martedì 29 gennaio 2008

Divisi da Pannella uniti dal Cavaliere. Susanna Turco

Non si può certo dire che il loro passato li abbia aiutati ad amarsi, eppure in prospettiva sarà proprio la politica a voler­li insieme. Daniele Capezzone e Bene­detto Della Vedova, il fondatore del network Decidere.net e il presidente dei Riformatori liberali, l'iperattivo talentuoso e il bocconiano tenace, sono diversi in tutto tranne che nella storia politica. Già radicali di belle speranze, ultimi in ordine di tempo tra "soprav­vissuti" al distacco da Pannella l'ex pupillo e l'ex oppositore del gran capo dopo aver incarnato il bianco e il nero della politica di Torre Argentina si ri­troveranno insieme, nelle prossime elezioni, nel centrodestra del Popolo delle libertà, o comunque gravitanti nell'area di Forza Italia. Entrambi ne­gano di voler fare i «capetti di partiti-no», e certamente - scarsa affinità ca­ratteriale a parte - non hanno in pro­gramma di fondere le rispettive crea­ture. Eppure, quando si tratterà di de­cidere modi e forme della prossima corsa al voto, non è da escludere che potranno trovarsi a dover rappresenta­re, magari con una lista di bandiera, le posizioni e le ragioni dei radicali di de­stra («sempre che Berlusconi faccia posto a tutti e due», malignano gli ex compagni di partito).

«Sono sicuro che finiremo inevitabil­mente e felicemente per lavorare insie­me», dice assicura Della Vedova. «An­che se, in realtà, spero sempre che sia l'intero gruppo radicale a scegliere di schierarsi da questa parte», aggiunge. Oggi deputato di Fi, lui il gran salto fuori da via di Torre Argentina, verso via dell'Umiltà, l'ha fatto nell'estate del 2005, creando il movimento dei Riformatori liberali - collegato da un patto federativo con Forza Italia alle ultime elezioni - dopo aver sostenuto per anni che i radicali dovessero «giocarsi le lo­ro carte» non fuori, ma dentro una coa­lizione: «Lo dissi per l'ultima volta in un'assemblea del giugno 2005, mi ri­sposero che non era ancora aria», racconta, «Allora incontrai Berlusconi, nel momento in cui tutti scappavano in di­rezione opposta, e gli comunicai che volevo contribuire a rafforzare il connotato liberale e liberista del centrode­stra». Detto, fatto. E visto che nello stesso periodo la leadership radicale stava maturando la scelta di buttarsi a sinistra, Della Vedova si è trovato di lì a poco nella ottima posizione di incarna­re il dissenso degli scontenti per la svolta pro-Prodi.

Di qui la nascita, con il contributo anche economico di Berlusconi, del movimento dei Riformatori liberali guidato da Della Vedova con Marco Taradash, Peppino Calderisi e Carmelo Palma. Un movimento «liberale, liberi­sta e libertario», come vuole lo slogan, che però a dispetto del battesimo inco­raggiante, finisce per arenarsi, eletto­ralmente parlando, nelle secche della scarsa visibilità. Alla Camera, l'unica candidatura "sicura" dentro le liste di Forza Italia è alla fine soltanto quella di Della Vedova. Al Senato, per via del­le difficoltà nella raccolta delle firme su nuovo simbolo "Riformatori liberali-Radicali per le libertà", il movimento riesce a presentarsi con liste autonome soltanto in Veneto, Puglia e Sicilia, otte­nendo così 7.768 voti e nessun eletto. «Se Berlusconi avesse mandato Bene­detto più spesso in televisione, il risul­tato sarebbe stato ben diverso», è il commento di Marco Pannella.

Comunque sia, mentre quello dei Riformatori liberali rimane sostanzial­mente un movimento di opinione, atti­vo soprattutto nell'ambito referendario (prima per il sì alla riforma costituzionale, poi nel comitato promotore di Guzzetta), Della Vedova, «unico so­pravvissuto» di RL in Parlamento, in questi due anni ha lavorato «più dentro che a fianco di Forza Italia», «rappresentando una specificità che non vuole differenziarsi, ma arricchire la propo­sta». In prospettiva si vede come una delle tante «anime» che graviteranno nel Popolo delle libertà: «Non ho mai pensato di fare il leaderino di partitino, è un'idea mi fa venire l'orticaria. Riten­go che si debba superare la frammen­tarietà e intendo il centrodestra come un grande partito in cui ci sia competi­zione tra tante anime che si ritrovano attorno a una serie di obiettivi precisi di politica e di governo». Piuttosto lon­tana da lui è quindi l'ipotesi di fare, se non un partito, quanto meno una lista liberal-radicale: «Mi sento parte del Pdl e di Forza italia e chiederò certa­mente il voto dei radicali per la coali­zione guidata da Berlusconi. Il resto è strategia e tattica elettorale di cui è presto parlare», dice. Ed è, il suo, lo stesso atteggiamento con il quale si accosta al tema Daniele Capezzone.Parecchio impegnato sia con Decidere.net, il network di elabo­razione di proposte economiche che a breve lancerà una nuova iniziativa sul private equity, sia con la recente dire­zione politica dell'agenzia di stampa "il Velino", l'ex enfant prodige, deputato del gruppo misto dopo un faticoso distacco dai radicali, conferma «il desiderio di dare una mano al progetto del Popolo libertà» e si augura che «alcune nostre proposte siano giudicate inte­ressanti». Qualcosa di più preciso circa la sua collocazione non è per ora dato sapere: «Ho il mantra dei contenuti», spiega, «e sono convinto che rispetto a questi due nuovi partiti che nascono, Pd e Pdl, sarebbe importante portare ciascuno i propri contenuti e cercare di lavorare insieme». (Liberal)

lunedì 28 gennaio 2008

Gaza, buio in scena vince la propaganda. Dimitri Buffa

Lo sapevo. Ci siamo di nuovo cascati. Come su “Scherzi a parte” . Ancora una volta i simpatici cineasti di Hollywood Palestina l’hanno fatta in barba a tutti i media mondiali, molti dei quali ansiosi di farsi fottere in questa maniera, con la simpatica balla di “Gaza al buio perché quei boia degli israeliani ci hanno tolto la luce”. A smascherare la sceneggiata ancora una volta il Jerusalem Post che in un articolo dal titolo molto significativo, “Luci spente, camera, azione”, ha descritto la conferenza stampa a lume di candela del leader golpista di Hamas Ismael Haniya, che ha convocato all’uopo tutti i volenterosi giornalisti occidentali nel suo ufficio mentre fuori dal palazzo però, piccolo particolare, le luci erano tutte accese.

A descrivere la ridicola messinscena anche una bravissima blogger israeliana che scrive per informazionecorretta.com, Deborah Fait. Che ci decrive la farsa con le parole usate da alcuni reporter israeliani: “Haniya, ci ha convocati nel suo ufficio, siamo entrati e abbiamo trovato lui e i suoi ministri, al buio, seduti intorno al tavolo e davanti a ognuno c’era una candela accesa.
Strano, abbiamo pensato, perché era giorno e sulle scale c’era la luce elettrica! Avevano chiuso tutte le tende per rendere la stanza completamente buia. Ci ha ordinato di fotografare e di ritornare la sera stessa. Siamo ritornati e abbiamo trovato il quartiere al buio, nelle zone da cui venivamo invece c’era la luce e decine di donne e bambini per la strada con le candele accese in mano”. Commento della Fait: “questi sono i racconti dei giornalisti palestinesi arrivati ieri a Gerusalemme.

Li abbiamo visti e sentiti in diretta alla TV israeliana e stiamo ancora ridendo. Sembra impossibile che i palestinesi siano tanto sicuri di poter prendere in giro il mondo intero da arrivare a fare le sceneggiate ”aiuto non abbiamo la luce, Israele ci sta togliendo tutto!“ persino durante il giorno. Sono davvero arcisicuri che Eurabia creda ad ogni loro parola.” Scrive ancora la Fait sul proprio blog: “sembra impossibile ma hanno ragione, il mondo gli crede, qualsiasi cosa dicano il mondo pende dalle loro labbra e all’ONU ti schiaffano una bella risoluzione contro Israele, senza nemmeno accennare ai bombardamenti su Sderot. Il mondo urla ”Israele affama i palestinesi“ e li guarda, belli grassi, hanno persino la pancia, i bambini hanno belle guanciotte rotonde però continuano a gridare i soliti idioti ”Israele affama i palestinesi, non possiamo accettare una punizione collettiva“. A Sderot invece si? Sderot può essere punita collettivamente? I bambini di Sderot possono im-pazzire di paura? Sparano 50 razzi al giorno, in poco più di 2 anni sono caduti nel sud del Neghev più di 9000 Qassam”.

E a proposito di leggende da sfatare ieri è caduta miseramente anche quella dell’umanitarismo di Moubarak che avrebbe permesso ai sempre “poveri palestinesi” di approvvigionarsi su territorio egiziano dopo avere fatto saltare il muro di cui non parla nessuno, quello che chiude il valico di Rafah dalla parte egiziana. Ieri infatti è stata la giornata dell’intervento massiccio delle unità anti sommossa egiziane. Le agenzie riportano che “ieri mattina le autorità egiziane avevano deciso di rafforzare il contingente di militari nella zona per riprendere gradualmente il controllo della situazione e ripristinare il confine”. Secondo l’inviato della tv araba al-Jazeera, in realtà il valico sarà chiuso oggi, mentre ieri i militari hanno avuto il compito di impedire l’ingresso dei palestinesi in Egitto e di incoraggiare energicamente le decine di migliaia ancora presenti nel loro territorio a tornarsene nella striscia di Gaza.
Appena ci scapperà il primo morto, e gli egiziani non vanno molto per il sottile (loro gli omicidi non li mirano ma tendono a socializzarli), vedrete che forse finirà anche la bella favola dell’Egitto equo e solidale. (l'Opinione)

mercoledì 23 gennaio 2008

Il destino del governo è segnato. Paolo Conti

«La crisi del governo Prodi? Cominciò in campagna elettorale. Sa quando ho sospettato che la faccenda non avrebbe retto fino alla fine della legislatura?» Giuseppe De Rita presidia la sua scrivania al Censis da dove ha partorito la definizione dell'Italia-mucillagine, idealmente ripresa dal cardinal Bagnasco. La «faccenda», naturalmente, è il governo Prodi.
Quando lo ha sospettato, professore? «Negli ultimi giorni della campagna elettorale, quando i giornali registrarono un calo dell'8% dei consensi. E perché Prodi li aveva persi? Solo perché balbettava, non sapeva presentarsi bene in tv?» Sembra di capire di no... «Certo che no. Li aveva persi perché non esisteva uno straccio di programma. Perché non poteva promettere nulla. C'era solo da tener su il nuovo corpaccione dell'Unione. C'era cioè da allearsi con Bertinotti a tutti i costi pur di battere Berlusconi. Ecco, l'errore di fondo. Stare insieme solo in nome dell'antiberlusconismo ».
Il ricordo di una cena privata, un mese prima delle urne. «Incontrai esponenti importanti dei Ds e della Margherita ». Chi? «No, niente nomi. Chiesi: perché tornate su Prodi, che forse non è in grandissima forma? Mi risposero: perché porta in dote Bertinotti. Solo così battiamo Berlusconi ». De Rita riprende fiato: «L'errore fu lì. Incanalarsi verso l'affermazione elettorale senza offrire una vera sostanza, un programma condiviso. Lo si è capito guardando la tv, nei giorni dopo la vittoria. Un programma inventato "dopo" che tutti potevano tirare dalla propria parte senza essere smentiti. "Il mio programma è il risanamento del debito, il rigore". Oppure "il mio programma è la ridistribuzione del reddito, far piangere chi non ha pianto finora". Che vittoria, poi: parliamo di 25 mila voti...». Il professore è in buona forma, nonostante un recente intervento chirurgico alla spina dorsale. La gamba destra è incerta. Le idee no. Ecco un ardito parallelo con Craxi. Che c'entra l'ex segretario del Psi con Prodi? «C'entra, c'entra. Prodi, in questo identico a Berlusconi, ha commesso un altro errore. Ha accettato la personalizzazione, la verticalizzazione, quindi la mediatizzazione e anche la finanziarizzazione del potere. Ovvero il decisionismo».

