sabato 31 agosto 2013

Berlusconi: «Sentenza fondata sul nulla»

di Giorgio Alfieri
31 agosto 2013

È una «'sentenza allucinante e fondata sul nulla». Così ai microfoni di "Studio Aperto" Silvio Berlusconi torna a commentare la sentenza di condanna in Cassazione per la vicenda Mediaset. «Oltre ai problemi economici c'è una posizione di fondo che non si può mettere tra parentesi e non è il mio caso, il caso Berlusconi, ma è il caso della democrazia in Italia - continua -. Se qualcuno pensasse di poter eliminare con un voto parlamentare, contrario peraltro al parere di autorevoli giuristi, il leader del primo partito italiano, cioè il sottoscritto, e questo venisse fatto sulla base di una sentenza allucinante e fondata sul nulla, allora ci ritroveremmo davvero in davanti a una ferita profonda e inaccettabile della nostra democrazia», osserva Berlusconi, parlando del nodo della sua decadenza da senatore in vista del voto in Giunta per le elezioni del 9 settembre prossimo.

«Io credo - assicura il Cavaliere - che milioni di italiani non lo consentiranno». Franco Coppi, Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Berlusconi, scrivono in una nota: «Nella fretta di voler confermare la sentenza emessa a Milano la Corte di Cassazione, con una motivazione inesistente che altro non è se non un collage delle precedenti decisioni, non ha, con ogni evidenza, tenuto conto alcuno delle reali risultanze probatorie e delle conclamate violazioni del diritto di difendersi provando». «Mai il Presidente Berlusconi - si legge nella nota dei legali del Cavaliere - ha avuto incarichi in Mediaset. Mai il Presidente Berlusconi si è occupato degli acquisti dei diritti televisivi.
Mai il Presidente Berlusconi si è occupato degli organigrammi societari che fra l'altro sono continuamente cambiati nel corso degli anni.

Mai il Presidente Berlusconi ha avuto alcun ruolo nelle denunce dei redditi o nelle scelte operative in particolare quelle finanziarie». ĚSi ricordi fra l'altro che la contestata evasione fiscale è pari a poco più dell'1% delle imposte pagate che negli anni oggetto di contestazione hanno superato i 560 milioni di euro. Tutti i testimoni, nessuno escluso, hanno confermato tali situazioni, soprattutto dopo la discesa in politica del presidente Berlusconi nel 1994». «Nessun fondo estero è mai stato rinvenuto, né poteva esserlo perché mai vi è stato. Tutti i denari derivanti dalle plusvalenze sui diritti televisivi rimanevano in capo ad Agrama e agli altri operatori del settore e ciò risulta dagli atti». «Così come risulta che Agrama - proseguono i legali di Berlusconi- pagasse sistematicamente i dirigenti del settore acquisti dei diritti di Mediaset.

Ciò avveniva ovviamente senza che alcunché di ciò fosse noto alla dirigenza o al presidente Berlusconi». «Del resto se il presidente Berlusconi fosse stato socio occulto di Agrama mai avrebbe consentito che questi pagasse i dirigenti Mediaset a cui sarebbe stato sufficiente una precisa indicazione per convincerli agli acquisti». «È quindi una decisione del tutto fuorviante e totalmente sconnessa dalla realtà dei fatti. Trattandosi poi di una decisione della Corte di Cassazione, la sentenza è ancora più deludente sul piano strettamente giuridico nella misura in cui non ha dato ragionevoli risposte agli argomenti proposti dalla difesa a dimostrazione della impossibilità di configurazione in punto di diritto del reato contestato al Presidente Berlusconi». (l'Opinione)
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31 agosto 2013

Quel tono di Ezio Mauro nell’editorialuccio di ieri, provate a scusarmi, ognuno ha le sue fisse, e so benissimo che devo farmi passare quella dei direttori di Repubblica, quel tono, dicevo, non soltanto sembrava vagamente coglione, suonava come quello di un diseducatore banale, classico, il peggiore. Parlava di Berlusconi, tanto per cambiare. E chiariamola subito: non è in discussione il suo diritto a ritenerlo colpevole o colpevolissimo, diabolico o diabolicissimo, orrendo e orrendissimo. Questi erano, e sono, precisamente cazzi suoi. A infastidire, e a rimbalzare farlocco, era piuttosto quel modo suo di baloccarsi con l’innocenza. Di esibire l’innocenza delle persone per bene a fronte dell’infamia altrui. L’innocenza addirittura, badate, non l’onestà, che in genere è appartata. Così appartata che pure lui, infatti, la appartò in occasione di un bell’appartamento.

Più che partiti sembrano comitive. Marcello Veneziani

Se cerchi di capire la politica italiana tramite le immagini dei tg hai l'impressione che non si faccia più tramite i partiti o le correnti, ma le comitive


Vedi ogni giorno in video varie comitive: quella del governo, col caporione e il vicecaporione che parlano a nome del gruppo e spupazzano ministre e ministrelli; poi la comitiva del Pd che si concede ai fotografi solo quando sta per entrare nel tempio del Partito, dopodiché le immagini sono proibite come nelle moschee e nei lupanari; la sottocomitiva di Matteo Renzi, che sfighetta in testa al suo gruppo ma vaga per marciapiedi come se non avesse fissa dimora; la comitiva dei berlusconiani, divisa in falchi e colombe, barboncini toy e pitonesse, sempre in procinto di andare da Berlusconi, sia nei banchi del Parlamento che ad Arcore; chi in auto, chi in trenino da festino, chi a piedi, taluni in ginocchio. Infine la comitiva dei grillini in cui uno urla e gli altri ascoltano, sghignazzano, fanno tappezzeria, come le stelle dei presepi. Più vari randagi.

I legami delle suddette comitive sono sempre meno politici e tantomeno ideologici, e sempre più da combriccola, da bar e da passeggio. La comitiva più particolare resta quella dei ministri, simile ai fischioni: come le anatre omonime, i ministri fischioni si muovono in stormo, sono gregari, monogami, col becco corto, da cui emettono un grido tipico (imu-imu), hanno l'aspetto grigio e tendono a somigliarsi quando stanno insieme. Sono teneri a vedersi, i fischioni. Ma ora si apre la stagione della caccia. (il Giornale)

martedì 27 agosto 2013

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27 agosto 2013

Alla mia età non sono obbligato a stare al passo con i tempi. Però anche i tempi, con l’età che hanno, potrebbero far meno i cazzari. Noti Renzi, le rottamateur, farsi strada nella boscaglia con D’Alema e Veltroni armati di machete. Mentre Gasparri e soci, quelli che solo a sentir nominare il signor Gozzini l’avrebbero sbattuto a Sing Sing (perché se uno metteva il naso fuori dal carcere era solo per stuprare la tua mamma), esibiscono le stimmate dell’amnistia. Vedi quelli come Gad (che se uno stuprava la tua mamma la colpa era tutta tua che non gli avevi dato ancora l’amnistia), i quali, ora che gli fa schifo uno, non la vorrebbero più per nessuno. Leggi perfino di Asor Rosa lanciato nell’orgogliosa riconquista della superiorità morale dell’homo de sinistra e ti domandi, a quel punto: ma quanti sono gli infelici cui quel sant’uomo di Ciccio primo dovrà fare una telefonata?

