mercoledì 31 ottobre 2007

Ogm, una "tesi controcorrente". Raffaele Cazzola Hofmann

A cura dell’Istituto Bruno Leoni arriva in Italia il volume “Il cibo di Frankenstein” degli studiosi americani Gregory Conko e Henry I. Miller. La tesi sostenuta è che il “mito” del cibo biologico è fasullo e che opporsi al cibo Ogm significa da una parte danneggiare l’alimentazione dei Paesi in via di sviluppo, dall’altra foraggiare il protezionismo agricolo europeo.

Va controcorrente il volume “Il cibo di Frankenstein” (Lindau, 26 euro) appena pubblicato in Italia a cura dell’Istituto Bruno Leoni. Scritto da Gregory Conko, direttore per la sicurezza alimentare del Competitive Enterprise Institute, e da Henry I. Miller, ricercatore della californiana Hoover Institution, il libro cerca di confutare quelli che gli autori considerano i troppi luoghi comuni sugli organismi geneticamente modificati (Ogm). Conko e Miller sostengono che contrastare lo sviluppo degli Ogm è un’operazione insensata sia sul piano squisitamente alimentare, sia su quello economico.

A livello alimentare, secondo gli autori del libro, sono ormai molti e qualitativamente importanti gli studi che dimostrano come quello del cibo biologico sia più che altro un “mito” da sfatare. Il punto di partenza della tesi di Conko e Miller - secondo Norman E. Borlaug, professore presso l’International Agriculture Texas University e autore della prefazione del volume - è che appare impossibile nutrire più di 6 miliardi di persone (una parte consistente dei quali vive nei Paesi in via di sviluppo) con la sola agricoltura biologica.

Ma l’approccio ideologico e spesso antiamericano fa sì che anche in Paesi che hanno una necessità disperata di cibo per sfamare popolazioni povere e sottoalimentate - dall’Angola allo Zimbabwe - rifiutino gli aiuti degli Stati Uniti con la motivazione che essi contengono grano gene-spliced. Il presidente dello Zambia, Levy Mwanawasa, ha detto che “è meglio morire di fame piuttosto che ingerire qualcosa di tossico”. Ma di tossico, negli Ogm, c’è ben poco secondo Conko e Miller. Che anzi rilanciano: “Più di 2.250 varietà di cereali, frumento, riso, zucchine e fagioli sottoposte a mutazione sono state introdotte nella seconda metà del secolo scorso”. Ormai, aggiungo gli autori, “queste colture crescono in oltre cinquanta Paesi del mondo”.

Sul piano economico l’opinione del volume pubblicato in Italia a cura dell’Istituto Bruno Leoni è che essere contro gli Ogm non per ragioni scientifiche ma per motivi ideologici provoca danni incalcolabili sia ai Paesi in via di sviluppo (le colture gene-spliced sono resistenti ai parassiti e quindi non richiedono “cure” a base di pesticidi costose e poco accessibili), sia a quelli ricchi che perdono una grande occasione per eliminare le sovvenzioni statali ai coltivatori di prodotti biologici.

Sarebbe soprattutto il Vecchio continente, per così dire, a darsi la zappa sui piedi: “C’è stato un annullamento dei test sperimentali sugli organismi gene-spliced in Europa. Da un picco piuttosto modesto di 264 esperimenti nel 1997 - scrivono Conko e Miller - si è scesi a soli 35 nel 2002 e a 2 nel primo trimestre del 2003”.

In Italia la politica è tendenzialmente contraria agli Ogm. Eppure sono molti gli scienziati di fama che sostengono il contrario. Si parla di nomi celebri come quelli di Garattini, Bonicelli, Dulbecco e Levi-Montalcini che sette anni fa sottoscrissero un manifesto-denuncia contro il divieto di ricerca sugli Ogm. Oggi la questione è stata rilanciata da un gruppo di ricercatori e addetti del settore italiani.

Sono loro i promotori del progetto salmone.org secondo cui “a sostenere la validità e la sicurezza delle ricerche sugli Ogm si sono schierate in questi anni la Ue, la Fao, l’Onu, l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare”. (Confronto)

Intervista a Corrado Carnevale, giudice di Cassazione: "Non pagano mai gli errori che fanno". Dimitri Buffa

Quale è quella categoria di dipendenti pubblici italiani, anzi quella casta, che va in televisione per fare carriera facendo pubblicità al proprio lavoro e che non paga mai il fio anche solo economico dei propri errori? L’indovinello non è di quelli della Sfinge: si tratta dei magistrati. Questo emerge dal ritratto che fa di loro il giudice Corrado Carnevale, ritornato in Cassazione dopo anni di esilio decretato proprio da altri magistrati.

Dottor Carnevale che idea si è fatto della singolar tenzone tra Mastella e De Magistris?
Diciamo che se i motivi addotti dal ministro per il trasferimento del pm sono quelli che ho letto sui giornali mi sembra esserci poca sostanza. Se dovessimo trasferire tutti i giudici che rilasciano interviste l’Italia avrebbe bisogno di nuove linee ferroviarie dedicate apposta ai magistrati che vanno da un distretto di corte d’appello all’altro.

E la violazione del segreto istruttorio?
E’ un’altra ipocrisia, così fan tutti. Non esiste atto favorevole all’accusa che finisca in mano a un giornalista che non sia stato passato dal magistrato che vi aveva interesse. E quando invece l’atto porta punti alla difesa si può stare sicuri che è stato il difensore dell’imputato, il quale però non ha obblighi penali, ma solo deontologici.

Ma come mai adesso i magistrati si fanno anche la guerra tra di loro, come si è visto proprio nel caso di De Magistris e in quello della Forleo?
Non bastava la lotta contro i politici?Evidentemente no. In questa rincorsa al potere molto può la gelosia reciproca: quello va in televisione e io no? E io allora lo indago, lo metto sotto inchiesta. Magari così sembrerà paradossale, ma il meccanismo mentale è questo.

Lei ovviamente pensa tutto il male possibile di questi suoi colleghi che, invece di rivolgersi in silenzio alle autorità giudiziarie competenti per difendere il proprio lavoro, la propria onorabilità e la propria sicurezza, fanno comizi in tv?
Non c’è dubbio che io non li ammiri. Anche perché trasmettono un messaggio altamente diseducativo a chi li guarda, cioè quello che in Italia, se ti capita qualcosa, o vai in tv e la denunci aizzando le piazze mediatiche oppure soccombi. Con un corollario: e cioè che delle autorità costituite non ci si può fidare. E questo messaggio quando promana da un magistrato è altamente devastante.

Non c’è anche la voglia di apparire per fare carriera?
Questo è il lato inconfessabile e cinico di tutta la vicenda. Un giudice che non riesce a vendere bene la propria inchiesta neanche esiste. In tv c’è la scorciatoia magica, ad esempio per diventare capi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, da ex procuratori della repubblica, con il vantaggio economico che comporta ricevere un’indennità pensionabile, oltre al lauto stipendio, pari solo a quella che percepisce anche il capo della polizia. Ma questo Stella e Rizzo si sono dimenticati di scriverlo quando hanno fatto il libro sulla Casta...

Se è per questo si sono dimenticati in genere della casta dei magistrati...
Appunto, con l’unica eccezione di Calabrò, che però non è di certo il solo a cumulare incarichi extra giudiziari molto remunerati.

E questa storia che tutti si sentono delegittimati?
E’ un’altra stupidaggine: la verità è che in Italia, non esistendo la magistratura elettiva come negli Stati Uniti, i singoli magistrati sono legittimati solo da un concorso pubblico che bene o male sono riusciti a passare. E sottolineo quel “bene” e quel “male”, perché certo non si tratta mica di concorsi molto diversi da quelli che fanno gli altri dipendenti pubblici, raccomandazioni scandali e favoritismi compresi.

Per cui la grande occasione persa è stata quella di non dare attuazione al referendum dei radicali dell’epoca di Tortora che aveva abolito la norma della legge sulle guarentigie del magistrato che di fatto impediva qualunque richiesta di risarcimento per colpa grave?
Sì quella fu la grande occasione mancata dalla classe politica italiana, che si illudeva di blandire la categoria, quasi di comprarsela, con quel provvedimento legislativo che ha caricato in capo allo Stato ogni eventuale, molto eventuale, risarcimento, e che ha fatto anche la fortuna della compagnia di assicurazioni della moglie di un collega di Milano...

Questa ce la deve raccontare..
E’ una storia che gli addetti ai lavori conoscono benissimo. Era da poco passato il referendum ma non era ancora stata varata la legge di Vassalli che di fatto lo vanificò. Cominciarono ad arrivare sulle nostre scrivanie molte proposte da parte di compagnie di assicurazioni che avevano intuito un nuovo possibile business. Tra esse la più vantaggiosa fu quella che ci pervenne da parte della agenzia della moglie di un nostro collega di Milano di cui taccio il nome per carità di patria. Era un’offerta molto favorevole perché il premio era basso e tutti si precipitarono a stipularla. Io no. Perché ero e rimango un giudice di principi veri, quelli del diritto, non di principi declamati. Fatto sta che la signora fece un affare enorme...

Perché?
Perché se è vero che i premi sembravano bassi rispetto al rischio, negli anni l’agenzia della signora non ha mai dovuto, sottolineo mai, mettere mano al portafoglio perché non un solo “sinistro” è mai capitato di dovere liquidare. D’altronde la legge varata da Vassalli prevede che prima di accedere allo stesso rimborso dello stato bisogna prima passare un incomprensibile vaglio di ammissibilità che nell’85% dei casi non viene oltrepassato e io posso dirlo con certezza visto che prima di andare per la prima volta in pensione, la prossima sarà nel 2013, alla prima civile della Cassazione mi occupavo proprio di ricorsi abbastanza disperati contro questa griglia da forche caudine. Ma anche quando si arrivava al riconoscimento del danno e al risarcimento da parte dello Stato, mai quest’ultimo ha ritenuto di rivalersi sulla categoria dei magistrati.
Oppure dovrei chiamarla forse casta? Sia come sia. Oggi tutti vorrebbero il portafoglio clienti di quella signora”.

Tutto ciò naturalmente alla faccia della retorica sul conflitto di interessi?
Già, proprio così. Alla sua faccia. (l'Opinione)

martedì 30 ottobre 2007

Ecco l'identikit del perfetto intellettuale. Luigi Mascheroni

Ovvero: fuori dalla comunità politica e nel vuoto pneumatico post moderno, quali sono le identità, il ruolo e lo spazio del “pensatore critico”? Origine, percorsi, scelte, successi, passioni e debolezze di un uomo impegnato.
Anzi, engagé.

Delle origini e della formazione
Il Perfetto Intellettuale – d’ora in avanti P.I. — nasce di preferenza in provincia, nella quiete della campagna, o in una delle cosiddette “città a misura d’uomo” climaticamente invidiabili, Terni ad esempio. La sua è una famiglia borghese di modeste origini che ha saputo integrarsi con il mondo delle professioni e del commercio. Ottime chances ha anche il rampollo di qualche nobile casata decaduta, incapace di stare al passo con i diktat e le esigenze della società dei consumi: cioè un simpatico e inutile squattrinato. Le ascendenze, va da sé, impongono un nonno fascista e una nonna staffetta partigiana, padre in cattedra a via Solferino e madre girotondina, uno zio prete e una sorella filologa, o psicologa, o archeologa, o zitella. Il curriculum scolastico è quello dei bei tempi antichi, o d’antan come piace recitare al P.I., notoriamente poliglotta: liceo, il migliore del territorio oltre che l’unico; studi universitari in una città medio-piccola ma con una grande tradizione alle spalle (Perugia è perfetta, Pavia va abbastanza bene, Urbino è troppo sfruttata, evitare Trieste), facoltà a scelta tra Legge, Medicina, Filosofia o Scienze Politiche con una laurea tardiva ma meritata, irrobustita da disordinati e formativi studi da autodidatta, tra cui letture dei classici della sociologia, Max Weber, Wright Mills e Pier Vittorio Tondelli. Infine, una debosciata vacanza-studio in Inghilterra prima di partire per il militare che possa essere contrabbandata, una volta congedati, per un master a Cambridge.

Di educazione rigidamente cattolica, il P.I. ha fatto il chierichetto da piccolo, le vacanzine con Cielle e la scuola di comunità di Don Giussani prima di transitare da quella di Muccioli. A partire dagli anni universitari ha percorso la parabola laicista (non lo dice quasi mai, ma un paio di volte ha dato il voto ai Radicali, per tacere di quella sbandata per la Rete di Leoluca Orlando…) fino ad approdare a un feroce ma riflettuto anticlericalismo. Oggi, sposato in chiesa con la compagna fuori corso conosciuta durante i disordini di Valle Giulia, un pupo battezzato e una bimba cresimata con il saio bianco e il crocione di legno al collo, vive serenamente un sentito riavvicinamento alla fede cattolica.

