martedì 30 novembre 2010

Porci senza ali. Giacomo Gabellini

Come volevasi dimostrare, le attesissime "rivelazioni" di Wikileaks che avrebbero dovuto far tremare i governi di mezzo mondo si stanno dimostrando nulla più che una sfilza di pettegolezzi più confacenti a uno dei tanti tabloid scandalistici inglesi che alla rete di sedicente "controinformazione" più temuta del mondo. Evidentemente, le folte schiere di pifferai nostrani dovevano esser proprio a corto di cartucce per aggrapparsi alle ovvietà estratte dal cilindro da questo Julian Assange, per esprimere il proprio immancabile "sconcerto" di fronte alla "gravità" della situazione.

Il prode D'Avanzo di Repubblica, che si interroga sulla natura dei legami Berlusconi - Putin, giunge alla conclusione che si tratta di un'intesa meramente personale, che alla fin dei conti i due non farebbero altro che dar luogo a incontri occasionali finalizzati ad assaporare i fasti della bella vita, magari in compagnia di quattro "escort" (la categoria delle puttane è stata oramai sdoganata) "talvolta minorenni". La filippica di D'Avanzo, ignorante come pochi di questioni che attengono la geopolitica, si risolve così, in uno sterile arzigogolo verbale su cui aleggia l'immancabile vena moraleggiante di chi ha fatto della "sobrietà" il proprio status symbol. Mario Calabresi dalle colonne de La Stampa gli fa eco, scrivendo che "Berlusconi, sicuro di non pagare conseguenze, può farsi una risata e Frattini chiedere che nessun politico commenti, ma in rete e sui giornali di tutto il mondo resteranno quei giudizi impietosi che ci espongono al ridicolo e quella diffidenza che rende faticoso il rapporto con il più importante dei nostri alleati". Curioso che nessuno dei due noti e strapagati giornalisti in questione si interroghi su quello che è invece l'aspetto più intrigante della questione, ovvero che non una delle testate giornalistiche italiane, caso più unico che raro, sia stata messa nelle condizioni di attingere informazioni direttamente alla fonte Wikileaks. La anticipazioni sono state concesse solo a cinque giornali, che sono il New York Times (Stati Uniti), Le Monde (Francia), Der Spiegel (Germania), El Pais (Spagna) e The Guardian (Inghilterra), mentre la stampa italiana è stata lasciata letteralmente a bocca asciutta. Non viene in mente, ai signori D'Avanzo e Calabresi, che "forse" la radice del problema è un'altra? Che ciò che agli americani non va giù, cari miopi signori, è che Berlusconi sta stringendo legami con uomini politici, come Putin e Gheddafi, in grado di mettere a serio repentaglio gli interessi statunitensi? Da sempre gli USA mirano a "liberare" l'Europa dalla dipendenza energetica russa, in modo da evitare quei pericolosi slittamenti euro - asiatici che ridimensionerebbero drasticamente l'influenza statunitense nel Vecchio Continente. Berlusconi sono anni che rema contro, tessendo un giorno sì e l'altro pure le lodi di Putin e facendosi sponsor dell'ambizioso progetto per la costruzione del South Stream, che vede l'ENI lavorare fianco a fianco con Gazprom per ottimizzare i flussi di idrocarburi dalla Russia senza dover fare per forza i conti con le cicliche turbolenze ucraine.

Tutt'altro che irrilevante, inoltre, è la diffidenza di Berlusconi nei confronti delle direttive impartite dai burocrati di Bruxelles (che si sa bene quali interessi tutelino) e dai loro fidi sodali installati in alcuni centri di potere endogeni (come Draghi alla Banca d'Italia), oltre che il suo strenuo difendere quelle aziende strategiche, come Finmeccanica ed ENI, in grado di giocare un ruolo cruciale nel ridisegnare i rapporti di forza in un assetto geopolitico che sta inesorabilmente prendendo la via del multipolarismo. In un contesto simile, continuare, come fa Calabresi, a stracciarsi le vesti per la diffidenza che "l'alleato" nutre nei confronti dell'Italia equivale ad assecondare in tutto e per tutto le sue inequivocabili mire imperialistiche, cosa che generalmente calza a pennello per la categoria dei traditori. (ariannaeditrice.it)

lunedì 29 novembre 2010

"Berlusconi si deve dimettere", ma Fini non spiega perchè. Giancarlo Loquenzi

Il mantra finiano di questi ultimi giorni è il seguente: “Berlusconi si deve dimettere”. Se uno ingenuamente chiede il perché ottiene questa risposta: “Perché non ha più la maggioranza”.

Benissimo, può essere vero, ma si tratta di un’opinione come un’altra. Dal punto di vista di Berlusconi l’evidenza è molto diversa.

Il 29 settembre il governo ha attenuto la fiducia alla Camera e al Senato sulla base di 5 punti programmatici che - piaccia o meno – sono in corso di approvazione. I finiani l’hanno votata come sol uomo.

Gli stessi finiani hanno votato a favore di uno dei passaggi più spinosi della legislatura, il lodo Alfano, persino nei suoi passaggi più controversi. Ricorderete la valanga di polemiche riversatasi su Fli dopo il voto a favore della retroattività del lodo.

La legge finanziaria, o di stabilità, come si chiama oggi, uno degli atti centrali di qualsiasi governo, è passata pressoché indenne alla Camera, dove la possibilità di agguati era certamente maggiore.

Non parliamo neppure del Senato dove il governo gode di una maggioranza stabile e intatta anche dopo l’addio dei finiani.

La riforma dell’Università, un altro punto centrale del programma di governo, dopo essere stata allegramente impallinata dai finiani appostati sui tetti su qualche emendamento marginale, verrà approvata, poiché a detta di Fini stesso “è una delle cose migliori fatte da questo governo”.

Il pacchetto per il Sud, che faceva parte dei 5 punti della fiducia, è stato varato dal Consiglio dei Ministri e non sembra essere destinato a particolari imboscate da parte finiana nel suo passaggio parlamentare.

Infine, Fini e i finiani, contrariamente al Pd non hanno presentato alcuna mozione di sfiducia per il prossimo 14 dicembre e hanno più volte ripetuto che non voteranno la mozione piddina.

Insomma, tornando alla domanda iniziale: “perché Berlusconi si deve dimettere”, la risposta finiana non pare rispondere ad una logica molto stringente. L’onere della prova che il governo Berlusconi non abbia più la maggioranza è dunque tutto dalla loro parte. Per questo Berlusconi dice una cosa ovvia quando risponde: “volete le mie dimissioni? Votatemi la sfiducia”.

Ciò nonostante, in ogni intervista, in ogni talk show, Fini e i finiani ripetono come un disco rotto: Berlusconi si deve di mettere. E anzi giudicano la sua resistenza al loro invito un segno di irresponsabilità e di tracotanza. Capiamo che non lo sopportino, che lo abbiano in odio e sia un ostacolo alle loro ambizioni: ma questo non basta per chiedergli di farsi da parte. Vogliono il suo suicidio per non sporcarsi le mani davanti agli elettori.

Ma come ripeto spesso, la politica ha una sua logica che non si può mai interamente sovvertire. Potrebbe avere un senso fare a Berlusconi una proposta del genere: “il 14 dicembre, con i nostri voti, l’opposizione può ottenere la caduta del governo. Risparmiati questa umiliazione e dimettiti. In cambio noi sosterremo il tuo reincarico dopo un momento di discontinuità e un sostanzioso rimpasto di governo che ci possa far rientrare anche assieme all’Udc”. Berlusconi potrebbe comunque non fidarsi e rifiutare – in Italia anche poche ore di crisi possono essere foriere di fatti incontrollabili – ma sarebbe una proposta da prendere in esame. Invece i finiani cosa dicono: “fatti da parte spontaneamente e lasciaci fare un governo con il tuo partito (quel Pdl che dichiarano ormai morto) ma senza di te. Tu ritirati a vita privata e fatti dimenticare”.

Può una proposta del genere essere ricevibile da qualcuno che anche non avesse l’alta opinione di sé che ha il Cav? Certo che no. Eppure è questo, che con inossidabile ordine di scuderia, i finiani vanno ripetendo per ogni dove, con l’aria seria e compunta come stessero recitando la formula magica per la salvezza del paese.

Il governo non sarà in perfetta salute ed è soggetto a numerosi scivoloni parlamentari (quelli che Briguglio definisce voti pedagogici e curativi per Berlusconi) ma tenta di fare il suo mestiere. Il presidente della Camera usa il Parlamento come una plaza de toros in cui sfiancare l’animale ferito. E lo fa con l’aria di chi gli sta facendo un favore. Per questo poi si sorprende e si lamenta se ogni tanto incassa qualche cornata. (l'Occidentale)

Dall'Uganda al Ruanda. Davide Giacalone

Nessuno dica che i magistrati non hanno il senso dell’umorismo, tutto sta a vedere se volontario o meno. Nel febbraio del 2009 il procuratore generale presso la Corte di cassazione inaugurò l’anno giudiziario avvertendo che la giustizia italiana funzionava peggio di quella dell’Uganda. Intendeva dire che faceva schifo, e aveva ragione. Il segretario del sindacato delle toghe, l’Associazione Nazionale Magistrati, ha aperto il loro congresso ricordando che in quanto a trasparenza e corruzione, quindi in quanto a giustizia, l’Italia è messa peggio del Ruanda. Non so se scelgono i paragoni per la poetica necessità di fare rima, so che entrambe sono tratti dal rapporto della Banca Mondiale e i Paesi che ci precedono sono parecchi. Oserei dire, senza offesa per gli altri: tutti quelli civili.

La cosa singolare è che queste cose, un tempo, le sostenevamo noi garantisti, per affermare la necessità di riforme immediate e radicali. Ora si trovano nei discorsi dei magistrati, che poi aggiungono la loro avversità alle riforme. Si vede che oltre alla cucina s’è diffusa anche la giustizia etnica. Luca Palamara, attuale capo del sindacato, ha annunciato che “è ora di voltare pagina”, nei rapporti con la politica. Mi s’è aperto il cuore: finalmente si ragiona senza pregiudizi, di cose concrete. Poi ha aggiunto: “le riforme vogliono colpire la nostra indipendenza”. E buona notte. Ha sostenuto che i magistrati divenuti politici non devono più tornare alla toga, ed ha perfettamente ragione. Forse si dovrebbe aggiungere che non si può far politica neanche prima d’essere eletti, con la toga ancora sulle spalle. I cittadini, ingenuoni, preferiscono ancora l’idea che il magistrato sia e appaia indipendente. Può ben aver sue opinioni, ma non dovrebbe sentire il quotidiano e insopprimibile bisogno di mettercene a parte. La cosa più bella è che, secondo Palamara, un magistrato non dovrebbe mai far pressioni per avere un determinato incarico. Allora azzeriamoli tutti, perché non ne conosco neanche uno che abbia avuto la nomina inconsapevolmente. Se vuole cancellare il lobbismo deve cancellare il correntismo, vale a dire l’attuale strutturazione del Consiglio Superiore della Magistratura e l’orrido sistema elettorale. Ci sta? Noi da anni.

Veniano ad alcune utili cose che si potrebbero fare subito, se la piantassimo di parlare per aizzare le platee. L’organizzazione giudiziaria deve essere centralizzata ed eguale in tutta Italia (lo dice la Costituzione, e ne assegna il compito al ministro della Giustizia), basta con le autonomie organizzative, vera causa del fatto che, con le medesime leggi, in certi tribunali si va a passo lento e in certi altri a marcia indietro. I piccoli tribunali vanno chiusi, perché sono uno spreco di risorse. La digitalizzazione deve procedere spedita e secondo un disegno unitario. Basta con gli uffici che comprano programmi tarocchi e pretendono di tenerseli in base ad una assai malintesa “autonomia”. Abbiamo speso una fortuna e i risultati sono miserrimi. E’ uno scandalo.