domenica 25 agosto 2013

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25 agosto 2013

“Sono strafavorevole a un’amnistia. Favorirebbe B.? E chi cazzo se ne frega”. Così scrive su Facebook Frank Cimini, cronista giudiziario certo non berlusconiano. Sono completamente d’accordo, anche su una certa icasticità che diviene inevitabile quando le questioni si esasperano. E diventa esasperante anche il dibattito da azzeccagarbugli che si sta sviluppando nella disperata ricerca di una via d’uscita legale alla incresciosa situazione in cui è venuto a trovarsi il Cavaliere. Non c’è, semplicemente non c’è. Anzi la ricerca finisce per offrire argomenti validi perfino a Travaglio quando nota come il Pdl abbia entusiasticamente votato la legge Severino che ora ritiene sentina di ogni incostituzionale ambiguità possibile. Stucchevole sull’altro fronte il tentativo di trovare giustificazioni per negare la possibilità della grazia presidenziale. Intanto perché il presidente ha fatto capire in tutti i modi che non ci pensa neppure e poi perché molte argomentazioni sono risibili. “Deve ammettere la sua colpevolezza”. Ma quando mai. Massimo Carlotto si è sempre proclamato innocente eppure fu graziato. “Deve comunque scontare una congrua parte della pena”. Pertini graziò Pasquale Squitieri per evitare di mandarlo in carcere per una vecchissima pendenza. Dunque neanche questo è vero. Più rispettabili gli estimatori di Berlusconi che pongono il problema in termini direttamente politici. Anche se a me quello che convince di più è il compagno Frank.
di Massimo Bordin@MassimoBordin

Le 10 bugie del Fatto Quotidiano sulle Riforme Costituzionali

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Da qualche giorno sul sito internet del Fatto quotidiano campeggia un banner, «Costituzione, non vogliamo la riforma della P2». È un boicottaggio – loro lo chiamano «appello» – del processo di riforma costituzionale intrapreso dal Governo Letta. Il titolo, inequivocabilmente cospirazionista, alimenta quella retorica del «colpo di Stato» evocata da Beppe Grillo e da altri spezzoni della sinistra più conservatrice, che sproloquiano su oscure centrali di potere politico-economico che influenzerebbero il premier e i membri dell’esecutivo. In verità, sono decenni che in Italia si parla di riformare la Costituzione e il Governo Letta sta finalmente passando ai fatti nel tentativo di modernizzare le nostre istituzioni. Se le vestali della «costituzione più bella del mondo» si stracciano le vesti, pazienza, ce ne faremo una ragione. Come diceva Kennedy, qualunque cosa tu faccia un 20 per cento sarà sempre contro. L’importante – aggiungiamo noi – è che il restante 80 non sia disinformato. Ecco perché vogliamo ribattere, punto per punto, alle “10 bugie” dell’appello promosso dal Fatto quotidiano sulle riforme.

1) “Ignorando il risultato del referendum popolare del 2006 che bocciò a grande maggioranza la proposta di mettere tutto il potere nelle mani di un “Premier assoluto” è ripartito un nuovo e ancor più pericoloso tentativo di stravolgere in senso presidenzialista la nostra forma di governo, rinviando di mesi la indilazionabile modifica dell’attuale legge elettorale.
Falso. Se i contenuti della riforma non sono stati ancora decisi, come si fa prefigurarli? Al Fatto Quotidiano hanno per caso la palla di vetro? Nessuno ha mai parlato di «premier assoluto». Il problema se mai è razionalizzare la nostra forma di Governo, che ormai da decenni è assolutamente debole. Con il sistema attuale, i Governi sono sempre esposti alle incursioni e agli agguati dei partiti e delle forze parlamentari generando una perenne instabilità politica. Per ovviare a questa situazione, in prospettiva, sarebbe utile guardare a opzioni come il “premierato forte” e il semipresidenzialismo. Ma le vestali della Costituzione fingono di ignorare che il presidenzialismo è una importante modello di Governo, legittimo e democratico, applicato con successo in molti Paesi del mondo, dove ha dato risultati eccellenti, per esempio nel caso del semipresidenzialismo francese. Di questìultimo ha parlato il ministro Quagliariello e anche Walter Veltroni nel suo ultimo libro non ha escluso una riforma in tale direzione. In ogni caso, parliamo di ipotesi e di proposte. Il solo evocarle «stravolge» i custodi sacri della Carta? Per quanto riguarda poi la legge elettorale, se davvero volessimo un Paese più stabile la legge elettorale dovrebbe per forza di cose essere coerente con la più generale riforma delle istituzioni e della forma di governo. Naturalmente tale considerazione non esclude che si possa intervenire subito sul Porcellum, correggendolo e modificandolo. La legge vigente è sotto il giudizio della Corte Costituzionale, che prenderà una decisione entro il 3 di dicembre.

2) In fretta e furia e nel pressoché unanime silenzio dei grandi mezzi d’informazione la Camera dei Deputati ha iniziato a esaminare il disegno di legge governativo, già approvato dal Senato…

Falso. In fretta e furia? Nel precedente più simile a quello che oggi stiamo vivendo, cioè la Legge costituzionale n. 1 del 1997, che istituiva la Commissione D'Alema, il Parlamento concluse il proprio esame in prima lettura in soli nove giorni. Oggi – e sempre ammesso che si riesca ad approvare definitivamente alla Camera il testo entro domenica 8 settembre, come concordato in sede di Conferenza dei presidenti di gruppo – si impiegherebbero 57 giorni: un tempo pari al 633,3 per cento in più rispetto al caso precedente.

3) …di revisione dall’articolo 138, che fa saltare la “valvola di sicurezza” pensata dai nostri Padri costituenti per impedire stravolgimenti della Costituzione.

Falso. Le garanzie dell’articolo 138 vengono non solo rispettate ma anche arricchite. In particolare il ddl costituzionale prevede che possa essere richiesto il referendum confermativo anche nell'ipotesi in cui si sia raggiunta o superata la maggioranza dei due terzi in seconda deliberazione delle Camere. E’ questo l’elemento di rafforzamento delle garanzie democratiche più importante e innovativo introdotto nel ddl costituzionale. La riforma potrà essere comunque sottoposta al referendum! Se volesse, l’attuale maggioranza avrebbe infatti i numeri per approvare, da sola, la riforma, senza ricorrere alla consultazione popolare. Con il ddl si è voluto offrire uno strumento ulteriore di tutela delle opposizioni. Per dirla tutta, se M5S vorrà il referendum nessuno sta tramando per negarglielo, anzi. La garanzia del voto popolare, di un voto utile ad aumentare la possibilità di difesa della Costituzione, viene esaltata.