Politicamente, il pedigree – parola che come tutti i francesismi il P.I. adora quanto i formaggi grassi – prevede un traumatico allontanamento dalle tradizioni conservatrici della famiglia, quindi una prima grande stagione di militanza politica forgiata da un doveroso volontariato al bar della Festa dell’Unità (o dell’Amicizia, o dei Campi Hobbit) seguita da una cocente delusione per l’immobilismo del partito e la politica politicante. Da studente agitato fiancheggiatore della sinistra extraparlamentare, oggi è magari un quieto senatore di Forza Italia, carica grazie alla quale – lui, già giovane collaboratore sottopagato delle pagine culturali di Paese sera – si è ritrovato nel parco editorialisti del Giornale. Oggi come allora, ritiene che la crisi della Sinistra, così come peraltro della Destra, non è mai una crisi da mancanza di leadership, semmai una crisi morale. Culturalmente parlando – espressione che peraltro il P.I. aborre – a suo tempo fervente sostenitore dei nouveaux philosophes (in camera sua, accanto al poster di Zoff che solleva la Coppa, ha troneggiato a lungo una xilografia di André Glucksmann) è oggi impegnato nella rivalutazione dei fumetti porno vintage. Dicono stia scrivendo un’autobiografia.

Dell’apparire e del vestire
Il P.I. detesta la televisione (sua moglie tra l’altro dice che lo ingrassa) ma sapendo che scriverlo sui giornali non serve a nulla visto il calo filologico (fisiologico?) dei lettori, è costretto – malgré lui – a dirlo in tv, alimentando in questo modo un perverso corto circuito mediatico che comunque è lui stesso il primo a denunciare. «Sì, io vado come opinionista all’Isola dei Famosi, ma per cantargliele belle e dire papale papale che i reality show sono volgari e diseducativi». «Ma scusa, perché non lo scrivi sui giornali?». «No, lì preferisco fare pezzi di politica internazionale, così ho una credibilità quando vado in televisione».
Cresciuto facendo merenda con i saggi della Piccola Biblioteca Einaudi e le repliche di Happy Days, e non così ingenuo da pensare che il pubblico sia una massa di stupidi plagiati dai media, il P.I. dimostra coraggio da vendere quando sfida ogni conformismo ripetendo che la tv non è per forza una cattiva maestra e a Popper gli darebbe volentieri un calcio nel culo. C’è sommessamente da dire, che da questo punto di vista il P.I. non si è mai dichiarato liberale in vita sua, ancor meno liberista e mai e poi mai libertario. Almeno che si ricordi lui.

Per quanto riguarda il vestire, ambito al quale ultimamente dedica più tempo di quanto riservi alla lettura, il P.I. è inflessibile nel combattere il luogo comune che l’abito non fa il monaco. Anzi, memore della lezione di Drieu La Rochelle e di Oscar Giannino, rivendica con orgoglio il titolo di dandy per il solo fatto di essere intellettuale, e ha imparato a sue spese che i dettagli sono tutto. È per questo che predilige le linee sinuose, i risvolti, le svolte improvvise, i revers larghi, le larghe intese, i polsini con i gemelli e le maniche larghe. Affezionato per tradizione al grigio, colore del quale ogni elogio è superfluo, non gradisce invece i colori pieni, preferendo le sfumature e un’ampia gamma di tonalità del rosso, per quanto non abbia remore a cambiare colore, quando è il momento. Costretto ad ammettere che ormai le giacche di velluto e i Montgomery gli vanno stretti, si è rassegnato da tempo ai gessati e i pois. Per quanto su di lui calzi a pennello qualsiasi uniforme, fa la sua porca figura anche in livrea. «E comunque tutti sono testimoni della mia continua e inflessibile critica radicale alla società dei costumi. Consumi. volevo dire consumi: ehm… critica radicale alla società dei consumi...».

Del parlare e del leggere
Il P.I. ama molto le metafore e per questo non si offende se di lui si insinua che ha il “lato A” uguale al “lato B” per dire che ha la faccia come il culo. Perennemente alla ricerca del dialogo, non rinuncia mai all’etica della tolleranza e al sacro diritto della libertà d’espressione, soprattutto se l’espressione è la sua. È uso respingere con inflessibile rigore ogni responsabilità per ciò che ha detto (o scritto), salta a pie’ pari i luoghi comuni, sempre da sfatare, e nonostante l’invidiabile background culturale di cui dispone pronuncia molte parolacce, come: mondializzazione, intellos, essai, Solzenicyn, Zivilisation, strutturalismo, happy few, esprit, Zeitgeist, Le Monde, inciucio, Weltanschauung e Alba Parietti. La sera, invece, si addormenta salmodiando le locuzioni ingiuriose che userà l’indomani nella trasmissione di Bruno Vespa, come: “trasversalismo culturale”, “tolleranza nella diversità”, “simulacro di un intellettualismo organico”, “Sfido poi che la gente preferisce Ilary Blasi”. E comunque la colpa è sempre di Vattimo e del pensiero debole.

Prosa da romanziere, rigore dello storico, brio del libellista, passo del filosofo e afflato del poeta, il P.I. sa pronunciare perfettamente pamphlet senza apparire un parvenu, aspira – ça va sans dire – a diventare un maître à penser, raramente risponde touché e quando scorge un torto con riflesso pavloviano inizia a saltellare qua e là ululando J’accuse!, J’accuse!.
Voce sempre squillante della coscienza morale della nazione, equipaggiato dell’intero arsenale ideologico e dialettico compreso fra Jean-Paul Sartre e Bernard-Henri Lévy passando per Antonio Scurati ed Edmondo Berselli, il P.I. cede volentieri al piacere di rileggere i classici che oggi, in tempi di post-ideologie, si rivelano (per lui) una sorprendente novità. Abbandona raramente le letture flaubertiane e se lo fa è per rispondere – più che altro telefonicamente – alla domanda: «Ma dove va questa Sinistra?» (la Destra, è noto, non è mai partita) ribadendo senza incertezze che l’estetizzazione del trash è responsabilità fortissima degli intellos di Sinistra (la Destra, è noto, non ne ha mai avuti). Nutre un’insana passione per alcuni verbi piuttosto che altri (ad esempio: denunciare, ripartire, riscoprire, va a cagare) ma quello che davvero lo manda in deliquio è “stigmatizzare”.

Stigmatizzare sì, ma cosa? Esempi: la volgarità imperante, il decadimento della cultura, la pornografia dei sentimenti, la deriva lassista della politica, la dittatura dei best-seller, il voyeurismo della tv, gli atteggiamenti razzisti ma anche il politically correct, le idee sciatte, le non idee (e il P.I. ne conosce parecchie), i lacchè del potere, i riciclati. A questo proposito capita di frequente che la moglie, nottetempo, lo senta biascicare nel sonno: «Stigmatizzate, stigmatizzate, quelque chose en restera!».
Amante delle frasi con molte “a”, come l’espressione “Ma va’ da’ via i ciapp, pirla” e fedele al motto latino “Repetita iuvant”, il P.I. ripete le stesse cose da trent’anni: teorizza da sempre la confluenza della periferia al centro, predica il superamento degli steccati tra Destra e Sinistra, implora una classe dirigente migliore, disprezza l’ammucchiata dei partiti e un po’ meno quella degli esseri umani, soprattutto se di sesso femminile. Soprattutto il P.I., se è davvero perfetto, non si stanca di ripetere, a sproposito di qualsiasi occasione: «La mia generazione ha già dato, adesso tocca ai giovani» – nella variante: «Io le mie battaglie le ho fatte, ora sono cazzi vostri». Per il resto ancora non ha trovato una risposta alla domanda chiave della sua generazione: «Ma i film di Lino Banfi e Alvaro Vitali andavano visti con occhio critico?».

Dell’impegno e della morale
Il P.I. dell’impegno se ne spazza il culo. Ha ancora come immaginifico riferimento morale marchiato in fronte il titolo a tutta pagina di Emile Zola sull’Aurore e l’urlo di D’Annunzio dal balcone di Fiume, ma sa che il pensiero può sempre più dell’azione, e ancora di più può il pensiero senza azione. Se l’impegno per un intellettuale tout court è imprescindibile, per il P.I. è invece prescindibilissimo. Concetto espresso magnificamente nello sfogo-manifesto di Umberto Eco pubblicato in calce a una celebre Bustina di Minerva: «Che se la sbrighino gli altri, che a noi ci piace andare a pescare le trote». Caratteristica prima del P.I., infatti, non è quella di essere benpensante o malpensante (al limite di essere anche solamente pensante) ma – come insegna Régis Debray – è il “narcisismo morale”. In piena post modernità (sempre comunque da preferire alla surmodernité) il P.I., pur restando un narciso, a differenza dei predecessori ha imparato a sposare idealismo morale e attivismo pratico: combatte battaglie giuste quando sono già vinte, appicca il fuoco quando i riflettori sono accesi, firma quando l’appello è pubblicato sui giornali, parla quando i microfoni sono accesi: «Mi accusate forse di usare l’impegno per far carriera? Sì, e allora?».

Disposto all’autocritica ma ancor di più pronto a chiamare tutti a un mea culpa collettivo, il P.I. è un artista a 360 gradi che ama mettersi a novanta, declamando con voce chioccia «L’importante è mantenere la schiena dritta». Se dal punto di vista teorico è alieno da qualsiasi tono conciliante, abituato com’è dalle frequenti partite a tennis a urlare “Aut Aut”, il P.I. dal punto di vista pratico è invece riottoso ad assumere posizioni culturali nette in nome di un possibilismo metodologico en plein air: mostra pubblicamente e contemporaneamente simpatie per il Papa, per Nietzsche, per il brasato, i tortellini, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, il relativismo etico e il decisionismo metodologico. A differenza dei “padri” che hanno combattuto la dittatura nazi-fascista, al P.I. i partigiani fanno abbastanza schifo e si ostina ad accusare i colleghi francesi di opportunismo oltre che di avere formaggi che puzzano molto più dei nostri.

Ideologicamente, benché nato a Destra, cresciuto a Sinistra, svoltato di nuovo a Destra e ritornato infine in grembo alla Sinistra, oggi il P.I. è estraneo a qualsiasi idea politica, e più in generale a qualsiasi idea , continuando a proclamare valori di Sinistra pur pensando cose di Destra. Ci tiene molto a essere definito un “irregolare” e gongola quando qualcuno parla di lui come di un “cane sciolto” (invece del più consono “individualista di merda”). Il P.I. predica il disimpegno, il glocalismo (formula bipartisan prudentemente equidistante dal tutto e dal niente), un Cristianesimo sincero ma non fanatico, condanna il comunismo ma salva il comunitarismo, si schiera sempre pur conservando la propria indipendenza, non fornisce rimedi pratici immediati ma soluzioni di ampio respiro, parteggia ma rimanendo da solo, ascolta il “popolo” – categoria che nel segreto della coscienza gli fa molta pena – ma non se ne fa condizionare, dà spazio al calore delle passioni ma le tempera con l’occhio freddo della ragione per quanto sappia adattarsi alle esigenze mediatiche, ad esempio un talk show, dove risulta bravissimo a non ragionare, ma urlare; a non discutere ma a prendere una parte; a non portare argomenti, ma slogan; a non dire parolacce, ma a fare le puzzette silenziose.

Lettore attento del miti antichi, tra i quali predilige quello di Narciso, il P.I. è dotato di un ombelico abbastanza ampio perché tutto gli ruoti attorno: è per questo, secondo alcuni imparziali osservatori, che quella simpatica e curiosa forma di ossimoro culturale che è l’intellettuale-donna ama sfoggiare pantaloni a vita bassa.
Cresciuto nel culto dei mammasantissima del “pensatoio Italia” come Alberto Asor Rosa, Paolo Flores d’Arcais, Ernesto Galli della Loggia e Gian Arturo Ferrari – 4 teste per 13 nomi – e allenato dagli anni a galleggiare nella melma del relativismo etico ed estetico, indifferente alle cose del mondo e sempre sicuro del proprio talento, il P.I. sopporta critiche e stroncature con elegante distacco. Pubblicamente preferisce un sobrio silenzio, in privato del suo accusatore è solito sentenziare: «Un frocio di merda» (se uomo) o «Una puttana che è andata avanti facendo pompini al direttore» (se donna). I veri maestri, però, a volte sono capaci anche dell’autocritica: «In fondo ha ragione, il mio non è che sia un gran libro. Però lui rimane un frocio di merda…».

