martedì 28 maggio 2013

Sconfitta collettiva. Davide Giacalone

La politica ne esce piallata, ma il risultato amministrativo segna una sconfitta della collettività. Nel senso che ne esce a pezzi la nostra vita collettiva. Che altro ci si poteva aspettare? Abbiamo votato a febbraio: non solo ci sono voluti due mesi per fare il governo, ma il presidente della Repubblica fu costretto a inventare l’incarico ai saggi per non pedalare del tutto nel vuoto, nel frattempo s’è dovuto eleggere il suo successore e lungi dal confermarlo al primo o secondo scrutinio si è atteso il sesto, avendo dovuto prendere atto che non c’erano idee e la politica umiliava pubblicamente se stessa, infine il governo s’è insediato, ma è fin qui stato capace di annunci senza testi, proroghe di roba vecchia e rinvii di proroghe. Nessuno chiede miracoli, ma siamo sotto il minimo sindacale.

Roma guida la classifica della delusione e della disaffezione. Ma un’altra città contribuisce a descrivere il quadro in cui ci troviamo, Brescia: gli stessi candidati della volta scorsa, compresi quelli delle liste civiche. Come se il tempo, lungi dal correre, fosse fermo. Come se si possa giocare in eterno la rivincita della rivincita, senza che nulla di nuovo venga a disturbare un conflitto di cui i belligeranti hanno dimenticato l’origine e lo scopo. Mentre s’apprestavano le elezioni siciliane, nell’autunno dello scorso anno, osservammo che l’annaspare scomposto di schieramenti privi di contenuto descrivevano una sciasciana “linea della palma”, una disillusione, un non credere nel cambiamento che il maestro di Racalmuto aveva cucito addosso ai siciliani, e vedevamo che quella linea andava spostandosi verso nord. Ora, a dispetto della meteorologia inclemente, possiamo dire che la palma cresce per ogni dove. Al risultato delle urne di Trinacria sembrò spaventoso che un elettore su due se ne fosse stato a casa. Ora sappiamo che dappertutto le case sono più affollate dei seggi.

In Sicilia esplose la forza di Grillo, e molti scrissero che era servita anche a limitare l’astensione. Noi sostenemmo una cosa diversa: i voti di Grillo crescono assieme all’astensione, non la contrastano, perché la loro origine è diversa: chi non ci crede non vota, mentre la scheda frinente è deposta da chi si vendica verso i partiti che votò, di destra o di sinistra che fossero. Il risultato di ieri mi conforta in tal senso. Con una “evoluzione”: siccome non ci si può vendicare di continuo, anche quella calamita s’è ammosciata. Pure perché i tre mesi trascorsi dalla elezioni politiche sono stati istruttivi nel mostrare quel che produce la vendetta: un personale politico da barzelletta.

L’ulteriore schiaffone dovrebbe servire a chi fa politica per capire che non serve a nulla inseguire la protesta scimmiottandola, che gli elettori non si commuovono se sentono annunciare che i partiti non prenderanno più soldi pubblici. Anche perché non ci credono, e hanno realisticamente ragione (guardate che se fosse vero l’annuncio, e non lo è, tanto che già si pensa all’uno per mille, le banche chiederebbero ai partiti il rientro immediato, provocandone l’altrettanto immediata bancarotta). Ciò che può riportare la voglia di partecipare alla vita elettorale non è la composizione sessualmente equilibrata delle candidature, perché quella è la premessa di un’orgia, non del governare. Non è il sapere che in lista ci sono “persone come noi”, perché altrimenti non si vede il motivo di votare loro e non esserci direttamente noi. Quella voglia può essere ricostruita se si presentano idee nuove. Prima o poi i voti saranno presi da persone che non emulano gli attori, ma provano a essere serie. Voglio sperare che sia così, perché in alternativa sarà il voto stesso a essere ridotto a rito inutile. Quindi sempre più deserto.

Al ballottaggio romano andranno due sconfitti. Due perdenti. L’errore più grosso che possono commettere è pensare che uno dei due sarà vincente. Non avverrà mai. Siccome, però, uno dei due sarà sindaco, che abbia la saggezza e l’umiltà di sapere di essere un perdente temporaneamente vittorioso, quindi butti al macero le cose che ha sostenuto e provi a chiedere, a sé stesso e alla città, che razza di futuro vogliamo costruire. Vada al ballottaggio sapendo che non sarà l’inizio di una sindacatura, ma la fine di una politica priva di idee. Sarebbe un punto da cui ripartire.