4) Chiudere, a ridosso delle ferie estive, la prima lettura del disegno di legge costituzionale, impedisce un vero e serio coinvolgimento dell’opinione pubblica nel dibattito che si sta svolgendo nelle aule parlamentari.
Falso. Non è stato chiuso un bel niente, la prima lettura del ddl costituzionale si chiuderà a settembre. Il vero coinvolgimento dell’opinione pubblica d’altra parte non dovrebbe avvenire adesso, quando ancora siamo alle prime schermaglie parlamentari sulle procedure, bensì quando le Camere saranno chiamate ad entrare nel merito delle proposte per votarle. Tirare in ballo adesso l’opinione pubblica è un’operazione politica strumentale, significa alzare un polverone preventivo sulle riforme con l’obiettivo non dichiarato di boicottarle. Ad ogni modo, sempre pensando al coinvolgimento diretto dei cittadini, il Governo ha creato uno strumento all’avanguardia – la consultazione pubblica sulle riforme costituzionali (www.partecipa.gov.it) – che dà la possibilità a chiunque voglia informarsi di esprimere la sua opinione sulla riforma. Questa “apertura”, del Palazzo verso la società, continuerà in autunno coinvolgendo il mondo delle scuole e delle università italiane. Di che “impedimenti” stiamo parlando?

5) In secondo luogo vi chiediamo di restituire al Parlamento e ai parlamentari il ruolo loro spettante nel processo di revisione della nostra Carta costituzionale. L’aver abbandonato la procedura normale di esame esplicitamente prevista dall’articolo 72 della Costituzione per l’esame delle leggi costituzionali, l’aver attribuito al Governo un potere emendativo privilegiato, l’impossibilità per i singoli parlamentari di sub-emendare, le proposte del Governo o del Comitato, la proibizione per i parlamentari in dissenso con i propri gruppi di presentare propri emendamenti, le deroghe previste ai Regolamenti di Camera e Senato, costituiscono altrettante scelte che umiliano e comprimono l’autonomia e la libertà dei parlamentari e quindi il ruolo e la funzione del Parlamento.

Falso. Il ruolo del Parlamento nel processo costituente resta centrale. Come ha osservato Massimo Luciani su L’Unità, due sono i principi fondamentali dell'articolo 138 che non possono e non devono essere violati: la tutela delle minoranze e l'attribuzione dell'ultima parola al popolo con il referendum costituzionale. Ebbene – è sempre Luciani che parla – il disegno di legge tanto criticato non solo rispetta, ma conduce a sviluppo coerente quei due principi: da una parte, tutela maggiormente le minoranze, perché costituisce un Comitato parlamentare composto in proporzione non solo dei seggi, ma dei voti ottenuti; dall'altra, consente in ogni caso il referendum (come abbiamo già ricordato). Il professor Mario Dogliani ha affermato, testualmente, che lo scopo del disegno di legge non è quello di avviare «un procedimento nemico della Costituzione» bensì di apportare minimi correttivi al procedimento dell'articolo 138, al fine di realizzare un giusto bilanciamento tra la rigidità del processo costituzionale e le esigenze di un esame parlamentare agile, snello e, per il possibile, rapido. Nello specifico:
- è falso che sia stata abbandonata la procedura prevista dall’articolo 72, perché il ddl costituzionale conferma la procedura normale di esame e di approvazione da parte delle Camere;
- è falso che il Governo ottenga un ‘potere emendativo privilegiato’, il potere è sempre quello previsto dai regolamenti parlamentari. Deputati e senatori mantengono il loro diritto di avanzare emendamenti ma con l’obbligo di presentarli preventivamente al Comitato (come accade già con la Legge di stabilità e i collegati). Obiettivo in questo caso non è quello di comprimere le funzioni parlamentari ma di razionalizzare l’attività delle aule e delle commissioni. In ogni caso l’Aula potrà comunque rivotare sugli emendamenti presentati;
-è vero che i parlamentari non possono sub-emendare, ma non è una novità. Nei regolamenti parlamentari vigenti, i subemendamenti ai disegni di legge possono essere presentati quando si è raggiunto un certo quorum di parlamentari.

6) Vi chiediamo ancora che i cittadini possano liberamente esprimere il loro voto su progetti di revisione chiari, ben definiti e omogenei nel loro contenuto. L’indicazione generica di sottoporre a revisione oltre 69 articoli della Costituzione, contrasta con questa esigenza e attribuisce all’istituendo Comitato parlamentare per le riforme costituzionali indebiti poteri «costituenti» che implicano il possibile stravolgimento dell’intero impianto costituzionale.

Falso. Non c’è nessun potere costituente, c’è solo una ragionevole uso del potere di revisione costituzionale, come molti autorevolissimi costituzionalisti hanno confermato, tra cui i 42 Esperti (compresi 3 ex presidenti della Corte costituzionale) che compongono la Commissione nominata dal Governo per istruire i contenuti della riforma. Il ddl costituzionale prevede come garanzia che i cittadini possano esprimersi su disegni di legge omogenei e definiti – nell’articolo 138 non c’è nulla del genere; se il ddl costituzionale non ci fosse avremmo avuto un’unica grande legge di riforma da sottoporre a referendum. Quanto ai 69 articoli da modificare si tratta di una cifra gonfiata per amor di polemica. Alcuni articoli vanno corretti formalmente solo per evitare incongruenze nel testo costituzionale.

7) Non si tratta di un intervento di «manutenzione» ma di una riscrittura radicale della nostra Carta fondamentale non consentita dalla Costituzione, aperta all’arbitrio delle contingenti maggioranze parlamentari.

Falso. Si tratta invece di razionalizzare la forma di governo per dare stabilità al Paese, di ridurre il numero di parlamentari, di superare il bicameralismo paritario e perfetto che ormai esiste solo in Italia, di rendere gestibile e ordinato il decentramento pasticciato introdotto con la riforma del Titolo V. Più che riscrivere si tratta di correggere e migliorare la Costituzione.

8) Chiediamo che nell’esprimere il vostro voto in seconda lettura del provvedimento di modifica dell’articolo 138, consideriate che la maggioranza parlamentare dei due terzi dei componenti le Camere per evitare il referendum confermativo, in ragione di una legge elettorale che distorce gravemente e incostituzionalmente la rappresentanza popolare, non coincide con la realtà politica del corpo elettorale del nostro Paese. Rispettare questa realtà, vuol dire esprimere in Parlamento un voto che consenta l’indizione di un referendum confermativo sulla revisione dell’articolo 138.