Del cibo e delle malattie
Il P.I. non ha tempo per mangiare (se è per questo neanche per ballare anche se in casi eccezionali non disdegna la quadriglia, il passo dell’oca e il salto della rana). Fosse per lui, si limiterebbe a “Panem et circenses”, ma la carne è debole ed è quindi costretto a soddisfare i bisogni filologici… fisiologici, essendo del resto molto spesso mandato a cagare dal prossimo. Restio ai piaceri della gola, può però contare, per compensazione, su una lunga lista di nutrimenti spirituali: i funghi trifolati, il bonè, la resumada, la rustisciada, il vitel tonné, il tiramisù con i savoiardi e il mascarpone, il pane e Nutella, la cotoletta e il Cointreau. Fermamente contro la caccia, in tutte le sue forme, tranne quella a Giampaolo Pansa, il P.I. a dire il vero non ama troppo neppure la pesca. Però – questo è un fatto – gli piace un sacco gettare i sassi nello stagno e stare seduto sulla sponda del fiume ad aspettare che passi qualcuno dei suoi vecchi amici.

Forse perché poco attento all’alimentazione e all’esercizio fisico, minato dallo scorrere inesorabile del tempo e delle ideologie, il P.I. soffre più malattie di quanto un normale essere senziente potrebbe sopportare: tic e riflessi pavloviani, condizionamenti tardo-novecenteschi, strani silenzi (il deplorevole silenzio degli intellettuali…), devastanti forme di eritemi al solo sentire pronunciare espressioni come “egemonia culturale”, presbitismo politico, deliri di onniscienza, ipertrofia dell’Ego, imbarazzanti trombosi, fastidiosissime allergie religiose. Affetto da ricorrenti attacchi di autismo collettivo, drammatizzazione manichea, narcisismo morale, sistematica inclinazione alle previsioni sbagliate e istantaneismo (la propensione a inserirsi nell’attualità per unire i vantaggi del presenzialismo a quelle del giudizio morale), a causa di una decennale, dolorosa sciatalgia, il P.I. preferisce parlare più volentieri in piedi, di solito ex cathedra, più raramente da un pulpito. Sempre alla ricerca della medicina migliore per risolvere i mali della società che lo venera come un “Maestro”, manifesta in maniera inquietante la cosiddetta “tentazione di Siracusa”, ovvero la sindrome ricorrente a modificare la Storia e consigliare la Politica, sempre con effetti psico-fisici disastrosi (per gli altri, più che per se stesso). Costretto suo malgrado a noiosi esercizi giornalieri di dissenso e dialettica, alternati a estenuanti prove di conformismo culturale, tra tutte il P.I. ama la “terza posizione”, sempre altra rispetto a Destra e Sinistra. A causa di un olfatto iper-sviluppato, ha un fiuto speciale nel sentire puzza di regime, è allergico al popolo e capisce sempre prima di tutti quando si inizia a respirare aria di pensiero unico.

Hobby e sport
Il P.I. ama molto i lavori domestici, soprattutto il giardinaggio. Dedica diversi pomeriggi della settimana a piantare paletti (tra Destra e Sinistra, ma anche tra laici e cattolici, così come tra larici e le cotogne), riempire i profondi fossati scavati dalle ideologie, gettare alle ortiche i frutti marci del marxismo o del capitalismo, strappare le erbacce infestanti del razzismo e dell’intolleranza, spargere a pieni mani i semi della concordia e della convivenza civile. Straordinario bricoleur oltre che amante dei calembour, il P.I. memore dei trascorsi militari nel Genio, ha fatto propria la missione di gettare ponti, costruire piattaforme, abbattere torri, eliminare barriere, ricomporre fratture, divellere steccati, superare gli spartiacque e disegnare mappe, sempre in perenne cambiamento.

Professionista nel conformarsi all’anticonformismo, ama – secondo una scala rigorosamente ascendente – il lavoro, il denaro, la visibilità e il potere. Architettonicamente parlando predilige le torri e le terrazze, impazzisce letteralmente per i salotti e tra gli elementi d’arredo subisce pesantemente il fascino delle poltrone. La regola cui è maggiormente rispettoso è: più rigore nelle presenze in tv e scegliere bene le testate dei giornali, mentre il precetto cui è maggiormente devoto rimane: denunciare con alti lai che i barbari sono alle porte. In genere molto educato, rispettoso, persino ossequiente, il P.I. va in bestia solo in due occasioni: quando qualcuno si azzarda a definirlo maître à penser («Non voglio sentire definizioni del genere, semmai faccio mio il ruolo di intellettuale critico») e se qualcuno osa domandargli: «Ma la democrazia dell’Occidente è l’unica possibile?».

Lontano da pateracchi consociativi e ingorghi istituzionali, il P.I. non ha mai preso la patente ma sa veicolare in maniera eccellente ideali e valori. Fine tuttologo, sempre super partes, sa che per gente come lui non è mai tempo di astensione, considera l’Aventino un’amena località di villeggiatura tra le sue predilette, aborre pubblicamente le lobby pur frequentandole con discrezione in privato, ed è un inguaribile feticista dei piedi, che non resiste alla tentazione di leccare.
L’atto nel quale però il P.I. eccelle è il tradimento: filologicamente… fisiologicamente inevitabile e moralmente deprecabile, il tradimento è l’essenza stessa del P.I. e dell’Intellettuale in genere. Se fosse fedele, l’Intellettuale sarebbe un marito qualsiasi, o un cane (cosa che peraltro spesso è comunque), al limite un interista. Ma se è un Intellettuale significa che pensa, e se pensa vuol dire che a volte può essere sfiorato da un’idea, ma se ha idee è lecito che le cambi (anche sul fascismo ad esempio, o sul terrorismo, o su Berlusconi, persino sui romanzi di Enzo Siciliano) e quindi, in qualche misura, che tradisca. Poi, c’è chi lo fa spesso, e più velocemente degli altri. E chi con maggiore classe e pacatezza. Nel primo caso si parla di “salto della quaglia”. Nel secondo di “decisione sofferta e ponderata”.

Tollerante e affabile come Jean Paul Sarte con i suoi avversari, intransigente come Thomas Mann nel suo “No” a Hitler, sempre pronto a rivedere il proprio giudizio come George Bernard Shaw dopo il soggiorno in Unione Sovietica, limpido nelle sue scelte di campo come Ignazio Silone rispetto al fascismo, il P.I. sa che il valore e il successo commerciale raramente coincidono. È per questo che tra cultura alta e cultura bassa, predica la prima ma consuma la seconda, passando con disinvoltura da Claudio Lolli a Ligabue (il cantante) e da Uccellacci e uccellini a La rivincita dei Nerd. La sera vorrebbe leggere Jacob Burckhardt, o almeno Ferruccio Parazzoli. Ma poi si masturba guardando La pupa e il secchione. Commettendo così un imperdonabile errore intellettuale, sia nel contenuto che nella forma. «Pazienta», dice tra sé. Nessun discorso sull’impegno – che il P.I., notoriamente senza peli sulla lingua, preferisce definire engagement – è possibile senza una riflessione sull’etica. Figuriamoci sull’etichetta. (il Domenicale)

Si fanno lo spot con i nostri soldi. Nicola Porro

È incredibile come al bla bla bla del rigore dei conti pubblici corrispondano comportamenti che vanno esattamente nella direzione opposta. Nella notte di domenica scorsa, come testimonia Antonio Signorini in un documentato articolo interno al giornale, il governo ha deciso di impiegare un miliardo dei nostri quattrini per dare un posto fisso ai precari della pubblica amministrazione. Si tratta chiaramente di una prima risposta alla manifestazione di piazza della sinistra radicale del 20 ottobre. Le risorse della finanza pubblica stanno diventando una variabile indipendente nell’affannosa ricerca di trovare un compromesso. Un po’ come doveva essere il salario nei ruggenti anni 70.La misura è assurda, demagogica e platealmente in contrasto con qualsiasi sano principio di buona finanza pubblica. In Italia un impiegato su sei ha come datore di lavoro lo Stato nelle sue diverse articolazioni. 3,5 milioni di dipendenti pubblici che non forniscono un servizio all’altezza di un Paese civile. Non solo i contratti vengono rinnovati senza alcuna attenzione al merito, ma si continua a procedere ad assunzioni a pioggia.Eppure la mossa di Prodi&Co ha una sua velenosa forza popolare. A differenza del settore privato dove il lavoro precario (esclusi casi di abuso che rappresentano una minoranza da condannare) risponde a logiche di flessibilità dell’impresa, nell’universo statale il precariato spesso è una patologia. Si fanno e si reiterano contrattini per il semplice motivo che in questo modo si scavalcano i blocchi alle assunzioni via via imposti dalle diverse leggi Finanziarie. Lo «scivolamento» delle carriere in alto, la mancanza di meritocrazia, la migrazione senza criterio tra uffici disagiati e quelli meno, ha mal distribuito il carico di lavoro. E può succedere che in una regione come il Veneto (dove nel settore privato praticamente la disoccupazione è pari a zero) la sanità pubblica sia affidata a precari: ci sono la bellezza di 3437 contratti a tempo e di questi 1389 sono medici che nonostante i loro contrattini svolgono servizio pubblico e funzioni di ruolo. Insomma la gestione del personale nella nostra pubblica amministrazione è un gran pasticcio. Ecco perché la mossa di Prodi&Co ha una sua forza demagogica: per alcuni casi essa sana situazioni insostenibili come quella veneta, ma per la maggior parte regolarizza, per di più senza alcun concorso, posizioni di amicizia e clientela.
Nella logica della sopravvivenza, a spese nostre, si perde ogni criterio economico. Se oggi, come la sinistra radicale vorrebbe, si imponesse la trasformazione a tempo indeterminato di tutti i contratti flessibili anche ai privati, l’industria italiana fallirebbe, non riuscirebbe a reggere i morsi della concorrenza. Per il settore pubblico questo sano vincolo non c’è. Ci sono solo i nostri quattrini, ricavati dalle imposte. Están todos caballeros. (il Giornale)

Tante amnesie sui giudici in tv. Piero Ostellino

Che i magistrati debbano parlare solo attraverso gli atti processuali è una buona regola di civiltà del diritto e di carattere generale che dovrebbe valere per tutti e in ogni circostanza. Da noi, è diventato un luogo comune al quale una parte della classe politica e dei media ha apportato una eccezione per farlo diventare ancora più comune. «Comune », inteso nell'interesse di tutti gli appartenenti a una parte politica, rispetto a «generale» (nell'interesse di tutti). L’eccezione è questa. Ora che a essere indagati sono esponenti del centrosinistra, è bene che i magistrati rispettino la regola generale, evitando di andare in televisione a esporre le proprie convinzioni, perché «nessuno mette in discussione l'indipendenza della magistratura».

Prima, quando indagati erano esponenti del centrodestra, era giusto che i magistrati esponessero alla tv le loro convinzioni, «perché c'era chi metteva in discussione l'indipendenza della magistratura». Naturalmente, che, col centrodestra, l'indipendenza della magistratura fosse in pericolo e ora, col centrosinistra, non lo sia, lo dicono sempre gli stessi. Quelli del luogo comune con eccezioni incorporate. Così, quando, il 14 luglio 1994, il pool di Mani pulite era andato in televisione a opporsi pubblicamente al decreto Biondi che tendeva a ridurre i termini della carcerazione preventiva, nessuno, nel centrosinistra e dai media ad esso contigui — nonché, ad essere precisi, anche in alcuni settori della stessa destra — aveva avuto alcunché da eccepire.

Anzi, tutti si erano schierati a fianco del pool. Che chiedeva di fatto e in diritto di poter continuare a utilizzare la carcerazione preventiva come la ruota medievale. Per strappare agli inquisiti una confessione. Su queste stesse colonne avevo scritto che gli uomini del pool avrebbero dovuto dimettersi, invece di contestare pubblicamente il Parlamento, se ritenevano di non poterne applicare un provvedimento che, oltre tutto, (re)introduceva nel nostro ordinamento un principio dell'Habeas corpus. Oggi, il dottor Luigi de Magistris — il magistrato di Catanzaro che indaga su un supposto comitato d'affari che avrebbe gestito illecitamente i fondi dell'Unione europea e, fra gli altri, ha iscritto nel registro degli indagati addirittura il ministro della Giustizia—e la dottoressa Clementina Forleo, il magistrato di Milano che si occupa della scalata di Unipol alla Banca nazionale del lavoro, vanno in televisione, come allora il pool di Milano, a esporre le loro convinzioni e a denunciare supposte pressioni politiche sull'indipendenza della magistratura.

Ma gli interventi di uomini politici del centrosinistra e dei media ad esso contigui si sprecano nel raccomandare il rispetto della regola della riservatezza da parte dei due magistrati. Luciano Violante, punto di riferimento da anni del «partito dei giudici», ha dichiarato a Lucia Annunziata che «La Forleo e De Magistris hanno sbagliato ad andare ad Anno zero per cercare consenso», sostenendo che è la prima volta che si pone un caso del genere e che lui comunque aveva sempre criticato questi comportamenti. Affermazione che ha provocato stupore nell’intervistatrice e credo in tutti coloro che hanno assistito alla trasmissione.