Pubblicato da Il Tempo

martedì 21 maggio 2013

Tortorate. Davide Giacalone

Sono in molti a meritare d’essere presi a tortorate. Non nel senso di bitorzolute bastonate, che già l’uso del linguaggio violento ci avvelena e non è il caso di contribuire. Nel senso di fare i conti con la memoria di Enzo Tortora. Offesa per ogni dove, anche da quelli che pretendono di difenderla a loro volta infamandola. Tortora è un eroe civile di cui i radicali seppero valorizzare la battaglia. Possiamo citarlo noi della sparuta, perdente e non rassegnata tribù dei garantisti, dei sopravvissuti che ancora conservano memoria della civiltà del diritto. Per gli altri: tortorate.

Silvio Berlusconi (nel corso di una manifestazione elettorale) ha ricordato una frase di Tortora, speranzoso che la propria innocenza fosse anche quella dei magistrati. Ha aggiunto che molti italiani entrano nelle aule di giustizia, ogni giorno, con quel sentimento. S’è paragonato? Non mi pare. Offensivo? Non trovo. L’offesa a Tortora, da parte del centro destra, consiste in qualche cosa di molto più pesante e concreto: avere reso inutile la sua battaglia e non essere stati capaci di dare all’Italia una giustizia migliore di quella che lo massacrò. Anzi, ne abbiamo una peggiore. Conosco l’obiezione dei berlusconiani: non glielo hanno fatto fare. Ma non funziona, non ha neanche molto senso. Per una questione di tale rilievo chi è impossibilitato ad agire si dimette e monta su il finimondo. Non è successo, ed è una colpa politica. Forse la più grande.

Se lo sguardo si sposta dall’altra parte, però, sulla folta schiera degli ipocriti sinistri che ora citano Tortora, dall’indignazione si passa al voltastomaco. Una squadraccia di giustizialisti ha trasformato la sinistra nell’ostello dei manettari, disposti a rinnegare la propria stessa tradizione pur di far fuori in procura (e per procura) l’avversario che non riescono a battere nelle urne. Questa masnada di vigliaccuzzi vorrebbe ora sventolare l’immagine di un uomo che ebbe il fegato di dimettersi da parlamentare pur di affrontare i propri giudici da cittadino, anche subendo una scandalosa carcerazione preventiva (e lo spiegò a Toni Negri, che invece tradì gli elettori radicali). Il suo esempio è andato sprecato, perché chi doveva trarne insegnamento non è neanche in grado di capirlo.

Pretende di usare l’immagine di Tortora chi ha difeso gli automatismi della carriera dei magistrati, alla cui sommità si trovano oggi quelli che imbastirono il vergognoso processo contro di lui. Gente che, in un sistema normale, avrebbe perso il posto e che nel nostro, invece, avanza e guadagna. Cita Tortora chi, da venti anni, specula sulle indagini e fa finta di non sapere che una cosa è la pubblicità del dibattimento, altra, non solo diversa ma opposta, è la trasmissione in diretta dell’arringa dell’accusa (provino a leggere Piero Calamandrei, sforzandosi). Apre bocca chi neanche sa del travaglio che colpì il Tortora (grande) giornalista, il quale aveva scritto parole accusatorie all’epoca dell’arresto di Walter Chiari e Lelio Luttazzi, salvo poi amaramente pentirsene. E ammetterlo, con onestà.

Lezione sprecata, la sua. Eccelsa, ma sprecata. Dicono: lui riconobbe l’autorità della giustizia, non manifestò contro un potere dello Stato. Perché credono sia sensato sostenere che non si manifesta, contro i poteri dello Stato. A no, e perché? Tortora manifestò, eccome. Manifestò finché visse. Non risparmiò nulla alla giustizia ingiusta. Ma sapeva bene che non esiste convivenza civile senza il riconoscimento della giustizia, quindi la cercò nell’unico posto dove poteva averla: in tribunale. Non nelle case di chi lo amava, quale protagonista della televisione. La ebbe, ma la sua storia non servì a cambiare l’andazzo, che peggiorò.

La colpa ricade su chi non ebbe né testa né cuore per capire quella battaglia e come venne condotta. Ricade su una destra che fu giustizialista per poi farsi selettivamente innocentista. Ricade su una sinistra che fu connivente con l’uso politico della giustizia, per poi restare prigioniera della volgarità giustizialista. Questo è il mondo che ci consegna la peggiore giustizia del mondo civile, una magistratura corporativizzata e corrotta dalla colleganza fra accusatori e giudici, un dibattito pubblico ridotto a rissa inconcludente, un’opinione pubblica allevata nel colpevolismo.

Gli esausti squadristi, di una parte e dell’altra, si contendono il santino di un uomo che ebbe senso dello Stato e rispetto del diritto. Riusciranno solo a strapparlo, meritando tortorate per l’avvenire.