Falso. Il ddl costituzionale serve a rendere più fluido il processo di revisione rafforzando nello stesso tempo le garanzie democratiche con il referendum confermativo. Chiedere un referendum sul ddl costituzionale, invece, è l’ennesima mossa strumentale di chi si oppone pregiudizialmente alle riforme. Se qualcuno ritiene che le nostre istituzioni vadano bene così e non debba essere approvata alcuna riforma di modernizzazione abbia il coraggio di difendere questa posizione quando le proposte arriveranno in Parlamento senza attardarsi in polemiche strumentali relative alla legge sulla procedura delle riforme!

9) Vi chiediamo infine di escludere dalle materie di competenza del Comitato per le riforme costituzionali la riforma del sistema elettorale che proprio per il suo significato politico rilevantissimo ha un effetto distorsivo nell’ottica della revisione costituzionale.

Falso. L’esperienza di questo ventennio ci insegna che una riforma della legge elettorale fatta a prescindere da una revisione del sistema costituzionale nel suo complesso non funziona; l’errore è stato rendere la legge elettorale una sorta di faro al quale ogni riforma del nostro sistema istituzionale doveva guardare. Il risultato sono stati il Mattarellum prima e il Porcellum dopo, scelte di cui stiamo ancora pagando le conseguenze. Serve al contrario un quadro istituzionale organico all’interno del quale inserire la riforma della legge elettorale. Il ddl costituzionale prevede che il Comitato bicamerale esamini anche le proposte di riforma del sistema elettorale per garantire una coerenza con le altri parti della riforma costituzionale.

10) E’ in gioco il futuro della nostra democrazia. Assumetevi la responsabilità di garantirlo.

Falso. Le disfunzioni nella parte organizzativa della Costituzione rischiano di rendere inattuabili i grandi valori consacrati della Prima parte della Carta. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Governi debolissimi e un Parlamento paralizzato da un conflitto permanente tra le forze politiche, un federalismo pasticciato e ingestibile, una pletora di quasi mille parlamentari che complicano l’approvazione di qualsiasi cosa e costringono il governo a ricorrere a questioni di fiducia e decreti legge. Ancora, Camera e Senato che devono dare entrambi la fiducia al Governo; costi enormi derivanti dalla difficoltà a ristrutturare la spesa pubblica; quasi ogni legge statale o regionale impugnata alla Corte costituzionale. Sono inefficienze che nessun altro Paese europeo soffre nelle proporzioni italiane. Firmando l’appello non si garantisce la democrazia italiana; si garantisce solo di continuare a vederla affondare nella palude attuale. (l'Occidentale)

venerdì 23 agosto 2013

Se i "pacificatori" vogliono solo far fuori il nemico. Augusto Minzolini

L’ultima moda degli appelli alla responsabilità nasconde l’opportunismo della sinistra: sapeva dall’inizio che il patto delle larghe intese era di facciata

L'ultima moda agostana sono gli appelli alla responsabilità. Non c'è persona nel Bel paese che abbia un titolo, un grado, un ruolo più o meno importante che si sia astenuta dal dire che di fronte alla flebile ripresa economica una crisi di governo ora creerebbe gravi danni. Appelli naturalmente a senso unico, che hanno un solo destinatario: il Cav. Appelli che grondano di ipocrisia: quando si è messo in piedi il governo delle larghe intese tutti sapevano, dico tutti, dal capo dello Stato al premier prescelto, ai segretari dell'insolita maggioranza, che bisognava risolvere il problema della persecuzione condotta dalle frange più politicizzate della magistratura nei confronti di Berlusconi. Il termine pacificazione non fu inventato a caso, era una delle questioni alla base dell'accordo di governo. Con il senno del poi, però, ci si accorge che se ne parlava e basta, che la questione era tema dei conciliaboli più riservati ma anche più sordi in quelle stanze del potere dove ti accorgi solo a cose fatte che il Potere non c'è. Nessuno, a quanto pare, aveva preso un impegno serio sull'argomento: solo silenzi, ammiccamenti, frasi evasive, tanti «non detti».

Un mare di ipocrisia, appunto, che fin dalla nascita ha avvolto questo governo e che mi ha reso sempre scettico e dubbioso sull'opportunità di dargli il mio voto. Ora i nodi sono venuti al pettine. Accompagnati da una nota del Quirinale tanto fredda e avara negli intenti, da sembrare un epitaffio di maniera da incidere sulla tomba di una storia politica durata venti anni. E non c'è da meravigliarsene più di tanto: l'attuale inquilino del Colle nella sua proverbiale prudenza - per usare un eufemismo - ci ha messo altri vent'anni per dire una parola giusta e vera su un personaggio che lo aveva scelto come interlocutore, cioè Bettino Craxi. Anche quel Craxi, per restare alle cronache, ne restò più volte deluso. Ma è fatale, pure in politica ci sono i Ponzio Pilato o i Don Abbondio. Del resto il tratto distintivo di questa, probabilmente breve, stagione di larghe intese è stata una certa inclinazione all'eccessiva prudenza, al rinvio, al gattopardismo. Che altro si può dire di un premier che non ha speso una parola sull'argomento Berlusconi? Un premier preoccupato più di restare al suo posto, ora, e magari, anche dopo le possibili elezioni, come candidato di una coalizione che rinneghi le larghe intese. Un premier che è tanto timido nell'immaginare le misure per superare la crisi (solo adesso che c'è aria di urne si è accorto che abbiamo dei problemi con un certo tipo di Europa), quanto pavido a confrontarsi con la vicenda del Cav, nell'illusione che non coinvolga l'intero centrodestra.

Ebbene, gli appelli bisognerebbe rivolgerli proprio a coloro che, a tutti i livelli, non affrontano la situazione. Che rimandano alle responsabilità di altri. O si nascondono dietro una sentenza che sarà pure definitiva ma che è anche tutta politica. Basta guardare ai comportamenti e agli eccessi del presidente del tribunale che l'ha emessa. Già, i veri irresponsabili sono quelli che guardano dall'altra parte. O che fingono che sul «caso» non fossero stati presi degli impegni, non fossero state date delle garanzie e delle rassicurazioni. Quindi, l'irresponsabilità o, in alternativa, la malafede, è quella di chi ha accettato di dar vita a un governo, a un'alleanza, sapendo che quei patti erano scritti sull'acqua, che il comune sentire - quello della pacificazione - in realtà era solo a senso unico e che ha considerato fin dall'inizio i partner di maggioranza degli impresentabili se non dei delinquenti. Gente che ora per assenza di coraggio, per l'incapacità di imporre alla propria base un momento di verità, per paura di confrontarsi con il proprio elettorato educato per cinquanta anni alla delegittimazione dell'avversario, preferisce gettare l'alleanza alle ortiche e considerare un male minore la sfida del voto. Tentando naturalmente, in ossequio al codice degli ipocriti, di darne la responsabilità ad altri. (il Giornale)