Meglio tardi che mai, si potrebbe dire. Peccato che il ritardo sia peloso, proprio come, allora, la prontezza nel sostenere il contrario. Detto questo, aggiungo che, così come non avevo condiviso quello del pool di Milano, non condivido il comportamento di De Magistris e della Forleo. Apprezzabile mi pare —anche se discutibile per i contenuti — la coerenza di un altro magistrato, Antonio Ingroia, di Palermo, sull’esistenza di non meglio identificati «poteri occulti », indipendentemente dal colore del governo, espressa anche durante le trasmissioni di Santoro. Difendere l'indipendenza della magistratura e, al tempo stesso, raccomandarne misura e riservatezza non è né di destra né di sinistra. Essere liberali è essere «altrove». (Corriere della Sera)

lunedì 29 ottobre 2007

E adesso diteci tutto (ma proprio tutto) sul complottone dell'11/9. Pierluigi Battista

Adesso però non si lascino inebriare dalla trionfale sfilata sul red carpet della Festa romana del cine­ma. Il brain trust Vidal-Chomsky-Chiesa-Cardini non riposi sugli allori del film «Zero» con le suadenti voci narranti di Dario Fo, Lella Costa e Moni Ovadia. Si ri­metta alacremente al lavoro, quantifichi dettagliatamen­te, non trascuri nemmeno una cifra del colossale complot­to bushista-sionista che ha insanguinato l’11 settembre 2001 scaricando vigliaccamente ogni colpa su Osama Bin Laden. Hanno dimostrato che si è trattato di un'orrenda cospirazione dell'impero americano? Non si accontenti­no dei risultati raggiunti, dicano quante migliaia e miglia­ia di sicari della Cia hanno partecipato alla macchinazio­ne, smascherino il complotto di massa, l'unico grande complotto di massa della storia, che ha organizzato la demolizione controllata del World Trade Center, mentre miliardi di ebeti sprovveduti sono stati indotti a credere alla favola sionista, e cioè che la colpa sia tutta degli aerei islamisti che si sono piantati nelle due torri di New York. Si concentrino senza divagare sul particolare delle esplosioni messe a punto per fare cadere le torri gemelle più altri grattacieli nelle vicinanze. Dicano quante centi­naia di autisti, scaricatori, ausiliari sotto contratto Cia hanno trasportato tonnellate di esplosivi con giganteschi camion per giorni e giorni consecutivi prima dell'11 set­tembre per buttare giù le torri senza che nemmeno un newyorchese se ne accorgesse, sfiorato dal sospetto per l'immane traffico di tir e cingolati mi­metizzati. Dicano quanti sono gli ad­detti pagati dal Mossad per tenere fuori centinaia di migliaia di persone giorno e notte da quella zona di Manhattan tanto affollata di capita­listi yankee che scorrazzano attorno ai loschi affari di Wall Street. Dicano quanti sono i sicari che si sono travestiti da vigilantes delle decine di uffici del World Trade Center per far finta di niente di fronte allo spettacolo di chissà quanti agenti bushisti-sionisti che, fischiettando per non dare nell'occhio, hanno piazzato le cariche esplosive, sistemato gli inneschi, camuffato gli ordigni in atte­sa dell'ora X senza farsi scoprire dalle migliaia e migliaia di occasionali visitatori delle due torri. Dicano quanti so­no i poderosi trasportatori che con forza erculea, essendo presumibilmente fuori uso ascensori e montacarichi bloc­cati per via dell'elettricità sionisticamente staccata duran­te le operazioni di trasbordo esplosivo, hanno portato sottobraccio quei pacchi pericolosissimi, torcia in bocca, sulle decine di piani dei grattacieli bushisti. Dicano quan­ti artificieri della Cia hanno imbottito di materiale esplo­sivo anche l'edificio numero 7, situato nelle adiacenze del­le due torri, anch'esso preso di mira dai loschi agenti della Cia e ridotto in poltiglia attraverso la demolizione con­trollata eroicamente scoperta dagli infaticabili segugi del complottismo.
Centinaia di complici? Macché, migliaia. Ma siano più precisi. Conteggino i membri delle famiglie, gli amici, i semplici conoscenti dei finti garagisti che nottetempo hanno ospitato a New York tutti gli automezzi adibiti al trasporto dell'esplosivo, o gli specialisti che da lontano hanno provveduto all'azionamento dei timer. Dicano quanti sporchi dollari ci sono voluti per comprare l'omer­tà di migliaia e migliaia di persone per oltre sei anni. Il mondo vuole sapere e loro perdono tempo con la Festa del cinema di Roma. Facciano in fretta, però. La Cia è già all'opera per ridicolizzare il loro lavoro. Sarebbe una beffa per gli smascheratori del mostruoso complotto im­perialista. Chi li inviterebbe più nei festival cinematogra­fici? A Cannes, a Cannes. (Corriere della Sera)

Non basta l'adorazione dei media per fare del Pd una novità. Gaetano Quagliariello

La stampa del week-end - quella che in Italia conta -, si è trasformata in uno smisurato peana mediatico per il Partito democratico e per il suo leader Walter Veltroni. Dalla enfatizzazione del significato simbolico del luogo dell’assemblea - Milano - considerato, con ogni evidenza, esotico; fino alla celebrazione della supposta portata epocale dell’evento. Il tutto condito dall’immancabile “lacrima sul viso” della studentessa in cerca di un futuro migliore, all’ombra dello sguardo compassionevole del “piccolo padre”. E dall’ancora più stucchevole lettera dell’ “imprenditore corretto” che invoca un riferimento politico sobrio e solido, in grado di comprendere quanta generosità vi sia nella sua ricerca del profitto.
Lettura didatticamente istruttiva per chi sa leggere. Perché squarcia il velo di facili inchieste su qualche casta passeggera, mostrando finalmente il grado d’effettiva indipendenza del giornalismo nostrano dal potere vero. E perché lascia in bocca l’inconfondibile retrogusto del regime facendo intuire, a chi non l’ha vissuto, quanto possa essere opprimente il conformismo quando non vi sono voci, per quanto flebili, fuori dal coro.
Ma non solo per queste ragioni i giornali della domenica fanno apprezzare la democrazia. Il fatto è che quando vi è anche solo uno straccio di competizione politica, persino gli endorsement più spudorati possono provocare effetti non voluti, ritorcendosi contro coloro che si vorrebbe in realtà favorire. Ed è proprio questo che potrebbe accadere al Partito Democratico e al suo leader se presto non si scioglieranno le contraddizioni che la grande stampa, con il suo atteggiamento tra l’ammirato e il supino, sta amplificando.
Il Partito Democratico, infatti, ha scelto di abolire le tessere e di eleggere il proprio leader carismatico attraverso una consultazione popolare precedente alla costituzione di qualsivoglia organismo. L’assemblea di Milano ha amplificato la portata della scelta mettendo al cospetto del leader una platea di quasi tremila delegati senza intermediazioni di sorta. I giornali che contano, dal loro canto, hanno enfatizzato il potere salvifico di Walter Veltroni rispetto alla stessa maggioranza nella quale è in qualche misura coinvolto. E, a riprova della non casualità di questa catena, Bindi e Parisi – due che, a dispetto di una supposta differenza sessuale, sono tra i pochi nel Pd a mostrar di avere attributi – fanno sapere di non volerci stare a far la parte dei comprimari.
Un partito siffatto, e per di più presentato come prodigioso evento, per non entrare in contraddizione patente con sé medesimo, ha bisogno che il sistema politico al quale si riferisce abbia una vocazione maggioritaria. Non è solo questione di sistema elettorale; è qualcosa di più complesso. Per l’essenziale, ha bisogno di un sistema nel quale esso rappresenti senza possibilità d’equivoco una delle due polarità prevalenti, in una situazione di riconosciuta egemonia all’interno del proprio schieramento e di reciproca legittimazione con il partito più forte del campo avverso.
Veltroni nel suo discorso d’insediamento non ha eluso del tutto questo nodo. Lo ha affrontato indirettamente ma chiaramente, affermando di essere disposto ad allearsi solo con quanti concorderanno sul programma e accetteranno l’egemonia del Partito Democratico. Implicitamente, ha così ammesso che il nuovo partito è lo strumento attraverso il quale intende muovere alla conquista di Palazzo Chigi.
Tutto il resto del suo discorso, però, è andato in controtendenza evidenziando quanto, a dispetto di certi entusiasmi giornalistici, la via sia in realtà stretta. Per quanto concerne la riforma delle istituzioni, per lui parlano i fatti. Se si prende in considerazione quella attualmente in discussione alla Camera, fortemente voluta da Luciano Violante, si scopre che consiste, nella sostanza, nel consolidamento del “parlamentarismo debole”: tutt’altra cosa rispetto alla “rivoluzione maggioritaria” necessaria al Pd. Se poi si passa al fondamentale capitolo della legge elettorale, l’indeterminazione di Veltroni diviene addirittura patetica. Sul referendum ha ribadito l’ormai abituale “vorrei ma non posso”. Sul resto è riuscito persino a far di meglio. Dopo aver espresso nella relazione introduttiva la preferenza per il modello francese, nella replica ha affermato che, più realisticamente, andrebbero anche bene un sistema tedesco con ascendenze spagnole o, perché no?, un sistema spagnolo con ascendenze tedesche. Per concludere che, vista la necessità di ricercare maggioranze ampie, a sciogliere la matassa è bene che sia il Parlamento. Infine, se si registrano i toni dell’assemblea, non sembra proprio che il Pd abbia voglia di girare la pagina dell’anti-berlusconismo: circostanza che allontana l’inverarsi del fatto maggioritario complicando, nel contempo, l’assalto al voto centrista e borghese-moderato.
C’è ora da chiedersi: dietro queste incongruenze vi è solo la tradizionale indeterminatezza veltroniana, corollario del suo “buonismo”, o qualcosa di più politicamente significativo? Veltroni, in realtà, se volesse muoversi con efficacia nella direzione nella quale la stampa che lo appoggia cerca di sospingerlo, dovrebbe mettere a repentaglio il governo della sinistra e, così facendo, aprire un contenzioso di lungo periodo con Romano Prodi che lui, memore di precedenti esperienze di compagni del suo ex-partito, non intende aprire. Può sperare che il lavoro sporco lo faccia Berlusconi, riuscendo nel tentativo di mandare a casa l’attuale governo. Ma, a questo punto, la scelta si farà stringente. Potrà decidere di andare alle urne. In questo caso correrà il rischio della sconfitta ma, in compenso, potrà determinare i futuri gruppi parlamentari e, quel che più conta, salvare una seppur precaria incardinatura maggioritaria del sistema. Potrà, invece, tener fede a quanto affermato: assecondare i progetti di governo tecnico concedendo, per quanto concerne le riforme – e in particolare quella elettorale - le mani libere ad alleati e avversari. Ma a quel punto, verrebbero meno le condizioni strutturali per l’esistenza di un partito a vocazione maggioritaria. E il Partito democratico si trasformerebbe presto nel ridicolo simulacro di un progetto che, per qualche giorno, qualcuno avrà proclamato grande. (l'Occidentale)

La pecunia secondo Furio Colombo. Orso Di Pietra

Vuoi sapere qual’è la differenza tra la destra e la sinistra? Prendi il caso della famiglia Angelucci, quella degli industriali del settore della sanità, che è già proprietaria di “Libero” e de “Il riformista” e che si accinge ad acquistare anche l’organo dei Ds “L’Unità”. Che succede quando la notizia dell’acquisto incomincia a circolare e trova autorevoli conferme? I giornalisti di “Libero” non battono ciglio nella convinzione che il loro editore può fare con i propri soldi quello che gli pare. Ed, al massimo, si augurano che gli Angelucci abbiano sempre più disponibilità economiche per poter continuare non solo a comperare altri giornali ma soprattutto a sostenere il loro. Quelli de “L’Unità“ , al contrario, entrano subito in agitazione. Non perché Angelucci potrebbe decidere di non pagare i loro stipendi o ridimensionare o liquidare il giornale, ma perché gli Angelucci sono già proprietari di “Libero”, che è un organo d’informazione schierato a destra. “Non è una cosa normale – tuona a nome della redazione l’ex direttore Furio Colombo-. Qualcosa non torna. Mi domando perché un editore deve avere un giornale che sostiene una posizione ed un altro giornale che appoggia la posizione esattamente contraria? C’è poco da stare tranquilli“. In realtà non c’è nulla di più normale nella faccenda. Che ha un antecedente significativo ed illuminante nel vecchio Angelo Rizzoli che pubblicava contemporaneamente “Candido” di Giovannino Guareschi e “L’europeo” schierato a favore del centro sinistra. Ciò che emerge con chiarezza, invece, è la differenza tra destra a sinistra sulla concezione del denaro. Per i primi “pecunia non olet” e più ne viene meglio è. Per i secondi ogni tipo di pecunia olet tranne quella dei capitalisti loro amici. Che profuma di “Arrogance”. Vero Furio? (l'Opinione)