Pensa alle volte in cui Prodi in tv ha detto Io resisto, Io vado avanti. «Già, per esempio. Con questo metodo è finito il parallelismo governo- popolo. Fino al 1992 il governo progettava, spiegava, il popolo capiva e alla fine accettava. Così c'è...» Un uomo solo al comando? «Esatto. Un uomo solo al comando. L'unico ad aver tentato una strada diversa fu il primo governo Amato. Poi, niente. Ecco perché il Censis descrive il corpaccione Italia ridotto a mucillagine per il 75%. Perché c'è una società lasciata a se stessa. Una società sfilacciata proprio perché abbandonata. Coriandoli, dice Bagnasco. Infatti io ho parlato di ritagli di umanità. Possono volare o affondare, ma certo non fanno struttura ». Viene in mente la faccenda del declino. De Rita quasi insorge: «Qui c'è un altro equivoco. Non bisognava parlare di declino, perché il 25% che manda avanti il Paese se la cava bene. Occorreva prendere l'Italia e discutere di degrado, di coriandolizzazione ed egoismo, di ragazzi ipnotizzati da Internet e dalla tv. Magari di redditi bassi». Sta pensando al tesoretto, De Rita? Il professore ha quasi una smorfia di disgusto: «Un'altra faccenda gestita non si sa come. Ma è possibile pensare che dare qualche decina di euro in più per tre mesi ai più poveri potrebbe mai risolvere il problema degli squilibri sociali? Eh no, signori, non ci siamo proprio. Sarebbe stato più serio metterli nel deficit». Quante volte ha pensato che Prodi sarebbe naufragato? «Tutti i giorni. E insieme mai davvero. Perché l'uomo è tenace, pronto a prendere botte a destra e a sinistra, pervicace. E anche, lo dico, molto onesto». Come finirà? «Non lo so. Prodi sa che molti dell'Unione, se cadono oggi, non rivedranno il potere per altri trent'anni. E chissà che la prospettiva di questo massacro politico...». (Corriere della Sera)

lunedì 21 gennaio 2008

Sedici anni dopo. Davide Giacalone

Sedici anni dopo il 1992 un’Italia più povera, più sporca e più disordinata, affonda nuovamente nel marasma giudiziario. Dando ragione a Marx, che, al contrario dei marxisti, fu pensatore potente: la prima volta come tragedia e la seconda come farsa. Nel biennio giustizialista 1992-1994, dal quale non siamo mai usciti, una classe politica democratica e capace di non perdere mai la maggioranza assoluta dei consensi elettorali, fu travolta dalla propria incapacità di comprendere le conseguenze del nuovo ordine mondiale, succeduto alla fine della guerra fredda, dalla propria perdita di moralità, e da un’azione giudiziaria che ebbe nella procura di Milano la propria intelligenza e pianificazione, capace di diffondere l’eco nelle altre procure. Il crollo di quel sistema si accompagnò al crollo del diritto e ad un imponente travaso di ricchezza dalle casse pubbliche a poche tasche private, anche non italiane. Quando si riscriverà quella storia non si tratterà d’essere “revisionisti”, ma di leggere, per la prima volta, la realtà senza mascherarla con il pregiudizio e la propaganda.
Ora le cose vanno diversamente. La magistratura riafferma il proprio potere, ma ha perso funzione unitaria e centro motore. Ciascuno va per i fatti propri, organizzando lo spionaggio di massa e l’istruzione di procedimenti ridicoli. Non saprei come altro definire le inchieste sulle attricette in una città avvelenata da rifiuti e malaffare, o quelle sulle presunte concussioni dove il concusso non si ritiene tale e la malapratica della lottizzazione è prevista dalla legge. Il mondo politico, del resto, ha perso i partiti e le idee (buone o cattive) ed è popolato da abusivi che si autoconservano senza disporre di consenso democratico. Da quattordici anni gli italiani votano non per, ma contro qualcuno. Ancora un poco e dimenticheranno il perché. L’opposizione rimprovera al governo le famiglie che s’indebitano ed affamano, salvo le due parti scambiarsi il posto ed anche il copione. Restano clientelismo e corruzione, senza che sia possibile fare appello alla giustizia, oramai ridotta ad inquisizione fine a se stessa.
La seconda Repubblica, istituzionalmente mai nata, è riuscita a morire. Ora basta. Il confine fra decadimento e immiserimento, fra rifiuto e cattiveria, è sottile. Ed è pericoloso.

sabato 19 gennaio 2008

Contrada, vittima di una riforma infelice. Mauro Mellini

Ho sotto gli occhi tre articoli che scrissi per “Giustizia giusta” allora mensile stampato, sul caso Contrada, rispettivamente il 31 luglio 1995, il 30 aprile 1996 e un altro successivo in tre fasi cruciali di quella vicenda così arruffata ed, allo stesso tempo, lineare. Tre articoli ispirati a sostanziale scetticismo, a sdegno per le assurdità e le ingiustizie che si andavano consumando ed a volontà e necessità che su quel caso non si mollasse, nell’interesse di Contrada, certo, ma di molti, moltissimi altri la cui libertà era (ed è) ugualmente in giuoco in condizioni in qualche modo simili a quelle del ben noto “Superpoliziotto”.
A leggere, a distanza di anni quel che scrivevamo allora, ricavandone che ben poco avremmo oggi da aggiungerci, è cosa che ci allarma più di quanto non possa soddisfarci. Non si tratta, infatti, di particolare acume divinatorio: il copione era chiaro. Bastava attenersi al copione per conoscere il presente e il futuro.
In particolare ci ha colpito rileggerci in questo passo: “ A Contrada si fa carico di aver agito da Agente e Capo dei Servizi. I Servizi che si vollero impegnati nella lotta alla mafia e che non potevano agire come un’altra squadra di polizia giudiziaria della Procura, a costo di provocare le ire, i sospetti, le suscettibilità degli “intoccabili”.
E questo è il nocciolo della vicenda. Contrada è stato individuato come un poliziotto capace di concepire e gestire un’azione autonoma anche di prevenzione e di contrasto generale di una situazione di alta criminalità. Un’azione che non può né identificarsi né esaurirsi in quella di polizia giudiziaria alle dipendenze della Magistratura.

Ma la Magistratura rivendica a sé ben più che le attività tipiche di veri e propri procedimenti penali. Vuole avere campo libero di “cercare” le notizie di reato, senza aspettare che ad essa prevengano dalla polizia o altrimenti, come era giudiziosamente stabilito nel Codice del 1930. Per i P.M. che intendano sfruttare a fondo la sciagurata riforma che dell’esercizio dell’azione penale ha fatto il codice di procedura del 1989, c’è posto, magari, per studi delle stesse Procure sull’incidenza di trattamenti cui vengano sottoposti i calciatori sugli indici di mortalità negli ultimi 50 anni. Non c’è posto per un’azione di prevenzione e contrasto generale della criminalità condotto autonomamente dalla Polizia e, magari, dai Servizi Segreti, che si vogliono tuttavia impegnati, ma in modo “trasparente” ed al guinzaglio dei Sostituti Procuratori nell’azione antimafia.
Certo, quanto addebitato a Contrada lascia altamente perplessi per ben altro. Che lo abbiano accusato alcuni mafiosi che aveva fatto arrestare dieci o più anni prima per l’assassinio di un suo agente, assolti da tale reato proprio dal Presidente che poi li ha ritenuti “attendibili” quando, pentiti, sono diventati testi d’accusa contro Contrada, è cosa che fa pensare a ben altro che ad un conflitto di competenze e di sistemi di polizia e di indagini.
Ma una Magistratura che combatte contro la mafia (e la droga, e il terrorismo e la pedofilia etc. etc.) anzitutto combattendo per estendere il proprio potere e per limitare quello di altri organismi dello Stato, è cosa da suscitare preoccupazioni e consentire di dubitare anche di ciò che dovrebbe essere indubitabile.
Questo, ricordiamolo è il caso Contrada. Lo è stato quando si discuteva della sua colpevolezza (ed, intanto, della sua salute nella carcerazione preventiva). Lo è stato nella sentenza definitiva. Lo è nella gestione della revisione e della grazia. E sempre si tratta della vita o della morte di un uomo. (Giustizia giusta)

giovedì 17 gennaio 2008

Le tre performances che fanno grande l'Italia. Francesco Blasilli

Le palline colorate di Cecchini non bastano a salvare l’immagine

Graziano Cecchini è stato arrestato (insiene a due “complici”) con l’accusa di interruzione di pubblico servizio e stamane sarà processato per direttissima. La sua colpa è stata quella di aver inondato con 500 mila palline colorate la scalinata di piazza di Spagna e, di conseguenza, pure la “Barcaccia”. Un gesto che segue quello dello scorso ottobre quando tinse di rosso la Fontana di Trevi. Un gesto “futurista”, forse “folle”, sicuramente originale. Un gesto sicuramente meno violento e volgare del treppiedi addosso a Berlusconi o della cacca scaricata sotto casa del Cavaliere. Un gesto che, in qualunque modo lo si voglia chiamare, avrà come risultato di portare l’inedita piazza di Spagna multicolore sulle prime pagine di tutti i giornali nazionali ed internazionali e in tutti i tg planetari. Per farla breve, così come la “rossa” Fontana di Trevi, la piazza di Spagna “arcobaleno” farà il giro del mondo. Scatenando sorrisi, magari sarcasmo e qualche giudizio negativo, ma riconfermando a livello mondiale la “genialità” dell’uomo italico.

Graziano Cecchini, però, pagherà una multa e intanto si è fatto pure una notte in cella. Fosse per noi (e per il Codacons che ne propone al Comune l’assunzione come promoter turistico) meriterebbe un premio. Perché tra la fontana di Trevi e piazza di Spagna, tre mesi scarsi di tempo, l’Italia ha fatto il giro sui mass media di tutto il mondo per la mondezza a Napoli, per il Papa cacciato dall’Università La Sapienza di Roma e per il ministro della Giustizia Mastella dimissionario a causa dell’arresto (domiciliare, naturalmente) della moglie, al secolo Sandra Lonardo, presidente della Regione Campania. E poi, tanto per non farsi mancare nulla, indagato pure lui. Per concussione ai danni di Bassolino, poi. A New York si sono sorbiti immagini con cumuli di mondezza e per poco non sentivano la puzza. A Londra sono rimasti allibiti perché noi italiani preferiamo tenerci i rifiuti sotto casa piuttosto che costruire termovalorizzatori che qualcuno ha deciso essere inquinati; e, comunque, se lo fossero, lo sarebbero sicuramente meno delle pattumiere a cielo aperto campane. Ed in Germania stanno ancora ridendo perché gli diamo le ecoballe che loro trasformano in energia, e ci mettiamo pure sopra 250 euro cadauna.

E tutti, nelle rispettive lingue, avranno esclamato: “che zozzoni questi italiani”. Però nessuno ha pagato e pagherà per questo, a parte gli italiani che si vedono aumentare le tasse o si devono beccare la mondezza altrui. Pecoraro Scanio è rimasto al suo posto, Bassolino pure, la Iervolino idem e Prodi ha aggiunto ancora più bostik sopra la sua sedia a palazzo Chigi. Dopo la mondezza, a New York, Londra, Losanna, Calcutta o dove volete voi, avranno visto pure le palline di Piazza di Spagna e avranno pensato: “ammazza, fichi sti italiani, ne pensano sempre una più del diavolo”. Ma il “pensatore” Cecchini sta dietro le sbarre. Nel resto del mondo avranno strabuzzato gli occhi di fronte a Papa Ratzinger che declina l’invito all’Università, dove doveva andare a parlare, mica a ripristinare la Santa Inquisizione. In America avranno imprecato, perché loro per avere nei loro campus una simile autorità avrebbero fatto carte false. E il commento planetario sarà stato molto simile a quello che fece Berlusconi riferendosi agli italiani che votavano a sinistra. Il risultato, come sempre, è stato che nella nostra penisola si sono tutti arrabbiati, ma il rettore non si è dimesso, i vecchi tromboni con il burka insegnano ancora e la politica, battuta da 67 professori, non si sente responsabile. Cecchini e le sue palline, invece, sono colpevoli.

Da ieri, infine, in tutto il mondo ci stanno prendendo per i fondelli perché il nostro Ministro della Giustizia, Clemente Mastella, è indagato per concussione. La moglie, invece, è stata arrestata per lo stesso reato. E con lei una trentina di dirigenti dell’Udeur. Mastella, quello dell’indulto, un provvedimento forse voluto perché ben conosceva le inclinazioni dei suoi familiari e dei suo compagni di partito. Staranno ridendo anche in Honduras e a Panama, posti dove la giustizia non è mai stata cosa seria, ma comunque più credibile che da noi. L’unica cosa, stavolta, è che Mastella ha deciso di dimettersi. Non per pagare, però, bensì perché si sente vittima della magistratura. Un perseguitato. E quando ha annunciato la sua decisione con un discorso strappalacrime, da libro Cuore, è scattato pure l’applauso bipartisan del Parlamento. Non bastasse tutto questo, Prodi gli ha detto di ripensarci e lui ha detto che “valuterà”. Stai a vedere che pure Mastella rimane al suo posto, come la moglie che non ha mai avuto dubbi in proposito.