Ancora oltre: i magistrati devono o non essere sottoposti ad un giudizio di capacità e produttività? Il procuratore che continua a indagare innocenti e intercettare gente che non commette reati, massacrando delle vite e sprecando dei soldi, va fermato, non tollerato nella sua carriera automatica. Il giudice che continua a sbagliare sentenze, riformate nei gradi successivi, deve essere indotto a cambiare genere letterario. Oggi, invece, quelli del primo grado neanche leggono cosa la cassazione scrive di tante asinerie. Come si vede, nessuna sottomissione alla politica, ma valorizzazione delle sentenze.

Nel nostro codice c’è scritto che per condannare un cittadino occorre che non ci siano ragionevoli dubbi. Ma come si fa a non averne se è già stato assolto in primo grado, da altri giudici che hanno valutato i medesimi fatti? La non appellabilità delle assoluzioni consente di sfoltire i procedimenti pendenti e accorciare i tempi, liberando giudici per altre cause. Mi pare ragionevole (lo so che c’è una sentenza, vergognosa, della Corte Costituzionale, ma lascia ampi margini ad una riforma complessiva, sulla quale sarebbe bello sentire il costruttivo e propositivo parere dei magistrati congressisti).

Ecco cose concrete, nessuna delle quali ha a che vedere con faccende direttamente politiche o imputati istituzionalmente quotati. Poi, per carità, io sono per la separazione delle carriere, giacché non mi rassegno a questa unicità corporativa e solo italiana, ma lasciamo da parte le cose troppo grosse, su quelle elencate è possibile procedere senza che un gruppo di togati si senta in diritto di sfilare a difesa della conservazione? Ove la risposta sia positiva, in tre mesi superiamo l’Africa intera e ci ricongiungiamo all’Europa. Dall’Uganda e il Ruanda all’Olanda. Ove sia negativa, almeno indossino il gonnellino di paglia.

venerdì 26 novembre 2010

Le, ahem, sei “w” del giornalismo italiano. Christian Rocca

Nel mondo anglosassone spiegano la regola secondo cui gli articoli giornalistici devono sempre cominciare rispondendo alle cinque "w", what, who, where, when, why.
Nel giornalismo italiano alle 5 w regolamentari se ne aggiunge molto spesso una sesta: la w di weather report, le previsioni del tempo. Ve ne siete mai accorti? Quando il cronista si atteggia a Hemingway comincia sempre con le previsioni del tempo, fin dai tempi irripetibili di "Era una notte buia e tempestosa".
Oggi, per esempio, su un giornale preso a caso:
«Un vento freddo che sicuramente arrivava dal nord" è l’attacco di un articolo sui rifiuti a Napoli;
«Sono le due del pomeriggio e il vento soffia gelido su Dublino» è l’attacco di un articolo da, appunto, Dublino (camilloblog)

Il gioco dell'oca dei partiti. Michele Ainis

A riascoltarla adesso, la Grande promessa di semplificazione che ha inaugurato la legislatura suona come un Grande imbroglio. Sono trascorsi due anni, sembrano due secoli. Nel 2008 s’unirono in matrimonio antiche tradizioni politiche, giurandosi fedeltà in eterno. A sinistra gli eredi della Democrazia cristiana e del Partito comunista battezzarono il Partito democratico, a destra Forza Italia e Alleanza nazionale si sciolsero nel Popolo della libertà. La soglia di sbarramento completò il lavoro, cacciando dal Parlamento la destra estrema e la sinistra radicale.
Uscì di scena la carovana delle microliste personali, quelle di Dini o di Mastella, e poi i verdi, i gialli, gli arcobaleni. Dagli 11 partiti che cingevano d’assedio il governo Prodi siamo passati a un esecutivo bicolore (Pdl-Lega), mentre a Montecitorio prendevano posto 6 gruppi parlamentari in tutto, compreso il gruppo misto.

Ma la politica italiana ha un debole per il gioco dell’oca: ritorna sempre alla stazione di partenza. I co-fondatori dei due partiti principali (Fini di qua, Rutelli di là) hanno divorziato già durante il viaggio di nozze, e nel frattempo si sono affacciate alla ribalta nuove formazioni, partito del Sud contro il partito del Nord, l’antipolitica di Grillo contro la politica ufficiale, polo di centro contro i poli terrestri. C’è un’esigenza, c’è una domanda sociale che alleva la scomposizione del quadro politico? Può anche darsi, giacché ormai l’Italia è frastagliata in lobby, sindacati, categorie professionali dove trionfano soltanto gli egoismi collettivi. Ma sta di fatto che in quest’agonia della seconda Repubblica la classe politica si sta rivelando ben peggiore della società civile, come ha osservato Montezemolo e come osservano in coro gli italiani. Le scissioni, le riaggregazioni, le nuove creature non puntano a riflettere una geografia sociale in movimento; servono piuttosto a procurare un posto in prima fila agli oligarchi di partito che stavano un po' stretti nei loro vecchi condomini. Da qui l’inflazione delle sigle; ma le facce no, quelle sono sempre uguali. Queste facce ci hanno regalato un tasso di crescita dello 0,2%, il più basso fra i Paesi Ocse. Ci hanno regalato inoltre lo sfascio della nostra cittadella pubblica, dalla giustizia alla sanità, dal fisco alla scuola. Siccome non gli basta, stanno per regalarci il terzo scioglimento delle Camere nell’arco d’un quinquennio. Come reagirà l’elettorato? Per una volta, tutti i sondaggi sono convergenti: il partito del non voto (che alle scorse regionali ha toccato il 40%, sommando all’astensione le schede bianche e nulle) continua a gonfiarsi come un panettone. Viceversa il Pdl perde da 7 a 11 punti percentuali, il Pd frana a sua volta (da 8 a 10 punti in meno). Guadagna qualcosa la Lega, guadagnano Casini, Vendola, Di Pietro. Ma il menu che assaggeremo molto presto avrà il sapore d’una marmellata elettorale, dove il pezzo più grosso è soltanto il meno piccolo.

E tuttavia, attenzione: la marmellata contiene un paio di frutti velenosi. Colpa dello chef che ha cucinato le regole del voto, definendole lui stesso una «porcata». Del primo frutto abbiamo già fatto indigestione: è la regola che converte gli eletti in nominati, e che ha immediatamente intossicato la nostra vita pubblica, svilendo il prestigio delle assemblee legislative. Quanto al secondo, fin qui non ce ne siamo troppo accorti. Però a certe condizioni diventa l’ingrediente più letale, non basta una lavanda gastrica per venirne fuori indenni. Quest’altro frutto si chiama premio di maggioranza; le condizioni che lo rendono mortale dipendono per l’appunto dalla marmellata elettorale; i suoi effetti possono stroncare l’esile corpo della democrazia italiana. Come mai potrebbe sopravvivere, se la trasformazione del nostro voto in seggi diventa una rapina a mano armata? Se un partito del 25% s’accaparra il 55% delle poltrone in Parlamento? Se a quel punto nessun governo ha più l’autorità per governare?

Da qui l’urgenza di sbarazzarci di questa legge elettorale, prima che la legge si sbarazzi della nostra democrazia. Ma la politica, di nuovo, fa il gioco dell’oca. Il Pd è d’accordo sull’urgenza, e infatti chiede un governo tecnico per cambiare sistema elettorale; così offrendo al Pdl una buona ragione per opporsi al cambiamento, perché il governo tecnico rovescerebbe il risultato delle urne. Ma dopotutto è sempre la stessa tiritera, i nostri mandarini non stanno litigando sulle regole, bisticciano sui posti di governo, su una sistemazione per le loro auguste chiappe. C’è allora un lodo da proporre a questi carissimi nemici: Berlusconi continui a governare, il Parlamento modifichi la legge elettorale. Servirà una maggioranza diversa da quella che sostiene l’esecutivo in carica? Non è un delitto, è la normalità costituzionale. Il delitto è quello che altrimenti ci verrà servito in tavola alle prossime elezioni. (la Stampa)

giovedì 25 novembre 2010

Gli speculatori finanziari vil razza dannata. Nessuno si senta al sicuro. Luigi Zingales

Nell'immaginario collettivo (e in quello della stragrande maggioranza dei leader politici europei) gli speculatori finanziari, specie quelli che scommettono al ribasso, sono degli dèi onnipotenti e malvagi, che con le loro volubili opinioni condizionano la vita di milioni di individui. Si riuniscono in circoli segreti nei grattacieli di Manhattan e decidono arbitrariamente l'identità delle loro vittime. Quando si avventano, come un branco di lupi, sulla preda indifesa, questa non ha più scampo.

Fu la congiura dei perfidi speculatori a portare Lehman al collasso. Fu un'altra congiura a trascinare la povera Grecia nel fango. E sono sempre loro, i terribili speculatori, ad aver forzato l'Irlanda a chiedere aiuto all'Europa. Se non ci fossero loro, il mondo sarebbe migliore.

La realtà è molto diversa. Lungi dall'essere degli dèi onnipotenti, gli speculatori sono persone pavide. Quando uno speculatore al ribasso vende a 100 euro un titolo che non possiede fa una scommessa molto asimmetrica. Se, come spera, il titolo scende a 80 euro, lo può riacquistare con un guadagno di 20 euro. Ma se ha torto e il titolo sale, rischia di perdere molto di più. Se il titolo raddoppia o triplica la sua perdita è enorme, mentre anche nella migliore delle ipotesi per lui (che il titolo vada a zero) non può guadagnare più di 100 euro. Proprio questa asimmetria rende gli speculatori al ribasso estremamente timorosi. Per questo si muovono in branco, subito pronti a scappare (chiudendo le loro posizioni anche in perdita) appena vedono che il titolo si muove con forza al rialzo.

Se questo non bastasse, lo speculatore al ribasso rischia di perdere soldi anche quando ha ragione. Per speculare al ribasso, deve vendere dei titoli che non possiede. Per farlo deve prenderli a prestito, un prestito che deve essere periodicamente rinnovato. Se improvvisamente l'offerta di titoli a prestito si riduce, lo speculatore si trova costretto a chiudere le sue posizioni prima del momento desiderato, anche se in perdita. Se poi il titolo scende prima che lui sia riuscito a ricreare la sua posizione, lo speculatore finisce per perdere soldi anche quando ha avuto l'intuizione giusta.

Più che a lupi famelici, gli speculatori al ribasso assomigliano a un branco di iene, pronte ad avventarsi su degli animali morti, ma timorose di assalire quelli vivi. Le paure dei politici sono quindi del tutto infondate? No. Un attacco degli speculatori può precipitare la fine di imprese in difficoltà; come le iene, muovendosi in branco, sono talora in grado di uccidere le prede più deboli. Ma per capire se gli speculatori annunciano solo la fine di imprese decotte o piuttosto uccidono imprese sane, basta guardare all'autopsia. Nel primo caso, le imprese oggetto della speculazione sono imprese insolventi, in cui le passività eccedono di gran lunga il valore dell'attivo. Nel secondo, invece, le imprese uccise dalla speculazione sono fondamentalmente sane e quindi con un attivo che dovrebbe risultare superiore alle passività.

Per molte imprese un matrimonio di convenienza o il salvataggio statale impediscono un'autopsia seria. Ma nel caso di Lehman, il cadavere è stato analizzato con squisita dovizia di particolari da Anton Valukas, un esaminatore nominato dal tribunale fallimentare. In 2.200 pagine, Valukas dipinge una società fallita da lungo tempo, tenuta in vita solo da trucchi contabili, come i famigerati repo 105 (vendite a termine contabilizzate come vendite finali). La stessa impressione si desume dalla crisi degli stati sovrani. Forse che la Grecia non era insolvente quando l'Europa è intervenuta a salvarla? Pur con tagli draconiani alle spese imposti dall'Europa, la Grecia stenta ancora oggi a reggere il peso di interessi a loro volta alleggeriti dall'aiuto europeo. E se la recessione continua, non è da escludere la necessità di nuovi interventi. E cosa dire dell'Irlanda, che fino a ieri si proclamava perfettamente in grado di finanziarsi sul mercato? Ora che il fondo europeo è stato mobilitato, si mantiene incerta la cifra richiesta perché il governo non è in grado di stabilire l'entità delle perdite delle banche che ha incautamente garantito. Come poteva il governo irlandese dichiarasi perfettamente solvente, quando non aveva idea della dimensione delle sue passivita?