giovedì 25 ottobre 2007

Spaghetti trust. Davide Giacalone

L'antitrust indaga sul prezzo della pasta e lo fa a cottura lenta, con un'istruttoria che potrà durare fino al novembre del 2008. Più di un anno per scolarla, una pacchia per azzeccafusilli. Nel frattempo continueremo a mangiar spaghetti, spendendo molto e sentendoci autorizzati a qualche osservazione immediata, al dente.I produttori di pasta hanno ragione: nel valutare gli aumenti del prezzo al consumo si devono tenere presenti quelli delle materie prime. Peccato, però, che il prezzo del grano è sceso per un lungo periodo, senza che il prezzo della pasta ne abbia risentito, mentre ora che è cresciuto la ripercussione è immediata. Già questo dimostra che il mercato non è aperto e concorrenziale come dovrebbe, perché se i margini crescono sarebbe naturale qualcuno tenti di approfittarne tenendoli più bassi ed ampliando la propria quota di mercato. E' significativo, del resto, che proprio gli agricoltori reclamino una doppia pezzatura, indicando per i prodotti agricoli quanto sono pagati al produttore e quanto costano al consumatore. Vale per il pane, la pasta, la frutta e la verdura.
Leggo che vi sono opinioni differenti sul peso percentuale del prezzo delle materie prime nella determinazione del prezzo finale: dal 22,8 al 65 per cento. E' singolare che siano opinioni, laddove s'insegna ai ragazzi che la matematica non lo è: i valori legati a ciascun passaggio produttivo possono essere diversi, ed anche questo fa parte della concorrenza, ma discutere di tre ordini di grandezza differenti segnala che si parlano lingue incompatibili. In ogni caso l'aumento dei prezzi, o, meglio, il potere reale d'acquisto non è parente delle percentuali ufficiali e non c'è famiglia (salvo quelle degli spacciatori) che non abbia misurato un'inflazione largamente superiore a quella dichiarata. Ciò, ancora una volta, mette in evidenza che paghiamo molto per mantenere rendite e disfunzioni nel nostro mercato interno, impoverendoci come persone e perdendo competitività.
Il governo pensa ad un “garante dei prezzi”. A parte l'idea fasciosovietica che i prezzi si possano fissare con un ufficio, resterebbe da sapere “chi” si deve garantire. L'unica tutela valida è la concorrenza, anche nella distribuzione e vendita. E' il capitolo delle liberalizzazioni, quelle fallite per i tassisti.

L'amore è un destino scritto nei cromosomi. Filippo Facci

Michele Brambilla ha ragione, nelle campagne contro la discriminazione dell’omosessualità c’è rimasto ben poco di choccante: il messaggio è passato, e certa ostentazione del gay nella società ha talvolta le sembianze più di una strategia di marketing che di una campagna civile. Il problema è che negli anfratti più retrivi del nostro centrodestra, a mio personale avviso, permangono delle posture ideologiche che certe campagne continuano a giustificarle. Nello stesso giorno in cui Michele Brambilla faceva osservazioni savie e prudenti, infatti, i giornali riportavano dichiarazioni allucinanti come la seguente di Luca Volontè dell’Udc: «Far credere che le pulsioni omosessuali siano una caratteristica innata, è un atto fuorviante e vergognoso sotto il profilo scientifico e sociale». Ma fuorviante è solo Volontè, e beninteso sarebbero anche fattacci suoi, e nondimeno dei vari Massimo Polledri (Lega) e Isabella Bertolini (Forza Italia) che sugli stessi giornali intanto biascicavano concetti similari pur di dire qualcosa: il problema è che qualcuno potrebbe pensare che l’opinione di tutto il centrodestra corrisponda a quella. Il nostro bipolarismo infatti è ancora giovane e imperfetto, non è ancora chiaro che in uno stesso schieramento possano convivere idee assai diverse come per esempio accade negli Usa tra i democratici e i repubblicani: da noi il primo che parla rischia di sembrare un portavoce. Nel caso delle affermazioni di Volontè, peraltro, non si tratta di idee come le tante altre che si possano discutere: sono fantasmi seppelliti dalla Storia, dal liberalismo, dal metodo sperimentale, sono retroguardie di una religiosità retriva e ideologica che non ha nulla che spartire con la pratica cattolica di milioni di italiani. L’Occidente, la scienza, l’Organizzazione mondiale della sanità e la schiacciante maggioranza degli elettori di centrodestra (cattolici compresi) mi risulta che abbiano assodato e accettato, da tempo, che l’omosessuale non sia un malato da curare, e tantomeno un patologico anormale. Mi vergogno persino a doverle ribadire, certe cose. Mi vergogno che un parlamentare della Repubblica possa negare che l’omosessualità abbia base biologica esattamente come lo pensavano i nazisti e mi vergogno che possano pensare che gli omosessuali debbano curarsi come gli alcolisti anonimi. Mi vergogno che costoro possano spacciare come «scientifici» gli scritti di ex pastori evangelici come Andy Comiskey o quelli di Joseph Nicolosi, recentemente pubblicato in Italia con la postfazione del direttore di Radio Maria. Oh, certo, in Italia c’è la libertà di opinione: ma con la scusa delle libere opinioni, di questo passo, vedremo dibattiti in par condicio anche con chi sostiene che il Sole giri attorno alla Terra, mentre altri ribadiranno che le donne hanno il cervello più piccolo e che i bambini schizofrenici dovremmo riportarli dall’esorcista.
Mi fece immensamente piacere che proprio sul Giornale, tempo fa, Paolo Guzzanti avesse voluto rimettere qualche puntino sulle i proprio su questo tema: gli omosessuali esistono come esistono i mancini, è una questione cromosomica, esistono anche tra gli animali, è un fattore naturale e non psicologico, punto, ripunto e strapunto. Tutto questo è acclarato, e almeno su questo non c’è nessuna discussione da fare, nulla da dimostrare.
Ebbene: certi manifesti della Regione Toscana, col neonato omosessuale in primo piano, non entusiasmano neanche me. I Gay Pride mi sembrano baracconate controproducenti. L’autocompiacimento gay, in certe professioni, mi infastidisce non poco. Ma agli eterni cacciatori di streghe, a coloro ossia che vorrebbero confinare milioni di omosessuali nei ghetti della patologia, auguro che possano patire per almeno tre secondi le sofferenze che gli omosessuali, esattamente come i cristiani, hanno patito per millenni. (il Giornale)

martedì 23 ottobre 2007

Il Pd e il gelo del Nord. Giuseppe De Rita

Cosa fatta per il Partito democratico, si può andare a capo. Occorre quindi guardare al futuro, ai problemi su cui il nuovo partito dovrà misurarsi e su cui sarà via via valutato; in particolare occorre guardare a due sfide delicate e complesse: quella del mondo giovanile e quella sul Nord Italia. Chi era andato ai seggi elettorali per un controllo visivo, aveva avuto la sensazione che in fila ci fosse in maggioranza gente matura d'anni. Nei giorni successivi ce ne hanno dato conferma dati più precisi: pur se di sondaggio solo il 19% dei votanti è sotto i 34 anni, mentre la metà di essi va oltre i 54 anni. È troppo presto per sollevare il dubbio che il Pd sia un partito di anziani, che vi si riconoscono in quanto forza di riformismo serio e pacato, lontano da tentazioni estremistiche. Ma non è troppo presto per riflettere sul pericolo di precoce senilità di un partito appena nato.
Si tratta di una riflessione urgente, perché il mondo giovanile rappresenta un oscuro contenitore: può essere un invaso di tensioni anche gravi e dure, per le venature di violenza che animano spesso il suo disagio; può essere un invaso di inerte poltiglia adolescenziale, dove ci si esalta solo su saltuarie tentazioni esperienziali. Quel che è certo è che i giovani sono oggi una realtà antropologicamente ambigua e sfuggente. Non sappiamo come essa si manifesterà in pubblico, se in disimpegno ludico di massa; o in violenza erratica variamente calibrata; o in esiti di esternalizzazione in piazza; o in una faticosa maturazione nel volontariato sociale o politico.
Qualcuno deve però proporre loro un'offerta sociopolitica, ma non ci sono oggi, nella cultura politica, molte idee e molti messaggi capaci di mobilitazione, solo che si pensi al Pd, dove le offerte erano certamente tante e differenziate (dalla tradizione cattolica al kennedismo) ma il fatto che solo un elettore su cinque sia stato giovane la dice lunga sulla scarsa propensione a recepirle. Lo stesso tipo di riflessione va tentato sulla seconda sfida che aspetta il Pd, quella del Nord. I dati sono sconcertanti: il nuovo partito risulta fortissimo nell'attirare gli elettori del Sud, con punte forse inaspettate per quel che riguarda la Campania (438 mila votanti), la Puglia (247 mila), la Calabria (208 mila) e la Sicilia (183 mila); risulta forte nelle regioni ad antico modello comunista (Toscana, Emilia, Umbria); e risulta invece molto flebile nelle regioni del Nord: dal Piemonte (dove ha votato praticamente un terzo dei votanti campani); al Veneto (dove hanno votato due terzi delle persone che hanno votato in Puglia); alla Liguria (dove gli elettori sono stati un terzo di quelli calabresi); e alla stessa Lombardia dove hanno votato 100 mila elettori in meno che in Campania.
Queste constatazioni non bastano per affermare che al Nord il Pd rischia la poca consistenza. Ma bastano per segnalare che al Pd serve una strategia, perché l'ormai annosa «questione settentrionale» non diventi un problema per un partito che, nascendo adesso, ha bisogno di sfondare nelle realtà locali a più forte vitalità economica. Si potrà dire che, contrariamente a quanto avviene nel mondo giovanile, la questione settentrionale ha già superato la fase delle ambigue dinamiche antropologiche, di disagio non ancora focalizzato in esplicite opinioni politiche. Ma proprio questa focalizzazione rende l'elettorato del Nord meno permeabile a messaggi di nuova politica: non è forse un caso che i votanti settentrionali alle primarie siano stati solo il 24% del totale; ed ancor più che quel 24% scenda al 22% nel voto a Veltroni, candidato-messaggio per eccellenza. Ci sarà molto da fare in Padania. Forse il Pd è cosa fatta ma imperfetta o almeno incompiuta. (Corriere della Sera)

lunedì 22 ottobre 2007

Due parole sulla Loren e la Bellucci. l'Occidentale

Veltroni è veramente un genio. Si inventa una festa del cinema nella sua città, la imbottisce di danaro pubblico e privato, ci mette il suo braccio destro alla guida e grazie al potere mediatico e immaginifico di cui dispone trasforma una cosa obiettivamente minore e marginale in un apparente trionfo.E’ incredibile osservare come i giornali siano rapiti da una specie di ipnosi collettiva. Per rendersene conto ci vuole lo sguardo d’insieme, non basta un’occhiata di sfuggita. Le vette di lirismo a cui i giornali attingono per descrivere l’evento sono impareggiabili e corali. Tutto è grandioso, travolgente, appassionante: le cronache sgorgano dai cuori solitamente cinici e diffidenti dei giornalisti come ondate d’entusiasmo e partecipazione.
Una tale assoluta e concorde celebrazione non la trovereste a Cannes, a Berlino, a Venezia. Certo lì è diverso, lì i giornalisti parlano di cinema e di film; a Roma parlano di Veltroni e dei suoi sogni.
A Roma tutto si trasforma: arrivano per l’inaugurazione della Festa Sofia Loren e Monica Bellucci e sembra siano scese sulla terra due miracolose divinità.
Ora possiamo dire onestamente quello che pensiamo? Si può parlare con sincerità di Sofia Loren senza fare la fine di Storace con Napolitano? Si può dire che il suo ultimo film decente, Una Giornata Particolare, è di 30 anni fa? Si può essere stanchi della sua maschera appassita e ostinata, della sua professione di “madrina” benedicente ogni possibile evento. Il suo legame col cinema è ormai inconsistente, l’inaugurazione del Festival poteva essere il varo di un transatlantico, l’apertura di un ristorante, il lancio di un profumo, una sfilata di moda. E ogni volta giornali e tv le tributano un magniloquente e nostalgico omaggio, quasi un coccodrillo in vita. Con Vincenzo Mollica che la intervista pieno di sollecitudine e ossequio a uso e consumo di chi la ricorda com’era.
E’ poi consentito avere della Bellucci un’idea piuttosto vaga? Avere qualche dubbio sul suo apporto alla storia del cinema o anche alla sua cronaca?
Ecco, questo è quello che ha avuto Roma per l’inaugurazione della sua Festa del cinema. Ma sui giornali i toni erano quelli del trionfo, alle due dame erano dedicate tutte le prime pagine, gli inserti, le aperture dei tg. La Loren ha scritto un pensierino da scuola elementare e il Messaggero l’ha pubblicato in prima pagina come una reliquia. Eppure quegli stessi giornali e giornalisti conoscono il fulgore dei tappeti rossi di Los Angeles, la folla di star sulla montée de marche di Cannes.
La verità è che ogni parola spesa per la Festa del Cinema è un piccolo omaggio a Veltroni e alla sua corte. Un soldino buttato nella fontana dei desideri del suo futuro e munifico potere.
Non è mai piacevole rompere gli incantesimi, riportare il principe allo stato di rospo, ma qualcuno deve pur farlo.

sabato 20 ottobre 2007

Vietnam forever. Vincenzo Merlo

«La solidarietà verso il Vietnam è stata un'esperienza formativa di grandissimo valore. Fin da quando eravamo ragazzi il nome del vostro Paese ha fatto parte della nostra vita e della nostra esperienza politica». Così si è espresso l'8 ottobre il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, nel corso della visita in Vietnam, nella quale è stato anche preannunciato l'appoggio del governo italiano ad Hanoi per un seggio temporaneo nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu. L'enfasi con cui il responsabile della Farnesina ha ricordato le sue «esperienze politiche» al collega della Repubblica socialista del Vietnam, Pham Gia Khiem, non deve sorprendere (anche se, scommettiamo, simili reminiscenze non sarebbero emerse con l'amica Condoleeza...). Per D'Alema e i comunisti, non solo italiani, il Vietnam ha rappresentato davvero un momento decisivo, una «esperienza formativa di grandissimo valore». Peccato che a fare le spese di quella «solidarietà», urlata per anni col pugno chiuso nelle piazze, sia stata proprio la popolazione vietnamita, dapprima devastata dalla guerra e poi da una dittatura vergognosa quale quella comunista ancora al potere.