Cecchini invece paga. Paga per averci fatto fare bella figura in tutto il mondo. Per aver portato alla ribalta il “genio” italico, per di più in mezzo a tanta vergogna. Adesso, sperando che lo scarcerino al più presto, gli chiediamo un ulteriore regalo. Un’impresa un po’ meno futurista rispetto a quella che è abituato a compiere. Sappiamo che a breve partirà per un viaggio umanitario in Birmania: porti con sè Pecoraro Scanio, Bassolino, Prodi, Mastella e consorte, la Iervolino e pure tutti e 67 i professori fondamentalisti. Dato che c’è, porti con sè tutto il Parlamento. Dopodiché li lasci pure lì. Magari dipingendoli prima di giallo. (l'Opinione)

mercoledì 16 gennaio 2008

Il giusto mix di politiche economiche. Emanuela Melchiorre

Sotto la pressione sia della bolla speculativa del prezzo dell'energia, con riflessi pesanti sui sistemi economici, sia della crisi dei mutui sub-prime e sia ancora dell'avanzare aggressivo dei mercati emergenti, dove lo sfruttamento dei lavoratori assume forme inusitate e inaccettabili, Bush e il governatore della Federal Reserve, Bernanke, agiscono congiuntamente su tre variabili chiave per evitare che il rallentamento del sistema economico sfoci in una crisi economica dell'economia statunitense, che coinvolgerebbe tutto il mondo iniziando dalla riduzione del commercio internazionale per estendersi alla produzione e all'occupazione e in generale all'offerta e alla domanda di beni e servizi. Le tre variabili chiave sono: le imposte, i tassi di interesse e quelli di cambio. La Fed diminuisce il tasso di interesse di riferimento della finanza federale, mentre Bush riduce le imposte e asseconda il deprezzamento del dollaro. Queste tre variabili, manovrate con giudizio, dovrebbero per ora mettere al riparo l'economia statunitense dalle conseguenze dell'aumento del tasso di inflazione causato da fattori esterni, in primo luogo l'aumento senza sosta dei prezzi dei prodotti energetici. Le variabili strutturali, quali i consumi e la produzione, dovrebbero rimanere sostanzialmente buone, così come lo è la fiducia del mondo produttivo e imprenditoriale americano.

La riduzione delle imposte favorisce gli investimenti privati, le aspettative e, di conseguenza, la produttività e l'occupazione. Il tasso di interesse basso permette da un lato la progressiva maggiore sostenibilità dei costi dei mutui immobiliari e, quindi, aiuta i bilanci finanziari delle famiglie, ne incentiva il consumo e le aspettative per il futuro; dall'altro riduce il costo del capitale, che può essere in tal modo impiegato in investimenti produttivi. L'indebolimento strisciante del dollaro aiuta notevolmente le esportazioni e, quindi, la produzione e, ancora una volta, l'occupazione e con essa il reddito delle famiglie e i consumi. Sono variabili chiave che, se ben amministrate, possono sostenere il circolo virtuoso della ripresa, che ormai dura da alcuni anni.

Alla luce di considerazioni analoghe è possibile esaminare anche la situazione economica italiana. L'Italia, in base alla firma del trattato di Maastricht, non amministra più la politica monetaria e quella del cambio valutario, e, come gli altri paesi dell'eurozona, le ha conferite interamente e incondizionatamente ad un organo indipendente, la Banca centrale europea, che è a capo del sistema di banche centrali. La Bce agisce non per gli interessi dei singoli paesi, ma per contrastare l'inflazione nell'intera euro-zona, indiscriminatamente e indipendentemente dall'andamento della congiuntura economica. Pertanto, poiché l'unico obbiettivo della Bce è perseguire una politica di bassi prezzi, essa impone aumenti progressivi del tasso di interesse di riferimento i quali, sebbene contrastino l'inflazione, certamente contrastano anche e sfortunatamente la formazione del Pil in tutta l'area dell'euro. Lo testimonia la modesta crescita del pil di tutti i paesi appartenenti all'euro-zona confrontata con la crescente formazione del reddito dei paesi, come l'Inghilterra e la Svezia, che fanno parte dell'Unione Europea, ma non dell'Unione monetaria.

La scelta che la banca centrale europea è chiamata a fare, date tali premesse, è sostanzialmente tra l'inflazione o la recessione. Le scelte del banchiere centrale hanno comportato fino ad ora l'incremento di tutti i tassi di interesse bancari e, quindi, un incremento del c.d. «prezzo del capitale», che incide sulle scelte del mondo imprenditoriale in due modi: riduce la propensione all'investimento, perché il capitale risulta essere progressivamente più caro; influisce negativamente sulle aspettative degli imprenditori che prevedono in futuro ulteriori aumenti dei tassi di interesse. La politica di alti tassi, quindi, non incentiva gli investimenti e con essi la produttività e la produzione. Le conseguenze immediate sono un ristagno, se non una riduzione, dell'occupazione, minori disponibilità finanziarie dei consumatori che, di conseguenza, spendono di meno e frenano l'economia. Dal lato delle esportazioni, la politica di alti tassi comporta un apprezzamento dell'euro, specie nei confronti del dollaro, ma anche delle altre valute, che riduce le esportazioni in quanto progressivamente sempre più care, e al tempo stesso non riesce a compensare l'aumento del prezzo del petrolio che fa lievitare i prezzi di tutti i prodotti energetici, e non solo. Quindi, ancora una volta una economia che ristagna.

Le considerazioni ultime che si possono fare riguardano proprio l'inflazione, quella variabile che la Bce vuole governare a spese della crescita economica. È sconfortante constatare che le costose politiche monetarie che Trichet porta avanti non sortiscano nemmeno i risultati da lui sperati. Sono due le variabili importanti, visto che incidono molto sul paniere della spesa e oggi provocano l'inflazione: energia e beni alimentari, i cui prezzi crescono a ritmi sostenuti a causa della lunga catena della speculazione. Una crescita del prezzo di queste due variabili incide, data la propensione al consumo decrescente all'aumentare del reddito, in modo differenziato: di più sulla popolazione a basso reddito e in misura minore sulla popolazione ad alto reddito. Ma tutti vengono colpiti, perché si avvia il circolo perverso dell'economia, dal quale non si esce con la redistribuzione, ma migliorando l'offerta di beni e servizi, attraverso, in primo luogo, l'aumento della produttività del lavoro. (Ragionpolitica)

E se tutta quella CO2 fosse utile? Freeman Dyson

Il mio compito di scienziato è sfidare i dogmi sul riscaldamento globale: sono orgoglioso di essere eretico. I modelli computerizzati di previsione non sono affatto in grado di prevedere il caos del mondo nel quale viviamo

PRINCETON UNIVERSITY
I dogmi del riscaldamento globale devono essere sfidati: perché non contemplare l'ipotesi che l'anidride carbonica ci sia utile? Per prima cosa devo ammettere che, come scienziato, non ho fiducia nelle previsioni. La scienza è l'imprevedibilità organizzata: nei loro esperimenti, gli scienziati non fanno altro che mettere le cose insieme in modo che siano il più prevedibili possibile, e procedono per vedere cosa succede veramente. Si potrebbe arrivare a dire che, se qualcosa è prevedibile, allora non è scienza. Dunque, nel fare le mie previsioni, non parlerò come scienziato ma come narratore: le mie previsioni saranno fantascienza, più che scienza.v È noto che i racconti fantascientifici non sono accurati: il loro scopo non è descrivere ciò che accadrà, ma immaginare cosa potrebbe accadere. Il mio scopo è raccontare storie che possano sfidare i dogmi che oggi sono dominanti: dogmi che potrebbero risultare corretti, ma che hanno bisogno di essere sfidati. Sono orgoglioso di essere un eretico.

Il trambusto che circonda il riscaldamento globale è esagerato. Mi oppongo alla fratellanza degli esperti dei modelli climatici e alle folle che hanno illuso con i loro numeri. Certo, come fanno notare, non ho una laurea in meteorologia e quindi non avrei le qualifiche per parlare. Ma ho studiato i modelli climatici e so cosa possono fare.

I modelli risolvono le equazioni della fluidodinamica e descrivono bene i moti fluidi dell'atmosfera e degli oceani. Descrivono piuttosto male le nuvole, la chimica e la biologia dei campi, delle fattorie e delle foreste. Non riescono a descrivere il mondo reale in cui viviamo, che è fatto di fango e disordine, pieno di cose che non comprendiamo ancora. È molto più semplice, per un ricercatore, restare in ufficio a far girare i modelli sul computer che non indossare indumenti pesanti per misurare cosa sta davvero succedendo nelle paludi e tra le nuvole. Non c'è dubbio che alcune parti del mondo si stiano scaldando e non sto assolutamente dicendo che il riscaldamento non causi problemi: è ovvio che lo fa. Ma è altrettanto ovvio che dovremmo cercare di capirne di più. Quel che sto dicendo è che questi problemi sono grossolanamente esagerati: privano di attenzioni e di denaro altri problemi più urgenti, come la povertà e le malattie, l'istruzione e la sanità pubbliche e la conservazione delle creature viventi, per non dire del problema più grave di tutti: quello della guerra.

Il riscaldamento globale è un problema interessante, sebbene la sua importanza sia eccessivamente amplificata. Per capire come si muove il carbonio attraverso l'atmosfera e la biosfera occorre misurare una gran quantità di variabili. Non voglio confondervi e vi chiederò di ricordare un solo numero: un terzo di millimetro all'anno.

Metà della terraferma sostiene una vegetazione di qualche tipo. Ogni anno assorbe e converte in biomassa una certa frazione dell'anidride carbonica che emettiamo nell'atmosfera. Non sappiamo quanto sia grande la frazione che assorbe, perché non abbiamo misurato l'incremento o il decremento di biomassa. Il numero che vi ho chiesto di ricordare è l'aumento di spessore della biomassa che si avrebbe mediamente, su oltre metà della terraferma presente sul pianeta, se venisse assorbito tutto il carbonio che stiamo emettendo bruciando carburanti fossili: solo un terzo di millimetro all'anno. Il punto cruciale è il tasso di scambio molto favorevole che sussiste tra carbonio nell'atmosfera e carbonio nel terreno. Per bloccare l'aumento di carbonio nell'atmosfera, è sufficiente che facciamo crescere la biomassa nel terreno di un terzo di millimetro l’anno.

Deduco che il problema dell'anidride carbonica nell'atmosfera va visto in termini di gestione del terreno, non di meteorologia. Nessun modello computerizzato dell'atmosfera o dell'oceano può sperare di predire come dovremmo gestire la Terra.

Ecco un altro pensiero eretico. Invece di calcolare una media mondiale di crescita della biomassa, sarebbe meglio mantenerci su scala locale. Considerate uno dei possibili scenari futuri: la Cina continua a sviluppare la propria economia, basandola sul carbone, e gli Usa decidono di assorbire l'anidride carbonica che ne risulta aumentando la biomassa dei loro suoli. A differenza delle piante e degli alberi, non c'è limite alla quantità di biomassa che si può immagazzinare. Circa un decimo di tutta l'anidride carbonica viene convertita in biomassa ogni estate e restituita all'atmosfera ogni autunno: è per questo che gli effetti dei combustibili fossili non si possono separare dagli effetti della crescita e della decomposizione delle piante. Ci sono, in particolare, cinque serbatoi di carbone che sono accessibili biologicamente nel breve periodo, senza contare le rocce ricche di carbonati e le profondità degli oceani. Sono l'atmosfera, le piante sulla terraferma, il suolo su cui crescono le piante, lo strato superficiale dell'oceano dove crescono le piante marine e le riserve di combustibili fossili. L'atmosfera è il serbatoio più piccolo, mentre i combustibili fossili sono il maggiore, ma tutti e cinque sono abbastanza simili. Tra loro c'è una fitta interazione e per capirne uno è necessario capirli tutti.

Non sappiamo se una gestione intelligente del terreno potrebbe far aumentare il serbatoio del suolo di quattro miliardi di tonnellate di carbonio l'anno - la quantità necessaria a fermare l'aumento di anidride carbonica nell'atmosfera. L'unica cosa che possiamo affermare con certezza è che si tratta di un'ipotesi teorica possibile, che dovrebbe essere considerata seriamente.

La mia terza eresia riguarda un mistero che mi ha sempre affascinato. In molti punti del deserto del Sahara si trovano graffiti rupestri che rappresentano persone e branchi di animali: si tratta di tracce numerose e di qualità artistica sorprendente e furono probabilmente dipinte nell'arco di qualche migliaio di anni. Le ultime tradiscono l'influenza degli Egizi e sembrano essere contemporanee delle prime forme di arte tombale di questo popolo. I migliori graffiti dei branchi risalgono a circa 6 mila anni fa e ci sono prove schiaccianti che a quell’epoca il Sahara fosse umido: c'era abbastanza pioggia da consentire a vacche e giraffe di pascolare tra erba e alberi e c'erano ippopotami ed elefanti. Il Sahara di ieri dev'essere stato simile al Serengeti di oggi.

