giovedì 30 giugno 2011

Il popolo non ha il "diritto di sapere tutto". Gianni Pardo


Image
L’uguaglianza dei cittadini è un mito che, inteso male, si potrebbe trasformare in letto di Procuste. Naturalmente nessuno l’intende così ma è ovvio che il principio va interpretato: il povero e il ricco devono essere giudicati e condannati nello stesso modo, se uccidono, ma non è giusto che il grande tenore e l’attrezzista siano retribuiti nella stessa misura; è giusto che ciascuno si occupi della propria sicurezza ma non è giusto che un magistrato minacciato dalla mafia debba pagare la sua scorta; è giusto che tutti abbiano il biglietto, al cinema, ma non è giusto che i poliziotti che entrano per sedare una rissa si fermino al botteghino. La parità di trattamento è giusta, ma bisogna sempre chiedersi riguardo a quali cittadini e riguardo a che cosa.
Nei secoli recenti si è parlato di uguaglianza a partire dalla Rivoluzione Francese. Allora i nobili erano esentati dalle tasse ed erano giudicati da tribunali a loro dedicati e si è reagito a questa ingiustizia in difesa dei più umili. Purtroppo qualunque principio, se lo si spinge troppo lontano, produce risultati negativi: e infatti oggi in Italia si pretende che il potente sia trattato peggio dell’umile.
Silvio Berlusconi è stato perseguitato come nessun altro imprenditore: se fosse stato il delinquente che dicono le Procure, in quindici anni l’avrebbero condannato cento volte. Un altro esempio di eccesso è la revoca dell’immunità parlamentare. Si è dimenticato che essa non è stata stabilita come privilegio dei deputati del Terzo Stato ma come loro protezione dagli abusi delle classi dominanti. E della magistratura loro alleata. Infine siamo alla discriminazione in quanto alla privatezza. Molti sono arrivati a dire che il popolo ha il diritto di “sapere tutto”! E questo è assurdo. Non si ha affatto il diritto di sapere ciò che si dicono due persone in privato. La stessa Chiesa, stabilendo il segreto della confessione, ha sancito il principio: “Lo dico solo a te”. Che poi sia: “Solo a te, in quanto ministro di Dio” è secondario. Dio non rivelerà mai ciò che è stato detto.
La nostra Costituzione da parte sua (art.15) statuisce che: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. E viceversa attualmente, nei media e nelle conversazioni private, circola lo strano principio secondo cui: “Il popolo ha diritto di sapere tutto”. Un politico dell’Idv ha avuto l’incoscienza di bestemmiare con queste parole: “I politici devono avere una privacy molto ridotta”. Senza capire che al massimo devono essere disposti a sopportare di essere fotografati più spesso.
In realtà, secondo la Costituzione, secondo il Codice Penale, nessuno ha il diritto di sapere se il suo vicino ha un’amante; nessuno ha il diritto di leggere la sua corrispondenza; nessuno ha il diritto di origliare alla sua porta. Ma ecco che questi sciocchi, questi fanatici, questi  Girolamo Savonarola d’accatto, vorrebbero negare questa privatezza a chi è Sottosegretario, a chi è Senatore, a chi è Ministro. Ecco il ribaltamento. Si passa dalla disuguaglianza a sfavore del popolo alla disuguaglianza a sfavore dei potenti. Come se due ingiustizie facessero una giustizia.
Ma è difficile ragionare con una parte del Paese dagli occhi iniettati di sangue e con la bava alla bocca. Questi anarchici da Ginnasio, questi  politologi da bettola vorrebbero che mentre tutti devono avere diritto alla loro privata immoralità, lo stesso diritto non l’abbiano gli uomini pubblici: questi dovrebbero essere trasparenti come il cristallo e irreprensibili come trappisti. Ciò contro la più banale esperienza storica: quella che fece dire a Bismarck che è meglio non chiedere come si fanno le salsicce e la politica. In queste condizioni tutti, non solo i politici, saremmo pressoché dei pendagli da forca.
Il popolo non ha diritto di sapere nulla di ciò che deve rimanere segreto. Chi lascia filtrare le intercettazioni (verbo più corrente: “passa”) intende danneggiare qualcuno. Non è il popolo che ha diritto di sapere, sono alcuni magistrati che usano del loro potere per andare contro una parte politica. E i giornali gli tengono il sacco.
Il Parlamento non ha solo il diritto, ha il dovere di proteggere lo Stato da queste intrusioni. Deve mettere il morso a chi crede, essendo un magistrato, che l’Italia abbia deposto ai suoi piedi tutti i poteri. Inclusi quelli del tiranno Dionisio di Siracusa. (Legnostorto)