Il problema, quindi, non è che i perfidi speculatori uccidono ingiustamente imprese sane e forzano alla bancarotta stati solventi. Il problema è che gli speculatori sono troppo pavidi per attaccare isolatamente, e preferiscono precipitarsi sulla preda più debole, quando sta per morire, trascurando quelle gravemente malate. Se il mercato sbaglia, quindi, non sbaglia nel penalizzare l'Irlanda di turno, ma sbaglia nel non penalizzare sufficientemente gli altri stati che sono solo un po' meglio dell'Irlanda.

Questo significa che paesi come il nostro, che si sono crogiolati nelle stime rassicuranti del mercato, non possono dormire sonni tranquilli. Se lo spread dei nostri titoli di stato su quelli tedeschi è relativamente basso è anche perché gli speculatori non hanno la forza di attaccare molti stati contemporaneamente e si sono concentrati sulle prede più facili. Cadute la Grecia e l'Irlanda, spetterà al Portogallo il non invidiabile onore di essere il membro più debole del branco, intorno a cui si concentreranno gli speculatori. E dopo il Portogallo? Per il momento il candidato favorito è la Spagna. Ma basta poco (una crisi di governo al buio?) per farci apparire più deboli dei nostri cugini spagnoli. A quel punto si salvi chi può. (il Sole 24 Ore)

La sindrome di Manconi. Orso Di Pietra

Ma perché la destra non capisce il nuovo canone televisivo di Fazio e Saviano ispirato alla rappresentazione del mondo compiuta negli decenni passati dalle migliori menti del pensiero situazionista di Guy Debord e Raoul Vaneigem? La rispossa del politicamente corretto Luigi Manconi su “Il Foglio” è che la destra in generale soffre di un inequivocabile complesso d’inferiorità.
Quella che ha fatto il liceo classico patisce ma non capisce. Quella vera, quella secondo Manconi rappresentata da “er Pomata, Pagnottella e Rottinculo”, gente che non sa neppure chi sia Renzo Piano, se ne infischia, “ma immancabilmente vince tutte le elezioni”. Ma se “er Pomata, Pagnottella e Rottinculo” se ne fregano di Fazio e Saviano come fanno a soffrire di un qualche complesso d’inferiorità? Non è che a soffrire di questa drammatica patologia sia lo stesso Manconi? Che conosce Debord, Vaneigem Piano e disprezza i sub-umani destrorsi ma non riesce a vincere una elezione che sia una da quando aveva i pantaloni corti? (l'Opinione)

mercoledì 24 novembre 2010

1993, lo Stato cede a Cosa Nostra ma i professionisti dell'antimafia stanno zitti. Antonio Mambrino

Nei giorni scorsi si è venuto a sapere di una vicenda grave, assai grave, che rischia di passare sotto silenzio. Giuseppe Conso, già ministro per la giustizia del Governo Ciampi, ha nei giorni scorsi candidamente dichiarato davanti ad una commissione parlamentare, di aver deciso – in segreto ed in splendida solitudine – nel 1993 di adottare un provvedimento di revoca del regime di carcere duro (il cosiddetto 41 bis) per alcuni pericolosi mafiosi. Si è venuto dopo a sapere che si trattò di due decreti, adottati nei mesi di maggio e di novembre 1993, relativi a 280 (!!) pericolosi mafiosi. L’ex ministro ha affermato che la decisione era motivata dall’esigenza di ridurre la durezza dell’offensiva della criminalità organizzata che proprio in quel periodo aveva inaugurato la stagione delle stragi di mafia. Successivamente sono emersi altri dettagli inquietanti.

Della questione se ne discuteva già da alcuni mesi. Vi era stata sul punto una riunione del Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza, vi era stato un documento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che prospettava due possibili soluzioni: lasciare scadere i provvedimenti di 41 bis in essere senza rinnovarli o revocarli (ed esprimeva una netta preferenza per la prima ipotesi). E’ quindi falso che Conso assunse da solo la decisione. E’ a questo punto presumibile che anche altri vertici delle istituzioni (il ministro dell’interno, Mancino, il Presidente del Consiglio, Ciampi, il Presidente della Repubblica, Scalfaro?) fossero quanto meno stati informati. Amato, all’epoca capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel citato documento dice che in sede di Comitato per la sicurezza fu il capo della polizia, Vincenzo Parisi, a esprimere una forte sollecitazione alla revoca del 41 bis con riferimento alle carceri di Secondigliano e di Poggioreale. E’ possibile che Parisi non abbia concordato la propria posizione con il Ministro dell’interno? Possibile che non abbia informato il Presidente Scalfaro a cui è molto legato?

La vicenda è incredibile. L’idea che per ammorbidire la mafia sia opportuno alleggerire le condizioni carcerarie dei mafiosi è assurda. Il regime del 41 bis fu pensato non come misura afflittiva supplementare, ma essenzialmente come strumento per impedire ai boss della criminalità organizzata di poter continuare a dirigere le proprie organizzazioni anche dal carcere. Revocare tale regime produceva l’unico effetto di aumentare la capacità operativa delle organizzazioni criminali e quindi di pregiudicare l’efficacia della lotta alla mafia. Quando poi tale scelta era stata posta come condizione dalla mafia allo Stato per far cessare le stragi, assumere tale decisioni era né più né meno che una resa dello Stato. Non siamo talebani della giustizia e della legalità. Riusciamo anche a comprendere che in condizioni estreme, quando è in pericolo di vita, lo Stato possa fianco accedere ad una trattativa con la criminalità (comune o politica che sia). Ma è chiaro che si deve trattare di condizioni estreme. Ed in ogni caso, una decisione del genere, una decisione che implica una (parziale) abdicazione dello Stato alla propria sovranità, una decisione che equivale alla cessione ad un ricatto, non può essere assunta nel segreto delle stanze di un Ministero o, addirittura, come pretende di aver fatto conso nel foro interno della coscienza di un Ministro.

Ma, al di là del merito, la cosa più incredibile è che proprio nel momento in cui il Paese è afflitto dai predicozzi settimanali contro la mafia del prode Saviano, proprio nel momento in cui ci balocchiamo da mesi con le rivelazioni del presunto pentito Spatuzza, nel momento in cui ogni starnuto di Ciancimino jr. diventa notizia da prima pagina, nel momento in cui sappiamo tutto dei perversi legami fra Dell’Utri e Mangano, lo stalliere di Arcore, nel momento in cui tutti ci interroghiamo sul mitico papello nel quale i boss di Cosa Nostra avanzavano le proprie richieste allo Stato (fra le quali i primo piano vi sarebbe stata proprio la revoca del 41 bis).

Ebbene proprio in questo momento, emerge per dichiarazione diretta di uno dei protagonisti dell’epoca, che vi fu una consapevole scelta del Governo di alleggerire il regime carcerario dei mafiosi assicurati alle patrie galere proprio per far giungere a più miti propositi le organizzazioni criminali, … e non succede nulla. Ci saremmo aspettati mozioni parlamentari, commissioni di inchiesta, durissime prese di posizione di Italo Bocchino, novello difensore della legalità democratica, manifestazioni di piazza, titoloni a tutta pagina sugli organi ufficiali dell'infomazione politicamente corretta, trasmissioni non stop della coppia Santoro – Travaglio, elaborazioni culturali della coppia Fazio – Saviano, reportage di fuoco della Gabbanelli. Ma evidentemente i fatti del 1993 narrati da Conso non sono di gradimento dei “professionisti dell’antimafia”. Sono fatti del tutto inservibili per una strategia politica immediata. Sono fatti che tirano pesantemente in ballo alcune delle icone della politica democraticamente corretta del Paese, e soprattutto fatti che non possono essere in alcun modo utilizzati per colpire il nemico di classe (ovvero Silvio Berlusconi). Con le dichiarazioni di Conso non solo crolla il teorema secondo cui Forza Italia sarebbe nata proprio nel 1993 da un patto scellerato fra Berlusconi e la mafia, ma emerge che il patto effettivamente forse ci fu ma fu stipulato dai paladini della democrazia, dai cantori della Costituzione, dagli arcangeli della legalità. E tanto evidentemente basta ai parolai della lotta alla mafia per mettere la sordina sulla vicenda. (l'Occidentale)

martedì 23 novembre 2010

Europurgatorio. Davide Giacalone

Nessuno s’illuda che i guai irlandesi possano restarsene a Dublino. Nessuno creda che salvata l’isola si sarà salvato l’euro, perché è arrivato al pettine il nodo della moneta unica senza unità federale e governo centrale alle spalle. Se garantiamo i debiti sovrani allora dobbiamo renderli federali, quindi europei. Ma se lo facciamo non possiamo consentire politiche diverse, diversi welfare e concorrenza fiscale.

Il calendario politico italiano punta alla metà di dicembre, quando in Europa si sarà dovuto risolvere, o sarà giunto alla rottura il difficile dilemma del debito e degli Stati fallimentari. La politica nostrana non se ne interessa, tanto è vero che il governo presenta una finanziaria e l’opposizione (comprendente parlamentari della maggioranza) ne suggerisce l’immediata approvazione, in modo da potersi occupare d’altre menate. Un tema irrilevante, in un Paese che anziché guardare all’orrizzonte sbricia sotto le gonne. Così continuando saremo guidati non dal papa straniero, evocato da una sinistra in crisi di vocazioni, ma dalla finanza straniera.

Sintetizzo il dilemma, scusandomi per la semplificazione, ma ritenendo giusto che tutti possano ragionarci: ci sono Stati europei che dovrebbero spendere troppo, impoverendosi, per non fallire, ma se fallissero porterebbero alla rovina l’euro, nonché le banche degli altri. Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna già pagano alti tassi d’interesse sul loro debito pubblico, ma anche noi italiani non scherziamo (la differenza rispetto al costo del debito tedesco, lo spread sul bund, ha toccato 1,91 punti, così come era assai cresciuto il costo dei derivati con cui si assicurano i debiti, credit default swap, il tutto mentre in Italia si discettava ad alta voce sull’ingiustizia dei tagli alla spesa pubblica). I tassi sul debito sono il riflesso della valutazione di un rischio: più si ritiene che uno Stato possa fallire più ci si fa pagare per prestargli soldi. Di converso: meno quello Stato fallisce realmente, più chi ha prestato soldi guadagna. Se arriva il fondo europeo di salvataggio e assicura che nessuno può fallire ottiene un duplice risultato: stabilizza la situazione politica, e con quella l’euro, ma consente arricchimenti facili e non rischiosi a chi specula sulla differenza dei tassi d’interesse.

Qualora, però, quei salvataggi venissero esclusi il risultato sarebbe la dichiarazione d’insolvenza e il crollo dell’euro. Dato che i titoli di quei debiti diventerebbero carta straccia, e dato che sono nei forzieri di tutte le banche europee, sarebbe come innescare una gigantesca bancarotta a catena. Dalla quale non si salverebbero neanche i tedeschi.

Angela Merkel assicura assistenza, per niente disinteressata, ma chiede rigore assoluto nei conti dei disastrati. Ha ragione, ma fino ad un certo punto. Così procedendo, difatti, chi è nei guai verrà mantenuto nel mobilissimo club dell’euro, ma strangolato progressivamente. E dato che si tratta di democrazie, è ragionevole che le rispettive opinioni pubbliche comincerebbero a chiedersi: e se ce ne andassimo, da tanto blasonato consesso? Riavremmo una moneta nazionale, la svaluterremmo, ci beccheremmo l’inflazione ma torneremmo a galleggiare.

Venendo a noi italiani: abbiamo un deficit fra i più virtuosi d’Europa, secondo (in virtù risparmiosa) solo alla Germania, ma mentre i tedeschi lo hanno appena fatto crescere, di ben due punti, noi l’abbiamo mantenuto uguale a quello dell’anno scorso. Siamo più bravi dei tedeschi, quindi. Ma loro vedono crescere il loro prodotto interno al doppio della media europea e noi alla metà. C’impoveriamo progressivamente, pertanto, e paghiamo tassi più alti a causa dell’enorme debito pregresso, non significativamente comprimibile nel breve (a meno che non si mettano nel conto vendite di patrimonio pubblico e tasse su quello privato). Mentre c’impoveriamo paghiamo tasse più altre degli altri. In queste condizioni si viaggia verso la rivolta contro l’euro, e non è un caso che un economista serio, nonché politicamente saggio, Paolo Savona, ne parli a voce alta.