A più di trent'anni dalla fine del conflitto è possibile ricostruire con sufficiente limpidezza gli avvenimenti che sconvolsero quella regione, con le tragiche conseguenze che ancora oggi incombono su una popolazione martoriata. Avvenimenti che smentiscono sistematicamente la propaganda comunista e antiamericana che negli anni '60 e '70 accecò una parte consistente dell'opinione pubblica occidentale. Ci aiuta in questa sintesi Padre Piero Gheddo, uno dei massimi conoscitori del Vietnam a livello mondiale, e autore di quattro libri su di esso, uno dei quali, «Cattolici e buddisti in Vietnam», è stato tradotto in ogni parte del mondo. «Nel tempo coloniale - scrive Padre Gheddo su "Il Timone" (numero 41) - il Nord era sempre stato il motore dell'economia vietnamita, ma dal 1956 al 1963 il Sud lo supera largamente anche per i colossali errori del regime comunista (riforma agraria, nazionalizzazione delle attività economiche, repressione feroce di ogni libertà, chiusura totale verso il mondo libero). Si stava ripetendo in Vietnam quel che già era successo in Corea e in Germania: nello stesso Paese diviso in due, la parte filo-occidentale si sviluppa, quella comunista va verso la miseria. Il Nord (Cina e Russia alle spalle) sostiene con armi e militari i vietcong (partigiani comunisti che agiscono nel Sud), violando i patti di pace di Ginevra». Mentre nel Sud del Paese, dunque, il regime di Diem avvia il popolo a governarsi democraticamente attraverso libere elezioni a livello comunale e regionale, si liberalizzano le attività economiche, si rispettano la libertà di stampa, religiosa, sindacale e associazionistica, nel Nord comunista la dittatura è invece assoluta e mira ad estendere il suo dominio anche nel Paese confinante.

Nell'ottobre del 1963 gli Stati Uniti, sotto la guida del presidente John Kennedy, inviano militari nel Vietnam del Sud per difendere l'alleato, così come era successo con i sud-coreani ed i tedeschi. Anno dopo anno la presenza americana in Vietnam arriva a raggiungere i 500.000 militari, con 52.000 caduti. Dopo Diem, ucciso in seguito a un colpo di Stato nel novembre del 1963, al Sud si susseguono vari governi, fino a quello del generale Van Thieu nel 1967, che stabilizza politicamente il Paese. Ma dopo l'offensiva dell'esercito nord-vietnamita del febbraio 1968, l'opinione pubblica occidentale e americana non tollera più la guerra: manifestazioni si susseguono a manifestazioni e il comunismo mondiale e la grande stampa «progressista» hanno buon gioco a dipingere tutto il male da una parte (il Vietnam del Sud e gli americani) e tutto il bene dall'altra (vietcong e vietminh). Il 27 gennaio 1973 il presidente americano Richard Nixon firma a Parigi gli accordi di pace col Vietnam del Nord. L'ultimo militare americano si ritira il 23 marzo del 1973. Il Vietnam del Sud, invaso da un altro Paese, cerca di resistere da solo, ma è sopraffatto dalla guerriglia e dai nord-vietnamiti, che il 25 aprile dl 1975 assumono tutto il potere. Gli «accordi» di Parigi, riconosciuti dall'Onu, prevedevano che alla «terza forza» pacifista del Vietnam del Sud, che aveva manifestato contro Thieu e la guerra (partecipavano buddisti e cattolici), fossero garantite tutte le libertà e libere elezioni. Nulla di questo avvenne: il giorno dopo la presa del potere da parte di vietminh e vietcong queste garanzie diventarono carta straccia. Riassume Padre Gheddo: «Se avesse vinto il governo filo-occidentale, il Vietnam sarebbe libero, democratico e sviluppato come la Corea del Sud; ma ha vinto il governo comunista e il Vietnam è in una situazione poco migliore di quella della Corea del Nord».

Sì, perché dopo la cosiddetta «liberazione», il regime comunista si è mostrato per quello che tutti i regimi comunisti sono: dittatura e repressione. Ne sanno qualcosa i montagnard. Essi costituiscono uno dei popoli indigeni più antichi di tutto il Sud-Est asiatico, stanziati in Indocina da più di duemila anni. Divisi in una trentina di differenti tribù, abitano le cosiddette Terre Alte al confine tra Vietnam e Cambogia, e la maggior parte di loro sono cristiani, cattolici e protestanti, convertiti attraverso i missionari negli ultimi due secoli. Ala fine della colonizzazione francese, cinquant'anni fa, si stima che fossero circa tre milioni. Oggi, decimati dalla persecuzione dei regimi comunisti della regione, i montagnard, uccisi o inghiottiti dalle spaventose prigioni vietnamite, si sono ridotti a meno di un milione. Un genocidio silenzioso di cui scrivono in pochi. Dai primi mesi del 2004, poi, il governo di Hanoi ha rafforzato nella zona il suo apparato repressivo militar-poliziesco, impedendo l'accesso ai giornalisti e agli osservatori umanitari internazionali. Secondo informazioni fornite dalla Montagnard Foundation, i cristiani che vengono trovati in possesso di un crocifisso, di un'immagine sacra, ma anche di un cellulare, di una radio o di un giornale straniero, vengono immediatamente arrestati e spesso sottoposti a tortura; non di rado sono costretti ad abiurare la propria fede, obbligati a bestemmiare o a bere il sangue di animali sgozzati.

Ma non sono solo i montagnard ad essere perseguitati nel Vietnam comunista. Norme soffocanti impongono restrizioni, limiti e divieti per tutti coloro che professano una fede religiosa: in particolare ai cristiani non è permesso di rendersi visibili, testimoniare pubblicamente la propria fede, esprimere giudizi. A volte la persecuzione è più sottile, moderna: non impedisce di professarsi cristiani e di esercitare il culto, ma esige il controllo delle coscienze. Gli iscritti al Partito Comunista del Vietnam, d'altro canto, non possono per legge aderire ad un credo religioso.

Vorremmo quindi ricordare a Massimo D'Alema, alle sue marce pro Ho Chi Minh, alla sua «esperienza formativa di grandissimo valore», le parole di Padre Gheddo: «Gli italiani che hanno appoggiato vigorosamente i vietcong e il regime comunista del Nord Vietnam sono in parte responsabili del disastro di un antico Paese, dal quale poi sono fuggiti circa un milione e mezzo di vietnamiti a rischio della vita (i boat people nel periodo 1975-1979). Quanti hanno fatto un sincero esame di coscienza per quella sbandata ideologica a spese di un popolo che si voleva aiutare?». Ha scritto il giornalista francese Jean Lacouture: «Dicevo quel che volevo credere, chiudevo volutamente gli occhi di fronte alla realtà dei fatti, per illudermi con le fantasie. Il nostro errore è stato applaudire alla violenza rivoluzionaria pensando che servisse a liberare l'uomo. Ma chiudevamo gli occhi e il cuore alle invocazioni di quelli che erano oppressi dalla rivoluzione». Anche Lacouture, come D'Alema, un tempo inneggiava ai vietcong. Lui si è pentito. D'Alema, evidentemente, no. (Ragionpolitica)

Etilterrorismo. Francesco Natale

Purtroppo non sembra passare giorno senza che la cronaca nera riporti stragi o omicidi colposi causati dall'ubriaco di turno che si è imprudentemente messo alla guida. Il problema sta effettivamente assumendo i connotati propri dell'emergenza sociale, per la frequenza con cui tali tragedie si verificano e - aggiungerei - anche per la sostanziale inadeguatezza della legislazione penale vigente in materia. Non tanto perché quest'ultima sia eccessivamente rigida e punitiva, quanto perché colpisce in via principale, se non addirittura esclusiva, il target sbagliato: si tratta di una legislazione che, per così dire, «fa la voce grossa» per poi risultare assolutamente inadeguata a prevenire il fenomeno criminale che si propone di contrastare.

Senza scadere in luoghi comuni o generalizzazioni discriminatorie, guardiamo i dati, per come sono riportati dalla stampa nazionale: nella quasi totalità dei casi due sono le categorie attivamente coinvolte nelle stragi stradali derivanti da abuso di alcol o altre sostanze che alterano la percezione. Gli extracomunitari da un lato, il «popolo delle discoteche» dall'altro. Non abbiamo finora mai letto nulla che riguardasse, seppur lontanamente, il «buon padre di famiglia» che, dopo una cena con moglie e figli, magari innaffiata da un paio di bottiglie di vino, abbia investito e ucciso qualcuno per poi darsi alla fuga. Stesso dicasi per il gruppo di amici che esce a cena in pizzeria o, come si usa in tante parti di Italia, fa il cosiddetto «aperitivo lungo», che prevede anche cena o buffet. Eppure proprio questi, tra gli altri, sono i comportamenti, alla luce dei fatti innocui dal punto di vista della sicurezza stradale, che la legge vigente sanziona con maggior severità, risultando, come sopra accennato, assolutamente inutile e non cogente nei confronti di quanti mettono realmente a rischio la vita propria e altrui.

Per quanto riguarda gli extracomunitari, parliamo soprattutto di quelli che non hanno raggiunto un adeguato livello di integrazione, spesso disoccupati e/o sprovvisti di permesso di soggiorno. A volte non hanno neppure la patente. Viene da chiedersi come sia possibile che possiedano un automezzo, eccettuate le ipotesi in cui quest'ultimo sia rubato o comunque appartenga ad un diverso proprietario. Non possiamo che prendere atto dell'esistenza di una gravissima lacuna nell'ambito del controllo a monte del fenomeno, che non può essere risolto esclusivamente con l'inasprimento generico e non specifico delle sanzioni a valle. Le ragioni per cui una certa tipologia di extracomunitario commetta con maggior frequenza reati come la guida in stato di ebbrezza sono numerose e non tutte imputabili, forse, al soggetto stesso. Spesso si tratta di persone che conducono una vita obiettivamente al di sotto di uno standard qualitativo decente, sfruttate dal punto di vista lavorativo (quelli che lavorano), sottopagate, incapaci per differenze linguistiche, culturali, comportamentali, di sviluppare una vita sociale di relazione che non comprenda esclusivamente marginali o altri extracomunitari con i medesimi problemi. Fatto salvo il principio non negoziabile della responsabilità personale, possiamo forse comprendere quanto sia facile, in situazioni borderline di questo tipo, cadere facilmente preda dell'alcol e manifestare di conseguenza un sentimento misto di menefreghismo (che importa mantenere un contegno responsabile quando si ha poco o nulla da perdere?) e di «superomismo» (l'alcol altera in maniera pesante la percezione).

Diverso il discorso per il «popolo delle discoteche», che spesso aggiunge agli effetti stordenti dell'alcol gli effetti «up» della droga, sia essa cocaina (diffusisissima) o altra sostanza chimica (allucinogeni o ecstasy). L'inadeguatezza dei controlli all'interno dei locali è da individuarsi come una delle prime cause delle cosiddette «stragi del sabato sera». La qualità scadente delle «materie prime» utilizzate in molti locali notturni per preparare cocktails, inoltre, contribuisce ad aumentare il rischio: per massimizzare i profitti spesso viene mescolato alcol non raffinato al contenuto originario delle bottiglie, magari di marche molto conosciute e pubblicizzate. Oltre ad integrare il reato di frode in commercio, questa pratica può danneggiare gravemente la salute del bevitore e, soprattutto, accelerare la manifestazione dello stupor alcolico. Anche da questo punto di vista i controlli antisofisticazione latitano.