mercoledì 29 giugno 2011

Quelle piccole bugie sul grande Indro. Marcello Veneziani

Esce oggi in libreria un'antologia di In­dro Montanelli su Berlusconi. Per i die­ci anni dalla morte di Indro c'è chi vuol barattare settant'anni di grande giornali­smo montanelliano con gli ultimi sette di antiberlusconismo.

O settant'anni di critica alla sinistra con gli ultimi sette di reciproche carezze. Sulla sua rottura con Berlusconi vorrei dire quattro cose, di solito dimenticate. La prima. Montanelli non fu profetico nel cri­ticare Berlusconi in politica, come il titolo del libro lascia capire ( Ve l'avevo detto ), ma il contrario: egli pensò che la sua disce­sa i­n politica sarebbe stata un disastro elet­torale e avrebbe trascinato nella rovina il Giornale . Fu soprattutto per questo che se ne tirò fuori. Così poi non fu perché Berlu­sconi ottenne un gran successo ripetuto.

La seconda. Montanelli non era indigna­to dal Berlusconi uomo d'affari, lo aveva avuto come editore anche dopo la P2 e col lodo Mondadori. In politica lo preoccupa­vano più i suoi alleati, gli ex-missini e i le­ghisti, che il partito-azienda. Magari un Berlusconi sceso in campo con gli ex dc, Segni o affini, non gli sarebbe dispiaciuto, turandosi o no il naso.

La terza. Quando lasciò il Giornale, Montanelli era convinto di portarsi larga parte dei lettori. Invece la Voce fu un mez­zo aborto, decorosa ma troppo intrisa di rancore antiberlusconiano. E i lettori ri­masero in gran parte col suo Giornale , per­ché la pensavano come il Montanelli di sempre e non come l'ultimo Indro. Anzi, ad essi si aggiunsero quelli venuti sull'on­da della svolta politica.

La quarta. Quando Montanelli descrive­va Berlusconi come­ un narratore di esage­rate chansons de geste sulle proprie impre­se, ci vedeva giusto; ma aveva torto a ripu­diarlo come figlio, perché in quello Silvio aveva preso molto da suo padre putativo, Indro. Infatti Montanelli costruì mirabili reportage su eventi che non vide di perso­na e splendidi ritratti su aneddoti assai modificati dal suo talento narrativo.
Dico tutto questo non per allungare om­bre su Montanelli ma per liberare Indro da quel monumento di stucco e lacca in cui lo hanno imprigionato. Del Montanel­li intero, e non di fine stagione, nutriamo incolmata nostalgia. (il Giornale)

venerdì 24 giugno 2011

Interferire è reato?