La questione è così grave e complicata che perfino il mite Van Rompuy, miracolato ed etereo presidente dell’Unione Europea, avverte che su una roba simile salta tutto. Una soluzione c’è: il debito deve essere progressivamente spostato da nazionale a federale, nel senso di europeo, in modo che i tassi si compensino. Ma questo presuppone che l’Unione non sia un pallone aerostatico, manovrato da sconosciuti, bensì una vera organizzazione federale, politicamente votabile e indirizzabile. L’alternativa, se non si vuole rassegnarsi all’impoverimento prima e alla decomposizione poi, consiste nello smontare l’euro, restringendone bruscamente l’area.

Non è roba per cenacoli d’economisti, bensì la sostanza di una scelta politica. Sempre che la politica non sia fuori in cortile, tutta presa a vituperarsi.

venerdì 19 novembre 2010

Dritta e manca. Davide Giacalone

Pier Luigi Bersani e Gianfranco Fini non sono riusciti a svolgere decentemente un compitino (apparentemente) facile: definire i propri valori. A tutti e due è mancata la capacità di dire alcunché di significativo, limitandosi a sbandierare piccoli simboli, cari ricordi, blande suggestioni. Vivono nel passato. Tentano, dispertamente e inutilmente, di sostituire le ideologie (entrambe abbracciarono le peggiori esistenti) con quel che raccattano nel mercatino dell’usato. Difettano d’idee. Aveva già detto tutto Giorgio Gaber. Avrebbero fatto meglio a cantare.
Se destra e sinistra sono la marchiature delle due ideologie contrapposte, fascismo e comunismo, possono tranquillamente essere seppellite nel pozzo nero della storia. Due schifezze, che hanno in comune la sfiducia nell’uomo e l’aspirazione all’assoluto. Se, invece, entriamo nel mondo che quei due detestavano, quello democratico, allora la differenza fra destra e sinistra si delinea lungo il confine fra individuale e collettivo. Non sono due concezioni alternative, ma che si alternano. Non si escludono, s’integrano. Possiamo ancora utilizzare le definizioni tradizionali, dovute alla distribuzione delle seggiole parlamentari, ma a patto di deideologizzarle completamente. Altrimenti ci portano fuori strada.

Da una parte c’è l’idea che la sede della libertà è l’individuo, e senza libertà individuale non può esistere libertà collettiva. Dall’altra vive la convinzione che non c’è libertà senza giustizia ed equità, che hanno una dimensione necessariamente collettiva, senza la quale non esiste quella individuale. Da una parte si ritiene che un individuo si sente parte di una collettività se in questa può lavorare liberamente e inseguire le proprie aspirazioni, dall’altra si concreta l’appartenenza alla collettività nel trovare soccorso quando se ne ha bisogno, nel dare struttura istituzionale alla solidarietà. Da un lato si pensa ai diritti degli ultimi, che possono aspirare a essere primi, dall’altra ai doveri dei primi, che devono aiutare gli ultimi. L’estremo di una parte non sopporta vincoli collettivi al libero dispiegarsi dell’individuo, l’estremo dell’altra non sopporta individui che mettano a rischio, magari per eccessivo dinamismo, l’equilibrio collettivo. Ma gli estremisti sono matti, o mattacchioni.

La democrazia è naturalmente imperfetta, perché cancella l’aspirazione a principi assoluti e amministra i risultati relativi. Per questo è più facile morire per la libertà o per la giustizia, che non per la democrazia, ma sempre per questo arriva puntualmente la morte, culturale ed economica (ma anche fisica), dove non c’è democrazia.

La sinistra sciocca pensa che sia bene distribuire il reddito, non comprendendo che per farlo occorre sottrarne una parte a chi ne produce di più, il che è ingiusto. Sarebbe saggio tassare più la rendita e meno il reddito, aprendo il mercato alla massima competizione possibile. E’ di destra? Sarebbe come dire che lo statalismo burocratico è di sinistra. Non lungimirante. La destra attardata suppone di potersi avvolgere nel tricolore, sventolato dai nostri militari, ma ha dimenticato d’essersi battuta contro le organizzazioni internazionali difensive e non sa che l’internazionalismo è ideale di sinistra. Il mercato va bene, dice la sinistra che vuol sembrare moderna, ma certo non in campi come la salute, la sicurezza e l’istruzione. Che sfortuna, cribbio, Bersani ha beccato giusto i tre che funzionano meglio quando vengono affidati al mercato, laddove l’amministrazione politica trasforma in costi le opportunità. Lo Stato deve spendere bene i soldi, senza creare burocrazie, dice la stessa destra che ieri mattina, in piazza, reclamava l’assunzione dei precari. A carico di chi pensava di metterli?

I due declinatori di valori credono che se un bimbo nasce in Italia quello è un italiano, anche se figlio d’immigrati. Cosa può esserci di più giusto, tanto è vero che l’hanno pensato entrambe gli staff. Banalotto, però. Il problema non è il tasso di bontà che scorre nelle vene di chi s’esibisce, ma l’assoluta impossibilità a che s’accolga chiunque supponga di vivere meglio da noi che dove si trova. Se valesse lo ius soli, senza altre limitazioni, ci manderebbero i barconi di partorienti, la cui prole avrebbe diritto a scuola e assistenza sanitaria, a spese dell’oriundo pagatore di tasse (quindi non ricco evasore, ma sudato lavoratore). L’attenzione, allora, si sposta sulle limitazioni, e siamo a capo, perché i problemi complicati non si risolvono con il volemose bene.

L’unico che aveva idee chiare sui valori, in quella trasmissione Rai, era Fabio Fazio, simpatica canaglia e sorridente profittatore, grande professionista dell’autopromozione, mai un piede fuori dal politicamente corretto (e scontato). Lui li calcolava in audience e quattrini. A lui, quindi, un ribadito: bravo.

giovedì 18 novembre 2010

Il Pd vincerà...

Il Pd vincerà quando smetterà di dire che manca la benzina per le volanti, che non si arriva alla quarta settimana, che Berlusconi ha sei televisioni, che con i soldi dell'evasione fiscale si può risanare il bilancio dello Stato, che la sinistra è meglio della destra, che la lotta alla mafia è stata fatta anche da loro, che la magistratura non si tocca, che i clandestini sono una risorsa, che gli immigrati devono avere gli stessi diritti degli italiani, che la spazzatura di Napoli è colpa del governo, che il crollo di Pompei è colpa di Bondi, che in Abruzzo il terremoto si poteva prevedere e che le case nuove costruite alla periferia dell'Aquila non piacciono agli sfollati, che loro sono dalla parte dei deboli e degli oppressi e che non frequentano i salotti radical-chic, che loro sono avanti nei sondaggi e che sono democratici perché fanno le primarie...

Già, le primarie!

martedì 16 novembre 2010

San Suu Kyi libera in una Birmania devastata dai generali comunisti. Carlo Panella

La giunta dei generali “socialisti” (cioè, comunisti) della Birmania ha ceduto alle pressioni internazionali e ieri ha liberato Aung San Suu Ki, la leader ghandiana dell’opposizione detenuta agli arresti domiciliari da quasi 15 anni. Bellissima, come sempre, raggiante e commossa, San Suu Ky si è affacciata all'ingresso della sua casa di Rangoon, circondata da migliaia di simpatizzanti (la notizia era nell’aria da giorni) e li ha salutati: “Ora dobbiamo lavorare tutti insieme di comune accordo”. Poi, con una bellissima citazione biblica, ha aggiunto: “C’e il tempo del silenzio e quello della parola, le persone devono lavorare all'unisono: solo così si potranno raggiungere i nostri obiettivi”. Sempre col sorriso sul volto, sempre capace di infondere serenità e forza, sempre tesa a impedire qualsiasi confronto violento in un paese che vive sotto il tallone di ferro di una giunta militare dal 1962, con qualche breve intervallo, la cui ferocia è stata vista da tutto il mondo nel settembre del 2007, quando ha represso con violenza sanguinaria le manifestazioni dei monaci buddisti, scesi nelle strade a chiedere democrazia. Nella biografia di San Suu Kyi è racchiusa tutta la recente storia della Birmania. Suo padre, il generale Aung San, eroe della lotta contro la feroce occupazione militare giapponese durante la seconda guerra mondiale, era il leader della componente nazionalista del partito comunista. Fu ucciso dai suoi stessi compagni, fedeli a Pechino, nel 1947, perché non era disposto a obbedire al “partito fratello” cinese. Il testimone del padre, fu allora preso dalla madre di Aung, Khin Kyi, che divenne uno dei leader del movimento democratico, che poi portò con se Aung in India, dove fu nominata ambasciatrice. Qui, Aung entrò in contatto con i circoli dirigenti indiani e si formò nella cultura politica nonviolenta del Mahatma Ghandi. Laureata ad Oxford e poi a New York, lavorò a lungo all’Onu e ritornò in patria solo nel 1988, per prendere il posto e la leadership della madre. Il prestigio della famiglia (come spesso succede in Asia) e il suo straordinario carisma personale, la fecero diventare punto di riferimento per tutto il movimento democratico, tanto che nel 1989 fu posta agli arresti domiciliari e le fu proposta la libertà, ma solo se avesse accettato l’esilio. Ma Aung Suu Kyi rifiutò, dimostrando una straordinaria tempera. Leader della Lega Nazionale per la Democrazia ottenne una vittoria schiacciante nelle elezioni che la Giunta militare fu costretta a indire nel 1990. La reazione della Giunta guidata dal generale Saw Maung (andato al potere nel 1988) fu feroce: Aung Suu Kyi fu infatti arrestata per la seconda volta e le elezioni furono invalidate. Nel 1991, le fu assegnato il Nobel per la Pace, a riconoscimento della sua straordinaria levatura personale e ideale, oltre che politica. Nel 1995 la Giunta revocò gli arresti domiciliari ma le impose forti limitazioni di movimento, le impedì persino di vedere non solo tutti i suoi familiari, ma anche il marito Michael Aris nei due anni in cui questi lottò col cancro che lo uccise nel 1999. Nel 2003, l’attentato organizzato dai Sevizi Segreti agli ordini della Giunta: la sua vettura fu colpita da sventagliate di mitra, e Aung si salvò per miracolo. Da allora è stata tenuta agli arresti domiciliari, nonostante i suoi gravissimi problemi di salute e nel 2009 è stata addirittura condannata ad altri 7 anni di reclusione, dopo che un mormone americano demente aveva raggiunto a nuoto la sua casa per incontrarla. Ora, finalmente, la Giunta, sottoposta a fortissime pressioni internazionali (anche economiche) è stata costretta a liberarla. Ma è solo un primo passo. E’ infatti ben difficile che i generali le permettano di tornare giocare un ruolo politico in una Birmania –ridenominata dalla Giunta Myanmar- che era uno dei più floridi e ricchi dell’Asia e che “l’economia socialista” imposta dai generali, fortemente appoggiati dal Partito Comunista cinese, ha ridotto alla miseria e al sottosviluppo. (Libero)

