato della Germania.
Mi fermo qui. E aspetto i suggerimenti, le proposte, i rimproveri dei lettori. (http://www.italianiliberi.it/)

venerdì 7 dicembre 2007

Un Paese che cresce, senza sviluppo. Paolo Ligammari

La radiografia del Censis: in Italia è arrivata la famiglia "low cost".
Continua il boom silenzioso: maggioranza inerte, ma imprenditori, giovani e professionisti allontanano il declino.

Un'Italia in chiaroscuro, ma che reagisce. Che «cresce, anche se non si sviluppa». Dove una maggioranza apatica, quasi rassegnata, si lascia trascinare da un'élite imprenditoriale che ha nell'orgoglio l'arma migliore, da alcuni grandi attori industriali (si pensi a Enel, Eni e Fiat) capaci di recitare un ruolo da protagonisti sui mercati esteri, dal dinamismo delle pmi e da una fascia di lavoratori - soprattutto giovani e professionisti - che hanno saputo raccogliere la sfida della competizione. E' la fotografia che emerge dal 41° rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese, presentato venerdì a Roma. Un'istantanea che conferma l'impressione degli anni passati: malgrado gli indubbi problemi, non ci sono ragioni per disperare e considerare il Paese sul sentiero del declino e dell'impoverimento, anche se la dinamica è il risultato di una «minoranza vitale», mentre il Paese si disperde in una «poltiglia di massa», una «mucillagine» di elementi individuali e di «ritagli umani» tenuti insieme da un tessuto sociale inconsistente, nel quale le istituzioni non riescono a svolgere alcuna funzione di coesione.

IL BOOM SILENZIOSO - L'Italia continua a crescere, anche se non si sviluppa. L'apparente contraddizione è così spiegata da Giuseppe De Rita, il presidente del Censis che ha firmato le considerazioni generali del rapporto: «il boom silenzioso italiano» continua, grazie soprattutto a una minoranza industriale orientata alla globalizzazione, grazie alle pmi, a una specializzazione nella fascia altissima del mercato, in prodotti di qualità, nell'alto di gamma. Da queste fasce imprenditoriali arriva «un crescendo di visione positiva: forse come reazione, certo in controtendenza, all’afflosciato pessimismo imperante». Eppure la «buona ripresa» in corso non diventa «sviluppo di lungo periodo». Perché, si chiede De Rita, «il successo della minoranza industriale» non riesce a coinvolgere l’intero sistema sociale? La riposta: «Siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non uno sviluppo di popolo», come quelli che l'Italia ha vissuto nel secondo dopoguerra.

I MACIGNI - Sullo sviluppo gravano alcuni macigni: innanzi tutto il debito pubblico, che «pesa sulla libertà psicologica dei cittadini» con la mole impressionante di interessi, mentre la politica, critica il Censis, ha destinato i «tesoretti» fiscali ad altri fini (ovvero a finanziare ulteriori spese) invece di pensare in primo luogo ad assorbire il debito; altro macigno: la mancata crescita dei salari. Risultato: «La maggioranza resta nella vulnerabilità, lasciata a se stessa. Più rassegnata che incarognita, in un’inerzia di fondo che forse è la cifra più profonda della nostra attuale società». La ripresa non riesce a coinvolgere l'intero sistema sociale anche per l’acuirsi di vecchi problemi: il divario Nord-Sud, ancora oggi lungi dal ridursi; la carenza di infrastrutture (un immobilismo provocato anche da veti incrociati che alla gran parte della società suonano come incomprensibili); la lentezza della burocrazia e la scarsa produttività della pubblica amministrazione.

LA FAMIGLIA LOW COST - Gravata dai salari bassi e non ancora riemersa dalla fortissima compressione dei consumi seguita all'introduzione dell'euro, la famiglia italiana, spiega il Censis, ha dovuto reinventare una strategia di spesa basata su tre punti: gestire gli acquisti quotidiani in una logica «low cost»; usufruire del credito al consumo per accedere a beni durevoli; dedicare quel (poco) che rimane del reddito allo sfizio gastronomico, turistico o culturale (peraltro, nota il Censis, i consumi a maggiore incremento).