Sempre 6 mila anni fa c'erano foreste decidue nel Nord Europa dove oggi si trovano solo conifere, a dimostrazione del fatto che il clima di queste zone settentrionali era più mite. C'erano alberi anche nelle valli svizzere che oggi ospitano famosi ghiacciai e i ghiacciai che adesso si stanno ritirando erano molto più piccoli. Seimila anni fa sembra essersi verificato il periodo più caldo e umido dell'era interglaciale, iniziata 12 mila anni fa con la fine dell'ultima era glaciale. Ora avrei due domande da porvi.

Primo: se permettessimo all'anidride carbonica nell'atmosfera di aumentare ancora, arriveremmo ad avere un clima simile a quello di 6 mila anni fa, quando il Sahara era umido? Secondo: se potessimo scegliere tra il clima di oggi con il Sahara arido o quello di 6 mila anni fa con il Sahara umido, preferiremmo la situazione odierna? La mia terza eresia risponde «sì» alla prima domanda e «no» alla seconda. Il clima caldo di 6 mila anni fa sarebbe preferibile e l'aumento dell'anidride carbonica potrebbe aiutarci a ricrearlo. Non dico che questa eresia sia vera, ma solo che non ci farebbe male pensarci. La biosfera è la cosa più complicata con cui l'uomo abbia a che fare. L'ecologia planetaria è ancora una scienza giovane e poco sviluppata: non mi stupisce che esperti onesti e bene informati non si trovino d'accordo sui fatti.

Ma al di là del disaccordo sui fatti c'è un disaccordo più profondo ed è sui valori. Si può descrivere in modo iper-semplificato come disaccordo tra naturalisti e umanisti. I primi credono che la natura abbia sempre ragione: per loro il valore più alto è il rispetto dell'ordine delle cose e qualsiasi goffa interferenza degli uomini nell'ambiente naturale è un male. È un male bruciare i combustibili fossili e sarebbe un male anche trasformare il deserto - che sia il Sahara o un oceano - in un ecosistema dove le giraffe o i tonni prosperano. La natura ha sempre ragione e qualsiasi cosa facciamo per migliorarla non porterà che guai: questa etica naturalista è la forza propulsiva del Protocollo di Kyoto.

L'etica umanista parte invece dall'idea che gli uomini sono una parte essenziale della natura. È grazie alle nostre menti che la biosfera ha acquisito la capacità di guidare la propria evoluzione e ora comandiamo noi. Noi umani abbiamo il diritto e il dovere di ricostruire la natura in modo che la nostra specie e la biosfera possano sopravvivere e prosperare. Secondo gli umanisti, il valore più alto è la coesistenza armoniosa tra esseri umani e natura, mentre i mali più grandi sono la povertà, la disoccupazione, la malattia e la fame, perché sono condizioni che limitano le opportunità e la libertà delle persone. L'etica umanista accetta l'aumento di anidride carbonica come un piccolo prezzo da pagare per lo sviluppo e l'industrializzazione globale, se questi possono alleviare le miserie di cui soffre metà dell'umanità. L'etica umanista accetta la responsabilità di guidare l'evoluzione del pianeta. E’ per questo che sono un umanista. (la Stampa)

Chi è Dyson Fisico e matematico
RUOLO: È STATO PROFESSORE DI FISICA ALL’UNIVERSITÀ DI PRINCETON -USA
RICERCHE: MECCANICA QUANTISTICA E INGEGNERIA NUCLEARE

Una sconfitta del Paese. Ernesto Galli della Loggia

A questo punto la decisione era molto probabilmente inevitabile: Benedetto XVI ha preferito non recitare la parte dell'ospite sgradito. Ha preferito evitare allo Stato italiano la vergogna di dover difendere la sua presenza all'Università di Roma schierando i reparti antisommossa, e ha deciso di rinunciare alla sua visita. E' una grande vittoria dei laici. Il «libero pensiero » ha trionfato e i suoi apostoli possono cantare vittoria: ha trionfato la scienza contro l'ignoranza, la ragione contro la superstizione, Voltaire contro Bellarmino. Hanno trionfato i grandi pedagoghi democratici che nei giorni scorsi, dall'alto della loro sapienza, avevano detto il fatto loro a Joseph Ratzinger definendolo una personalità «intellettualmente inconsistente».
E' una vittoria non da poco. Per la prima volta ciò che finora è stato sempre possibile a tutti i pontefici romani, e cioè di muoversi senza problemi sul territorio italiano, di essere accolti in qualunque sede istituzionale, di prendere la parola perfino nell'aula del Parlamento, per la prima volta tutto ciò non è stato invece possibile a Benedetto XVI. E questo nel cuore della sua diocesi, nel cuore di Roma.
Ma che importa? Assai più importante, dovremmo credere, è che i laici abbiano vinto. Peccato che non riusciamo proprio a crederci. Quella che ha vinto, infatti, è una caricatura della laicità.E' la laicità scomposta e radicaleggiante, sempre pronta ai toni dell'anticlericalismo, che cinicamente ha usato la protesta dei poveri professori di fisica piegandola alle necessità della lotta politica italiana, delle risse del centro-sinistra intorno ai Dico e all'aborto, della gara per conquistare influenza sul neonato Partito democratico. E' la laicità che vuole ascoltare solo le sue ragioni scambiandole per la Ragione. Che, nonostante tutte le chiacchiere sull'Illuminismo, nei fatti non sa che cosa sia la tolleranza, ignora cosa voglia dire rispettare la verità delle posizioni dell'avversario, rispettarne la reale identità. E' la laicità che dispensa i suoi favori e le sue critiche a seconda di come le torni politicamente utile. Che da tempo, perciò, non si stanca di scagliarsi contro Benedetto XVI solo perché lo ritiene ostile alle sue posizioni sulla scena italiana e allora va inventandosi chissà quale assoluta diversità tra lui e il suo immediato predecessore, fingendo di non sapere che di fatto non c'è stato quasi un gesto, una presa di posizione importante, di Giovanni Paolo II che non sia stata condivisa, o addirittura ispirata, da papa Ratzinger.
Laicità? Sì, una laicità opportunista, nutrita di uno scientismo patetico, arrogante nella sua cieca radicalità. Con la quale un'autentica laicità liberale non ha nulla a che fare. Che anzi deve considerare la prima dei suoi nemici. (Corriere della Sera)

martedì 15 gennaio 2008

Rifiuti, contro i termovalorizzatori solo odio ideologico. Dario Giardi

Anche se è sotto gli occhi di tutti la triste e sconcertante emergenza rifiuti campana, l’opposizione ai termovalorizzatori continua imperterrita. Guardando le immagini che in questi giorni scorrono sui TG è davvero difficile pensare che solo chi difende i termovalorizzatori abbia degli interessi economici nel farlo mentre chi vorrebbe perpetuata questa condizione di emergenza no. Tra i molti antagonisti dei termovalorizzatori, la gran parte si limita a bocciare la tecnologia non fornendo alternative in merito. Troppo facile. I più coraggiosi si lanciano in dissertazioni che credo vadano affrontate una volta per tutte con chiarezza.

I più ingenui, addirittura, contestano l’uso improprio del termine stesso che a loro modo di vedere coincide con quello di inceneritore. Sbagliato. Il termovalorizzatore non è un sinonimo di inceneritore. In termini linguistici sono sinonimi, in termini tecnici, invece, sono impianti molto diversi: nell’inceneritore la combustione è il fine, essendo solo un modo per smaltire (distruggere) i rifiuti; nel termovalorizzatore la combustione è invece un mezzo per “recuperare” (produrre) energia. Poi ci sono differenze fondamentali nell’impatto sull’ambiente: fra i due tipi d’impianti, infatti, ci sono più di vent’anni d’evoluzione tecnologica che rendono i termovalorizzatori di ultima generazione più sicuri sia per l’ambiente sia per la salute pubblica. In particolare, grazie al continuo miglioramento dei sistemi per abbattere gli inquinanti dei fumi, alle nuove caratteristiche dei forni e agli interventi che hanno ottimizzato il processo di combustione, i moderni termovalorizzatori sono in grado di attuare un contenimento preventivo delle emissioni. In sintesi: i due concetti impiantistici sono separati da 20 anni di tecnologia, in Italia gli inceneritori rappresentano una soluzione tecnologica ormai obsoleta non più utilizzata.

Per gli oppositori la panacea a tutti i mali legati al ciclo dei rifiuti sarà rappresentata dal TMB, ovvero “Trattamento Meccanico Biologico”. Sbagliato.
E’, infatti, pura demagogia affermare che:

1) l’impianto di Trattamento Meccanico Biologico è una struttura nella quale l’immondizia viene separata e trasformata in materiali di diversa natura da riciclare e riutilizzare per diversi scopi;

2) vengono superati inceneritori e discariche.

1) La magica struttura di cui si straparla serve a separare meccanicamente la frazione umida dei rifiuti da quella secca. La frazione umida viene fatta essiccare fino a diventare Frazione Organica Stabilizzata (FOS). La FOS può essere utilizzata esclusivamente per ricopertura di cave o discariche e non può essere utilizzata per l’agricoltura, per coltivare piante o fiori e nemmeno per terra da vasi. In genere la FOS finisce in discarica come materiale di ricopertura dei residui dell’impianto di trattamento.

2) La parte secca viene separata, a sua volta, in parte combustibile (carta, cartone, plastiche, legno…) e parte non combustibile. La parte combustibile diventa Combustibile da Rifiuti (CDR) da inviare necessariamente ai termovalorizzatori.

Il 65% dei rifiuti in entrata finiscono in discarica ed il 18% finiscono in un termovalorizzatore. Il resto sono perdite di processo. E’ evidente che l’impianto di TMB non supera né la discarica né il termovalorizzatore.

Poco convinte della possibilità che i processi di TMB possano sostituire la termovalorizzazione sono le stesse aziende che lavorano nel settore dei servizi pubblici di igiene ambientale. "La biostabilizzazione meccanica - afferma Daniele Fortini, presidente di Federambiente - è un processo che adottiamo da molti anni in Italia e in molte aziende (non è altro, infatti, di uno sviluppo della tecnica di compostaggio). Possiamo definirci a pieno titolo dei pionieri in questo particolare settore. Ma da qui a dire che gli impianti TMB sono la tecnologia del futuro per lo smaltimento dei rifiuti... be', su questo non posso che dissentire". Perché, precisa Fortini, "non dobbiamo dimenticare che per quanto siano tecnologicamente avanzate, si tratta sempre e comunque di impianti di raffinazione, il cui fine è la trasformazione dei rifiuti in forme che ne consentano una destinazione finale più attenta ed efficace, discarica o termovalorizzatore che sia".

Infatti…proprio richiamandomi alle leggi della termodinamica (tanto citate dagli oppositori ai termovalorizzatori) secondo cui nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, non si comprende come il termovalorizzatore non faccia scomparire i rifiuti trasformandoli solo in qualcos’altro, mentre questi trattamenti meccanici biologici si? Queste “leggi” non dovrebbero avere valenza universale?

Altra frase tipica degli avversari ai termovalorizzatori è la seguente: i termovalorizzatori vanno proibiti perché nel bruciare i rifiuti producono diossina. Dispiace costatare che questi signori sono rimasti agli anni 80. Infatti, l’emissione di diossine dalla combustione dei rifiuti riguardava la vecchia generazione di inceneritori degli anni Ottanta appunto. Va inoltre aggiunto che i termovalorizzatori di vecchia generazione bruciavano i rifiuti a una temperatura di 6/700 gradi, e allora una minima parte di diossina andava nell'aria. Ma ora, ed è un esempio il termovalorizzatore di Brescia, con le ultime tecnologie si bruciano i rifiuti a una temperatura sui 1100/1200 gradi e a questa temperatura esce dall'impianto fumo pulito.

Comunque, a prescindere da queste considerazioni legate alle tecnologie impiegate, lLa spazzatura bruciata di Napoli non produce diossina? Quanto impiega un termovalorizzatore moderno per sprigionare la diossina che sprigiona in un giorno la montagna di spazzatura disseminata nelle strade napoletane? Già da oggi nel napoletano la gente muore da intossicazione, eppure i termovalorizzatori non ci sono: è strano che a molti “cigni bianchi o verdi” facciano paura impianti che non ci sono, invece che veleni che ci sono già.

Quanta diossina hanno liberato nel cielo (ex) azzurro di Napoli, i 65 cassonetti di pattume bruciati nelle rivolte di piazza in questi giorni? Poco meno di 9 mila microgrammi. Pari a quanta ne butta fuori l'inceneritore di Marghera in 546 giorni a pieno ritmo. E quante polveri nocive si sono levate, da quei cassonetti? Quante ne espelle il termovalorizzatore di Brescia in 441 giorni. Lo dicono i dati dell'Istituto superiore di sanità. Dati ripresi anche da un ambientalista al di sopra d'ogni sospetto quale il presidente onorario di Legambiente Ermete Realacci. Ancora…

Dai rifiuti bruciati nelle strade si sprigiona la stessa diossina che si assumerebbe in anni "normali". Lo spiega Ivo Allegrini, direttore dell'istituto sull'Inquinamento Atmosferico del Cnr, secondo cui la quantità di questa sostanza che si sviluppa dai roghi è notevolmente più alta di quella che si ottiene dagli inceneritori. «E' impossibile fare una stima di quanta sia la diossina che si sviluppa dai roghi - spiega Allegrini - perché i rifiuti domestici hanno una composizione estremamente variabile. Certo è che, finché il rogo è in funzione, chi sta nelle vicinanze ne assume una quantità che impiegherebbe anni ad assumere normalmente. Noi ci preoccupiamo di pochi miliardesimi di grammo prodotti dagli inceneritori, ma in questo caso si tratta di quantità molto più alte».