I controlli a campione su strade ed autostrade svolgono solo una marginale, e sostanzialmente ignorata da parte delle «categorie a rischio», azione deterrente. I rilevamenti superficiali consentono di stabilire quale tasso alcolico sia presente nel sangue del guidatore, ma non se questo abbia o meno assunto sostanze psicotrope. Chi invece ha sviluppato un'eccessiva prudenza, che ormai sconfina nel «metus» vero e proprio, sono proprio le categorie di persone che, statisticamente, hanno avuto ed hanno un'incidenza pressoché nulla nelle stragi stradali causate da stato mentale alterato. L'emergenza sociale che stiamo vivendo in questo periodo è relativamente recente: l'Italia è un Paese che ha sempre vantato una cosiddetta «civiltà del bere», cosa che non ha mai causato, in passato, una crisi paragonabile a quella odierna. Perché?
Che cosa è cambiato nel volgere di pochi anni? A mio giudizio l'incapacità di gestire adeguatamente i flussi migratori è la causa maggiormente incidente, per le frizioni sociali che ha generato e sta generando. Dall'altro lato sono progressivamente mutate le modalità e le forme del divertimento giovanile, che, comunque, non possono essere stigmatizzate o censurate a priori.

Detto questo, l'attuale regime sanzionatorio, oltre a risultare totalmente inadeguato a contenere il fenomeno, sta cominciando a produrre danni indiretti a parte significativa del settore commerciale. Si tratta di una legislazione «civetta» figlia legittima del bolso perbenismo da un lato, della rigidità giacobina dall'altro. Una legislazione tipicamente «sinistra», se vogliamo, tutta forma e niente sostanza: l'establishment dimostra poco o punto interesse a risolvere il problema alla sua radice quanto più è interessato a dimostrare che sta facendo qualcosa. Come? Terrorizzando il cittadino comune, ovvio... (Ragionpolitica)

venerdì 19 ottobre 2007

Vai al dialogo. il Giornale

I titoli dell’Unità in questi giorni sono imperdibili. Siccome il comitato per il Partito democratico non conteneva nessuno sotto i 40 anni (e solo quattro persone nate dopo il 1950) dopo le Primarie l’imperativo era diventato questo: esaltare i giovani. Da qui i seguenti titoli: «Avere vent’anni e costruire un partito», «Un terzo giovani e metà donne: ecco il Pd». Poi però si sono accorti che gli under 35 erano solo 5-600 su 2840 seggi, sicché per recuperare hanno alzato la soglia e preso a contare i quarantenni che sono circa mille, un terzo sul totale. E allora cambio di titoli: «Splendidi quarantenni per la costituente», «La squadra nelle regioni: età media 45». Sempre più in alto. Gli altri titoli dell’Unità, ieri l’altro, scuoiavano Silvio Berlusconi perché non aveva prestato degna attenzione all’Evento delle Primarie: «Berlusconi dice no al dialogo», «Berlusconi da solo contro il Pd», «Berlusconi resta solo a picchiare duro». Ecco: a parte la singolarità di quel «solo», vediamo che sulla stessa prima pagina dove l’Unità invocava il dialogo, più in basso, spiccava la seguente definizione del governo Berlusconi: «Vero paradiso terrestre per evasori, mafiosi, esportatori di soldi sporchi e speculatori edilizi». Bravi, bello. Che aspetta Berlusconi a dialogare?

giovedì 18 ottobre 2007

Scempio primarie: le schede a Napoli sono da ricontare

Il caso Campania, cioè il vergognoso ritardo nella pubblicazione dei risultati definitivi delle primarie del Partito democratico, assume di ora in ora un aspetto sempre più grottesco e paradossale. Verrebbe da dire anche ridicolo, se non fosse per il rispetto dei 350 mila e passa elettori che domenica scorsa si sono recati ai seggi e che, per esprimere il voto, hanno dovuto addirittura versare un euro al partito: a tre giorni e passa dalla chiusura delle urne ancora non si conosce ufficialmente il nome del nuovo segretario regionale del Pd, né, tantomento, si hanno definitive certezze sui delegati all'assemblea regionale e a quella nazionale. Salvatore Piccolo, Eugenio Mazzarella e Sandro de Franciscis hanno rivolto un appello a Walter Veltroni affinché disponga il riconteggio delle schede. Ma occorre fare un passo indietro: martedì sera, i commissari inviati da Roma, Riccardo Tramontano e Vaio Balza, hanno sospeso i lavori dell'Ufficio tecnico provinciale di Napoli, scrivendo agli uffici della Capitale di aver ultimato la verifica del 90% dei seggi. Per i restanti non era possibile procedere per la mancata conoscenza «dell'allocazione dei verbali». Ieri mattina i componenti dell'Utap si sono spostati nella sede regionale in via Santa Brigida alla ricerca dei verbali mancanti o, in alternativa, per recuperare le tabelle di scrutinio. Nel pomeriggio, nella sede dell'Utar in via santa Brigida, si è visto anche Ciriaco de Mita che ha voluto rendersi conto personalmente della situazione. Fino a sera i membri dell'Utap sono stati riuniti per discutere il da farsi: si sono registrati scambi di opinione animati. C'era chi sosteneva che si dovesse procedere alla chiusura del quadro dei delegati all'assemblea nazionale, e altri che erano esattamente dell'avviso opposto. In serata, le operazioni sono riprese, ma a rilento. Intanto, dall'Ufficio tecnico nazionale hanno fatto sapere che «i risultati ufficiali, escluse Campania 1 e Campania 2, saranno resi pubblici il prima possibile ». Nel tardo pomeriggio il direttore dell'Utar Nicola Tremante ha precisato che «i dati mancanti riguardano 25 seggi di quartieri di Napoli e alcuni comuni della provincia. I quartieri sono Stella, Miano, San Pietro a Patierno, Scampia e Ponticelli. Tra i comuni Pozzuoli, San Giorgio a Cremano, Marano e Procida».
ROMA INVIA OLIVERIO — La tensione è cresciuta a tarda sera, quando si è appreso che da Roma era stato inviato a Napoli l'ex responsabile organizzativo della Margherita Nicodemo Oliverio, già protagonista, in occasione di passati congressi di partito, di violenti scontri polemici. Oliverio, di fede mariniana, non avrebbe ricevuto alcuna delega, ma il sospetto di un suo intervento normalizzatore ha finito per suscitare la reazione dei candidati che si sono contrapposti a Iannuzzi.
APPELLO A VELTRONI — Infatti, Salvatore Piccolo, Sandro De Franciscis ed Eugenio Mazzarella, tre dei quattro candidati alla segreteria regionale del Pd della Campania, hanno chiesto a Veltroni di disporre controlli sullo scrutinio ed il riconteggio di tutte le schede. In una dichiarazione congiunta i tre candidati parlano di «scempio in atto» riferendosi all'interruzione dello spoglio in Campania 1 e Campania 2. «Stante la perdurante confusione ed i clamorosi ritardi che a questa sera non hanno ancora consentito di conoscere i risultati facciamo appello al segretario nazionale Walter Veltroni ed ai leader nazionali dei partiti che si riconoscono nel nuovo soggetto del centrosinistra affinché voglia immediatamente disporre un accurato controllo sui verbali e il riconteggio totale delle schede elettorali tale da interrompere lo scempio in atto».» — Ieri pomeriggio, all'hotel Royal di Napoli, anche il candidato veltroniano di fede rutelliana, Sandro de Franciscis, ha convocato una conferenza stampa e ha annunciato di aver raggiunto «il 20% dei consensi. Per noi ha votato un elettore su cinque— ha detto — e non capisco come ci si possa proclamare vincitore prima che i dati ufficiali siano noti».
RUTELLI: VERIFICARE LE RESPONSABILITA' — De Franciscis ha anche reso pubblica, al termine della conferenza stampa, la lettera di solidarietà inviatagli dal vicepremier Francesco Rutelli: «È molto importante — scrive Rutelli — che il Partito democratico in Campania nasca sulla base delle idee e dei programmi innovativi esplicitati nel documento di Vietri ‘‘un nuovo inizio'' e che oggi più che mai costituiscono i temi all'ordine del giorno del nostro impegno in Campania. Caro Sandro, mi unisco al tuo rammarico per i problemi legati alla fase dello spoglio che non è stata gestita in modo adeguato, tanto che solo oggi, a distanza di tre giorni dal voto stiamo conoscendo i primi risultati ufficiali. Auspico che non appena saranno concluse le operazioni di scrutinio e di verifica dei dati si verifichino le responsabilità di queste disfunzioni: un segnale di trasparenza che dobbiamo alle centinaia di migliaia di cittadini che domenica scorsa hanno deciso di recarsi al seggio per dare vita al Partito Democratico. La Campania può e deve accelerare il cambiamento. C'è bisogno di un rilancio dell'azione di Governo a tutti i livelli, da quello centrale a quelli territoriali, tale da produrre in tempi rapidi effetti benefici per quei settori che da tempo vivono una situazione di crisi e difficoltà, che si ripercuote in maniera inaccettabile sulla vita dei cittadini. È per questo che avete voluto dare vita al progetto dei riformisti coraggiosi».
Angelo Agrippa, Gimmo Cuomo (Corriere del Mezzogiorno)

mercoledì 17 ottobre 2007

Gli Ogm sono già tra noi, sbagliato demonizzarli. Paolo Scarpa Bonazza Buora

Il dibattito-disputa sull'utilizzazione e perfino sulla ricerca e sperimentazione degli OGM in agricoltura dura da molti anni. In genere posizioni radicali e poco motivate. Peccato, dato che sarebbe utile portare la discussione sul terreno del ragionamento.

Mi occupo di politica agraria fin da ragazzo, lo faccio in Forza Italia sin dalla fondazione ed ho ricoperto incarichi di governo; quindi spesso mi ritrovo a fronteggiare posizioni estreme. Ho ricevuto attacchi che non mi hanno condizionato. Sono in grado di esprimere in pillole la mia opinione:

1) Molti grilli parlanti pro e soprattutto contro gli OGM non li conoscono; ripetono fruste litanie e pre-giudicano;

2) Non tutti sanno che importiamo quantità ingenti di commodities, specie soia, e che dunque mangiamo anche in Italia OGM e loro derivati;

3) Abbiamo recentemente riformato la PAC( politica agricola comunitaria) in senso più liberista e compatibile con le regole della WTO; per questo motivo il potenziale produttivo dell'agricoltura europea è calato e quindi le importazioni di OGM cresceranno;

4) Ciò perché i grandi Paesi produttori di commodities fanno larghissimo uso di OGM: aumentare le importazioni equivale ad aumentare gli OGM che mangiamo;

5) Paesi entrati di recente nell' UE utilizzano gli OGM ed altri nostri vecchi partners si stanno gradualmente convertendo alle tecnologie più attuali; il mercato UE è unico, la PAC è unica: occorre dunque assicurare pari condizioni di partenza per tutti gli agricoltori europei;

6) Il mercato premia gli OGM free?Pare proprio di no. Al Chicago Board le quotazioni del mais, della soia, del riso e del colza biotecnologici sono più alte di quelle del prodotto nazionale fissate a Milano ed in ogni Borsa merci italiana. Ma il nostro prodotto è rigorosamente OGM free.

7) Ciò accade perché il mercato se ne infischia delle pregiudiziali ideologiche nostrane e segue la legge della domanda e dell'offerta. La domanda è in crescita strutturale perché Cina,India, ed altri importanti Paesi hanno aumentato il fabbisogno.Inoltre la domanda di commodities per la produzione di bioetanolo è crescente;

8) Perché dunque vietare la produzione biotech anche per l'industria bioenergetica? Mica lo bevi l'etanolo;

9) Nessuno ha mai dimostrato che gli OGM siano nocivi per la salute umana; semmai è certo che con gli OGM si annulla o si riduce l'utilizzo di sostanze chimiche potenzialmente dannose. Inoltre si evita nello stoccaggio la formazione di tossine cancerogene;

10) Vero è che la ricerca e la produzione delle sementi OGM è sostanzialmente americana. Comprendo che a Mario Capanna,Carlin Petrini e compagni questo aspetto possa non piacere. Piuttosto che ululare contro l'imperialismo USA mi parrebbe più costruttivo favorire la ricerca e la sperimentazione europee ed italiane. In Italia si fa l'esatto contrario, si bloccano ricerca e sperimentazione e si minacciano di licenziamento i ricercatori degli Istituti che provano timidamente a fare il loro mestiere;

11) E' assolutamente vero che l'agricoltura italiana ha caratteristiche e prospettive dominate dalla qualità. E la qualità si raggiunge non solo nei prodotti di nicchia; diversamente sarebbe una qualità di nicchia, una "qualità per fighetti", e ciò contraddirebbe le pulsioni sociali di quanti ogni giorno fanno proclami politici sulla qualità. Ma se la qualità per noi è un must, allora mi parrebbe ovvio elevare i suoi livelli, per esaltare le nostre specificità. Ciò si può fare con una ricerca applicata alla realtà agricola ed agroalimentare italiana. Il miglioramento genetico delle piante e degli animali ha una storia luminosa nel nostro Paese; Padre Gemelli ed il Prof. Malliani usavano le tecnologie della loro epoca, ma è arrivato il tempo di passare dalla carriola almeno all'automobile, pur nella consapevolezza che gli altri sfrecciano in jet;

12) Occorre assicurare coesistenza fra agricoltura convenzionale,biotecnologia e biologica. E' possibile anche in Italia.Sono ovviamente per la tolleranza zero per la presenza accidentale OGM in agricoltura biologica. Occorre controllare ben di più il biologico, talora truffaldino;

13) Etichettatura:la voglio chiara per informare correttamente il consumatore che deve poter scegliere liberamente. Esattamente come l'agricoltore o l'industria alimentare.