martedì 20 agosto 2013

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20 agosto 2013

Il senatore Crimi si candida sempre più a mente politica del movimento Cinque stelle. Nell’intervista di ieri a Repubblica delinea una strategia che si adegua alla possibilità di una nuova maggioranza, visto che quella che c’è scricchiola non poco. Ha già pronto il programma, pochi punti e poi si vota. Con un nuovo sistema elettorale, va da sé, ed è il primo punto. Poi come secondo punto misure per le piccole e medie imprese. Non si sa bene quali ma del resto anche sul sistema elettorale Crimi si tiene sul vago. Terzo punto irrinunciabile, il reddito di cittadinanza. Che però costa un sacco di soldi e non bastano la soppressione del finanziamento pubblico ai partiti, che pure Crimi dimentica di inserire fra i primi obiettivi, e neppure degli altri finanziamenti alla politica, diretti o indiretti. Insomma il programma è un po’ vago. Però ora si sentono pronti e Crimi si dice fiducioso che Napolitano in caso di crisi conferisca a loro un incarico esplorativo. Si rimetterebbero ai loro iscritti consultati in rete e da lì dovrebbe uscire il nome dell’esploratore. E’ sperabile che la scelta del candidato avvenga prima della salita al Quirinale, per evitare il remake dell’esilarante scena nella quale Napolitano chiese all’indimenticabile capogruppo alla Camera quale fosse eventualmente il nome da loro proposto e la sventurata rispose: “E no ! Mica dobbiamo fare nomi, lei l’incarico lo dà al movimento e poi ce la vediamo noi”. Quando si dice il senso del M5s per la Costituzione.
di Massimo Bordin@MassimoBordin

venerdì 16 agosto 2013

L'antiberlusconismo come paranoia. Gianni Pardo

Nel 1994 uno sconosciuto, Silvio Berlusconi, ebbe uno straordinario e imprevisto successo elettorale. Gli bastò per questo l’aver capito che, morta la Democrazia Cristiana, non era morto il suo elettorato anticomunista. Lo sciocco fu l’ultimo segretario della Dc, Mino Martinazzoli, che non lo capì.

Da quel momento lo schema della politica italiana non è cambiato: Berlusconi rappresenta l’argine contro la sinistra e tutta la politica di quest’ultima è consistita e consiste nell’andare contro questo singolo uomo, oggetto di un odio feroce e implacabile. È dunque corretto parlare di antiberlusconismo, lo è meno parlare di berlusconismo. Quelli che votano per il centrodestra sono lungi dallo stimare Berlusconi incondizionatamente, mentre molti di quelli che votano contro di lui lo demonizzano come il Male Assoluto. Dal 1994 la destra è contro un partito, la sinistra contro un uomo.

Da allora è stata applicata una vecchia tecnica dei partiti comunisti. Quando si tratta di lottare contro un nemico, da Trotsky in giù, non ci si limita a contestarne le idee e i programmi, si procede ad una metodica “character assassination”, cioè alla totale demolizione della sua immagine, abbassandosi perfino ai nomignoli ingiuriosi, al sarcasmo sui difetti fisici, e interpretando in maniera malevola e tendenziosa qualunque cosa. Ha una casa di lusso? Chiaramente ha rubato. È miserella? È uno sfigato o uno spilorcio. Se fa sfoggio di cultura è un presuntuoso, se si esprime come tutti è volgare. Lo si fa oggetto di tanti insulti e di tante calunnie che alla fine parlarne con costante disprezzo diviene un luogo comune. Quando il Pci decise di fare la guerra a Craxi, cominciò ad insolentirlo e ad accusarlo fino a spingere il popolo a considerarlo il più grande ladro d’Italia. Lui si difese, anche in Parlamento, dicendo che ciò che gli veniva imputato l’avevano fatto tutti, accusatori inclusi: ma non gli servì a nulla. L’ordine era di vedere la pagliuzza nell’occhio socialista e non la trave dei finanziamenti di Mosca in quella del Pci.

Nel caso di Berlusconi la programmatica “demolizione del personaggio” - favorita dal carattere esuberante, giocoso e incontrollato dell’uomo - ha fatto valanga. È infine sfuggita di mano ai suoi autori, toccando vette inusitate. Scioccamente incapace di concepire l’odio, il bersaglio ha continuato a offrire pretesti. Per lui una buona barzelletta non poteva che far ridere tutti, e invece perfino le storielle insulse sono state costantemente rivoltate contro di lui. “Fermi tutti, è una rapina!” E il commerciante: “Oh, meno male, temevo fosse la Finanza”. E tutti a dire che Berlusconi era un evasore amico degli evasori. L’incauto andò anche più lontano: “Pare che ai malati di cancro siano consigliate le sabbiature”. “Li guariscono?” “No, ma li abituano a stare sottoterra”. Apriti cielo. Scherzare su una simile tragedia. Che insensibilità. E non parliamo di quella del “Bunga Bunga”. Soltanto un pervertito può riderne.

Con gli anni, lo sport di attribuirgli assiomaticamente tutte le malefatte possibili è divenuto nazionale e gli esempi sono infiniti. Alcune accuse sono addirittura divenute dogmatiche. La denuncia del conflitto d’interessi, per esempio. Se da Presidente del Consiglio il Cavaliere avesse favorito un’impresa di cui era azionista, sarebbe stato giusto denunciarlo: ma di qualcosa del genere non si è mai parlato. Non c’è mai stato un caso concreto. O forse si è verificato e la sinistra si è privata di gridarlo ai quattro venti? E tuttavia, basta citarlo e tutti annuiscono.

Berlusconi è il padrone di tutte le televisioni. Ma la Rai gli è stata contraria da sempre. Rai3 scandalosamente, fino ad indurlo a protestare, con l’ovvia reazione: “Vuole imporre la censura!”, “L’editto bulgaro!”. Le televisioni private (per esempio La 7) sono prevalentemente antiberlusconiane. Le reti Mediaset si sono mantenute equilibrate (salvo la Retequattro di Emilio Fede) per non perdere clienti. Ma i fatti non servono a nulla. Berlusconi, semplicemente azionista di quelle reti, è stato condannato dalla Cassazione a quattro anni di reclusione perché, a sentire il giudice Esposito, «è stato informato di una frode fiscale». Senza dimostrare che l’ha voluta e senza dire chi l’avrebbe informato, cosa che l’avv.Coppi ha pubblicamente chiesto di sapere.

La sostanza è che, quando si cerca di interpretare una serie di fenomeni sulla base di una credenza di fondo, tutti i fatti vengono forzatamente allineati per sostenerla. Si chiama paranoia. Per gli antisemiti, ad esempio, il dogma di partenza è che gli ebrei sono malvagi e nocivi. Da questo momento in poi tutto ciò che li riguarda deve confermare questo assunto. Ogni loro successo è frutto dell’inganno, della corruzione, del complotto, della mancanza di scrupoli e al limite (se c’entra Israele) della violenza; ogni loro insuccesso è il meritato frutto di un’innegabile ed anzi insufficiente giustizia. I nazisti disprezzavano gli ebrei perché si lasciavano ammazzare come pecore, gli arabi li dichiarano violenti e anche nazisti. Se i palestinesi bombardano i civili sono dei patrioti, se gli israeliani cercano di uccidere i terroristi sono dei massacratori. Uno avrebbe voglia di dire: «Hanno una sola qualità, la bomba atomica per difendersi da gente come te».