lunedì 15 novembre 2010

Da Mani Pulite a Ruby i giudici sono sempre contro. Paolo Pillitteri

Davvero singolare la cosiddetta crisi della maggioranza, annunciata peraltro da oltre un anno, da quando cioè, la macchina del fango contro il Cav si intrecciò con l’attentato “della madonnina” che, a nostro sommesso parere, è il vero punto di ricaduta psicopolitica del Premier.
Ci ritorneremo, prima o poi, su quella che riteniamo fra le cause principali dell’avvitamento, della disillusione, della solitudine, del ritrovarsi di colpo davanti ad un evento tanto orribile quanto imprevisto per un leader che non riusciva - e non riesce - a spiegarsi chi potesse volergli così male da attentare alla sua vita.
Crisi, dunque. Singolarissima.
Perché, a ben vedere, non si tratta di una vera e propria crisi di maggioranza e nemmeno di un cambio di regime.
A parte il fatto che Fini vuole sostituirsi a Berlusconi
... Le stesse inchieste giudiziarie hanno ormai un peso relativo.
Si tratta, più semplicemente e drammaticamente di una precisa, determinata, mirata volontà: di eliminare dalla scena politica il Cavaliere, di disfarsene.
Come ha detto Rondolino, è una vera e propria caccia all’uomo.
Basta infatti seguire per qualche minuto le trasmissioni della nouvelle vague politica tipo “Annozero”, con relativi ospiti, per rendersi conto che l’obbiettivo non è un nuovo governo, una nuova maggioranza, un governicchio qualsiasi, insomma una soluzione propositiva.
Che, politicamente, non c’è.
L’obbiettivo è uno e soltanto, quello: fare fuori Berlusconi, poi si vedrà, l’intendence suivra, per dire.
A nessuno degli attuali contestatori del berlusconismo interessa il futuro del paese, l’etica pubblica, il bilancio dello stato, la giustizia.
La quale giustizia non ha smesso di irrompere nella politica da quel 1992, con analogie con “manipulite” a dir poco impressionanti, quali si evincono dalle dichiarazioni della giovanissima Ruby: “Sono stata interrogata dai Pm, dopo il 27 maggio, ben 23 volte, e mi hanno chiesto solo di Sivio”.
E sempre a proposito di giustizia vale la pena soffermarsi sulle incredibili diatribe, sempre a proposito dell’affaire Ruby, fra pm dei minori, questura, ministro degli Interni e procuratore capo, culminate in una querela annunciata da Maroni, per tentare ci capire la complessità di uno scenario a dir poco inquietante in cui si muovono certi attori della Ruby’s story, tenuti al rigoroso riserbo, e all’improvviso insorti come morsi dalla tarantola con interviste e ricorsi al Csm (una volta si andava al Tar, magari del Lazio), come ad evidenziare giochi sotterranei di correnti, di dissapori, di rancori.
Un gioco pericoloso in cui sembrano capovolgersi i canoni tradizionali di un apparato giudiziario che, almeno in apparenza (che conta, eccome) dovrebbe conservarsi ligio, se non alla consegna del silenzio, almeno alle gerarchie interne.
Del resto, il medesimo scenario è ravvisabile un po’ dovunque, all’interno di strutture portanti dell’intero sistema paese.
E qui il discorso non può non riandare all’intervento di procure che hanno di fatto colpito al cuore il simbolo della Protezione Civile, Bertolaso, ora in pensione, senza che peraltro alcun processo sia stato avviato, anzi, senza alcun rinvio a giudizio.
Del resto, non avvenne così anche nel biennio ’92-’94? Con una differenza sostanziale: che oggi la magistratura non appare più il soggetto invincibile e credibile di allora, tant’è vero che davanti ai molti avvisi di garanzia ben pochi lasciano gli incarichi, pochissimi fanno il classico passo indietro, nell’indifferenza di un paese che non sa più a che Santo (autorità) votarsi.
L’autorità, appunto.
Guardiamo dentro una struttura anch’essa portante dello stato, la Rai.
Qui il direttore generale è quotidianamente irriso e contestato da dirigenti e anchor men che se ne infischiano di lui e lo sbeffeggiano in diretta.
E non succede niente, anzi. Lo stesso accade, ma è più comprensibile, in altri settori, vedi il rottamatore Renzi contro Bersani, e lo stesso Fini versus Berlusconi.
Sta saltando, dopo i minatori volonterosi all’opera da anni, il principio di autorità e/o di leadership.
Che è poi il principio della politica se non del potere tout court, inteso come auctoritas riconosciuta, condivisa, accettata.
E tuttavia, la singolarità della crisi contro Berlusconi, quel volerlo a tutti i costi abbattere senza proporre un progetto alternativo serio e credibile, senza che la sinistra abbia un leader alla sua altezza - salvo ricorrere ad un esterno come Casini – senza, soprattutto, riflettere sul dopo, ebbene, in questo stanno, forse, alcuni atout che il leader dell’ex Pdl potrebbe giocare.
Ma in fretta.

Scalfari lo smemorato fa l'avvoltoio con Feltri. Giancarlo Perna

Il decano della nostra categoria-l’ottanta­seienne Eugenio Scalfari - ha fatto l’altra sera uno scivolone. Si è forse rotto il femore? Peg­gio: ha scritto una brutta pagina di giornali­smo. Scritto si fa per dire, perché il vanitosone ha voluto pavoneggiarsi in tv con la barba sa­piente, i capelli color neve, le proverbiali gote rosa. Ha impettito il busto davanti alla teleca­mera e se n’è uscito, all’incirca, così: «Che Vit­torio Feltri non sia stato radiato, mi ha stupi­to ». Ha omesso di aggiungere, «dolorosamen­te », preferendo esprimere il risentimento con l’indignazione del viso, l’aggrottare delle so­pracciglia e gli altri accorgimenti che nefanno da decenni la coscienza della Nazione. Per lui, dunque, il collega imputato del caso Boffo avrebbe dovu­to dare l’eterno addio alla professione. E questo, fran­camente, non fa onore al pa­ladino di tutte le libertà qua­le da mezzo secolo è il Mae­stro. Da una personalità co­sì ci saremmo attesi la stes­sa benevolenza per gli erro­ri altrui che Egli ha genero­samente dimostrato per i propri. Si dice che, con l’accumu­larsi delle primavere, si in­debolisca la memoria del presente ma si rafforzino i ri­cordi del passato. Se Scalfa­ri fa eccezione, può volere dire due cose: o che non ha mai avuto coscienza delle proprie porcherie o che or­mai si è bevuto il cervello. O le due cose insieme. Chi è Gegè, come lo chia­mavano in gioventù gli ami­ci per le sue arie da gagà? Ri­sposta: uno che - se avessi­mo un Ordine dei giornali­sti con la schiena dritta - sa­rebbe già stato fermato da lustri e la lista delle sue ca­stronerie, giornalistiche e umane, sarebbe meno lun­ga. Scalfari è tra coloro che hanno indicato agli assassi­ni di Lotta Continua il bersa­glio di Luigi Calabresi, falsa­mente accusato dell’omici­dio dell’anarchico Pinelli. Il commissario fu ucciso dai terroristi di Adriano Sofri nell’aprile del 1972. I man­danti morali furono i giorna­li di sinistra - tra i quali si di­stinse il settimanale L’Espresso , creatura del Ma­estro - che nei mesi prece­denti si erano scatenati con­tro di lui. Gegè volle però da­re un’impronta più persona­le all’infamia. Promosse una sottoscrizione, alla qua­le aderirono ottocento «in­tellettuali » - tra cui lui e la sua redazione - di un mani­festo che definiva Calabresi «commissario torturatore» e il «responsabile della fine di Pinelli». Benedì, inoltre, un’altra iniziativa con cui si intimidiva la magistratura che aveva denunciato i mili­tanti di Lc per istigazione a delinquere. Una lettera aperta al procuratore di To­rino, autore della denuncia, firmata da diversi redattori di Scalfari, tra i quali l’attua­le moglie del Maestro, Sere­na Rossetti. I sottoscrittori si schieravano in difesa di Sofri & co., affermando orgo­gliosi di condividerne l’illu­minata visione. Ecco un sag­gio della prosa: «Quando i cittadini da lei imputati af­fermano che in questa socie­tà “l’esercito è strumento del capitalismo, mezzo di re­pressione della lotta di clas­se”, noi lo affermiamo con loro. Quando essi dicono “se è vero che i padroni so­no ladri, è giusto andarci a riprendere quello che han­no rubato”, lo diciamo con loro. Quando essi gridano “lotta di classe, armiamo le masse”, lo gridiamo con lo­ro. Quando essi si impegna­no a “combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfrutta­mento”, ci impegniamo con loro». Questo erano Gegè e la sua cerchia. Pensare che qualche anno dopo, da di­rettore di Repubblica , il Ve­nerando si scaglierà come un nume babilonese contro Bossi per l’iperbole da scola­retto degli «otto milioni di baionette padane». Tipica indignazione farlocca di un consumato ipocrita che rin­faccia la pagliuzza nell’oc­chio altrui e glissa sul tron­co piantato nel suo cervello. Eugenio - nell’indifferen­za dell’Ordine che oggi bac­chetta per non avere radia­to Feltri - ha usato il mestie­re per calpestare la verità e farsi i propri interessi. Negli anni Sessanta, ha falsamen­te accusato il generale dei carabinieri, De Lorenzo, di tentato golpe. Per mettersi al riparo della condanna pe­nale che la bugia gli aveva fruttato, grazie all’immuni­tà che ora esecra, si è fatto eleggere in Parlamento col Psi di Pietro Nenni. Così ­pur essendo ricco come l’Aga Khan- si gode oggi an­che la pensione frutto della menzogna che ha rovinato la vita di De Lorenzo. Che fosse una bidonata, è ormai assodato per ammissione di Lino Jannuzzi, il giornalista che fece con lui il finto sco­op. Una ventina di anni do­po, Lino, rinsavito, rivelò in­fatti che avevano montato la panna sulla base di una documentazione manipola­ta del Kgb sovietico. Queste le fonti del disinvolto Mae­stro. Ritroviamo lo zampone dell’illustre decano anche nelle false accuse che co­strinsero il presidente Leo­ne a dimettersi dal Quirina­le nel 1978. Furono i giorna­listi dell’ Espresso , Melega e Camilla Cederna, a sparge­re i veleni. Gegè, dalle colon­ne di Repubblica , aggiunse batteri alla stricnina e, sem­pre con l’aria di portare puli­zia nel Paese, distrusse un innocente. Con l’arma del giornalismo malandrino, perseguiva un fine politico: eliminare un ostacolo all’av­vento del compromesso sto­rico col Pci, a lui gradito e avversato da Leone. Il Vene­rato sperava così di plasma­re a sua immagine l’Italia, scolpire il suo nome sulla pietra e passare - alla faccia del rivale Montanelli - per il superfico del bigoncio gior­nalistico. Vi sembra che abbia ono­rato la professione uno che è stato pappa e ciccia col te­soriere della mafia, Michele Sindona, prima di voltargli le spalle e affossarlo? Men­tre era deputato, a Gegè ven­ne l’uzzolo di fondare un quotidiano, la futura Repub­blica . Si mise alla ricerca di finanziatori. Ci provò con Eugenio Cefis, ci riuscì con Carlo De Benedetti, Nell’in­termezzo, cercò l’aiuto di don Michele che stava sca­lando con un’Opa la Basto­gi. Una notoria truffa. Ma Scalfari, per sedurlo, ne di­venne complice. Presentò, a nome del Psi, un’interro­gazione di totale appoggio all’Opa. In un soffietto di quarantatré righe, il deputa­to affermò che «la serietà dell’offerta era comprova­ta » e che essa «favoriva una massa di oltre tremila picco­lo azionisti». In sostanza, una meraviglia. Appena se ne accorse, Riccardo Lom­bardi, responsabile Psi per l’economia, lo convocò invi­perito. «Scalfari, ricordi che prima di impegnare il parti­to deve chiedere l’autorizza­zione. Il Psi non condivide il suo appoggio a Sindona». Messo alle strette, Gegè far­fugliò: «Ne avevo parlato con Giacomo Mancini». Non era vero, ma Mancini ­che era il suo protettore - lo coprì. Don Michele si profu­se in ringraziamenti e pro­mise i soldi per Repubblica . Due anni dopo, però, fece fallimento. Il Maestro, per cancellare le impronte, co­minciò ad attaccarlo furio­samente. Per l’eccelsa pen­na, l’ex amico in disgrazia di­venne «il bancarottiere». Immemore delle untuose sviolinate di poco prima, ac­cusò questo e quello - con particolare lena, Andreotti ­di complicità col finanziere sul lastrico. Ne chiese la ga­lera e la ottenne. Si carezzò la barba e prese la posa del salvatore della patria. Le imprese del Nostro non finiscono qui, ma lo spa­zio a disposizione, sì. Vi chiedo: può un simile esem­plare giornalistico fare la predica a chicchessia? (il Giornale)