Come possiamo sperare che l’emergenza rifiuti sia risolta, o siano intraprese delle decisioni, se abbiamo una certa classe politica? Ci vogliono uomini giusti al posto giusto, impiegando anche professionisti non politici e non “ideologizzati” che siano a conoscenza di quello che fanno e di quello che dicono. (l'Occidentale)

Intolleranza e laicità. Giulio Anselmi

Lasciamo parlare il Papa alla Sapienza e ascoltiamo con civile rispetto quello che dirà, liberi, subito dopo, di approvare o criticare le sue affermazioni: l’invito ad andare gli è stato rivolto, nella piena osservanza delle regole, dal rettore e dal senato accademico dell’ateneo romano; Joseph Ratzinger ha tutti i titoli per intervenire in una cattedrale della cultura, come hanno fatto del resto alcuni suoi predecessori, e al pari di altre eminenti personalità. Recenti incidenti, come quelli avvenuti a Ratisbona e in Vaticano, renderanno del resto particolarmente cauti i ghost-writers della Santa Sede e lo stesso Pontefice.

Il caso che ha scatenato qualche decina di professori e un certo numero di studenti contro la visita papale ha tutta l’aria di rappresentare uno di quegli episodi tipicamente italiani che vengono cavalcati con furore ideologico e animo goliardico, al riparo di qualche motivazione strumentale (questa volta è la persecuzione ai danni di Galileo e l’abiura alle sue convinzioni cui lo scienziato fu a suo tempo costretto). Grandi polveroni, senza vera importanza. Tutt’altro rilievo ebbe la visita di Giovanni Paolo II alla Camera dei deputati, che il Papa polacco utilizzò per chiedere al Parlamento italiano di varare un provvedimento di clemenza in favore dei carcerati.

Ma allora, forse per il carisma di Wojtyla che nessuno ardiva criticare nella fase finale del suo pontificato, forse per il diverso clima politico, furono pochissime e flebili le voci di contestazione per quella che invece aveva il sapore di un’ingerenza. La verità è che nel nostro Paese assistiamo a una crescente invadenza della Chiesa, accentuatasi durante la lunga presidenza della conferenza episcopale da parte del cardinale Ruini. La Repubblica italiana, come hanno rilevato studiosi illustri, da Arturo Carlo Jemolo a Gian Enrico Rusconi, deve fare conti sempre più complicati con l’enorme rilevanza della Chiesa-istituzione e della sua immagine pubblica, in gran parte monopolizzata dalla figura e dal ruolo del Pontefice. La strategia della Chiesa investe gran parte delle sue energie sulla società civile, che si sforza di guidare. E ciò dilata e porta a un livello insostenibile di tensione l’antica questione della laicità dello Stato.

Di fronte a un magistero ecclesiale che, secondo molti, si concentra nella guida dei comportamenti interpersonali, spaziando dalla scuola alla famiglia alla bioetica fino ai temi complessi della genetica (cavalcati con determinazione da quegli efficaci alleati della gerarchia ecclesiastica che vanno sotto il nome di atei devoti) lo Stato vacilla. La Chiesa parla con la voce della certezza: Extra ecclesiam nulla vox. Lo Stato si trova esposto a pressioni di settori importanti dei suoi cittadini che si ispirano alla dottrina cattolica. Misurando la diversa capacità di fornire risposte sulle questioni fondamentali della vita, la Politica indietreggia: per convinzione, calcolo o subordinazione culturale ministri e segretari di partito aderiscono, si sottomettono o traccheggiano.

La complessità di questi problemi - che la posizione del Papa come vescovo di Roma moltiplica in infiniti equivoci - aiuta a capire perché il nostro Paese riesca con fatica a difendere l’equilibrio che si era espresso nella lunga stagione democristiana della Prima repubblica, imperniata sulla pratica conciliante di uno Stato sostanzialmente imparziale in cui nessuno poteva pretendere di imporre agli altri le proprie convinzioni. Chi si afferma laico oggi dovrebbe riflettere sulle ragioni di questo arretramento e, magari, impegnarsi a contrastarle. Senza immaginare laicità militanti alla francese, ma cercando di realizzare condizioni favorevoli alla convivenza. Chi si accontenta di imbrattare la facoltà di Fisica della Sapienza con cartelli in cui si annuncia la «settimana anticlericale» non è un laico. E nemmeno un tardo epigono del laicismo ottocentesco. Ma solo un intollerante pericoloso. (la Stampa)

venerdì 11 gennaio 2008

E la sinistra si innamorò di Obama. Stefano Magni

Prima di tutto: sono elezioni primarie. Non si sta scegliendo il presidente degli Stati Uniti in questi giorni, si sta votando per chi potrà candidarsi alla Casa Bianca. Eppure la copertura mediatica di questi primi voti americani ha dell'incredibile. Per la prima volta i telespettatori italiani vedono e sentono parlare di «caucus», dove i candidati sono scelti per acclamazione da piccole assemblee cittadine, o di piccole località che non sappiamo neppure indicare sulla carta geografica, come Dixville Notch e Hart's Location, rispettivamente 75 e 37 abitanti. Si seguono i sondaggi pre-elettorali su Barack Obama e Hillary Clinton come se uno dei due dovesse inevitabilmente guidare il Paese. E non si comprende sino in fondo quanta strada c'è ancora da fare.

Si sono tenute elezioni in Iowa e New Hampshire, ma devono ancora votare tutti gli altri Stati, compresi quelli più grandi che garantiscono ai candidati, in caso di vittoria, di accaparrarsi un numero decisivo di delegati. Sarà in Florida, in California, a New York che si combatteranno battaglie serie, dove si potrà incominciare a vedere chi potrà ricevere la nomination per la corsa alla Casa Bianca. Nei primi Stati dove si è votato, al contrario, si guadagna o si perde poco. Si può al massimo vedere chi resta in gara (continuando a ricevere finanziamenti dagli sponsor dopo la vittoria) o chi, più svantaggiato, viene definitivamente eliminato. Nell'Iowa e nel New Hampshire si sono combattute, più che altro, delle battaglie per la sopravvivenza dei candidati minori. Se il vincitore in Iowa vincerà anche la Casa Bianca, sarà per una pura coincidenza. Obama ha vinto nei caucus dell'Iowa, dove solo il 10% più politicizzato dello Stato si è recato nelle assemblee cittadine a passare un'ora e mezzo di chiacchiere per proclamare un vincitore. Gli americani che hanno di meglio da fare nella vita non sono andati.

Eppure la vittoria di Obama nell'Iowa ha suscitato un'ondata di entusiasmo nei salotti liberal e in Italia, dove Walter Veltroni ha scritto l'introduzione alla sua autobiografia (pubblicata da Rizzoli e diffusissima) e i principali quotidiani hanno dedicato due pagine intere al nuovo «obamismo». Alle prime elezioni primarie con voto segreto, nel New Hampshire, Obama era dato per vincente da tutti i sondaggisti, ma ha perso. Ha vinto Hillary Clinton, che secondo tutte le previsioni è il candidato sicuro dei Democratici, e che in queste prime elezioni primarie ha ribadito il suo primato. Obama ha incominciato a sgonfiarsi. Obama fa notizia perché è nero, si sospetta che sia anche musulmano e la nostra sinistra (quindi anche la maggioranza assoluta dei nostri media) lo vede come l'espressione della mitica «altra America»: quella multiculturale, che adocchia l'Islam, che lotta per l'emancipazione delle minoranze e garantisce diritti speciali alle categorie più svantaggiate. E' l'America politically correct che abolisce le armi e la pena di morte, è tollerante anche con gli intolleranti, chiede il permesso all'Onu prima di compiere qualsiasi azione e, di fronte al terrorismo, preferisce il dialogo all'autodifesa. E' un'America che probabilmente esiste solo nella mente dei nostri intellettuali di sinistra, visto che, chiunque diventi presidente, dovrà far fronte al problema dell'Iran e del terrorismo islamico anche con l'uso della forza (nessun candidato democratico, neppure Obama, ha negato di volerla usare in caso di necessità), dovrà tener conto di una popolazione che non rinuncia al Secondo Emendamento (armi) e che è quasi unanimemente favorevole alla pena di morte. Hillary Clinton, pur essendo una donna, non fa lo stesso effetto. Perché è un prodotto dell'establishment e dà l'idea che garantisca la continuità. I sondaggi che la davano perdente nel New Hampshire con 8-13 punti di distacco da Obama esprimevano più che altro una speranza, non riflettevano la realtà.

I Repubblicani, al contrario, non fanno notizia. Le loro primarie coinvolgono gli americani tanto quanto le votazioni dei Democratici. Tra loro non c'è nessuno che fa sognare i nostri commentatori. Anzi: molti fanno paura ai nostri buonisti. Mike Huckabee, il vincitore in Iowa, solleva giustamente molte perplessità, anche tra gli stessi Repubblicani, per il suo populismo. Al di là della sua piattaforma ufficiale, che è più liberale di qualsiasi programma italiano, il suo rapporto diretto con l'elettorato e la sua crociata contro l'establishment economico e «tecnocratico» riflettono una serie di paure contro la globalizzazione che albergano anche nella destra americana più conservatrice. Dalla parte opposta dello spettro politico repubblicano abbiamo un Ron Paul, che non fa notizia anche se è il vero rivoluzionario di queste elezioni. Ron Paul è un libertario, il suo programma consiste nel ridurre al minimo il potere dello Stato federale, la completa liberalizzazione di armi e droghe, la privatizzazione della Banca centrale e la restituzione di tutti i poteri da Washington ai singoli Stati. Vuole anche il ritiro di tutte le truppe entro i confini americani e per questo non raccoglie grandi consensi nell'elettorato di destra. Fred Thompson, che da noi è visto solo come una macchietta di destra (perché ha interpretato il serial «Law and Order»), si presenta all'elettorato come un continuatore della triade di Reagan: conservatore nell'etica, liberista in economia, unilateralista nella difesa. Neppure Mitt Romney fa notizia, anche se, in caso di vittoria, sarebbe il primo esponente di una minoranza religiosa (è un mormone) a diventare presidente degli Stati Uniti. Romney si presenta come un candidato pragmatico, il preferito dall'establishment repubblicano. Ha idee chiare che riassume in schemi: potenziare la difesa dal terrorismo, ridurre le tasse e le spese, pareggio di bilancio, lotta all'immigrazione clandestina.

Su quest'ultimo punto non è d'accordo John McCain, il vincitore nel New Hampshire, che è favorevole (assieme ai Democratici) all'amnistia per i clandestini. E, come i liberal, è anche favorevole alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Ai conservatori, però, piace per altri motivi: perché dice con cognizione di causa: «Prenderò Bin Laden, a costo di seguirlo fino alle porte dell'inferno» e si sa che potrà mantenere l'impegno. E' esperto di politica estera più di tutti gli altri candidati. E' stato militare di carriera e ha sperimentato sulla sua pelle l'orrore del totalitarismo: cinque anni e mezzo di gulag nel Vietnam del Nord, dove è stato imprigionato dal 1967 al 1973. E' alle spalle della decisione di rafforzare le truppe in Iraq e della nomina del generale David Petraeus, artefice delle migliori vittorie contro Al Qaeda nell'ultimo anno. John McCain, anche se in Italia non fa notizia, potrebbe essere l'uomo giusto per vincere la guerra contro il terrorismo. Così come potrebbe esserlo Rudolph Giuliani, il sindaco di New York nel fatidico 11 settembre, l'unico che ha delineato una strategia complessiva di alleanze con le democrazie asiatiche per sconfiggere la rete internazionale del terrore. Giuliani, che si è espresso a favore dei matrimoni gay e dell'aborto, potrebbe essere il volto nuovo della destra americana, assieme al quasi-liberal Arnold Schwarzenegger. Da noi lo si ricorda come l'artefice della «tolleranza zero», la sua strategia di ordine pubblico a New York. Che per i nostri commentatori è un simbolo di barbarie, ma per i cittadini newyorkesi è stato un toccasana, una politica che ha permesso loro di tornare a uscire di casa anche alla sera senza temere aggressioni. Ma da noi sono «particolari» che non contano. Qui nell'Italia di sinistra si continua a sognare che con Obama nasca un'«Altra America». (Ragionpolitica)

giovedì 10 gennaio 2008

L'espulsione di chi predica il terrore. Magdi Allam

Che fatica cacciare dall'Italia un apologeta del terrorismo islamico! È stato uno slalom amministrativo, politico e giudiziario ciò che ha permesso ieri l'allontanamento dall'Italia di Mohamed Kohaila, sedicente imam della moschea di via Cottolengo a Torino, ritenuto una minaccia all'ordine e alla sicurezza, dopo che la telecamera nascosta di Anno Zero aveva registrato un suo sermone inneggiante alla guerra santa contro gli ebrei e i cristiani, il divieto di integrarsi nella società occidentale e l'obbligo di sottomettere le donne.