Se Berlusconi riesce a realizzare una riforma (come quella, eccellente, della Costituzione, o quella dello scalone Maroni) è una riforma da eliminare; se non ci riesce, è perché è un bugiardo e un incapace. Lo si accusa costantemente di governare per il proprio interesse e poi tutte queste leggi ad personam non l’hanno salvato da niente. Ma s’è già detto: è un imbecille.

Non sono i fatti che inducono la paranoia, è la paranoia che dà un senso prefissato ai fatti. Se la persecuzione di Berlusconi si estende a chiunque abbia da fare con lui – familiare, alleato politico, avvocato, collaboratore, stalliere – la conclusione è che Berlusconi si circonda di delinquenti e l’indefessa, pluridecennale attività investigativa dei magistrati nasce dal cattivo comportamento di questa cricca. Mentre se servisse pensare l’inverso, si direbbe che la magistratura è asservita a una parte politica. Che è poi quello che pensano i berlusconiani. Infatti un effetto imprevisto della paranoia, quando si impossessa di più o meno metà della nazione, è che una paranoia speculare viene attribuita a chi non l’ha. Se non sei antiberlusconiano sei paranoico.

Viene voglia di emigrare in un Paese qualunque, dove il sole sorge e tramonta senza che sia necessario parlare di Silvio Berlusconi.

pardonuovo.myblog.it

martedì 13 agosto 2013

Lo strano caso del compagno E. Paolo Pillitteri

Non si tratta,probabilmente di un caso clinico, anche se i sintomi vanno in quella direzione. Ma noi siamo uomini di mondo e tendiamo a credere che, più propriamente, quello del compagno Epifanovic - avrete capito di chi stiamo parlando - sia un caso politico.Che rientra nella vasta casistica delle sindromi che colgono i capi della CGIL non appena salgono ai massimi vertici. Toccò a Cofferati subire quella speciale malattia,o sindrome,che consiste nel radicalizzare le proprie posizioni in funzione della carica raggiunta e, da questa, dettare la linea che, nella fattispecie cofferatiana, si tradusse in un massimalismo parolaio - per dirla col sublime Pansa - specificamente contrassegnato dal totem dell'articolo 18 e, politicamente, in contrasto violento con le tesi del riformista Biagi. La sindrome di Cofferati ha contagiato l'intera sinistra e si è visto a cosa ha portato: al niente. Anzi,ad una regressione vera e propria rispetto alla sinistra mondiale, da Blair a Clinton, che pure era il modello dell'allora partito postcomunista.

Il Cofferati degli '80 primi '90 non era un massimalista. Era, piuttosto, un moderato, un sindacalista bensì comunista ma dalla linea morbida, flessibile,ispirata a Lama, con un che di riformista in quegli anni peraltro lontani. Poi,salito alla guida del più grande sindacato della sinistra, ha cambiato registro, ha innestato l'overdrive in una battaglia persa in partenza, soprattutto dai lavoratori. Oltre che dalla sinistra. La quale è vissuta e vive di rendita sull'antiberlusconismo assurto a linea politica,oltre che sindacale, trasformando un leader politico in una sorta di uomo nero portatore di ogni nequizia e, in quanto tale, da criminalizzare e infine da distruggere grazie, ovviamente, alla magistratura, ché, politicamente parlando, la sinistra non c'è mai riuscita. Appunto perché vittima di questa sindrome, di questa ossessione. E siamo ad Epifani, al compagno Epifanovic. Il quale, a differenza di Cofferati, proviene dalla tradizione del Psi di Craxi, pur non essendone svisceratamente assertore. Comunque, un moderato, un quiet man, un tranquillo dirigente di una parte di CGIL che aveva avuto in Del Turco il migliore esponente socialriformista. Epifani, segretario di quel Pd che, con Bersani, ha perso le elezioni - che solo per un soffio, non le ha vinte Berlusconi (a parte Grillo) - e che proprio per quella sconfitta, peggiorata da una gestione grottesca postelettorale, sta lassù, pur in una posizione a tempo.

Da qui comincia la metamorfosi epifaniana, la mutazione da uomo tranquillo a segretario incendiario, da moderatore ad agitatore. La scintilla del cambiamento è stata la sentenza della Cassazione che per Epifanovic ha il valore dell'ordalia, della volontà superiore di una giustizia da tribunale del popolo, infallibile. Tanto infallibile da farci assistere ad una telefonata che sembra uscita da un film con Totò e Peppino nella impagabile sequenza della lettera dettata dall'immortale Principe De Courtis: punto, due punti, punto e virgola, abbundantis ad abbundantiam!. Ecco. Epifanovic nelle vesti del procuratore Vischinskij delle purghe staliniane: niente sconti, nessun accomodamento, basta occuparci dei casi del Cav, un defunto della politica, destinato al macero, agli arresti domiciliari o ai servizi sociali. E guai al Quirinale se oserà l'inosabile, un Quirinale sotto assedio dal partito di Rep, di Grillo e, qua e là, dal Pd. Abbiamo però l'impressione che questo sussulto giustizialista non porterà buono a Epifanovic, sul piano politico, beninteso. Intanto perchè il Cav è vivo in tutti i sensi e poi perché il problema di Epifani non è Berlusconi. Il problema di Epifanovic è il Pd, il suo partito. Un Pd lacerato, incerto, in mille pezzi, senza una linea precisa, senza un'idea di paese, senza un orizzonte definito. A parte quello offerto dal Governo Letta, anche questo sotto pressione. Un Pd, infine, senza un leader, ché Renzi è ancora di là da venire, se lo lasceranno venire. Purtroppo per noi, questo problema dell'assenza di una vera leadership si riverbera, da un Pd senza capo né coda,a tutto il sistema politico italiano. Che, per un miracolo ultraterreno, regge sull'orlo del baratro, grazie a Napolitano. (l'Opinione)

Silvio, Silvia e i garantisti. Machete

             


Mentre scorrevo le pagine di Internet per leggere i vari commenti della sinistra carceraria alla condanna di Berlusconi, le canzoni dei carcerati e amenità del genere, sono atterrato casualmente su un sito ed una foto che ritrae Silvia Baraldini, a Niscemi, mentre protesta da libera cittadina contro il Muos in Sicilia e addirittura chiede di revocare Crocetta perché troppo moscio con il MUOS.