POLTIGLIA DI MASSA - Il vero problema, rileva il Censis, non è tanto economico quanto sociale. Ed è uno scenario di notevole depressione, impotenza, abbattimento: la società resta inerte, impermeabile alla crescita economica, dove lo sviluppo non filtra. Così, scrive De Rita, la realtà sociale diventa giorno dopo giorno «poltiglia di massa» (o peggio ancora «mucillagine», dove restano avviluppati «ritagli umani» senza identità) nella quale pulsioni, emozioni ed esperienze risultano impastate e che, di conseguenza, risulta «particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa», orientata la pessimismo e al peggio, e nella quale le istituzioni hanno perduto ogni funzioni di coesione.

ESPERIENZA DEL PEGGIO - Non sorprende quindi che l'opinione dell'individuo, in questa società, volga continuamente al peggio: «Dovunque si giri il guardo - sembra pensare l’italiano medio – facciamo esperienza e conoscenza del peggio: nella politica come nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità urbana come in quella organizzata, nella dipendenza da droga e alcool come nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie come nello smaltimento dei rifiuti, nella ronda dei veti che bloccano lo sviluppo infrastrutturale come nella bassa qualità dei programmi televisivi. E’ abituale allora - si legge nelle considerazioni generali del Censis - ricavarne che viviamo una disarmante esperienza del peggio».

POLITICA - In più è diffusa fra gli italiani l'idea che in politica non ci si possa fidare di nessuno: a pensarla così è l'85,9% degli intervistati dal Censis sul tema dell'appartenenza ai valori. Sempre in politica, per il 76,1% «nessuno si preoccupa di ciò che accade agli altri», mentre per il 56,4%, si «pensa di più ai propri interessi che agli altri». Al tempo stesso gli italiani si dicono distaccati e disincantati dalle istituzioni: il 52,4% dice di essere “poco” o “per niente” soddisfatto dell'operato dello Stato. Il Censis sottolinea nel rapporto annuale una bassissima conoscenza da parte dei cittadini dei soggetti che svolgono attività sociali e un altrettanto bassissima partecipazione alle loro attività (6,2% riguardo al sindacato, 3% riguardo ai partiti). Questo distacco dalle istituzione crea una sorta di legittimazione della scorrettezza che è percepita come una risposta sana e fisiologica: ed allora si evade il fisco, si chiedono raccomandazioni, e così via. È «tutto un tessere di astuzie, piccole illegalità e connivenze. Salvo poi con l'esercizio antico della doppia morale, scandalizzarsi per furberie più altisonanti. L'Italia continua ad essere un paese troppo indulgente con se stesso».

ALL’ESTERO – Così accade che il Paese registra una fuga di massa che lo impoverisce ancora di più: sempre più persone, spesso e volentieri le più qualificate, sfuggono all’immobilismo per «intraprendere percorsi di studio e lavoro al di fuori dei confini». «La sensazione che emerge - osserva il Censis - è che flussi sempre più consistenti di italiani stiano ormai indirizzando e riorganizzando le proprie strategie di sviluppo, di business, di investimento all'estero». Insomma, per uscire dalle pastoie di un sistema «bloccato» non sembrano esserci che soluzioni individuali, in mancanza di un percorso evolutivo compiuto dalla collettività: nel 2006, uno studente su cinque emigra: l'anno scorso erano iscritti a università straniere 38.690 studenti, di cui il 19,9 per cento in Germania, seguiti da Austria, Gran Bretagna, Svizzera, Francia e Stati Uniti. Dal 2001 al 2006 inoltre l'Italia è al quarto posto per studenti che hanno aderito ai programmi Erasmus (in totale 92.010), dietro Francia, Germania e Spagna. Nel 2006 oltre 11.700 laureati hanno trovato lavoro all'estero. E se tornando agli studenti, uno su 5 preferisce andare all'estero, ben 350mila sono gli universitari «fuori sede», ovvero iscritti a un Ateneo fuori dalla propria regione.