È stata una soluzione ingarbugliata, squisitamente all'italiana, realizzata grazie alla lucidità di analisi e alla determinazione operativa del ministero dell'Interno, che ha aggirato inizialmente la «neutralità» della Procura, poi ha consolidato la propria posizione grazie alla disponibilità di un giudice ad avvallare la decisione così come prescrive la nuova norma sull' espulsione per motivi di terrorismo appena varata dal Parlamento, accelerando infine i tempi per prevenire in extremis un possibile stop da parte della Corte di Giustizia di Strasburgo.

Il primo grazie lo dobbiamo a Maria Grazia Mazzola che ha realizzato la puntata della trasmissione Anno Zero, condotta da Michele Santoro e andata in onda il 29 marzo 2007, in cui con una telecamera nascosta Kohaila è stato immortalato mentre predicava l'odio e faceva esplicitamente apologia di terrorismo con dei manifesti inneggianti a Bin Laden. Il secondo grazie lo dobbiamo al dirigente della Digos di Torino, Giuseppe Petronzi, al capo della Polizia Antonio Manganelli e al ministro dell'Interno Giuliano Amato, che hanno voluto portare a termine delle indagini investigative iniziate ancor prima della trasmissione Annozero, il cui esito ha confermato il contenuto istigatorio e antioccidentale sin troppo manifesto nel sermone registrato e trasmesso in televisione.

Ma hanno dovuto fare i conti con tre ostacoli. Il primo è stato la decisione della magistratura inquirente presso la Procura di Torino di archiviare il caso aperto sulla base dell' ipotesi di apologia di terrorismo. È sembrata una posizione salomonica che ha archiviato sia l'ipotesi di reato a carico di Kohaila, sia l'ipotesi di reato per diffamazione e violazione della privacy a carico della giornalista Mazzola. Un classico colpo alla botte e colpo al cerchio che non dovrebbe scontentare nessuno, ma che di fatto salvava il sedicente imam riattribuendogli un'immagine perbenista, complici taluni giornalisti di testate locali che per un assurdo spirito campanilistico si sono spinti fino ad allearsi con il diavolo pur di screditare il lavoro svolto con professionalità dalla Mazzola.

Il secondo ostacolo è stato il varo delle nuova norma da parte del Parlamento, che limita il potere del ministero dell'Interno di allontanare dal territorio nazionale chi costituisce una minaccia all'ordine e alla sicurezza pubblica, imponendo che debba esserci l'avvallo del giudice. Il che è un rischio in un Paese in cui, da un lato, prevale l'orientamento a non scontrarsi con gli estremisti e i terroristi islamici e, dall'altro, è purtroppo diffusa la politicizzazione della magistratura. Ma questa volta è andata per fortuna bene. Anzi, più che bene. Perché di fatto l'avallo del giudice italiano ha reso più arduo l'intervento della Corte di Giustizia di Strasburgo.
Che rappresentava, appunto, il terzo ostacolo. I responsabili del Viminale avevano ben presente come lo scorso 29 maggio una decisione in extremis della Corte europea dei diritti dell'uomo sospese l'espulsione dell'ex sedicente imam di Varese Majid Zergout e di un suo collaboratore, Abdelillah el Kaflaoui, assolti dall'accusa di terrorismo internazionale dai giudici di Milano lo scorso 24 maggio, proprio mentre stavano per imbarcarsi dall'aeroporto di Malpensa alla volta del Marocco. Ebbene, per evitare che ciò si potesse ripetere, si è riusciti con successo a far sì che la notifica dell'ordine di espulsione avvenisse immediatamente prima della partenza dal territorio nazionale. Sembra incredibile ma siamo arrivati al punto in cui per poter tutelare il diritto alla propria sicurezza, ci si debba parare non solo dall'attività dei terroristi islamici ma anche da quella della magistratura italiana ed europea.

Ebbene l'allontanamento di Kohaila premia il lavoro svolto dalla Digos di Torino che era già riuscita con successo a far espellere dall'Italia altri due sedicenti imam collusi con il terrorismo islamico internazionale, il marocchino Bouriqi Bouchta e il senegalese Abdulqadir Fadlallah Mamour. Ma soprattutto fa ben sperare perché sembra che si sia finalmente capito che la predicazione d'odio è parte integrante e fondamentale dell'attività terroristica. Almeno questo l'ha capito chi è direttamente preposto all'opera di contrasto del terrorismo. Speriamo che lo capiscano anche i nostri politici e magistrati. (Corriere della Sera)

mercoledì 9 gennaio 2008

Prodi cerca soldi: dove non prenderli. il Foglio

Tassare i Bot aggrava solo la sofferenza delle famiglie che risparmiano

Alla vigilia dell’incontro tra governo e sindacati sul problema salariale, la Banca d’Italia ha reso noti i dati sulla crescita, superiore all’8 per cento, delle sofferenze bancarie delle famiglie italiane. Se il deficit pubblico diminuisce, quello privato galoppa, il che significa che il salasso fiscale che è stato imposto con la prima Finanziaria del governo di Romano Prodi non è ancora stato assorbito dai redditi familiari, che ora, a causa dell’impennata dei costi delle materie prime, dovranno anche fare i conti con prospettive inflazionistiche preoccupanti. Se, come sostiene l’estrema sinistra, per finanziare un sostegno indifferenziato, cioè non collegato a un aumento di produttività, dei redditi da lavoro si intervenisse su quelle che vengono chiamate enfaticamente le “rendite finanziarie”, che poi significa soprattutto il rendimento netto dei titoli di stato, si darebbe un colpo all’unico strumento di salvaguardia dei redditi familiari, il risparmio e il suo reddito.
Già in passato il governatore aveva avvertito che una manovra su questo comparto avrebbe determinato più danni che vantaggi, guardando ai titoli di stato allocati all’estero, che sono circa la metà, visto che il mercato internazionale guarda, ovviamante, solo al rendimento netto. Le informazioni sulle sofferenze aggiungono a quel monito la preoccupazione che un attacco al risparmio potrebbe creare situazioni pericolose anche sul mercato interno, proprio quello che con le misure di sostegno ai redditi da lavoro si vorrebbe rianimare. Nella logica del “risarcimento sociale”, che pensa a tassare il risparmio per detassare il lavoro, non si crea nuova ricchezza, il che significa che nessuno compensa l’aggravio esterno, proveniente dall’aumento delle materie prime importate. Si distribuisce solo la povertà. Senza un collegamento del recupero di reddito a quello di produttività, la somma è meno di zero. Mario Draghi ha cercato di farlo sapere a Palazzo Chigi in più occasioni, ma le preoccupazioni dettate dal buon senso dovranno vedersela con la dissennata demagogia redistributiva che ora appare dominante.

Andrea's version. il Foglio

Adesso basta, non si scherza più. Viene Gianni De Gennaro. Saremo inflessibili, quattro mesi di tempo, non un minuto di più, ma saranno quattro mesi di fuoco. Non guarderemo in faccia nessuno. Amministratori locali, deputati nazionali, interessi aziendali, conflitti globali, governatori regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali, condominiali, proteste sindacali, blocchi stradali, ministri banali, intrighi baronali, obiezioni normali, anormali, ritardi rituali, lagne sesquipedali, il finto casino, Bassolino, Iervolino, quelli di Avellino, del Mattino, del casertano, quelli del napoletano, i tipetti con le mani in mano, dottori, pensatori, attori, cantautori, pescatori, posteggiatori, tragediatori, muratori, donne, motori, motorini, finti spazzini, facchini, portantini, cretini, che finiate per ini o per oni, per isti o per ati, da questo momento ritenetevi avvisati. Arriva De Gennaro. Il superpoliziotto. Quello dell’Antimafia. Spezzeremo le reni allo zozzo. Scoveremo ogni sacchetto fino al terzo livello. Lo prenderemo, lo smaltiremo e lo faremo a pezzi. Contrada per contrada.

martedì 8 gennaio 2008

Ecco perché mi dimetto dalla Rai. Gigi Moncalvo

Caro Direttore,
ci sono - almeno per quel che mi riguarda – ragioni un poco più «nobili» di una buonuscita (peraltro contenuta) alla base della mia decisione annunciata da Maurizio Caverzan ieri su Il Giornale di andarmene dalla Rai. Soprattutto il fatto che non ne posso più dell’assenza di professionalità e della mancanza di criteri professionali, di rispetto, di competenze, di uomini giusti al posto giusto. In parole povere, dopo quattro anni di Confronti dal 3 marzo prossimo il direttore di Raidue avrebbe voluto spostare il programma dal venerdì alle 23 al lunedì alle 0,40, con durata ridotta della metà. Il tutto per far posto a un programma «molto protetto» politicamente e la cui curatrice sarebbe stata disponibile anche ad andare in onda il sabato.
Ho chiesto a Marano le ragioni vere della mia penalizzazione: nessuna risposta e rifiuto di incontrarmi a tu per tu. La verità? Il programma che ho inventato e di cui sono autore (titolo e format sono depositati alla Siae a mio nome) ha avuto i seguenti difetti: costava poco, meno di ottomila euro a puntata), faceva buoni ascolti (una media di un milione di ascoltatori, pur non avendo alcun traino, contando su un solo promo alla settimana e schiacciato da colossi come Zelig e Il Treno dei desideri), in 120 puntate con quasi 200 ospiti, specie politici, non ha mai creato incidenti e si è mostrato molto equilibrato. Il ministro Gentiloni e l’on. Landolfi lo hanno definito «un autentico esempio di servizio pubblico».Evidentemente il loro giudizio a Raidue non basta. Visto che la nuova collocazione oraria avrebbe ucciso il mio programma (e anche la mia coerenza professionale) ho preferito togliermi dalla linea di tiro e riacquistare dignità, salute, libertà. La «lezione» però mi è servita e contribuisce ad accrescere le mie esperienze, anche perché ho visto tante cose e letto tante carte che sarebbe un peccato tenerle solo per me. Un consiglio a chi dovesse vivere la mia situazione: mai spendere così poco denaro per un programma di un’ora (altrimenti facendo i confronti sui costi qualcuno potrebbe insospettirsi…), mai seguire i doveri di un giornalista che lavora per il servizio pubblico, mai fare una produzione tutta interna Rai. Se avessi «venduto» il format a una società esterna, stai tranquillo che ci avrebbero pensato loro a difendermi. Ma soprattutto, dato che non ho alcuna protezione politica e dato che non ci sono criteri professionali, per difendermi dall’«esecuzione» avrei dovuto fare il giro delle Sette Chiese alla ricerca di qualche partito che mi protegga e tuteli. Ma in questo modo avrei perso una parte della mia libertà e credibilità e sarei stato debitore a qualcuno di qualcosa. Il Presidente Berlusconi aveva perfettamente ragione quando ha sintetizzato con rara efficacia i due requisiti-base per fare carriera in Rai. La cosa incredibile è che vale anche nella cosiddetta rete «controllata» dal centrodestra.
Non mi interessa restare lì a scaldare una sedia, senza meritarmi lo stipendio, per altri otto anni. Anche perché il capostruttura della rete non me l’hanno mai fatto fare, a parte due indimenticabili mesi… Ho ancora tante cose da fare e di esperienze lavorative da vivere. Meglio rinunciare. (il Giornale)
Gigi Moncalvo
*ex Capo Struttura
di Raidue

lunedì 7 gennaio 2008

Prodi manda l'esercito a combattere la monnezza: ecco la vera mission di un centrosinistra infame. Carlo Panella

Dunque, dopo le grandi manifestazioni antimilitariste, dopo i sofferti voti sull'Afghanistan -e dopo 10 anni di governo Bassolino-Iervolino- Romano Prodi ha saltato il Rubicone e manda l'esercito: a spazzare le strade di Napoli.
Una vergogna, un orrore, un'infamia.
In quest'immmagine è racchiusa dunque tutta la miseria politica del centrosinistra: totale incapacità di amministrare, rapporti poco chiari con la Camorra, spreco di miliardi, arroganza, inefficienza, distruzione sistematica delle istituzioni.
Risultato: la peste a Napoli.
Perfetto.
Ma non basta.
Stamane Bassolino ha scritto una letterina a Repubblica.
Leggetela.
Lo stile è quello di una maestrina alle prime armi, sciatto, piatto, appena appena sufficiente e la sostanza è disarmante: non sono riuscito a fare l'inceneritore per colpa dei vescovi e degli eco estremisti.
Punto
E la politica dov'è stata in questi 14 anni (prima da sindaco, poi da governatore)?
Le decisioni.
Le palle insomma!!!!
Robe da matti.
Altro che Pd: questa combriccola di post comunisti (D'Alema e Veltroni con le loro liti chioggiotte in testa) ha sperperato un patrimonio di capacità amministrativa e decisionale enorme.