Pubblicato da Libero

lunedì 6 maggio 2013

Renzi e McLuhan. Claudio Velardi

              
La settimana del dopo big bang si apre con una brutta intervista di Renzi a “Repubblica”. Brutta intanto perché la dà a “Repubblica”, e non per caso.
E’ dal 1976 che il giornale di Scalfari si è introdotto come un virus nella sinistra, prima affascinandola, poi guidandola sapientemente verso la necessaria modernizzazione, infine fagocitandola e mettendola al servizio della sua cultura pop, buonista e conservatrice. Una grande operazione editoriale, che ha consentito ad un finanziere più che spregiudicato e ad un vecchio narciso di condizionarne ogni mossa, fino alla perdita di qualunque autonomia ed alla sua completa devitalizzazione. Naturalmente accompagnando con baldanza il Pci-Pds-Ds-Pd – da Berlinguer a Bersani – in tutte le sue sconfitte.

Non c’è stato leader – in carica o aspirante – capace di evitare l’abbraccio mortale. E neppure Renzi, a quanto pare. La cui prima preoccupazione – dopo il cataclisma dei giorni scorsi – è quindi rassicurare su “Repubblica” il popolo smarrito della sinistra, e dirgli che lui non è amico di Berlusconi, non ama l’art. 18, vuole il lavoro (toh!), e che il Pd è il suo presente e il suo futuro. Con Orfini e Fassina. Senza Vendola, con cui però scambia amichevoli sms. D’accordo, nella sbrodolata c’è anche il presidenzialismo (l’aria fritta che in queste ore piace a tutti). C’è la fine del finanziamento pubblico ai partiti (e vorrei vedere, dopo le ultime prove). Ma il messaggio è uno solo, inequivoco, perfino accorato: vedete le cose che dico? Non sono un traditore, sono uno dei vostri. Accoglietemi e saprò finalmente portarvi al governo. Senza subalternità e timidezze. Sfidando Grillo, facendo l’agenda e bla bla.

Ora, è evidente che per un qualunque leader della sinistra il problema dei problemi si chiama oggi “popolo della sinistra”. Cioè quell’impasto di nostalgie, luoghi comuni e pregiudizi in cui pascola da anni e anni il vecchio (in ogni senso) militante-attivista tipo: in perenne crisi d’identità, privato di direzione politica, in balia di qualsiasi pulsione parolaia e palingenetica. Un popolo che prima veniva costantemente allevato ed educato, ed è poi diventato docile e ambita preda delle più spregiudicate operazioni di marketing, a partire da quella repubblichina.
Nessuno nega che a questo benedetto popolo si debba parlare, e che – brutalmente – vi sia bisogno dei suoi voti, “che non si possono regalare agli estremisti” (ahia, quante volte l’ho sentita, questa maledetta espressione…). Ma il punto è che a questo popolo va detta finalmente la verità. E cioè che quello che impedisce alla sinistra di governare e conquistare strutturalmente la maggioranza dei consensi non è certo Berlusconi, ma la sinistra stessa, prigioniera della sua storia, di miti svaniti e gonfia di rancoroso disamore verso la società in cui viviamo. (Anche perché, se questa verità non la dici o la nascondi, ti scordi i voti di quegli altri, ma questo è un discorso noto…).
Quindi attenzione, Renzi. E’ chiaro che parlare oggi e in questo modo a “Repubblica” tu la consideri un’operazione tattica. Ne hai sentito la necessità perché temi che lo sbandamento attuale possa essere devastante e irrecuperabile. E hai convocato sul giornale un’assemblea di militanti per rassicurare. Ma sappi che ci vuole ben altro. Lo sbandamento dura da decenni, è profondo, strisciante e continuo. Un’intervista a “Repubblica” – il più ricorrente e stanco dei rituali – ha il solo potere di confermarlo.
E ricorda che mai come in questo caso, caro Matteo, il vecchio e deformato adagio di McLuhan – il medium è il messaggio – conserva una sua attualità stringente. (the Front Page)

mercoledì 1 maggio 2013

I carabinieri sono eroi soltanto se bloccati in un letto d'ospedale. Gian Marco Chiocci

Quando sono feriti o morti, per gli uomini in divisa sgorgano lacrime di coccodrillo. Ma quando lavorano...