NUOVA CULTURA COLLETTIVA - Secondo De Rita, il «benessere piccolo borghese» degli ultimi decenni avrebbe creato un «monstrum alchemicum» che ci rende «impotenti, come di fronte a una generale entropia». «Occorre saper elaborare - si legge - nuove offerte di cultura collettiva», «bisogna andare a riscoprire le forze reattive nel sottosuolo della nostra società e ridargli vigore». Forze reattive che non sembrano riscontrabili nella politica, che viene meno alla sua «tradizionale funzione di mobilitazione sociale». Tanto più che la classe dirigente appare «scossa» dall’attuale ventata di antipolitica. «Non può venire da lì il ruolo di collettore di energie e di riconcentrazione di alleanze sociopolitiche». L'unica speranza sembra affidata alle minoranze «attive»: non quella industriale, però, concentrata sulla conquista di mercati lontani. Allora l'unica scommessa possibile è sulle minoranze attive nell’economia, nella società e nelle scienze. Sperando che il resto della popolazione si faccia contagiare dalla loro voglia di costruire. (Corriere della Sera)

giovedì 6 dicembre 2007

Cia Lux. il Foglio

Gli 007 americani? Ora sono compagni che non sbagliano sull’Iran. Strano.

I compagni della Cia hanno detto che in Iran tutto va ben madama la marchesa. La gioia dei commentatori e dei cronisti è evidente, come è giusto che sia, ma a leggere bene commenti e cronache pubblicati in questi giorni dai giornali italiani sembra che il motivo di tanta contentezza non sia la sospensione del programma militare nucleare iraniano, che ops quindi c’era, ma la botta inflitta a Bush dai quei gloriosi rivoluzionari e anti imperialisti della Cia. Stiamo parlando della Central Intelligence Agency, un tempo la quintessenza del male americano e ora l’ultima zattera a cui aggrapparsi per continuare a credere che l’islamismo jihadista sia un’invenzione di quel malefico di Dick Cheney per accaparrarsi il petrolio del mondo. Il paradosso è che i sostenitori dei compagni della Cia dimenticano che l’apparato di intelligence non è un gruppo esterno di opposizione, ma un sistema di agenzie di servizi segreti che fa capo all’Amministrazione Bush. Fanno inoltre finta di non sapere che è stata proprio la Casa Bianca a prendere la decisione di pubblicare il National Intelligence Estimate né che si tratta dello stesso documento che nel 2002 giurava che Saddam avesse grandi arsenali di armi di sterminio.
I giornali liberal americani lo sanno benissimo e ieri, sia il New York Times sia il Washington Post, hanno dedicato il loro principale editoriale per avvertire che il nuovo rapporto “non può essere usato da nessuno per abbassare la guardia sulle ambizioni nucleari iraniane” (NYT) né per cominciare a dialogare con l’Iran concedendogli di continuare ad arricchire l’uranio (WP). Tanto più che il National Intelligence Estimate alla seconda riga dice di valutare “con moderata-alta fiducia che Teheran sta, al minimo, tenendo aperta l’opzione per sviluppare armi nucleari”. La valutazione dell’intelligence americana, inoltre, è che gli ayatollah abbiano deciso di fermare i programmi segreti militari in seguito alla pressione politica (e militare) americana e internazionale, la stessa che dopo l’invasione dell’Afghanistan e la destituzione di Saddam Hussein ha convinto il leader libico Gheddafi a consegnare i suoi piani atomici alla comunità internazionale. I compagni della Cia quindi non sono così sicuri, come sembrano i loro nuovi sostenitori. Non solo perché due anni fa sostenevano il contrario, nell’indifferenza di chi oggi li esalta, ma anche perché le loro informazioni non sono notizie certe e verificate, ma soltanto valutazioni e analisi.

mercoledì 5 dicembre 2007

L'ora del castigo. Michele Ainis

Per Clementina Forleo è l’ora del castigo. Il suo delitto ha un nome arcano, ed è poi il medesimo delitto dal quale nei prossimi giorni dovrà discolparsi De Magistris: incompatibilità ambientale e funzionale. Se il verdetto diventerà definitivo, significa che la Forleo dovrà fare una valigia, e dovrà inoltre rinunziare al suo ufficio monocratico. Insomma via da Milano, e mai più da sola a scrivere sentenze e ordinanze.