Image
Mi raccomando quell’emendamento. Abbiamo una banca. Frasi che isolate dal loro contesto danno l’impressione di una commistione impropria tra politica e interessi particolari, magari legittimi, come quello di un gruppo assicurativo che intende scalare un istituto bancario e di un’impresa di indubbio peso nazionale e internazionale che desidera ottenere un vantaggio attraverso una modifica legislativa. Tutto ciò, però, non è regolato da apposite leggi, come quella che riconosce e delimita la funzione delle lobby in America, e questo crea una zona grigia che può essere interpretata in modi assai controversi. Nel caso di Luigi Bisignani, la procura di Napoli considera un reato l’azione di lobbying “diretta a interferire sulle funzioni di organi costituzionali, amministrazioni pubbliche, enti pubblici”.
Che cosa vuol dire “interferire”? Dare informazioni, fornire documentazione, presentare proposte è ovviamente lecito a chiunque. Ma, si dice, chi interveniva su queste materie disponeva di informazioni particolareggiate, e “conoscere e avere informazioni che altri non hanno è la premessa indispensabile per esercitare il potere”. E’ un bel principio di trasparenza, ma alla prova dei fatti non significa nulla. E’ ovvio che chi è interessato a un particolare problema, specialmente se riguarda interessi aziendali, industriali o finanziari, dispone di informazioni che non sono di pubblico dominio e anche di una capacità di pressione, se si vuole di un potere di condizionamento, diverso da quello di un comune cittadino. Partendo da questo “principio” si potrebbe incriminare chiunque agisca per sostenere interessi specifici, il che è ovviamente assurdo.
In assenza di una legislazione di merito, la discrezionalità della magistratura nell’interpretare e sanzionare, magari in modo selettivo, le attività di lobbying si estende senza limiti razionali. Converrebbe a tutti studiare una regolamentazione e un controllo di queste attività, in modo da renderle obbligatoriamente esplicite e, nel contempo, autorizzate e accettate. Altrimenti chiunque riceva informazioni atte a promuovere atti legislativi, segnalazioni per l’attribuzione di incarichi, suggerimenti su scelte di investimento pubblico, rischia di essere travolto dallo scandalismo, che è poi un modo per evitare di giudicare nel merito le decisioni politiche. (il Foglio)

martedì 21 giugno 2011

Rogo del diritto. Davide Giacalone


E, badate, non si gridi alla persecuzione politica, perché Moretti viene dalla Cgil. E’ di sinistra. Quello che lo travolge non è un disegno politico, è un frullatore nel quale si gettano pezzi interi di un’Italia oramai pronta a tutto. Del resto, il Corriere della Sera s’accorge che il processo Mills non potrà mai giungere ad alcuna conclusione, che se ci avessero letti lo saprebbero da sempre, e fuori dal tribunale sono spariti sia avversari che tifosi. Le elezioni sono passate. E’ il turno della bancarotta giudiziaria. Del ministro Stefania Prestigiacomo leggiamo l’accorata supplica a Luigi Bisignani: se escono le intercettazioni mi rovinano. Ce ne risparmieremo la lettura: se lo dice lei …

C’è ancora qualcuno in grado di capire che questo è il rogo del diritto?  oppure sono tutti morti soffocati dalla viltà ipocrita di chi ripete: la giustizia faccia il suo corso? Noi alla giustizia ci crediamo, per questo non la riconosciamo.

venerdì 17 giugno 2011

Mi dispiace, cocchi de mamma, ma Brunetta ha ragione. Aldo Reggiani

Image
Ora che Brunetta ha detto ai dei fastidiossissimi e beceri “Precari Organizzati” ciò che moltissimi, a destra come a sinistra, pensano, e cioè che sono la parte peggiore del Paese, apriti cielo.
Condanne da tutte le parti, perché i precari italiani sono diventati come i “Disoccupati Organizzati” napoletani, una categoria di Madonne Pellegrine che la demagogia cattocomunista, da Santoro a Ballarò, porta in giro per colpevolizzare l’egoista Società capitalistica di non aver abbastanza a cuore i loro destini. Non se ne può più di gente che ti prende d’assalto e ti piazza le proprie telecamerine in faccia convinta di esser gli inviati di Striscia la Notizia, per poi mandarti su internet a raccogliere sputi e sbertuli da parte di una categoria tra le più socialmente inutili: quella di coloro che si sentono importati perché pubblicano i loro onanistici filmati su YouTube.

D’altronde non a caso Andy Warhol profetò che “La Televisione è quella cosa che renderà tutti (quasi tutti), famosi per quindici minuti”. Figuriamoci Internet.

Ma cosa volete che risponda uno come Brunetta che non ha fatto obiezioni a dare una mano fin da ragazzino e suo padre, ambulante veneziano, mentre studiava e si faceva largo nella vita, a piangenti italiche mamme che gli chiedono cosa possano fare i loro superdotati figlioli, che a petto del loro quoziente intellettivo, secondo le mamme, che Einstein era un minorato mentale, non trovano lavoro?
Esattamente quello che risponderei io: vadano a scaricare frutta e verdura ai mercati generali. Poi da cosa nasce cosa.
Visto che a petto di tanta piangente disoccupazione giovanile, godiamo di più di quattro milioni di immigrati che fanno lavori che i nostri cocchi de mamma si schifano di fare.
E la matematica non è un’opinione.