La sinistra di quasi tutto il mondo criticò la sentenza che condannava la Baraldini a 43 anni: Silvia non Silvio era stata riconosciuta colpevole di tentata rapina, di concorso in evasione e di associazione terroristica. Aveva fatto molti anni di carcere. Poi anche per intervento della sinistra al governo Silvia Baraldini, fu estradata in Italia e poi indultata ed è oggi una libera cittadina. E’ una bella cosa. Garantismo, umanità, senso di giustizia avverso ad una pena esagerata, persino il perdono e naturalmente la comprensione per le sue condizioni di salute (nel 1988 le fu diagnosticato un tumore maligno) furono allora giuste battaglie che la sinistra sostenne con determinazione a prescindere dal fatto che le ragioni e i metodi del Black Panther Party fossero certamente terroristici e violenti, dunque esecrabili, anche se non unanimemente esecrati.

Ci furono manifestazioni contro i giudici americani, contro le sentenza giudicata inumana, fino ad ottenere la scarcerazione di Silvia. Non crediamo che quelle manifestazioni fossero non eversive perché erano contro giudici americani, pur essendo fatte da parlamentari di una paese alleato.

Silvia dopo l’indulto non è stata esclusa dal consesso civile, gestisce un pub in una zona in cara alla sinistra alternativa a Roma, e tutti si affacciano la sera a guardarla lavorare con simpatia. Silvia Baraldini ha anzi ricevuto la cittadinanza onoraria di numerosi comuni Italiani per la sua battaglia, dicono in nome della giustizia e la libertà. Oggi la Baraldini fa politica, è esponente di un movimento politico almeno locale e si presenta ancora come già leader del Black Panther Party Questo è perché il carcere non è una sistema di giustizia sociale, ma di rieducazione. Il Caso di Silvio non ha nulla a che vedere con quello di Silvia, ma si dimostra con Silvia che non è nè proibito, nè eversivo criticare, condannare le sentenze, e anzi ci sono forze di sinistra che sono intervenute per revocarle o superarle e Armando Cossutta andò ad accogliere la Baraldini con un mazzo di Rose. Che ha fatto Berlusconi di peggio della Baraldini? Perchè non può criticare come Silvia fece, la sentenza che non condivide? I colpevoli pagano ma non debbono riconoscere per forza la sentenza sennò siamo nel regime de La Confessione. O la sinistra è umana e garantista solo con i suoi amici? (the Front Page)

lunedì 12 agosto 2013

Trionfo sessista. Davide Giacalone

 

Sessismo, discriminazione di genere e subordinazione della donna nel matrimonio, sono come il caffè reclamizzato, ma con una piccola correzione: più li mandi giù e più tornano su. Così come anche l’istinto panpenalistico e carcerocentrico del legislatore italiano, che nello stesso giorno in cui converte in legge un decreto per sfollare le galere, mandando fuori i condannati, ne vara un altro per spedirci nuovi clienti, neanche processati. Sarebbe mero folklore, se non fosse che il decreto intitolato al “femminicidio” ha tutte le caratteristiche per provocare guasti enormi.

Oramai è una moda: si deve iscrivere il genere sessuale fra le caratteristiche dei cittadini. Perché serve fare norme contro il gaycidio o il femminicidio, che già l’omicidio? Se volontario e premeditato è previsto il massimo della pena. Le leggi già prevedono aggravanti relative ai futili motivi o all’approfittare di maggiore forza, come anche per le molestie e le minacce pregresse. Perché si sente il bisogno di specificare il sesso di vittime e carnefici? Forse perché esistono casi come quello di Corazzini, assassino condannato a dieci anni in primo grado e a sei in secondo, poi graziato dal presidente della Repubblica, quindi nuovamente assassino del padre. Ma Corazzini, saggiamente, ammazza vecchi maschi, mica giovani donne o simpatici omosessuali.

Nella conferenza stampa Enrico Letta e Angelino Alfano hanno segnato la linea che è poi stata ripresa da tutti i giornali, spiegando le nuove norme sempre al femminile. Il testo del decreto ancora non c’è, ma immagino che non sarà in quel modo concepito. Se lo fosse violerebbe l’articolo 3 della Costituzione, secondo il quale siamo tutti uguali davanti alla legge (e lasciamo perdere che il fatto stesso sia un decreto cozza con la Carta). Ma la favola era troppo bella per non affascinare troppi, sicché abbiamo tutti letto i titoli dei giornali: il marito violento sarà allontanato da casa. Molto bene, e chi mai potrebbe pensarla diversamente? Nessuno, tant’è che è già così. Per la prevenzione della violenza le norme ci sono già, solo che non c’è la giustizia e, in queste condizioni, le leggi sono solo grida manzoniane: tanto più inutili quanto più tonitruanti.

Scusate: ma se un marito arreca una lesione permanente alla moglie è più grave che se la moglie arreca una lesione permanente al marito? Se la risposta è “no”, di che stiamo parlando? E se la risposta è “sì”, che parliamo a fare? tanto siamo matti.

E ora riflettete su questa perversione: nel caso di violenza è un’aggravante che a usarla sia il coniuge (immagino il decreto porterà questa formula neutra), che i giornali hanno tradotto: se a picchiare è il marito. In effetti è moralmente più grave, perché avviene all’interno di un rapporto che dovrebbe essere affettivo, ma perché si traduce in aggravante legale, posto che litigare con il coniuge è più facile e consueto che farlo con uno che non si conosce? La radice di questa aggravante la trovate in due concetti: è la donna che viene affidata al marito, passando all’altare dalle mani del padre a quelle del nuovo padrone, quindi è lei a essere doppiamente vittima, perché percossa da chi dovrebbe provvedere al suo benessere. Peccato che questa è esattamente la (detestabile) radice del sessismo. E, difatti, picchiare una donna con la quale non si convive sarà meno grave che picchiare quella che si ha a casa. Lo trovo inaccettabile, perché dovrebbe essere ugualmente grave picchiare chiunque, in quanto individuo, non in quanto parte sessuale, salvo far valere le aggravanti già esistenti, compresa quella della eventuale soggezione. L’idea che la famiglia sia un’aggravante in sé, invece, è figlia dell’idea che il matrimonio sia la forma preferibile e legislativamente santificata delle unioni. Una riaffermazione di tradizionalismo.

Alla fine, come è capitato anche con la Convenzione di Istanbul, la discriminazione di genere che s’intende avversare ne esce ingigantita. Con tutti i pregiudizi e i tabù che si porta dietro.

Pubblicato da Il Tempo

martedì 6 agosto 2013

ArchivioAndrea's Version

6 agosto 2013

Noi amiamo gli inglesi. Quando vediamo l’inglese Guardian e l’altrettanto inglese Financial Times che prendono per il culo l’Amor nostro, e vediamo quanto quelli di Repubblica se la godano nel vedere Guardian e Financial Times che prendono per il culo quel milanese scelto col voto degli italianuzzi, noi italianuzzi non ancora pienamente di destra, quantunque ex di sinistra, pensiamo in automatico come assomiglino alle pezze da piedi della Perfida babbiona.