Ma che cos’è l’incompatibilità ambientale? A leggere la vecchia norma del 1946 che ne determina i confini, si tratterebbe d’una situazione oggettiva che offusca l’imparzialità del magistrato, nonché il prestigio dell’ufficio giudiziario. Da qui il trasferimento, che a sua volta prescinde da ogni colpa del magistrato trasferito, perché mira unicamente a restaurare la serenità turbata. Da qui - ha aggiunto la Consulta nel 2002 - il carattere non sanzionatorio del procedimento dinanzi al Csm, dove infatti non sono ammessi gli avvocati, a differenza del procedimento disciplinare. In breve, il trasferimento per incompatibilità ambientale dovrebbe recidere i conflitti d’interesse di cui è piena quest’Italia di figli e di cognati: è il caso d’un giudice i cui parenti siano giudici o avvocati o periti giudiziali nel medesimo distretto.

Se però dal cielo del diritto abbassiamo lo sguardo sulla Terra, il paesaggio assume tutt’altra dimensione. In primo luogo, il Csm utilizza per lo più questo istituto con finalità disciplinari, negando di fatto all’imputato le garanzie minime che s’accompagnano ai processi. In secondo luogo, vi fa ricadere i più disparati casi, obbedendo a una ragion politica, piuttosto che giuridica; e così nel 1977 ne fu vittima Falcone, spedito di punto in bianco alla sezione fallimentare di Palermo. In terzo luogo, quando l’incompatibilità deriva da cattivi umori nell’ambiente di lavoro, s’infila un paradosso. È il paradosso del mobbizzato: tu denunci l’ostilità dei tuoi colleghi, io per risolverti il problema ti trasferisco su un’isola lontana. Non a caso il Consiglio di Stato, l’anno scorso, ha detto che non basta un clima di reciproca sfiducia tra colleghi, perché si giustifichi un trasferimento per incompatibilità ambientale.

È dunque questa la colpa del giudice Forleo? Troppe denunce, troppe esternazioni, a leggere le troppe esternazioni di Letizia Vacca, membro laico del Csm su designazione del Pdci di Diliberto. Lei d’altronde, docente di diritto romano come il suo segretario di partito, come lui cagliaritana, è perfettamente compatibile all’ambiente. Però l’isolamento non può essere una colpa. Lo è piuttosto ogni violazione alla consegna del silenzio, peggio ancora se a telecamere sguainate. Se è questa l’imputazione del giudice Forleo, s’avvii un procedimento disciplinare vero e proprio. Altrimenti sarà difficile scacciare via il sospetto che il reale capo d’accusa sia la sua richiesta di procedere contro Fassino e D’Alema, ai tempi della scalata alla Bnl. Sarebbe grave, sarebbe una censura su un atto giudiziario.

O forse no, forse la Forleo è colpevole di non aver mai militato nei partiti, e nemmeno nei partiti giudiziari. Sarà per questo che al Csm ieri la decisione è stata unanime, tutte le correnti per una volta unite nella lotta. È il mal di merito denunziato da Giovanni Floris: in Italia o t’aggreghi a qualche camarilla, o farai meglio a chiuderti in casa. (la Stampa)

sabato 1 dicembre 2007

L'allegro autolesionismo. il Foglio

Nello sciopero francese si contrappongono visioni, in quello italiano no.

E’ la rivendicazione di piccoli particolarismi sommati in un’agitazione che blocca il sistema dei trasporti italiani, dai taxi agli aeroporti. Niente a che vedere con la vicenda francese, dove si combatte una battaglia cruenta, ma dai contorni chiari. Lo sciopero generale francese è una protesta contro la riforma del sistema pensionistico dei lavoratori di settori con regimi speciali. Questi attualmente possono andare in pensione dopo 37,5 anni di lavoro, mentre il presidente Sarkozy vuole aumentare gli anni a 40. I sindacati obbiettano che il lavoro di questi servizi pubblici è più faticoso. Per Sarkozy ciò è vero solo in casi particolari e 40 anni non sono un’enormità. Si tratta di una riforma che il pavido governo italiano non riesce a realizzare neppure per il regime pensionistico generale. Il braccio di ferro fra il sindaco di Roma e i taxisti riguarda l’aumento di taxi per rimediare alla loro carenza, cioè a un disservizio costante. Lo sciopero dei trasporti in Italia è motivato dalla richiesta di aumento delle paghe da parte degli operatori di servizi nazionali e municipali che hanno una pletora di personale, sono scadenti e generalmente in deficit, nonostante le condizioni di monopolio. Per i trasporti aerei, dato lo stato disastroso in cui versa l’Alitalia, non si capisce il perché di questo sciopero, se si esclude l’ipotesi di un allegro autolesionismo. Lo sciopero francese dei trasporti ha determinato gravi inconvenienti. In Italia a causa della ritualità delle microagitazioni, della reiterazione, della ripetitività, gli scioperi rischiano quasi di passare inosservati. Certo, piazza Venezia bloccata è una seccatura per gli utenti e una prova di prepotenza da parte dei tassisti. Quanto ai treni, gli italiani sono abituati ai disservizi, ai guasti, ai ritardi prolungati, alle cancellazioni. Idem per gli aerei. Allora, a che serve inseguire piccole rivendicazioni di parte? Bisognerebbe ragionare seriamente sul futuro del sistema dei trasporti, sul ruolo dei sindacati di categoria suddivisi in piccole sigle che giocano solo d’interdizione, e sulla funzione che i lavoratori di questi comparti vogliono svolgere. L’Alitalia è un paradigma perfetto, con i dipendenti che scioperano in sostanza contro loro stessi.