Chi, come un superintelligente e pozzo infinito di cultura del calibro di Oscar Giannino, si è fatto il culo partendo da condizioni sociali disperate, non può rispondere che la stessa cosa a beceri disoccupati palermitani che durante una trasmissione de “L’Ultimaparola”  battevano i piedini per terra perché non volevano andare a lavorare fuori città.
In una trasmissione successiva Giannino venne insultato e minacciato da un esponente della categoria di tali “disoccupati-precari”.

Perché questi disoccupatosi e precariosi hanno in comune  che sono maleducati e violenti, per il fatto che trasmissioni del cosiddetto “Servizio Pubblico” radiotelevisivo, come quella di Santoro,  li usano come utili idioti (per poi magari togliere loro di brutto il microfono quando si prendono un po' troppo spazio), e hanno loro insegnato che solo facendo un gran casino e insultando riescono ad emergere e, forse, a farsi sentire.
E loro possono dire e fare tutto perché sono “Vittime della Società”.

Beh, mi dispiace, ma  uno come il sottoscritto, che cominciò quindicenne a non solo  sgambettare sui palcoscenici, ma anche a imbottigliar medicamenti veterinari in oscure cantine o a battere a macchina paghe e contributi in grigi uffici di periferia, perché la famiglia stava andando in rovina (anche il mutuo da pagare) per via che il padre di famiglia, ottimo Perito Industriale Edile,  a causa di vecchie ferite e traumi di guerra, cadde malato per alcuni anni  e a differenza degli impiegati pubblici non godeva di stipendio assicurato sempre e comunque;  che a diciassette già guadagnava quanto il genitore, lavorando come un ciuco, in Teatro e altrove,  senza mai lamentarsi e maledire Vita e Società, anzi divertendosi un mondo a fare sempre nuove esperienze, non può che condividere le diagnosi di quelli come Brunetta e Giannino: si mettano un’elica tra le chiappe e si diano da fare.
Altro che gioventù senza un futuro.

Ma “sociologicamente” (ah ah) parlando, la faccenda di questa massa di imbecilli che magari hanno fatto l’università e che, come si è visto durante le ultime becerate studentesche contro la salvifica  Riforma dell’Università della geniale Gelmini, in un comunicato stampa di quattro frasi semplici semplici, sono riusciti ad infilare sei strafalcioni che una volta non sarebbero stati condonati in seconda media,  la dobbiamo a quella penetrazione gramsciana di concetti comunistici nella nostra Società, per cui uno che si è appena diplomato ragioniere, dà per scontato che deve trovare subito un bel posto, magari fisso, e lautamente pagato.
Di tirocinio non si parla più.
Perché lo Stato Mammo ha da garantirti pane, companatico, e oggi anche spinello.
Comunque.
Beh, mi dispiace tanto: io sono d’accordo con quanto diceva un maestro indiano.
“Vivi la tua vita come tu fossi una cascata di scintille”.

Queste becere e spossate masse, non hanno neanche la voglia di metter a frutto il tempo che passano su Internet per inventarsi qualcosa da fare.
Come ha fatto, con molto successo,  la famiglia della bella Kate che recentemente ha impalmato un Principe Azzurro inglese.
Invece abbiamo una razza di segaioli che, sia che lavorino o non lavorino, passano il tempo on-line per insultare e dire cazzate immani, scambiando la libertà di parola per il diritto di dire parole in libertà.
Per poi affollare fino alla sei di mattina  le Colonne di San Lorenzo a Milano o Campo de’ Fiori a Roma.

Un grande filosofo contemporaneo, Marlene Dietrich, osservava che l’umanità è fatta da “confortable and uncofortable persons”.
E che quelle confortevoli fungevano da locomotive.
Mentre le altre si fanno faticosamente trainare come vagoni, cigolando e lamentandosi magari perché la locomotiva va troppo veloce.