venerdì 12 novembre 2010

Ennesima intimidazione. Gli fanno pagare le verità su Fini. Vittorio Sgarbi

Quali sono i peccati che la moderna inquisizione rimprovera a Feltri? Di avere fatto un’inchiesta parzialmente documentata su Dino Boffo, direttore dell’Avvenire, giornale della Cei, conferenza episcopale italiana. Il presidente della Cei è monsignor Bagnasco, uomo sensibile e intelligente, s’è distinto negli anni scorsi per la sua dichiarata avversione alle unioni gay e alle manifestazioni del gay pride. È stato, per quelle posizioni, insultato e maledetto, come Benedetto XVI chiamato Maledictus XVI, e minacciato fino ad essere tutelato da una scorta. Per coerenza nessuno discute che a dirigere Chi sia stato scelto Alfonso Signorini (dichiaratamente gay) ma sembrerebbe inopportuno che dirigesse l’Avvenire. Per coerenza, dico, non per inadeguatezza professionale. Si tratta di adeguare le funzioni ai principi. Potrebbe un musulmano dirigere Civiltà Cattolica? Potrebbe un cristiano dirigere la rivista degli atei? Tutto è possibile, ma soltanto la malignità del destino potrebbe consentire un così evidente ribaltamento. Se dunque la Cei avversa non l’omosessualità ma la sua legittimazione, può apparire incoerente che a dirigere l’Avvenire sia un omosessuale.
Cosa ha fatto dunque Feltri se non evidenziare una contraddizione? E, al di là delle imprecisioni, è vero o non è vero che Boffo è gay e che alcuni suoi comportamenti sono stati sanzionati da una condanna? E perché Boffo s’è dimesso dall’Avvenire? La contraddizione c’era o non c’era? Averla indicata, o anche sospettata, senza una denuncia per diffamazione può motivare una sospensione di tre mesi dall’attività di giornalista? Quale diritto ha l’Ordine di ostacolare, intimidire, impedire la ricerca della verità? Che informazione è quella che nasconde e impedisce di far conoscere la verità? Per ipocrisia, per opportunismo, per quieto vivere. Il cardinale Bagnasco si è poi redento davanti al mondo gay difendendo Boffo e la sua indiscussa professionalità.
Ma il tema è un altro. E Feltri lo ha evidenziato non con il pettegolezzo (che pure è una forma di giornalismo) ma con una serie di verifiche, accertamenti, fonti giudiziarie. La «velina» avvelenata non era un elemento essenziale rispetto alla verità dei fatti. Non so, poi, se nei tre mesi di condanna ci sia anche la colpa di avere detto la verità, confermata dai magistrati, sulla famiglia Tulliani e sulla evidente circonvenzione non di un uomo ingenuo ma del presidente della Camera. Un’inchiesta precisa, punto d’arrivo di una serie di intelligenti osservazioni sul mutamento genetico-politico di Fini da due anni a questa parte.
Solo Feltri e Il Giornale l’avevano segnalato. E infatti vediamo ciò che è avvenuto. Feltri andrebbe premiato per avere, rispetto a ogni altro giornalista, intuìto quello che Fini e i suoi hanno poi realizzato. Una formidabile intuizione storica che ha anticipato le vicende attuali della politica italiana. Dunque chi vede bene e vede meglio degli altri dev’essere punito, anche e soprattutto se la realtà conferma le sue interpretazioni, dando all’informazione non un ruolo passivo ma una capacità di avvertire lo spirito dei tempi.
Pannella da anni propone l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti. L’attuale condanna di Feltri è un onore per il giornalista ed è una medaglia che premia la libertà di pensiero e la libertà di stampa. Dopo questa decisione l’Ordine dovrebbe estinguersi, sparire e le persone libere meditare all’infinità di pettegolezzi, di insinuazioni e di diffamazioni che la stampa libera si consente, senza punizioni, e che soltanto Feltri paga. (il Giornale)

mercoledì 10 novembre 2010

L’omertà di «Vieni via con me»: «coperto» chi ostacolò Falcone. Gian Marco Chiocci

La macchina del fango è stata smontata pezzo per pezzo dal duo Fazio-Saviano. Il monologo dell’autore di Gomorra ha avuto il merito di spiegare la differenza tra inchiesta e diffamazione: «L’inchiesta si regge su un bagaglio fornitissimo di informazioni, mentre la diffamazione usa per lo più un elemento soltanto». Lo scopo dei diffamatori è servirsi della macchina del fango per poter dimostrare che «in fondo siamo tutti uguali». Un esempio? La tragica parabola di Giovanni Falcone. Tra le vittime della melma c’è infatti il magistrato ucciso nel ’92 dalla mafia ma prima ancora crocifisso in vita dai suoi «nemici» politici.

Saviano snocciola con perizia da leguleio un lungo elenco di fatti. Mostra la sua libertà intellettuale dicendo che le critiche al giudice arrivarono da tutte le parti, omettendo però riferimenti puntuali. Soltanto alla fine pronuncia un nome, quello di Alfredo Galasso, avvocato di molti pentiti: «Galasso è però una degnissima persona». Un colpo al cerchio e uno alla botte, evitando di ricordare che Galasso è stato parlamentare della Rete, il partito pensato da quel Leoluca Orlando (oggi parlamentare Idv) che più volte - insieme a colleghi di partito tipo Carmine Mancuso - puntò l’indice contro Falcone colpevole di non ascoltare abbastanza le «voci» dei pentiti e di fidarsi solo di dati oggettivi e prove certe. Memorabile una puntata di Samarcanda durante la quale Orlando arrivò a sostenere che Falcone teneva nei cassetti documenti importanti sui delitti eccellenti. Indimenticabile quell’articolo di Repubblica nel quale ci si interrogava su «come mai Falcone non abbandoni la magistratura», poiché «s’avverte l’eruzione di una vanità, di una spinta a descriversi, a celebrarsi come se ne colgono nelle interviste dei guitti televisivi». E che dire di quel doppio affondo su l’Unità a due mesi dalla strage di Capaci, dove si spiegava che «Falcone preferì insabbiare tutto» replicato il 12 marzo successivo con la bocciatura di Falcone a superprocuratore antimafia: «Non può farlo, e vi dico perché», firmato da Alessandro Pizzorusso, membro del Csm area Pds.

L’imperdonabile peccato dell’inquirente era di aver accettato l’incarico di consulente del ministro Martelli per meglio combattere l’offensiva di Cosa Nostra. I nemici più duri li trovò a sinistra, anche in toga, e per costoro Cossiga «vomitò» vedendoli sfilare accanto alla bara. Paolo Borsellino arrivò a dire che «Giovanni iniziò a morire» nell’88 quando il Csm gli negò la carica di procuratore capo a Palermo. Sempre a palazzo dei Marescialli, il 15 ottobre ’91, Falcone finì sotto processo perché altre toghe avallarono le farneticanti accuse di Orlando, cavalcate dal pidiessino Violante che chiese personalmente al guardasigilli di mollare Falcone («non insistere che il tuo cavallo non passa»). Il giudice, attaccato da corvi e sciacalli, perse il controllo: «La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità ma del khomeinismo». Il comunista Chiaromonte, garantista capo dell’Antimafia, provò vergogna: «L’idea che Falcone agiva al servizio di Martelli suscitò in me sdegno. Da questa campagna non fu estraneo il Pds o suoi importanti esponenti». E Mario Patrono, membro del Csm, nelle sue memorie sul pentito Pellegritti rincarò la dose affrontando di petto il ruolo del Pci e dei professionisti dell’Antimafia.

Quando Falcone arrivò a Roma per lavorare a fianco di Martelli più toghe (tra cui Roberto Aiello, Laura Bertolè e Armando Spataro) firmarono una lettera dove gli si rimproverava di apparire «pubblicamente a fianco del ministro» l’opera del quale «rende credibili con parole e prese di posizione». Altri magistrati, ben sessanta, capitanati da quell’Antonio Caponnetto giustamente lodato in tv da Saviano, si rivolsero a Martelli affinché bloccasse il varo della Superprocura contro la quale l’Associazione magistrati arrivò a scioperare. Il giudice Elena Paciotti, futura presidente dell’Anm e parlamentare Ds, si vantò di aver votato contro Falcone giudice istruttore a Palermo «perché non si può votare solo in omaggio a criteri premiali o a logiche di salute pubblica». E giù applausi. Unica brillante eccezione, Ilda Bocassini, che ai colleghi che spargevano lacrime di coccodrillo, urlò. «Avete fatto morire Giovanni con le vostre critiche e la vostra diffidenza». Redarguì poi, fra gli altri, anche Gherardo Colombo: «Con che coraggio vai ai suoi funerali, tu che diffidavi di lui». E anni dopo, in un’intervista a Peppe D’Avanzo, attaccò esponenti di Md e dei Verdi che illo tempo attaccarono Falcone.

A dirla tutta sull’Unità un editoriale perbene ci fu. Lo firmò Piero Sansonetti, dal titolo «Falcone era un uomo libero. Siamo stati faziosi». Saviano non ha ricordato nemmeno questa voce fuori dal coro. Ha voluto restare fedele all’impostazione data alla sua «lista»: niente nomi, stavolta. Alla faccia di quella messe di informazioni che sola fa la differenza tra inchiesta e macchina del fango. (il Giornale)

martedì 9 novembre 2010

Andrea's Version. Andrea Marcenaro

Se non ricordo male, per perquisire all’alba le case di Nicola Porro e di Alessandro Sallusti, più la sede del Giornale, dietro ordine dei sostituti procuratori alla caccia dei famosi dossier, partirono da Napoli per Milano all’incirca una ventina di carabinieri del Nucleo operativo ambientale. Dovevano essere partiti il giorno prima, per trovarsi a Milano la mattina presto, aver dormito fuori almeno una notte, pranzato, cenato e accumulato straordinari. Venti persone sono venti persone. Andarono fino a Milano con parecchie automobili, per caricare e riportare a Napoli la quarantina di computer sequestrati, tra quelli nelle case e gli altri portati via dal Giornale. Per gazzelle che fossero, parecchie automobili consumano come parecchie automobili. Intervenne poi il costo della copiatura, una ditta privata di tecnici informatici messa all’opera per riprodurre i file. Lavoro lungo, dispendioso. Prima ancora, soldi per centinaia di intercettazioni telefoniche, due magistrati in nota spese, viaggi, avvocati, perizie a iosa. E osano raccontarci, con tutto quello che ci abbiamo speso, che la casa dei gloriosi gladiatori è venuta giù lo stesso? (il Foglio)

Renzi fa marketing politico senza idee nuove. Edoardo Ferrazzani

Passerà alla storia delle cronache politiche italiche come il fine settimana della rottamazione. A Perugia Fini ha messo a segno un altro punto per mandare in soffitta Berlusconi mentre a Firenze i “jovani” del Partito Democratico, Matteo Renzi e Pippo Civati in testa, vorrebbero finirla con il cerbero veltronian-dalemiano del PD. La prima (e non ultima) edizione di "Prossima Fermata Italia" è stato un buon successo mediatico e merita perciò d'esser analizzato.

Matteo Renzi, il democristiano sindaco di Firenze e ormai quotidianamente proiettato sugli schermi televisivi dei patri notiziari, è ufficialmente leader nazionale. Peccato che di novità politiche neanche una. Infatti la “chiacchierata sul futuro dell'Italia” di Firenze - come l'ha definita lo stesso Renzi - è stata solamente un tedioso susseguirsi di cliqués politicamente corretti e di chiacchiere appunto, che hanno partorito un rachitico topolino: un documento che è un brevissimo miscuglio di retorica tardo obamiana su Speranza&co (“… Ci mettiamo in gioco perché abbiamo sogni concreti da condividere”), con le solite nenie sulla precarietà, chiuso da un disgraziatissimo riferimento alla grandezza del sussidio (“Un paese …. che renda il lavoro meno incerto, e il sussidio più certo). Roba da prendere azienda, dipendenti (consenzienti, ben inteso!) e annesso capannone ed emigrare seduta stante.