Lo scaricabarile. Francesco Ramella

Di chi è la responsabilità dei rifiuti che produciamo? La risposta non è facile ed immediata come ci si potrebbe aspettare. Neppure in un caso così clamoroso come quello napoletano.

Ciò che impressiona di più è lo scaricabarile a cui stiamo assistendo. Colpisce il «rifiuto» di responsabilità e il deficit di consapevolezza che affiora in questa vicenda. Perché mette in luce una cultura diffusa dell’irresponsabilità che interessa primariamente le istituzioni, ma non risparmia neppure i cittadini.

Gli amministratori del Nord che in questi giorni si sono premurati di fare dell’ironia, dichiarandosi indisponibili ad accollarsi l’immondizia del Sud, non dovrebbero dimenticare quanto è stato svelato dalle inchieste giudiziarie e denunciato da Roberto Saviano. Ovvero il gran numero d’imprese centro-settentrionali coinvolte nello smaltimento illegale, e a basso costo, dei propri rifiuti nelle discariche del Mezzogiorno.

A loro volta gli amministratori meridionali, che attribuiscono lo sfascio alla criminalità organizzata e al mancato sostegno dello Stato, non dovrebbero dimenticare i dati disastrosi sulla «raccolta differenziata» dei rifiuti che li inchiodano alle loro responsabilità. La normativa nazionale poneva come obiettivo il 35% da raggiungere entro il 2006. La finanziaria del 2007 aveva innalzato la quota al 40% indicando come traguardo il 60%, da raggiungere nel 2011. Le regioni del Sud sono sideralmente lontane da questi obiettivi. Secondo il Rapporto rifiuti dell’Apat, infatti, il dato medio nazionale ha toccato il 24% nel 2005. Ma con un evidente squilibrio territoriale: nel Nord si è arrivati al 38%, nel Centro al 19% e nel Sud appena al 9%. I dati Istat sui 111 Comuni capoluogo di provincia segnalano poche variazioni anche per il 2006.

Al di là delle evidenti inefficienze istituzionali, tuttavia, la questione rifiuti assume una valenza più generale. Coinvolge i comportamenti dei cittadini, nella veste di consumatori, e mette in luce un deficit di cultura nazionale sulla questione. Innanzitutto, dipendiamo ancora troppo dal «sistema delle discariche» che invece, secondo la legislazione comunitaria, dovrebbe avere un ruolo residuale nella gestione del ciclo dei rifiuti.

L’Italia non produce una quantità di rifiuti urbani pro-capite superiore a quella degli altri Paesi europei più sviluppati. Nel 2006 ci collocavamo sui 548 kg all’anno per persona, contro una media di 557 kg nell’area euro. Non facciamo neppure troppo male sul fronte della raccolta differenziata. Certo siamo lontani da Germania, Norvegia, Olanda e Svezia che - secondo i dati Ocse - oscillano intorno a tassi di riciclaggio del 44-50%. Ma siamo saldi nel drappello dei «paesi inseguitori».

Ciononostante, nelle discariche finisce circa la metà dell’immondizia delle nostre città (il 52% basandoci sui dati Eurostat). Certo molto meglio del 1995, quando ne interravamo oltre il 90%, ma molto peggio del resto di Eurolandia che ricorre a questo metodo solo per il 31% dei rifiuti, utilizzando invece più di noi, oltre al riciclaggio, anche l’incenerimento (22% di contro al nostro 12%).

Ma il fatto più grave è ancora un altro. È che nell’ultimo decennio in Italia la quota di rifiuti per persona è aumentata del 20%, contro una media europea del 6%. Segno che le politiche di prevenzione non hanno funzionato e che non ha ancora preso piede un’adeguata cultura del «consumo consapevole». Siamo ben lontani dai casi europei più virtuosi, come quello della Germania che oltre alla diffusione della raccolta differenziata ha notevolmente ridotto la sua produzione pro-capite di rifiuti urbani: -12% nell’ultimo decennio.

Tornando all’Italia, tutti colpevoli nessun colpevole? No tutti, diversamente, responsabili. Trasformiamo l’emergenza di Napoli in uno stimolo positivo per l’intero Paese. E per il Mezzogiorno in particolare. La strategia dell’ottimismo di Prodi parta concretamente da Napoli. Associando alla fuoriuscita dall’emergenza un piano di sostenibilità-rifiuti che, utilizzando incentivi e sanzioni finanziarie e fiscali, porti nella capitale partenopea - e nelle altre regioni del Sud - la raccolta differenziata sui livelli degli altri Paesi europei. In tempi ragionevoli. (la Stampa)

domenica 6 gennaio 2008

Aforismi di Leo Longanesi

«La destra? Ma se non c’è nemmeno la sinistra in Italia! Qui non c’è nulla. [...] Qui si vive alla giornata, tra l’acqua santa e l’acqua minerale».
«Non è la libertà che manca, mancano gli uomini liberi».
«Conservatore in un paese in cui non c’è nulla da conservare».
«Una democrazia, quella italiana, in cui un terzo dei cittadini rimpiange la passata dittatura, l’altro attende quella sovietica, e l’ultimo è disposto a adattarsi alla prossima dei democristiani».
«Dilagano in Italia tre diverse specie di paura: quella di sembrare fascista, quella di non sembrare abbastanza fascista e quella di non essere antifascisti del tutto. Se ne deduce che, per un verso o per l’altro, si gira sempre attorno a un punto fisso, cioè il fascismo. Il che dimostra che non siamo ancora riusciti a vincere il nostro “complesso di colpa”. Non resta, allora, che accettare una volta per tutte il fascismo come una esperienza storica da mettere in disparte. Ma quel che ci divide da molti è la scelta del luogo nel quale collocare questa esperienza: noi suggeriamo il museo, altri la galera».
«Un vero giornalista spiega benissimo quello che non sa»
«I delusi siamo noi, delusi due volte: delusi ieri, delusi oggi; delusi della dittatura, delusi della democrazia; delusi degli opposti ideali, delusi degli stessi risultati. Siamo i veterani di due illusioni, i reduci di due sconfitte, carichi di speranze perdute. Giovani nelle nuvole di un’epopea fallita, ci ritroviamo vecchi soldati di un esercito coi tamburi bucati, e marciamo a casaccio dietro la bandiera di Arlecchino».
«Da noi gli uomini politici si compiacciono di essere, come si dice, “alla portata di tutti”, e di comparire effigiati in atteggiamenti confidenziali; e ritengono inutile, anzi passatista anzi reazionario avere uno stile che combini la semplicità con il decoro, come faceva Mazzini […] il quale quando si rivolgeva a un sovrano, magari per avvertirlo che era il momento di cedere il trono all’appello del popolo, lo faceva sempre con le debite forme, che gli aveva insegnato la signora Maria, sua madre».
«La carne in scatola americana la mangio, ma le ideologie che l’accompagnano le lascio sul piatto».
«I nostri letterati vanno a sinistra; essi sperano che a sinistra la fantasia sia più fertile. Il comunismo, per costoro, è un lassativo che dovrebbe smuovere la loro stitichezza».
«L’undicesimo comandamento: credi, ma disubbidisci».
«In Italia tutti sono estremisti per prudenza».
«L’ipocrisia non è un male; è anzi una conquista civile, un prodotto di alta pedagogia!»
«Due anni fa, pubblicammo un breve libro in cui rintracciando in certe vecchie zie le ultime custodi di un ordine morale perduto, ci chiedevamo: “Ci salveranno le vecchie zie dall’incalzante rovina che ci minaccia?”. Due anni sono passati in fretta e il comunismo non ha conquistato lo Stato ma è accaduto qualcosa di peggio, forse di irrimediabile; ed è che quelle zie hanno ceduto, hanno aperto il passo alle nipoti, alla radio, alla tv, al frigidaire, a Marlon Brando, al latte in scatola, al provvisorio, al facile, al futile, al morbido; anch’esse sono cadute nel grande equivoco progressista che ha travolto la borghesia: un equivoco vasto, in cui tutto si amalgama, tutto si confonde, tutto si decompone in quella vecchia, vile, stanca abitudine nazionale che è il conformismo. Questa brutta parola [...] è l’ultimo regalo che la dc ha deposto sotto il camino nelle case borghesi».
«La democrazia delle classi aristocratiche e colte, che si chiama liberalismo, è gradevole; ma quella popolare è intollerabile. Una fila di carrozze è elegante: una fila di Vespe disturba».
«Alla manutenzione l’Italia preferisce l’inaugurazione»
«La perdita più grave che abbia avuto l’umanità dalla fine della guerra a oggi è la scomparsa di Stalin. Fin che lui era vivo, si riusciva a capire quello che non volevamo».
«Milano crede di essere Milano; Roma sa di essere Roma.»
«Non ho mai assistito ad una trasmissione televisiva e mai vi assisterò».
«Una bomba al tritolo reca meno danno di una trasmissione televisiva».
«La nostra vita politica [...] ormai si avvia verso il fascismo degli antifascisti, cioè un fascismo ritardato, più bonario ma più inconcludente, un fascismo senza nicotina in borghese, spoglio di miti e debole, ma condannato, di giorno in giorno, a prendere il potere».
«Noi siamo veramente un popolo di costruttori, abbiamo qui costruito e costruiamo a dosso e bisdosso, senza una preoccupazione al mondo, senza un ritegno e un po’ di tutto alla rinfusa: casone in stile razionale per bagnanti, Ina-case e villine a serie per i meno abbienti, ville sfacciate per i nuovi ricchi e gallinai pretenti per i nuovi poveri, e tutto brutto, e tutto ben vicino al mare [...]. Le antiche villone del Settecento, che furono un giorno l’ornamento di questa riviera, sono, in mezzo a questo bailamme televisivo, come signore bennate decadute fino a battere il marciapiede».
«Qualcuno, giorni fa, rivolgeva a un conoscente la solita domanda che gli italiani fanno per abitudine, e alla quale nessuno risponde mai nello stesso modo: “Lei è monarchico o repubblicano?” La risposta fu semplice, ma sincera: “Eh, secondo i giorni. Sarei monarchico, ma oramai...”. è una risposta modesta ma solenne. Quell’ormai spiega, illustra, chiude per sempre la storia della monarchia in Italia, e non si può dir di meglio né di più. Oramai la repubblica è fatta, l’unità storica italiana è spezzata».
«La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: ho famiglia»
«Non ci facciamo molte illusioni: accade sotto i nostri occhi qualcosa di irrimediabile che ci trascina alla rovina.[...] Navighiamo in un mare placido, seduti in coperta a guardare i gabbiani, ma c’è un cadavere nella stiva. E' il cadavere della Nazione. Noi non sappiamo più cosa sia una Nazione, lo abbiamo scordato, abituati come siamo a godere dei piaceri di questa falsa concordia, di questo marcio benessere, di questo lento tramonto. La decadenza della borghesia è senza rimedio; il suo disinteresse alla vicenda nazionale trapela da ogni fatto di cronaca»
«Non credo alla virtù. Esistono solamente dei “momenti” di virtù. Una virtù costante e cocciuta diventa, a lungo andare, un vizio.»
«La democrazia è una scusa per fondare giornali».
«Qual è la “cosa” che mi spaventa di più? Giudicare il prossimo. Ho detto giudicare, non condannare. Condannare è semplicissimo».
«Quale epigrafe vorrei avere sulla mia tomba? “Torno subito”». (Ideazione)

Una nuvola di parole tra popolo e palazzo. Michele Ainis

Ai nostri politici serve un oculista. Soffrono d’una distorsione ottica, ed è proprio qui l’origine del loro sguardo trasognato, dell’espressione visionaria con cui s’affacciano in tv: vedono lontano, puntano l’occhio su paesaggi astratti e astrusi, e al contempo non s’accorgono di quanto gli succede sotto il naso. Sarà per questo che il Palazzo ha inaugurato l’anno nuovo con una discussione filosofica sulla vita e sulla morte, sul rapporto fra la madre e il feto, sulla condizione del non nato. Sarà per questo che il 2008, come l’anno prima e l’anno prima ancora, ci sta inondando di dibattiti esoterici sulla legge elettorale, sulle virtù del presidenzialismo alla francese, sui vizi del sistema spagnolo.