Questa società comincia ad esser troppo affollata da vagoni cigolanti e sgarrupati già a vent’anni. (Legno Storto)

domenica 12 giugno 2011

I pentimenti erotici di papa Silvio. Marcello Veneziani

Si chiamava Silvio, segno zodiacale Bi­lancia, cognome Piccolomini, allusi­vo alla statura. Ambizioso, esuberante, intraprendente, aveva però un debole: le donne. Ne amava a stecche intere - plu­res amavi foeminas, diceva di sé il gran marpione. Poi, dopo una vita allegra e fi­gli spuri, arrivò il giorno della Quaresi­ma, come egli stesso scrisse: «Ora giunge il giorno della salvezza, l'ora della miseri­cordia. Sono satollo, sono nauseato, il piacere carnale (Venere) mi ripugna. Ve­ro è altresì che le forze mi vengono meno, i capelli mi si sono imbiancati, ho i nervi aridi, le ossa cariate, la pelle solcata da rughe, e non posso più dare piacere a una donna veruna, né donna può dar piacere a me».

Grazie a Dio all'epoca non esiste­vano lifting, trapianti, cialis e pompette; così il Piccolomini, reso inabile dagli an­ni e dai malanni, si pentì e diventò pio, anche di nome; Pio II Papa. Oltre che fem­miniero lui però era umanista, oltre che Silvio era anche Enea. E la città che si co­struì non fu una specie di Milano due ma Pienza, dal suo nome pontificale. Vedi i vantaggi del mondo antico? Arrivava il momento della Quaresima e non potevi opporre resistenza, così sublimavi e ti da­vi alla santità. La colpa è del progresso tec­nico, scientifico e sanitario, dei telefoni e delle intercettazioni, oltre che della tele­visione (è sempre colpa della televisio­ne). Forza Silvio, dopo l'ennesima pubbli­cazione di intercettazioni sui festini che la presentano come un malato di sesso, dichiari urbi et orbi il suo pentimento, ci­tando il precedessore in lingua originale: «Plenus sum, stomachatus sum, nause­am mihi Venus facit », appellandosi a Bo­na Fides et Mores (si traduce con buona fede e buoni costumi, e non Fede, Mora e le bonazze).

Si dissoci dall'eurotismo, l'unione europea degli arrapati, che va dalla sinistra (Strauss Kahn) ai Re (Gusta­vo di Svezia). Si penta, Cavaliere: i giudici non l'assolveranno, ma potrà aspirare, dopo Palazzo Chigi, al soglio di San Pie­tro, che per l'immunità e la gloria vale molto più di un lodo Alfano o del legitti­mo impedimento... Papi non si nasce, si diventa. Tradotto nel gergo di Santa Ro­manesca Chiesa: Io Pio ma voi nun me piiate. (il Giornale)

sabato 11 giugno 2011

Calci all'impresa. Davide Giacalone

Se qualcuno, in giro per il mondo, leggerà la storia recente di Gian Mario Rossignolo state sicuri che ne trarrà una sola conseguenza: stiamo lontani dall’Italia, investiamo altrove i nostri soldi. Se la racconto è perché desidererei l’esatto contrario. Ma non basta desiderare, occorre darsi da fare. Rossignolo è stato preso a calci e bottigliate, ma tale violenza non è solo fine a se stessa, è una dimostrazione che il Paese è refrattario all’impresa. Cosa assai più grave.

Il caso è, negativamente, esemplare. Rossignolo (di cui sono amico e alla cui avventura ho dato una mano, com’è giusto che il lettore sappia) ha preso un vecchio marchio della storia automobilistica italiana, De Tomaso, e ne ha fatto una nuova casa di produzione. Il vantaggio competitivo sul quale ha puntato è l’innovazione tecnologica: tagli laser, pochi stampi, grande versatilità, auto di lusso rifinite a mano. Che il suo progetto stia in piedi o meno lo deve stabilire il mercato, naturalmente, ma che abbia investito soldi propri e abbia realizzato già il primo modello è un fatto sicuro. Altrimenti non avrebbero potuto prendere a calci la macchina De Tomaso.