Se questo è il “change” all'italiana, siamo già cotti. Si dica il vero: alla Leopolda è andata in onda un'egregia e studiata operazione di marketing politico (allo spontaneismo venduto dallo stesso sindaco di Firenze non credete) ma terribilmente miserrima in termini di proposte. In una nazione italiana che avrebbe bisogno di una sinistra rinnovata da un'ondata di sano blairismo (magari con minore spesa pubblica); che abbisognerebbe di un cambiamento nella visione della società, magari finalmente fondata su merito e successo personale; di una sinistra che abbassi le tasse; di una sinistra liberale - e anche un po' politicamente scorretta - che guidi il paese, ne sappia ascoltare la pancia e che lo guidi fuori dalla secche. Niente. Se molti avevano creduto che Renzi fosse il prodromo di un fenomeno di questo genere, è costretto, dopo il weekend della Leopolda, non solo a rivedere le stime ma a ri-parametrizzare tutto. Insomma se è vero che l'incipit è sempre l'incipit, non c'è da aspettarsi granché dal leaderismo stucchevolmente giovanilista e perbene di Renzi&co.

A Firenze è andato in scena solamente una sequenza contingentata di interventi, coordinati dai due ospiti con clarks e pulloverino lilla, di un manipolo di giovani uomini e donne che sudano nel parlare in pubblico, che non hanno idee, che al massimo si sono letti la Teoria della Giustizia di Rawls e qualche scritto di Gramsci, e che pensano che, parlando di precarietà, legalità e tutte le -ità di cui Repubblica, Unità e oggi Fatto Quotidiano si son riempiti la bocca in questi ultimi anni, si possa veramente portare il PD al governo della nazione.

Un certo numero di uomini e donne con l'unico merito di avere sulle rispettive carte d'identità le ultime due cifre della data di nascita leggermente più grandi e tendenti al 100 rispetto a quella dei dirigenti di Roma. La retorica però è sempre la stessa: resistenza, precariato, legalità, centro-destra mafioso, qualche attacco a Loiero-Bassolino-Lombardo. E ancora: le unioni civili da "paese civile" come dicono loro, lo ius soli per i figli di immigrati, l'abbattimento del debito pubblico, il tutto in un tripudio di fumoso entusiasmo generazionale, faisbucchiana insignificanza e youtubiana inconsistenza su mega-schermi dove, soddisfatti e sorridenti “jovani” con l'occhialetto stiloso e i capelli corti tinti, facevano le comparse nello spettacolo della nuova leadership.

Renzi&co hanno preso il peggio del fenomeno mediatico-politico berlusconiano (ogni fenomeno ha il suo lato oscuro) senza aggiungervi il bello: il dovuto coraggio. I padri di “Prossima Fermata Italia” hanno solo voglia di destituire i loro reggenti con l'aiuto dei giornaloni di Milano che mandano i loro 'jovani' cronisti a stringere la mano del futuro leader del centro-sinistra e a guardarne i nei da vicino. Ma andate più giù. Sfilategli il cappotto di dosso e vi accorgerete che “Sotto il vestito, è il niente”. (l'Occidentale)

Le elezioni divideranno l'Italia in due. Luca Ricolfi

E’ comprensibile che il mondo politico sia eccitato. Fini sta consumando il suo strappo, e Berlusconi - dopo quasi vent’anni - potrebbe anche essere costretto a uscire di scena. Vedremo.
Sulla carta la fine del regno di Berlusconi presenta almeno un aspetto positivo: quello di togliere dalla scena la principale fonte di divisione degli italiani.

E’ lecito sperare che, venuto meno il pomo della discordia, si possa tornare a ragionare di politica in modi non dico un po’ meno incivili (su questo è inutile farsi illusioni), ma almeno un po’ meno partigiani. E tuttavia basta osservare con un minimo di distacco il modo in cui il regno di Berlusconi sta tramontando per spegnere non pochi ottimismi sul dopo. Già, perché la qualità del «dopo» dipenderà molto dalle modalità della deposizione del monarca.

C’è una prima possibilità, e cioè che sia Futuro e libertà, il partito di Fini, a far cadere il governo. In questo caso si aprirebbe una drammatica resa dei conti all’interno del centrodestra, perché il gesto di Fini - per le modalità con cui si sta consumando - non potrebbe non essere vissuto dai fedeli di Berlusconi come un tradimento, come Bruto che pugnala Cesare.

E questo per l’ottima ragione che quasi tutto ciò che oggi Fini rimprovera a Berlusconi (a partire dalla «vergogna» della legge elettorale), fino a ieri era condiviso da Fini stesso. Ma un centrodestra spaccato fra seguaci di Fini e nostalgici del Cavaliere, fra antiberlusconiani e anti-antiberlusconiani sarebbe una sciagura per il nostro sistema politico.

C’è una seconda possibilità, ed è che a chiudere l’era di Berlusconi sia il temutissimo (da lui) governo tecnico, un Comitato di Liberazione Nazionale con dentro tutti i nemici del premier, da Di Pietro a Fini. Se Napolitano ne consentisse la nascita non farebbe che applicare procedure previste dalla Costituzione, ma è difficile non vedere che in un simile esecutivo, in cui chi ha perso elezioni governa contro chi le ha vinte, metà degli italiani scorgerebbe un tradimento del mandato popolare, mentre l’altra metà non potrebbe che vedervi l’ennesima conferma dell’incapacità dell’opposizione di battere Berlusconi politicamente, senza bisogno di magistrati, veline e ribaltoni parlamentari.

C’è infine un’ultima possibilità, e cioè che la caduta di Berlusconi, chiunque ne sia l’artefice, ci porti dritti a nuove elezioni, giusto in concomitanza con i festeggiamenti per l'Unità d’Italia. Ma anche questo scenario non è rassicurante. Non solo per la prevedibile reazione negativa dei mercati, con conseguente aumento del costo del nostro debito pubblico, ma per lo scenario politico che si aprirebbe davanti a noi. Che cosa potremmo aspettarci, infatti, da una competizione elettorale condotta dagli attori attualmente in campo?

La previsione più realistica mi pare quella di una polarizzazione del conflitto politico sull’asse Nord-Sud, con il Pdl e la Lega sostanzialmente schierati con il Nord, i partiti del terzo Polo decisi a fermare il già impervio cammino del federalismo, e la sinistra in mezzo, a bagnomaria fra la fedeltà al progetto federale e la necessità di allearsi con i suoi nemici. In buona sostanza un match Bossi-Berlusconi-Tremonti contro Fini-Casini-Bersani.

Se così dovessero andare le cose, l’Italia ne uscirebbe più debole e divisa che mai, e questo a prescindere da quale dei due schieramenti dovesse prevalere nel confronto elettorale. Quel che due schieramenti del genere avrebbero in comune, infatti, è precisamente la mancanza di una visione unitaria dell’interesse nazionale. Lo schieramento del Nord non vede i legittimi interessi del Sud, che sono innanzitutto di veder aumentare gli investimenti pubblici in infrastrutture. Lo schieramento del Sud non vede i legittimi interessi del Nord (primo fra tutti il federalismo), e interpreta come interessi del Mezzogiorno quelli che, in realtà, sono soltanto gli interessi di chi lo ha mal governato finora: i cittadini del Sud non hanno bisogno di meno federalismo ma, semmai, di una classe dirigente che ponga termine alla dilapidazione delle risorse pubbliche, e si metta finalmente in grado di erogare servizi all’altezza di un Paese moderno.

Ciò di cui oggi si avverte la mancanza è proprio questo: un partito, o un’alleanza, che non giochi sulla divisione Nord-Sud, ma sappia affrontare gli squilibri territoriali in tutta la loro complessità tecnica e istituzionale, al di fuori delle vuote formule con cui, in questi giorni, politici di ogni provenienza e colore stanno conducendo il loro misero gioco. (la Stampa)

lunedì 8 novembre 2010

E ora Gianfranco è ai piedi di Casini. Marcello Veneziani

All'armi son sfascisti. La fanteria del Partito democratico, le truppe terrestri di Di Pietro, i siluratori subacquei di Fini, la flottiglia aerea dei pm, più i carri armati dei poteri forti, sono partiti per colpire in terra, in cielo e in mare Berlusconi, il suo governo e la maggioranza dell'Italia che lo sostiene. Non hanno un progetto comune e nemmeno progetti separati, ma un solo desiderio: sfasciare Berlusconi e il suo governo. Per la causa, ogni scusa è buona: giovani mignotte, scavi di Pompei, giudici d'assalto e gay indignati. Diventato ormai l'umbria di se stesso, un Fini inacidito compie lo storico strappo di Perugia, terra del suo precursore Gaucci. Gli fa eco un Bersani travestito da magazziniere delle Coop, con le maniche rimboccate come esige il copione della fiction di partito, che mobilita la piazza contro Berlusconi. La mattanza è fissata prima di Natale, l'11 dicembre. Ma dal suo partito, gli sfascisti più coerenti vogliono approfittare dello sfascio per rottamare pure lui, il Lenin del tortello.

Insomma è tutto un fervore di buoni propositi da garage di Avetrana: chi vuole stringere alla gola di Berlusca una corda e chi una cinta, e chi vorrebbe approfittarne per seviziarlo. Non è bello vivere questo autunno italiano, scansare pugnali e veleni, respirare aria fetida e alluvioni, crolli e immondizie. Ormai si sono scavati fossati incolmabili, non ci sono più spazi di dialogo e di trattativa, non ci sono più punti in comune tra le forze in campo, eccetto uno. Sì, c'è un punto, un solo punto in comune tra i governativi e gli sfascisti, tra Berlusconi, Fini, Bersani, i poteri forti e la bella stampa: è l'invocazione di un santino miracoloso, un ragazzo di Bologna che fu adottato da una famiglia di palazzinari romani. Parlo di San Pierferdinando decollato, al secolo Casini, Unico Democristiano Corteggiato (in sigla Udc).

Tutti, da sinistra a destra, invocano il ragazzo della Provvidenza. Perfino Berlusconi e Fini pur vivendo ormai agli antipodi e dicendo ormai sempre e solo cose opposte, arrivano sorprendentemente alla stessa conclusione: per uscire dalla crisi ci vuole Casini. Berlusconi dice: dai, Casini vieni con noi e subito dopo Fini dice: per svoltare nel Paese ci vuole Casini al governo. Vi dico nel dettaglio la sequenza del ragionamento di Fini: Berlusconi vai a casa, poi fai un altro governo, un Berlusconi bis. E quale sarebbe la differenza tra il primo e il secondo governo? L'innesto di Casini, appunto.

Ma che avrà di così miracoloso questo Pierferdinando? Quali doti nascoste, quali virtù sfuggite agli italiani lo rendono oggi il Messia? Nessuna in particolare. Casini ha solo una fortuna: ha aperto un negozietto in pieno centro, anzi per la precisione occupa un sottano nel Palazzo che fu della Dc. La collocazione strategica di quel piccolo locale lo rende assai appetibile e prezioso per tutti. È vero che a volte il ragazzo di Bologna è solo un alibi, un modo per non dire che vogliono apertamente lo sfascio o le urne. Ma è vero che quel piccolo locale basterebbe a Berlusconi per governare; e dall'altra parte darebbe qualche margine d'azione a Fini, a Bersani, a Montezemolo, a Rutelli. Senza citarlo, anche il guru del Censis De Rita lo invocava ieri dalle colonne del Corriere della Sera a guidare una coalizione di colombe; ma anche il falco Maurizio Belpietro lo suggerisce a Berlusconi come suo successore.

Eccolo, il ragazzo della Provvidenza, devoto alla Madonna di San Luca, che fece le scuole elementari da Forlani, poi le medie da Berlusca che lo nominò capoclasse alla Camera, ma andò nel frattempo a lezioni private dai Caltagirone. Ora che si è messo in proprio, viene tirato da tutte le parti, da sinistra, da destra, dal centro, dalla periferia, dalla Chiesa e dalla Confindustria. Si scelse come aiutante per i lavori ingrati il faccendiere politico Cesa e come cappellano don Rocco Buttiglione. Senza aver fatto nulla di significativo è diventato il centro dell'universo politico italiano, il sole del sistema planetario dei partiti. Per nessuno Casini è il Nemico o il Male, ma per tutti o per tanti è il Ripiego.