Sentenze e politica. Gianni Pardo

Riguardo alla sentenza della Cassazione su Berlusconi ci si può chiedere se corrisponda alla colpevolezza (o all’innocenza) dell’imputato: ma è una direzione azzardata perché non si è seguito il caso, non si sono lette le carte, non si sono ascoltate le deposizioni e le arringhe. Infatti alcuni di questa documentazione fanno a meno perché si fidano della magistratura, e alcuni di questa documentazione fanno a meno perché non si fidano della magistratura. La cosa triste è che quasi nessuno prende la sentenza per quello che dovrebbe essere: cioè per l’accertamento di una verità, se pure giudiziaria. I colpevolisti vi vedono soltanto una riprova del loro personale giudizio su Silvio Berlusconi, gli innocentisti hanno atteso la sentenza senza trepidazione, risoluti a considerarla la conferma di una persecuzione giudiziaria.

In questo campo hanno l’animo tranquillo solo gli ingenui che non sono né berlusconiani né antiberlusconiani - se ce ne sono - i quali “hanno fiducia nella magistratura”. E l’hanno soltanto perché non sanno quanto inevitabilmente umane siano le sue decisioni. Ho personalmente conosciuto un Presidente di Corte d’Assise accusato di corruzione il quale si diceva innocente ma era letteralmente terrorizzato dal giudizio che doveva affrontare. E che infatti lo condannò. Ed ho conosciuto un giudice del Tar sottoposto ad un’accusa assurda e fantasiosa, il quale ha vissuto letteralmente sulle spine per mesi, fino al proscioglimento in istruttoria: ma sarebbe stato tanto spaventato se, essendo incontrovertibilmente innocente, avesse avuto “fiducia nella magistratura”? E tuttavia ciò non dice nulla ai normali cittadini. Per loro è semplice: “Se l’hanno condannato, deve essere colpevole”. Mentre un avvocato o un altro magistrato direbbero: “Se l’hanno condannato, vuole dire che si sono convinti della sua colpevolezza”. Fa differenza.

Ciò che a proposito di Silvio Berlusconi unifica i commenti di tutti, innocentisti e colpevolisti, è lo sforzo di interpretare la sentenza in un senso politico che non dovrebbe avere e che invece, inevitabilmente, ha: viene così confermato che durante il loro mandato gli uomini di Stato non andrebbero processati, proprio per evitare l’interferenza del potere giudiziario sul legislativo. Ma gli italiani - ubriachi di egualitarismo e di giustizialismo - credono che quello sarebbe un privilegio inaccettabile e non capiscono che questa guarentigia è in primo luogo una garanzia di libertà e in secondo luogo un grande vantaggio per la stessa magistratura. I giudici non devono vedersi caricare di una responsabilità che assolutamente non compete loro e che può soltanto danneggiare la loro immagine. Infatti, se la loro decisione fosse onestissima e giuridicamente correttissima ma andasse contro l’opinione maggioritaria del Paese, la gente non direbbe: “Hanno deciso secondo giustizia” ma: “Hanno deciso in quel modo perché politicamente faziosi”.

C’è di più. Facciamo un’ipotesi lontana dall’attualità europea. Immaginiamo che i magistrati debbano giudicare un capo politico accusato di voler instaurare la dittatura e che essi si rendano conto della sua perfetta innocenza. Però sanno anche che, se lo assolvono, il Paese vicino li invaderà col pretesto di “salvare la democrazia”. Che cosa devono fare, decidere secondo le norme del diritto, provocando la fine dell’indipendenza della Patria, o condannare un innocente per ragioni di opportunità? È giusto che una simile responsabilità incomba su dei funzionari privi di legittimazione democratica e di responsabilità politica? È accettabile che dei galantuomini, sostanzialmente dei privati cittadini, siano caricati del peso di decisioni che hanno importanza per la vita dell’intero Paese? Essi rischiano di essere considerati faziosi anche quando decidono secondo le norme, e rischiano di essere giudicati sconsiderati quando decidono secondo le norme ma danneggiano la nazione. Non è giusto che, se necessario, una simile responsabilità sia assunta dal Parlamento, che rappresenta il popolo e la sua volontà? La separazione dei poteri non è un optional. (LS Blog)

In 28mila per un posto all'Ikea delle polemiche. Nino Materi

Quando si dice «la politica non è più in grado di intercettare i bisogni della gente». Vero. Verissimo. Ne volete una prova? Sei anni fa l'Ikea decide di aprire una filiale in Toscana.
Basta l'annuncio per scatenare la follia «smontatrice» di certi e amministratori: «L'Ikea nel mio Comune? Mai!». Neanche si trattasse di una discarica a cielo aperto o di una centrale nucleare col nocciolo già scoperto».

L'ostruzionismo delle istituzioni toscane diventa quasi una barzelletta che ben presto travalica i confini regionali e nazionali. A Bruxelles, infatti, il presidente della Commissione europea, Barroso, cita il caso Toscana-Ikea come un «esempio negativo delle tempistiche con cui vengono rilasciati i permessi per i nuovi insediamenti produttivi». Barroso va giù duro: «Il gruppo svedese Ikea è stato costretto ad attendere sei anni per avere il permesso per aprire un nuovo punto vendita, quando in Cina servono solo otto mesi».

Ma questa è ormai acqua passata; il dato più clamoroso di oggi è invece un altro: sono 28.616 coloro che attraverso il sito internet di Ikea hanno inviato la propria candidatura per partecipare alla selezione per le assunzioni nel nuovo punto vendita di Pisa (questa, alla fine, la città prescelta ndr) che occuperà circa 200 addetti. Una risposta clamorosa a tutti i quei politici che facendosi interpreti della «volontà popolare» sostenevano che l'Ikea avrebbe portato solo guai. Quei 28.616 curricula inviati all'Ikea sono lì a dimostrare che questi politici farebbero meglio ad andare a nascondersi. Come, ad esempio, Alessio Bellini, esponente di Sinistra Ecologia e Libertà e assessore al comune di Santa Croce sull'Arno metteva in guardia dalla «cementificazione e dal carico di traffico che ne deriverebbe, con autoveicoli e tir che intaserebbero i fine settimana dedicati agli acquisti compulsivi...». Per poi aggiungere: «Insomma, chi prova a problematizzare la questione viene visto come uno un po' coglione...». Parole sante.

Intanto l'ufficio risorse umane di Ikea Italia ha iniziato lo screening dei curricula ricevuti. A partire dalla prima settimana di settembre i candidati ritenuti idonei saranno convocati per un primo colloquio di gruppo. Ma all'ecologista Bellini (e ai suoi amici) un'azienda disposta ad assumere centinaia di giovani sta proprio sullo stomaco: «A me Ikea non convince, non convince proprio per niente. E non farò parte del coro degli entusiasti adoratori del consumo e del lavoro ad-ogni-costo. Per questo inizierò a tessere con puntiglio la mia piccola tela».

Che sia per caso la tela della disoccupazione? (il Giornale)