Il primo insediamento industriale De Tomaso si trova in Toscana, dove ci sono i normali problemi industriali. A Grugliasco, Torino, gli operai Pininfarina erano da due anni in cassa integrazione. A Rossignolo è stato chiesto se pensava di potere salvare quei 1.100 posti di lavoro. Lo ha fatto. Avesse rifiutato si sarebbe risparmiato gli insulti e quelle persone sarebbero oggi senza lavoro. Il salvataggio è avvenuto alle condizioni che il mercato consentiva: un progetto di ristrutturazione e rilancio, approvato dalle istituzioni nazionali, regionali e comunali, che potesse accedere ai fondi europei. Oggi disponibili. Nel frattempo l’impresa ha anticipato i soldi, facendo da banca per pagamenti che dovevano essere pubblici. Non ci sono, quindi, ritardi nel pagamento degli stipendi, semmai ci sono molti salari pagati per conto d’altri. Si sarebbe dovuto ringraziare, invece si maltratta.

Per ragioni amministrative s’è chiesto all’impresa, rispetto ai primitivi accordi presi, di spacchettare i finanziamenti richiesti, dividendoli in innovazione di prodotto e innovazione di processo. E’ stato fatto. Solo che, nel troppo tempo passato, è cambiata l’amministrazione regionale e, ora, i nuovi governanti non riconoscono gli impegni presi dai predecessori. Il che crea un problema enorme.

Immaginate che, negli Stati Uniti, nel mentre Sergio Marchionne e Fiat erano impegnati a salvare Chrysler fosse cambiata l’amministrazione statunitense e il nuovo Presidente avesse deciso di cambiare le regole del gioco e dei finanziamenti. Lo so, è inverosimile, perché gli Stati Uniti si sarebbero giocati la faccia, ma è quello che sta succedendo da noi. La conseguenza sarebbe stata ovvia: anziché la visita di complimenti e la felicità collettiva ci sarebbe stato un saluto degli italiani e un invito a farsi benedire.

Attenzione: De Tomaso non è una vecchia azienda, oggi in crisi, è un nuovo (vecchio) marchio, una nuova produzione, una nuova fabbrica che è nata alle condizioni date dal mercato, quindi non c’è una sola lira pubblica, o europea, destinata a “salvarla”, bensì un imprenditore che rischia il suo nel rispetto delle regole. Le regole, però, devono rispettarle tutti. Capita, invece, che mentre la regione ritarda i propri impegni, o, addirittura, li nega, pretende il pagamento degli affitti degli stabilimenti, come originariamente stabilito, e siccome i pagamenti tardano, visto che i soldi sono serviti a sviluppare il prodotto e pagare gli operai, dichiara inaffidabile il pagatore, il quale non trova più gli appoggi bancari per garantire i fondi europei, che restano congelati. E’ una storia di collettivo masochismo e, appunto, chiunque la legga, nel mondo, verrà in Italia solo in vacanza, non certo a investire.

La cosa impressionante è che, a torto o a ragione, attorno all’avventura De Tomaso c’è stato un forte interesse, e relativi ordini, al salone di Ginevra, così come ci sono investitori esteri che stanno negoziando il loro ingresso. Ciò vuol dire che potremmo presto trovarci con fabbriche De Tomaso all’estero, o con l’uso della tecnologia innovativa in altre parti del mondo, ma non in Italia. A quel punto che si fa, si riprende a dare calci e bottigliate? E a chi?

Gli amministratori piemontesi, pur condannando la violenza, si dicono comprensivi con la rabbia degli operai. Ma senza gli investimenti di De Tomaso quelli sarebbero dei disoccupati. Senza la follia (perché tale è) di un anziano signore che potrebbe comodamente vivere del suo, senza la sua voglia di tornare a rischiare (tutto), la politica si sarebbe trovata una piazza che avrebbe preso altri a calci e bottigliate. A quel punto, per essere comprensivi, non sarebbe rimasto altro che usare soldi pubblici per finanziare la non produzione e sovvenzionare quel che non è produttivo. Esattamente la via che ci ha portati ad essere patologicamente indebitati.

Quindi, con tutto il rispetto per Rossignolo, egli può anche andarsene. Gli si possono rimproverare gli errori e indurlo a chiudere, rinunciando anche a salvare lo stabilimento Fiat di Termini Imerese che, qualora ci se ne fosse dimenticati, chiude i battenti e licenzia tutti. Ma quello che si pone non è il problema di un singolo imprenditore, bensì quello di un mercato governato senza un minimo di rispetto per le regole. Ricetta sicura per produrre rabbia, violenza e fallimenti.