14) Principio di precauzione: la sicurezza alimentare è diritto fondamentale. Ma tale principio non può essere artatamente invocato, bensi' applicato con rigore scientifico.

Rinvio ad altra data altre considerazioni.

Un'ultima questione. Esiste un grave deficit di comunicazione sul punto. Gli anti OGM hanno un esercito di generali, opliti e media. I pro OGM vivacchiano nella clandestinità. Nella nostra epoca ciò che è giusto, se comunicato in modo sbagliato, è sbagliato. E la politica si regola di conseguenza, con poche eccezioni. Stupisce quanto l'industria biotech e il mondo scientifico non sappiano comunicare e si facciano travolgere dal conformismo e dall'ignoranza in un oceano di pummarola biologica. (l'Occidentale)

Dal 1998 al 2007. La storia si ripete. Gianteo Bordero

L'altra volta, nel 1998, gli diedero il benservito di schianto, facendogli cadere il governo dopo una drammatica votazione alla Camera e sostituendolo pochi giorni dopo con uno dei loro a Palazzo Chigi. Stavolta hanno deciso di indorare la polpetta avvelenata, di procedere gradualmente senza strappi improvvisi, di ammantare con quanto più velluto possibile la loro strategia. Ma la sostanza, da allora ad oggi, non è cambiata: i due azionisti di maggioranza del Partito Democratico, Massimo D'Alema per i Ds e Franco Marini per la Margherita, non si fidano fino in fondo di Romano Prodi; sono preoccupati per i riflessi negativi che la sua gestione del governo produce sui partiti che essi rappresentano; soprattutto, vedono come fumo negli occhi la concezione prodiana del Pd come «partito di cittadini» oltre gli apparati, come elisione totale delle identità e delle storie politiche di provenienza, come «ulivismo puro» senza mediazione partitica.

Per questo hanno accettato di bere l'amaro calice della scomparsa delle sigle in cambio di un piatto ben più succulento: tenere in mano il pallino del Pd sottraendolo al Professore, gestendo alla vecchia maniera la formazione delle liste e la cooptazione della futura dirigenza, lanciando la candidatura di Walter Veltroni, di fatto, come candidatura dei partiti. Così anche lo scaltro sindaco di Roma, un tempo ulivista convinto e spalla di Prodi nella campagna elettorale del ‘96 e poi nel primo governo del Professore, si è di fatto riposizionato sul versante dei suoi avversari di un tempo, legittimandone la strategia e ponendosi in (più o meno aperta) concorrenza col presidente del Consiglio. Il quale, sospettoso com'è e memore dell'esperienza passata, ben comprende la direzione in cui vanno le mosse dei suoi «alleati» e cerca perciò di limitare i danni.

Domenica sera, ad esempio, dopo la chiusura dei seggi delle primarie, a Piazza Santi Apostoli ha tentato di rubare la scena al neo-eletto segretario, tenendo prima un discorso di commento al risultato della votazione e poi prendendo - lui solo - la parola nel momento in cui si sono ritrovati davanti alle telecamere i cinque candidati alla guida del partito. Il Professore, nei suoi due interventi, ha ribadito fino alla nausea che il Pd, da un lato, realizza il sogno per cui lui era sceso in campo undici anni fa, e, dall'altro, rafforza l'azione del suo governo. Prodi è senz'atro cosciente del fatto che le cose non stanno in questi termini. Sa benissimo, cioè, in primis che il Partito Democratico che sta prendendo forma assomiglia soltanto lontanamente a quello che egli immaginava e per cui si è speso in questi anni; e poi sa che una leadership (forte) di partito come quella di Veltroni non potrà che creare attrito con la sua leadership (debole) di governo e proiettare il Pd oltre le sorti dell'esecutivo attuale. Due dati, questi, confermati dal fatto che nei suoi discorsi post-primarie il presidente del Consiglio non ha citato neppure una volta il sindaco di Roma, segno, nonostante i sorrisi e le belle parole di circostanza, di un evidente disagio e di un pesante clima di tensione destinato ad aumentare col passare del tempo.

Ancora una volta dunque, come già accadde nel 1998, sembra che la vicenda politica di Romano Prodi e dell'ulivismo duro e puro venga contrastata proprio da coloro che, sempre con una operazione di vertice, hanno «creato» la figura politica del Professore come unica in grado di opporsi al centrodestra e a Silvio Berlusconi. Si è detto, in tutti questi anni, che uno dei punti deboli di Prodi consisteva nel fatto che egli non aveva un partito alle spalle ed era, per questo, in balia dei partiti che lo avevano elevato al rango di leader del centrosinistra. Ora, è evidente che il Pd che nasce non è il partito di Prodi, e se una lezione si può trarre dalle primarie di domenica è che, nei corsi e ricorsi della storia politica italiana, la forma partito rimane, al netto di tutto, con i suoi pregi ed i suoi difetti, l'unica in grado di garantire a una leadership la possibilità di durare nel tempo e di essere il motore di una buona politica di governo. Il contrario, cioè, di quanto è accaduto e sta nuovamente accadendo nel caso di Romano Prodi. (Ragionpolitica)

martedì 16 ottobre 2007

Accorato appello di un elettore di centrodestra: non fatemi morire democratico! Milton

Ebbene abbiamo avuto le nostre lezioncine di democrazia: prima la farsa del referendum sindacale dove i lavoratori hanno detto no, ma hanno vinto i si perché ormai i sindacati rappresentano solo i garantiti, pensionati e fannulloni della funzione pubblica; poi il plebiscito (à la Chavez) del candidato unico alla segreteria del Partito Democratico (con Letta e Bindi protomartiri e Bersani messo in condizioni di non nuocere), deciso dal Corriere della Sera e dai dirigenti dei partiti, con liste d’apparato e VIP al seguito. In entrambe le situazioni, nel caso in cui gli spasmi democratici fossero incontrollabili, era possibile votare ripetutamente in vari seggi, includendo prole e badante rumena.

Abbiamo sopportato mesi di campagna elettorale, con tanto di garanzia e supervisione della AGCOM, nella quale l’uomo nuovo ci ha fatto sapere – con tutta la pacatezza possibile, ci mancherebbe - che si è vero, ci vuole più sicurezza, bisogna diminuire le tasse e la spesa pubblica, si è vero, l’età pensionabile va innalzata pesantemente, ci vuole un patto tra generazioni. Sembrava il programma della CdL alle scorse elezioni e sono stato tentato di farmi la fila con Afef e la banda di Zelig, al gazebo sotto casa. Ma poi l’uomo nuovo, con la solita piroetta semantica di cui è maestro, ci ha detto che appoggia incondizionatamente il Governo Prodi che nel frattempo taglia le risorse alla sicurezza, alza le tasse e la spesa pubblica, abbassa l’età pensionabile e ne fa pagare i costi ai giovani parasubordinati alla faccia del patto fra generazioni.

Sono mesi e mesi che il presente e, peggio, il futuro del Paese è in mano alle paranoie ambientaliste di Pecoraro Scanio (visti i tempi, prossimo candidato al Premio Nobel per Chimica), al terrore tributarista di Visco, all’estasi estetica della tassazione di Padoa Schioppa e alla schizzofrenia luddista della CGIL. Sono usciti deliquenti dalle carceri perché non c’era posto (?), per poi scoprire che i reati aumentano vertiginosamente e negli istituti penitenziari mai inaugurati albergano immigrati autosponsorizzati grazie alle intuizioni della strana coppia Amato-Ferrero. Generali della Guardia di Finanza destituiti, membri non graditi del CdA Rai costretti alle dimissioni, componenti della Corte Costituzionale che decidono di andarsene, il tutto all’interno di una occupazione di potere senza precedenti.

Insomma, il centro sinistra se la canta e se la suona, con il risultato che l’opposizione è sparita dal dibattito politico e i valori e le idee della maggioranza reale del Paese occupano spazi sempre più ridotti. Si ha l’impressione che questa maggioranza non sia più rappresentata, che le istanze che questa parte di Paese rappresenta riposino in un cassetto in attesa che qualcosa, ma non è chiaro che cosa, accada.

Ma il Governo non imploderà, come forse si tende a pensare. Tra finanziarie elettorali, stampelle di sostegno (ma si può dire?), corporazioni amiche, si darà tempo a Veltroni di organizzare il PD, raccattare qualche contenuto pacatamente riformista (magari copiandolo dal programma della CdL), rabbonire l’amico Mussi, e studiare, ecumenicamente, una desistenza costruttiva con la sinistra radicale. Fatto ciò – non importa con quale legge elettorale - si potrà andare a votare e il rischio di trovarsi Veltroni a Palazzo Chigi, magari per due legislature (à la Blair), è più che reale. Non dimentichiamo che cosa è riuscito a fare a Roma, trasformando il nulla in successo, il clientelismo in modello Roma, generando un plebiscitarismo pervasivo e frustrante. Non dimentichiamo che chi controlla manu militari la finanza italiana era in fila ai gazebo, domenica scorsa, con il Corriere della Sera in mano, in modo da seguirne attentamente le indicazioni di voto. La maggioranza reale del Paese non vuole moririe democratica. E’ pronta a qualunque tipo di adunata, basta un segnale. Che qualcuno batta un colpo. (l'Occidentale)

Forze Italie. il Foglio

I circoli di Dell’Utri entrano nel partito con la benedizione del Cav. MVB? Osserva, “per ora”.

E’ il primo effetto (esplicito) del brambillismo su Forza Italia. Il senatore Marcello Dell’Utri, padre dei circoli del Buon governo, porta la sua creatura di giovani liberali nel palazzo azzurro. “Diventiamo un’anima di Forza Italia”, spiega al Foglio il senatore. E infatti domani parlerà ai suoi ragazzi al teatro Quirino, a Roma. Annuncerà la novità, in previsione del prossimo Convegno nazionale di Montecatini: a novembre i circoli saranno una corrente del partito. Dunque tra meno di un mese il Cav. in persona, ospite al congresso, metterà il sigillo sull’intera operazione. Così l’appuntamento immancabile della gioventù forzista, fino a ieri tacciato di frivolezza, potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova fase per Forza Italia e il “collateralismo” dei movimenti. Sandro Bondi, il coordinatore nazionale, coniò la metafora del grande fiume (Forza Italia) e degli affluenti (i circoli) per spiegare il rapporto tra il partito e l’associazionismo. Adesso il fiume si allarga e un affluente scompare. Che sia il futuro anche del brambillismo? “Dopo anni di lavoro e penetrazione fin nei più profondi comuni del paese abbiamo deciso di farci sentire”, dice Marcello Dell’Utri. Che aggiunge: “Se Michela Vittoria Brambilla vorrebbe rappresentare qualcosa ‘fuori’, noi vogliamo rappresentare qualcosa ‘dentro’”. E l’uso del condizionale rivolto alla rossa MVB non è certo casuale, ché con la Michela Vittoria non corre più buon sangue. Almeno da quando, a maggio, al teatro Manzoni di Milano, Dell’Utri sancì che le loro strade si dividevano: d’ora in poi ognuno per sé, Silvio per tutti. I giovani forzisti dei circoli dellutriani dicono che il senatore all’inizio si era un po’ “scocciato che MVB si prendesse i meriti di un’opera che lui porta avanti da sette anni”. D’altra parte ci sono maligni anche tra i brambilliani. Spiegano che la decisione del senatore deriverebbe dal poco spazio che “ormai la nostra Michela Vittoria lascia libero. Perché – esplodono entusiasti – i nostri circoli sono i più numerosi e i più attivi”. Così Dell’Utri avrebbe “tirato fuori dal cilindro la trovata di trasformare la sua creatura” in un’area ufficialmente integrata in Forza Italia. Chi di politica forzista s’intende, a Roma e nel Palazzo, spiega però che “con questa mossa” il peso del senatore palermitano potrebbe aumentare. “Avrà un potere decisionale su alcune liste – spiegano – e non è cosa da poco”. E MVB? “Lei non ha bisogno di entrare in Forza Italia. Per adesso – dice un deputato berlusconiano – se la vuole mangiare