Il carabiniere in verticale fa un certo effet­to. Orizzontale, sul letto d’ospedale o al­l’obitorio, ne fa un altro. C’è sempre una via di mezzo per lo stesso servitore dello Stato che da 200 anni s’immola per la sicurezza e la tranquillità dei cittadini tutti, inclusi quegli ambasciatori della violenza che in nessun al­tro Paese al mondo godrebbero di tali e tante immunità giu­diziarie, coperture politiche, giustificazioni mediatiche.
Il brigadiere Giuseppe Giangrande, ferito davanti Palazzo Chigi da un colpo d'arma da fuoco al collo
Quando appuntati e mare­scialli cadono nell’adempi­mento del proprio dovere – si dice sempre così - puntuali sgorgano lacrime di coccodril­lo, ipocrite solidarietà istitu­zionali, visite ai feriti e condo­gli­anze sentite a vedove e orfa­ni dell’Arma. Dopodiché, sem­pre succede che la memoria si resetti per voltare immediata­mente pagina e per ricomin­ciare, alla prima occasione, da dove si era rimasti: a sputare sull’uniforme nera bordata di rosso.
Accadrà ancora. Anche do­po i commenti stucchevol­mente esaltati alle toccanti pa­role della dolce Martina Gian­grande, figlia del carabiniere ferito a Palazzo Chigi, una del­le figlie di questa grande fami­glia­militare che per i soli scon­tri in Val di Susa ha dovuto pre­stare attenzione a più di 200 uomini (altrettanti sono i poli­ziotti) usciti dai boschi della Tav con le ossa rotte, le teste sfasciate, le divise ustionate. «Spero che quanto successo a mio padre faccia capire un po’ di cose a tutti, far riflettere e far sì che tante cose possano mi­gliorare », ha detto Martina.
Chissà se ci si ricorderà di lei, e del suo testamento, quan­do un altro appuntato finirà presto ferito o bersagliato da pietre, accuse gratuite, cagna­re ideologiche. Sarà curioso vedere cos’avranno da dire questi stessi politici che un tempo partecipavano ai cortei dei cattivi antagonisti al grido «10, 100, 1000 Nassirya» mili­tando in Rifondazione comu­nista o nei comunisti italiani. Gente che oggi simpatizza per Sel o Cinque stelle e si dice a fianco dei giovani in divisa, fi­gli del popolo come li intende­va Pasolini. Gente abituata a distribuire disprezzo sulle for­ze dell’ordine «cilene», emet­tere condanne preventive, in­vocare la piazza e il pubblico ludibrio fino a chiedere l’intro­duzione del reato di tortura, l’avvio di commissioni d’in­chiesta, la testa delle più alte gerarchie militari.
Non è retorica spicciola o di­fes­a acritica dei difensori in gi­berna e bandoliera. È quanto accade oggigiorno, ormai, al pubblico ufficiale oltraggiato senza pietà, trascinato alla go­gna eppoi in tribunale per aver reagito a una sprangata, risposto al fuoco, per essere in­tervenuto come poteva in con­dizioni di emergenza. Certo, il carabiniere che sbaglia deve pagare.Quest’ovvietà nascon­de però una realtà cui nessuno fa più caso: tra un black bloc e un carabiniere, tra un pentito di camorra e un carabiniere, tra un ultras e un carabiniere, tra un clandestino, un tossico o un cittadino qualsiasi e un ca­rabiniere, si tende a credere sempre meno al carabiniere. Chiedete alle rappresentanze militari, ai marescialli di sta­zione, all’ufficiolegale del Co­mando generale.
La realtà supera l’immagina­zione, l’impunità e latolleran­za calpestano ogni regola di legge e di buon senso. I carabi­nieri, come la polizia, fanno fa­tica a tornare quelli di un tem­po. Perché nessuno li difende, perché rischiare il processo ol­tre alla pelle, non conviene a nessuno. Fedeli nei secoli, ma mica fessi visti i precedenti. La politica sinistra che piange i carabinieri baluardo della de­mocrazia, è la stessa che li ha crocifissi al G8 di Genova, mu­linando la clava sul povero Pla­canica che per difendersi spa­rò a Carlo Giuliani, ergendosi a scudo della moltitudine che devastò un’intera città con­trapponendosi allo Stato in as­setto antisommossa.
Senza saperlo Martina ha da­to voce ai figli e alle mogli dei 1.482 cristiani di servizio allo stadio o nelle piazze usciti mal­conci negli ultimi tre anni, di cui nessuno s’è preoccupato mai. Ha parlato alla politica, perché chi tollera intenda. S’è rivolta a chi vuol rendere rico­noscibili i carabinieri in ordi­ne pubblico ma permette alla prole fighetta degli intellettua­li d’accatto di scendere in piaz­za, coperta in volto, armata di mazze e bombe carta. Senza volerlo ha chiesto di essere più seri, a tutti. Anche a chi pensa davvero che lo Stato debba risarcire la famiglia di un carabiniere ammazzato in servizio con soli 234mila euro quando alla mamma di un ra­gazzo morto per l’intervento «colposo» delle forze di poli­zia sono appena andati 2 milio­ni di euro. (il Giornale)