La vacanza dell'assassino. Claudio Magris

Dunque Cesare Battisti, il killer che ha assassinato quattro persone e reso paralizzata per sempre una quinta - senza dimostrare mai, a differenza di altri suoi colleghi nel crimine, pentimento per i suoi delitti o pietà per le sue vittime e i loro familiari, a parte una frettolosa dichiarazione di queste ultime ore - potrà godersi deliziose vacanze a Copacabana, coltivare le sue amicizie altolocate.
La Francia - che ha rifiutato a suo tempo l'estradizione di Battisti in Italia - è forse il Paese migliore del mondo, quello che combina nella misura più felice o meno infelice ordine e libertà, i due poli della vita civile. Ma anche la Francia è culla di qualche supponente e spesso ignorante conventicola intellettualoide che trancia giudizi ignorando i fatti. In questo caso, per pura ignoranza - mista a civetteria - alcuni autentici e/o sedicenti intellettuali hanno scambiato Battisti per un martire della Resistenza, come se noi dichiarassimo che un fascistoide antisemita quale Papon è un eroe della Résistence.

Con i terroristi di casa loro, quali i membri di «Action Directe», il governo francese ha usato il pugno di ferro e non ci sono state grandi proteste. Le Brigate Rosse - questi pezzenti della politica, che disonorano un colore per noi sacro disse il presidente Pertini - hanno colpito l'Italia più aperta e civile; hanno assassinato non già corrotti, mafiosi o golpisti (il che sarebbe stato comunque un grave reato) ma i rappresentanti dell'Italia migliore, un'Italia più libera e democratica che avrebbe potuto essere diversa da quella di oggi; uomini come l'avvocato Croce, l'operaio comunista Guido Rossa, giornalisti come Carlo Casalegno e Walter Tobagi, il professor Bachelet e molti altri, fra i quali numerosi magistrati. (Il 5 maggio 2003 in un'intervista sul Corriere, Toni Negri si dichiarava solidale con Berlusconi in quanto entrambi perseguitati dalla magistratura). Non a caso, all'epoca dei processi contro i brigatisti rei di omicidio, quando alcuni giurati declinavano per timore l'incarico, ad offrirsi di sostituirli era, ad esempio a Torino, un militante antifascista resistente come Galante Garrone; sempre a Torino, un altro impavido comandante partigiano, il grande storico Franco Venturi, appresa la notizia del rapimento Moro e della mattanza della sua scorta - eravamo per caso insieme, nella presidenza della facoltà di Lettere - disse che forse si sarebbe dovuto ritornare in montagna. La profondità politico-filosofica delle Brigate Rosse può essere riassunta nella frase di quel brigatista pentito il quale dichiarò che, avendo avuto nel frattempo una figlia, aveva capito che non è lecito uccidere un papà, come se fosse invece meno grave uccidere chi è soltanto zio. Francesco Merlo ha scolpito con la sua consueta forza la malafede di tutta questa vicenda, ricordando, egli scrive, il ghigno ammiccante di Battisti che non ha neppure la dignità del duro. Si pensi, per contrasto, alla dignità con la quale altri pure passati attraverso quegli anni di piombo - ad esempio Sofri - hanno saputo fare i conti con se stessi.

Ora Battisti potrà scrivere in pace i suoi gialli - anzi, noir suona più fascinoso - anche perché è un genere in cui si muove bene, grazie alla sua familiarità con gli assassinii. Mi viene in mente un vecchio racconto di fantascienza, in cui si immagina che i fatti e gli eventi obbediscano a un copione in cui tutto è già stato scritto da sempre, ma in cui ci sono errori di stampa che, tradotti in realtà come ogni parola di quel testo misterioso, creano assurdi pasticci: ad esempio, se invece di scrivere «negare i fatti» si digita «annegare i gatti», ecco che ciò provoca una strage di felini. Forse, in quel testo, si è fatta confusione tra due Cesare Battisti, il patriota di cent'anni fa e il killer di oggi, e a finire impiccato a Trento, quella volta, non è stato quello che era previsto. (Corriere della Sera)