La sfida della Baraldini terrorista onoraria. Paolo Granzotto

C’è qualcosa di più malsano, politicamente e socialmente, di un Marco Ahmetovic - lo zingaro che, ubriaco, con la sua auto travolse e uccise quattro ragazzi - condannato a sei anni di reclusione da scontare in un residence? E che con la compiacenza della legge mette a frutto la sinistra popolarità interpretando spot pubblicitari di un marchio d’abbigliamento, la «Linea Rom»? Oggi il comune di Venaria, alle porte di Torino, conferirà la cittadinanza onoraria a Silvia Baraldini. Per risarcirla, come ha spiegato il sindaco Nicola Pollari, diessino, «restituendole quei diritti di cittadinanza che le sono stati strappati tanti anni fa» con una reclusione priva di «valenza rieducativa e riabilitativa». «La storia di Silvia Baraldini - ha aggiunto Franco Izzo di Rifondazione comunista, presidente del Consiglio comunale - sia nell’immaginario collettivo che nei fatti concreti, evidenzia i limiti, le contraddizioni e le ingiustizie che caratterizzano ancora il mondo e in particolare emergono con grande forza dal punto di vista del rispetto dei diritti umani negli Stati Uniti e nel cosiddetto Occidente».
Silvia Baraldini, dunque, è una martire. È il simbolo delle ingiustizie che emergono negli Stati Uniti e nel «così detto» Occidente (e ciò lascia intendere che nel senz’altro detto Oriente islamico, ingiustizie non ne emergano). È una sventurata che ha dovuto subire una reclusione priva di valenza rieducativa e riabilitativa, come potrebbe invece essere il residence di Marco Ahmetovic. E che dunque per lustro, per meriti e forse anche per gloria è degna d’essere elevata a cittadina onoraria di Venaria. La Baraldini. Condannata a 43 anni da un tribunale americano non solo e non tanto per le sue attività sovversive di militante del Black Panther Party, ma per complicità in una rapina nel corso della quale vennero uccisi una guardia giurata, l’autista del furgone blindato e due poliziotti. E per aver direttamente concorso all’evasione di Assata Shaker, il leader delle Pantere nere che stava scontando una condanna all’ergastolo per omicidio di un agente di polizia stradale. Crimini per i quali si va in galera in America come in Italia, nel «così detto» Occidente e nel senz’altro detto Oriente. Ma dei crimini commessi in nome di una ideologia, come quelli delle Br e dei terroristi islamici e dunque, agli occhi dell’illuminato Consiglio comunale di Venaria, del suo sindaco Nicola Pollari, non perseguibili ed anzi, meritevoli d’encomio solenne come può essere la cittadinanza onoraria che si conferisce a chi ha ben meritato alla Patria.
Qui non si tratta delle guapperie dello zingaro Ahmetovic. Qui sono gli eletti con la fascia tricolore a bandoliera a sdoganare una criminale, scardinando provocatoriamente quei princìpi di giustizia che disciplinano lo Stato di diritto. Sono le cariche pubbliche a santificare, ricompensandola, la violenza. Magari quello della Baraldini fosse un spot pubblicitario: è una sfida alle istituzioni e ai loro sussiegosi custodi. Sfida che costoro non sanno o non vogliono raccogliere, lasciando che un sindaco qualsiasi faccia strame di ciò che resta della rispettabilità del Paese. (il Giornale)