Niente di nuovo, nel XV secolo è accaduto anche a Bisanzio, mentre i Turchi stavano per espugnare la città. Prima di capitolare, è bene tuttavia rivolgere una triplice domanda alla politica. Primo: ma davvero qualcuno di voi pensa che la revisione della legge sull’aborto sia in cima alle nostre preoccupazioni quotidiane? Secondo: e da quando il Parlamento si è tramutato in un consesso di teologi, da quando i politici rubano il mestiere ai politologi? Terzo: perché tante inesauste discussioni, quando sapete già in partenza che non caverete mai un ragno dal buco? Di riforme istituzionali si parla e si straparla da trent’anni, senza tuttavia schiodare le lancette della Costituzione, ferme alla data del 1948. Quanto ai temi etici, c’è da aspettarsi che la nuova legge sull’aborto subirà la stessa sorte della legge sui DiCo, o di quelle sul testamento biologico, sul divorzio breve, sulle droghe leggere, sulla riforma della fecondazione assistita: chiacchiere a volontà, nessun provvedimento. Ma forse il balletto delle esternazioni serve proprio a questo: a distogliere la nostra attenzione, a coprire sotto una nuvola di parole l’inettitudine dei politici. Tanto più se le parole spaziano fra il sacro e il profano, se toccano temi altisonanti, se s’impigliano in una pagina della Bibbia o in un rigo della Costituzione americana.

Sennonché questi discorsi surreali cagionano l’effetto opposto a quello che vorrebbero ottenere. Allargano il solco fra politica e società civile, anziché diminuirlo. C’è infatti una distanza fra popolo e Palazzo che non passa solo attraverso l’odio per sprechi e privilegi, ma ormai si lascia misurare col metro dei reciproci linguaggi, nonché degli interessi di cui il linguaggio è specchio. La prova? Basta mettere a raffronto le pagine di cronaca con quelle di politica. Nel giro di boa del Capodanno, mentre una dieta di Giuliano Ferrara apriva fra i politici la discussione sull’aborto, varie statistiche ci hanno mostrato che tutti gli italiani sono a dieta.

Secondo Eurostat paghiamo i prezzi più alti d’Europa (dopo la Gran Bretagna) per i generi alimentari. Ma riceviamo anche i salari più bassi, aggiunge la società Mercer. Da qui l’impoverimento del ceto medio, da qui l’emarginazione dei più deboli. E infatti i primi freddi hanno già fatto strage di clochard (a Roma, Andria, Modugno). A propria volta quest’esercito di diseredati gonfia le galere (50 mila detenuti, ben oltre la capienza massima) o s’offre per lavori precari e mal sicuri (sicché la lista dei morti sul lavoro è più lunga d’un lenzuolo). E che si fa? Il mese scorso si è varata una commissione sull’esclusione sociale. Meglio che niente; ma - diceva Craxi «se non vuoi risolvere un problema, nomina una bella commissione». Dev’esserci però un modo per costringere la città della politica a occuparsi della città reale, dei suoi bisogni, dei suoi specifici interessi. Magari può servire rafforzare l’iniziativa legislativa popolare, obbligando il Parlamento a leggere un’agenda scritta dagli stessi cittadini. Anzi: avrei sottomano il testo della prima legge popolare. Quella che vieta le omelie ai politici, e che restituisce ai preti i testi sacri. (la Stampa)

sabato 5 gennaio 2008

I doveri dei governanti. Ida Magli

Di una “costituzione” non c’è affatto bisogno. Nessun uomo, o gruppo di uomini, possiede né la capacità, né il diritto, di “fondare” con suoi pensieri e sue parole il dover essere di una Società. Il presupposto del Decalogo biblico (forse primo, lontanissimo esempio di “costituzione”) è che sia stato dettato da Dio. E naturalmente è valido soltanto per chi crede in quel Dio. Noi crediamo che sia necessario, non una costituzione, ma un decalogo dei doveri dei governanti.
La costituzione italiana è stata elaborata da uomini di potere e, in base a una prassi costante degli uomini di potere italiani, non è stata neanche sottoposta al giudizio dei cittadini. In questi giorni se ne sta celebrando con solennità la nascita, quasi si trattasse appunto di un testo sacro, e addirittura si spende il denaro dei contribuenti – cosa per lo meno scorretta - per reclamizzarne i vari articoli sui mezzi di comunicazione di massa. Non vi sembra un po’ ridicolo? Noi, gli Italiani, siamo stati truffati da questa costituzione in modo tale che ci ritroviamo senza confini, con una nuova cittadinanza, con una nuova moneta, con una nuova bandiera, sudditi di un secondo Parlamento, di una nuova costituzione, senza che ce ne sia stata detta neanche una parola, né che ce ne sia stato chiesto il permesso. Si tratta, infatti, di una costituzione pensata da marxisti, per loro natura privi di qualsiasi fiducia nel cosiddetto “popolo”, e quindi costruita in modo da poterlo ingannare nelle cose più importanti, o meglio, in modo da poter far passare attraverso soltanto un solo, poco appariscente divieto (il parere dei cittadini nella politica estera), la trasformazione totale della società.Insomma, una costituzione truffaldina. Nella costituzione italiana dell’Europa, infatti, non si parla. Tutta la costruzione europea, con la perdita di sovranità che ha comportato, è passata attraverso la cosiddetta “politica estera”, per la quale è vietato il ricorso al parere dei cittadini, così come è vietato per il regime fiscale. La nostra democraticissima repubblica vieta ai cittadini di metter bocca laddove si esercita davvero il Potere: le tasse e il rapporto con gli altri Stati. Dunque una costituzione che ha dimostrato in tutti questi anni di essere stata dettata quasi esclusivamente nell’interesse dei governanti. E’ citato una sola volta il “tradimento” di chi governa, ma mai è stato invocato, né per l’aver costituito attraverso i partiti e le loro tangenti, una società per delinquere, né per aver svenduto la Patria, il territorio della Patria, la indipendenza e la libertà degli Italiani che possono essere chiamati a rispondere e tratti in arresto da magistrature e polizie di altri Stati se facenti parte dell’unione europea. C’era tutto questo nella Costituzione?
Adesso, con la medesima protervia, è stata approvata una costituzione “europea” di cui non ci è stata detta neanche una parola (chiamandola “Trattato” per ingannare quei cittadini che l’avevano bocciata quando era stata sottoposta a referendum) e alla quale naturalmente dovremo credere ed obbedire, ma che importa? Si tratta di “politica estera”, così come grottescamente si trattava di politica estera quando ci è stata tolta la sovranità sulla nostra moneta e ce ne è stata imposta un’altra. Sì, cari Italiani, i soldi che abbiamo in tasca e con i quali viviamo sono politica estera.
Non possiamo dilungarci troppo; ma una parola, almeno, la vogliamo dire su quella prima affermazione, uscita dalla bocca di Marx, che definisce l’Italia una repubblica fondata sul lavoro?Il “lavoro”? Di che cosa si tratta? Di una divinità che pre-sussiste agli uomini, che ne forma l’essenza? L’uomo è Uomo, e basta. E’ fondato su se stesso; e nel caso creda in un Dio, è fondato su quel Dio.
Di questa costituzione, dunque, noi, che siamo e ci sentiamo “Uomini”, dobbiamo vergognarci. Le parole pronunciate dai nostri governanti in questi giorni sono vuote e inutili; dettate esclusivamente dal disprezzo benevolente verso i propri sudditi di chi possiede il potere. L’unica cosa necessaria – lo ripetiamo – è un brevissimo, ma essenziale, elenco dei Doveri cui sono obbligati coloro che detengono i massimi poteri: politici, magistrati, militari. Questa è la nostra "costituzione". (ItalianiLiberi)

giovedì 3 gennaio 2008

Contrada, la persecuzione dell'uomo di Stato. Lino Jannuzzi

L’affare Dreyfus, eterno nel mito, durò in realtà poco più di dodici anni, dal 15 ottobre del 1894 al 21 luglio del 1906. Il capitano Alfred Dreyfus, accusato di alto tradimento, fu arrestato il 15 ottobre del 1894, fu processato dalla Corte marziale a partire dal 19 ottobre, fu condannato il 22 alla deportazione perpetua e alla perdita del grado. Il 13 aprile fu confinato sull'Isola del Diavolo, il 13 gennaio del 1898 Émile Zola scrisse sull'Aurore il celebre «J'accuse» e venne processato e condannato per diffamazione, il 7 agosto 1899 la Corte marziale di Rennes lo giudicò di nuovo colpevole, ma gli concesse le circostanze attenuanti e lo condannò a dieci anni di reclusione. Il 12 luglio del 1906, la Corte d’Appello annullò definitivamente il verdetto di Rennes, il 13 il Parlamento approvò la reintegrazione di Dreyfus nel grado di capitano, il 21 nel cortile dell'École militaire Dreyfus ricevette la croce di cavaliere della Legion d'onore.
L'affare Contrada dura già da più di quindici anni e non accenna a finire. Bruno Contrada è stato arrestato, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, la notte di Natale del 1992 e si è consegnato al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, appena ha saputo della condanna definitiva, nel mese di maggio di quest'anno e ne uscirà, se non vi morirà prima, nel 2014. Niente di ciò che si parla, la concessione della grazia, il differimento della pena e gli arresti domiciliari, la revisione del processo, è veramente all'ordine del giorno. Molto difficilmente il capo della Stato potrà resistere al ricatto delle vedove dell'antimafia e concedergli la grazia, che peraltro Contrada non ha chiesto, non chiede e non chiederà, per ragioni umanitarie. Le vedove di Paolo Borsellino, dopo tre processi con relativi appelli e relative Cassazioni che sono stati incapaci di trovare e condannare gli esecutori della strage di via D'Amelio, non trovano di meglio che sfogarsi contro il poliziotto che a Palermo ha combattuto la mafia almeno come e quanto l'hanno fatto Borsellino e Falcone, ed è stato condannato soltanto per le calunnie dei mafiosi che ha combattuto.
Il tribunale di sorveglianza di Napoli, che dovrebbe decidere per il differimento della pena e per gli arresti domiciliari, ha già fatto morire in carcere più di uno sventurato finito nelle sue grinfie: l'ultimo caso è di tre anni fa, un tale Francesco Racco, un commerciante ambulante calabrese di 58 anni, che era rinchiuso nel carcere di Secondigliano per espiare la pena di dieci anni di reclusione inflittagli per il reato di associazione mafiosa. Portatore di una gravissima patologia, con il pericolo imminente di esito letale, questo Racco era stato tradotto dalla Casa circondariale di Locri in Calabria nel carcere di Secondigliano per sottoporsi tre volte alla settimana a sedute di dialisi nel centro clinico, ma era finito invece segregato in una lurida cella nella divisione dei detenuti comuni. Il suo avvocato aveva richiesto ripetutamente, fornendo inequivocabili perizie cliniche per certificare il pericoloso aggravarsi dello stato di salute, il differimento delle pena e gli arresti domiciliari o almeno gli arresti ospedalieri. Ma il Tribunale di sorveglianza di Napoli aveva respinto tutte le istanze sostenendo che in quella larva d'uomo «sussiste il pericolo concreto della commissione di delitti». L'ultima istanza era stata presentata il 14 aprile del 2004 ed era stata respinta dal Tribunale il 9 giugno: trentaquattro giorni dopo, il pericoloso malvivente veniva tirato fuori dalla cella e trasportato d'urgenza all'ospedale Cardarelli, dove giungeva cadavere.
Sullo sfondo di queste tragedie c'è anche la farsa. Il presidente di questo Tribunale di sorveglianza di Napoli è la stessa Angelica Di Giovanni che voleva trasferire Lino Jannuzzi, condannato per diffamazione su querela dei magistrati che avevano processato e condannato Enzo Tortora, dagli arresti domiciliari direttamente al carcere, con la motivazione che altrimenti il giornalista avrebbe continuato a scrivere, cioè a delinquere, come lo sventurato ambulante calabrese. Jannuzzi si salvò dal carcere solo in virtù della grazia concessagli dal presidente della Repubblica Ciampi, ma la Di Giovanni è finita sotto provvedimento disciplinare a causa dei suoi commenti sulla vicenda e viene difesa per l'occasione dall'ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli: vale e dire che il prossimo 10 gennaio, quando il Tribunale di sorveglianza dovrà decidere sul caso Contrada, la decisione dovrà essere presa da un magistrato che è assistito dal magistrato che ha processato Contrada.
Quanto alla revisione del processo, questa dipende dalla Corte di Cassazione, quella stessa che prima ha annullato l'assoluzione di Contrada e poi ne ha ratificato la condanna (ma, dopo sette mesi, non ne ha ancora rese pubbliche le motivazioni). Per tacere che le maggiori resistenze a un processo che sveli gli autori e le trame del complotto e restituisca la libertà e l'onore a Bruno Contrada viene sempre da quel ministero dell'Interno, dove ancora si annidano quei centri di potere che sono stati all'origine dell'affare. Sotto tutti gli aspetti, l'affare Contrada sta messo peggio dell'affare Dreyfus, come è vero che i professionisti dell'antimafia sono persino peggio degli antisemiti e degli antidreyfusardi di un secolo fa. (il Giornale)