venerdì 3 giugno 2011

3 giugno 2011

Silvio Berlusconi è proprio un sovversivo. Durante la parata militare del 2 giugno, infatti, ha toccato il Re di Spagna. Subito, il nostro Capo dello stato, pur in pieno festeggiamento repubblicano, lo ha rimproverato: “Sua Altezza non si tocca”. Sempre così i comunisti. Hanno un innato uso di mondo, specie con i titolati. Sono i custodi del bel tempo antico. Non c’è che dire: noblesse obblige.

Ma il centrodestra non sa più comunicare: anche per questo perde. Marcello Foa

Fino a qualche tempo fa il quadro era chiaro: intellighenzia a sinistra, comunicazione a destra. Ovvero: il mondo della cultura, dei libri, i talk-show (Santoro, Lerner) e l’intrattenimento chic (Fazio, Dandini) erano solidamente in mano a intellettuali e giornalisti progressisti, ma in campagna elettorale Berlusconi e, al nord, Bossi sapevano toccare le corde giuste per entrare in sintonia con l’elettorato; insomma sapevano comunicare meglio. E per questo vincevano.

Il primo assunto resta valido, come dimostra, tra l’altro, il flop di Sgarbi, che conferma un paradosso storico: l’Italia in questi anni è andata a destra, ma Berlusconi non ha mai saputo – e forse nemmeno voluto – creare un’élite culturale di destra, capace di contrastare sia in televisione che nei giornali e nelle case editrici lo strapotere della sinistra. Perché in vent’anni non è emerso un solo volto televisivo di destra capace di reggere una trasmissione in prima serata, come fa Floris? Non avendo costruito una nuova élite culturale e non essendo stato capace di preservare la grande tradizione liberale del Giornale di Montanelli, Bettiza, Piovene, Zappulli, Aron, il centrodestra ha di fatto regalato quel mondo alla sinistra. E oggi ne paga le conseguenze, lasciando tutto un mondo in mano agli altri .

Il secondo assunto è invece molto sorprendente. Degli errori di comunicazione commessi in questa campagna elettorale ho scritto di recente sia sul blog sia su il Giornale (vedi qui, qui e qui); però ho l’impressione che il centrodestra sia ancora sotto choc e che improvvisamente non riconosca più il mondo che lo circonda. Non sa più capire gli umori (e i malumori) dei cittadini e non sa più farsi capire. Pdl e Lega continuano a proporre la solita comunicazione, basata sul richiamo carismatico di Berlusconi e Bossi, che però non è più sufficiente e, talvolta, appare inadeguata. I leader del centrodestra da un lato non sanno più proporre i messaggi necessari per entrare in sintonia con i cittadini, sembrano aver perso il tocco magico. Dall’altro non sanno usare internet e i social network. Guardate come ha reagito la sinistra alla sentenza della Cassazione sul referendum sul nucleare: è partita immediatamente la mobilitazione, imperniata su internet. I comunicatori di sinistra hanno capito che internet serve a far circolare l’informazione, a creare aggregazioni nella società civile nella Rete, ma anche fuori. Poco importa che la signora Maria non vada su internet, l’importante è che ci vadano i suoi figli, i suoi nipoti, il suo giovare vicino di casa. Saranno loro a spiegare, informare, coinvolgere nel modo più efficace proprio grazie alla confidenzialità, al dialogo uno a uno con una persona di cui ci si fida.

Il volano garantito da Santoro e affini, Travaglio, Repubblica, le radio serve a rendere universale il messaggio e davvero completa la comunicazione. E la destra? Ha ripetuto i soliti slogan, mandato in tv i soliti politici, a cui la gente crede sempre meno associandoli a un’immagine perdente. Su internet è estremamente lacunosa. Il centrodestra rincorre la sinistra o tenta di controllare rigidamente il messaggio; non monitora gli umori, non promuove campagne, non ha nemmeno capito come si incentiva la circolarità e come si usano i social network. Insomma, non sa più comunicare né in tv né sulla Rete. C’è da stupirsi se poi perde? (il Giornale)