Come Fini, anche lui è un politico di professione, cominciò nella Dc dalla prima comunione e da allora non smise più. Però è più accorto e meno astioso di Fini, fa i matrimoni giusti e non ha mai rinnegato le sue origini. E non ha mai tradito Berlusconi ma lo ha lasciato quando erano all'opposizione: sì, lo ha tormentato ai tempi dell'altro governo, ma non si è mai sfilato dalla maggioranza quando diventò presidente della Camera, non mise in ginocchio il governo. E poi, se permettete, fa più simpatia di Fini, non ha cognati invadenti e non gioca sui valori politici e immobiliari. Ha quell'aria da chierichetto discolo, che fa qualche marachella, scansa qualche scapaccione dal parroco ma nessuno lo vorrebbe cacciare dalla Chiesa. Così l'Italia è finita ai piedi di Casini. Madonna di San Luca, come ci siamo ridotti.

giovedì 4 novembre 2010

I veri nemici dei gay? I loro difensori d’ufficio. Vittorio Sgarbi

Ora è troppo. Siamo arrivati all’inverosimile. È vero che Berlusconi, con una ironia così sottile che non è percepita neppure da quelli che intendono difenderlo, si espone. Ma, preso atto della ormai celebra dichiarazione: «È meglio essere appassionati di belle ragazze che essere gay», vediamo le reazioni. Parla Nichi Vendola: «Se un tuo figlio (si rivolge a Berlusconi, in termini confidenziali), un tuo amico, un tuo ministro fosse gay, pensa a quanta gratuita sofferenza gli staresti infliggendo». Difficile leggere, oltre il moralismo, una affermazione più ridicola: nessun gay «soffre» per le battute di Berlusconi. Anzi. Spiritosamente, Platinette risponde: «Meglio Rodrigo Diaz di Terra ribelle di Ruby: di sicuro non gliela rubo». Ma Vendola non si ferma. Continua, rivolgendosi al «Sultano d’Occidente»: «Ora che il tuo regno smotta paurosamente nel fango e nell’immondizia sarebbe bello da parte tua un’uscita di scena all’insegna del decoro». Notevoli i riferimenti al fango (visto il clima) e all’immondizia (vista Napoli); ma la frase con cui Berlusconi manifesta le sue predilezioni non mi sembra dannosa per nessuno (se non per lui, come si vede), né omofoba.

Viviamo in tempi di pari opportunità raggiunte, anzi oltrepassate. Non c’è discriminazione. Nessuno discrimina, se non sfiorando il ridicolo come fecero la Moratti e De Corato ai tempi della mia mostra «Vade Retro. Arte e omosessualità», gli innumerevoli omosessuali che dominano e hanno dominato l’arte il cinema, il teatro, la moda, da molti anni. Qualcuno ha discriminato Bacon, Testori, Pasolini, Visconti, Nureyev, Leo Gullotta, Ronconi, Pierluigi Pizzi, Valentino, Armani, Balestra, Dolce e Gabbana, Alessandro Cecchi Paone? Mi sembrano una maggioranza consolidata. E, d’altra parte, equanimemente, Berlusconi è amico di Emilio Fede e di Lele Mora. Fabrizio Corona, per par condicio, è bisessuale: «discriminato»?. Da Woodcock, forse. Platinette domina televisioni e radio, Alfonso Signorini dirige Chi e Sorrisi e Canzoni. E Vladimir Luxuria ha vinto L’isola dei Famosi. Aldo Busi ha spadroneggiato nelle trasmissioni della De Filippi. Ma quale discriminazione! Quale «gratuita sofferenza»!

Un ministro del governo Berlusconi, Mara Carfagna, che ora si dissocia dal suo benefattore, ha ottenuto il plauso di Paola Concia e ha promosso una campagna di comunicazione istituzionale della Presidenza del Consiglio contro l’omofobia (non contro le battute), e ha stabilito che il tema dell’omosessualità fosse affrontato per la prima volta nelle scuole. Ah le scuole! Fui io, presidente della commissione cultura e istruzione della Camera dei deputati, nel 1995, a respingere una proposta di due colleghe, Rosy Bindi e Rosa Russo Jervolino, che volevano introdurre come materia obbligatoria nelle scuole l’educazione sessuale. Risposi loro: «Ottima idea. Dunque, care colleghe, andate, fate delle prove pratiche, e poi tornate!». Non sono tornate e, come sempre è stato, il sesso si impara seguendo gli istinti, in un senso o nell’altro, furtivamente, senza che nessuno pretenda di insegnartelo come, ancora una volta, sembra volere Nichi Vendola, confermando gli odiosi sospetti di un labile confine (sempre respinto, ma da lui ammesso) tra omosessualità e pedofilia.

Qualche tempo fa, Vendola ha parlato del «diritto dei bambini ad una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro e con gli adulti». Nessuno si è scandalizzato. Busi ha confermato. Neppure Merlo si è indignato come fa invece, ossessivamente, quando parla Berlusconi: «Ormai ci imbratta tutti questo vecchio con la lingua di fuori. Ha usato il suo potere per commettere reati comuni, per delegittimare e raggirare la polizia, compra e ricatta minorenni, abusa dello Stato... Ma purtroppo ci spinge a parlare di sesso e ci costringe a difendere i gay». Come quello di Vendola, il linguaggio di Merlo è osceno, moralistico, offensivo; e cela una malcelata omofobia («ci costringe a difendere i gay»). Nessuno spirito, nessuna ironia, salvo riconoscere (finalmente!) che «i gay, grazie ai tempi e alla civiltà, non hanno bisogno di noi». Merlo ci va leggero: «Berlusconi incarna e riassume l’umanità sessualmente sfinita e deietta che compra e raccatta ossessioni e al minimo rilievo reagisce sempre alla stessa maniera, come i peggiori dei cani di Pavlov: “sempre meglio di voi che siete froci!”. Ma i froci, giustamente, non si scompongono davanti a uno di quei ricchi sdentati, tutta pancia e calvizia», e Merlo non si rende conto di insultare la vecchiaia, condizione inevitabile che non si teme di discriminare, come si fa, nel corrente piagnisteo, con gli omosessuali.

Si potrà dire, indipendentemente dal sesso: «Meglio un/a giovane e bello/a di un/a vecchio e brutto/a? Nessuno si stupisce. Eppure proprio la vecchiaia, anche quella di Berlusconi, è discriminata, nel linguaggio inconsapevole dei «politicamente corretti», dominati da quella che Robert Hughes chiama «la cultura del piagnisteo». Quanti piagnistei di Vendola, Merlo, Vanda, e perfino delle berlusconiane Carfagna Polverini, Lorenzin, Boniver. Berlusconi ha detto il suo punto di vista, perfettamente coerente con la sua età e con la sua formazione. Ma è importante che si presti a stanare l’ipocrisia, l’intolleranza, il perbenismo, la patetica seriosità dei suoi nemici. La giusta interpretazione dell’uscita di ieri è quella indicata da me sul Giornale e da Libero: «La battuta del premier incorona Vendola». Una scelta di campo che sollecita l’avversario e mette davanti alle proprie responsabilità la Chiesa e l’elettorato cattolico, chiamati sottilmente alla coerenza. L’interpretazione prevedibile e coatta è invece quella di un Merlo sempre più sconcertato e suonato, travolto dai luoghi comuni, succube del pensiero subdolamente vittimistico di Veronica e delle altre ragazze che si sono accomodate prima, e ora si ribellano, a Berlusconi: «Spiace dirlo ma Berlusconi è ormai molto peggio dell’Italia che vorrebbe ancora rappresentare, e che chiama a solidarietà, a complicità. Battute come quelle sui gay di fatto non si sentono più neppure nelle più sordide barberie di Canicattì, nei luoghi di ritrovo animalescamente maschili, e forse neppure nelle galere, nelle navi e nelle caserme». Per dispetto a Berlusconi, Merlo è pronto a diventare gay, cavalcando la protesta delle vittime (tali vengono considerati i gay: di Berlusconi!), degli offesi, che soffrono e non ridono, neppure compatiscono (come potrebbero e dovrebbero): «meglio gay che Berlusconi». Che nostalgia delle sordide barberie di Canicattì! E che stupore che il siciliano Merlo non lo capisca! Vendola no. Vendola «cavalca» Berlusconi, e lo ringrazia (dentro di sé), mentre lo attacca. Per fortuna che Silvio c’è. (il Giornale)

mercoledì 3 novembre 2010

Le verità "nascoste" dei paolini. Carlo Priolo

Cristianamente il settimanale di ispirazione cattolica “Famiglia Cristiana”, fondato nel 1931 dal beato Giacomo Alberione, che sopravvive grazie ai contributi dello Stato italiano, ci delizia con il nuova caso Ruby ed attacca il Premier in preda a “uno stato di malattia, qualcosa di incontrollabile” che suscita “tristezza civile e pietà umana”. Il Premier si trova in buona compagnia con i piani alti del periodico “Famiglia Cristiana”, visto che dal 1999 al 2008 hanno dissipato 26 milioni di euro, passando da una diffusione di 1 milione e mezzo di copie a 700 mila. Nel solo 2008 il periodico cattolico ha beneficiato di 312mila euro di contributi all’editoria dal Governo italiano. Il direttore don Antonio Sciortino, in sinergia con i “pretini conservatori” della sinistra e con i post-fascisti del Presidente Fini (la censura fascista non permise la nascita di un organo d’informazione indipendente cattolico) ha tentato, senza successo, il rilancio della rivista, con il sano proposito di non guardare in faccia nessuno. Purtroppo il direttore del settimanale paolino da un occhio è un po’ miope, mentre nell’altro l’acutezza visiva supera le 10 diottrie. In alcuni casi poi, forse data l’età della redazione, assistiamo ad una preoccupante opacizzazione del cristallino (cataratta) che conduce alla perdita della vista, ovviamente informativa. Si tratta appunto di una colpevole omissione informativa, di verità occultate sugli scandali finanziari e politici della Chiesa cattolica. Eresie finanziarie all’ombra del Magistero della Chiesa. Poco trasparenti operazioni finanziarie, mimetizzate da opere di carità e fondazioni di beneficenza. Denaro di incerta provenienza investito in titoli di Stato. Movimentazione di conti, frutto di alchimie finanziarie. Trasferimento su conti personali di oboli dei fedeli. Nei caveau dello IOR giacciono 30 miliardi di titoli. Archivi off-shore ostacolano la conoscenza e la verifica dei fatti patrimoniali. La redazione della rivista ha preferito seguire l’onda mediatico-scandalistica del settimanale “Chi” e del quotidiano “La Repubblica”, vera fucina di idee rivoluzionarie, di intelligenti progetti per il cambiamento. I giornalisti del glorioso periodico hanno privilegiato il potenziamento del malaffare giornalistico, della gratuita diffamazione, tanto da spingersi audacemente fino ad accusare il Cavaliere di non rispettare la Costituzione e di promuovere la distruzione mediatica di chi non la pensa come lui. È un vero segnale di indipendenza ed equidistanza fatta di incivili offese che possono star bene sulla bocca del rissoso Di Pietro, ma che proprio non si addicono al un periodico prestigioso e cattedratico, come Famiglia Cristiana, che è stata criticata anche dal mondo cattolico. Ricordiamo gli editoriali nella “gestione monarchica di Belusconi” e la totale “anarchia dei valori”. Peccato che sfugga ai devoti cantori della democrazia cattolica e del bene comune che la più potente monarchia del mondo è la Chiesa cattolica (niente di personale ed è bene che sia così), che si fa scudo con quella sparuta pattuglia di missionari, veri cristiani che, come San Francesco, vanno pellegrini nel mondo, diffondendo la novella, rischiando la vita. Donate tutti i Vostri averi terreni e andate nei luoghi dove la Vostra missione sarebbe salvifica, così dovrebbe in prima pubblicare Famiglia Cristiana. Le prediche, le sterili polemiche, l’inutile pettegolezzo, lasciatelo a quei mentecatti che siedono nei salotti buoni della politica italiana, facendo affari. Criticare la legge Bossi-Fini sull’immigrazione clandestina, la politica sui rom prevista dal Ministro Maroni, accusare di razzismo coloro che hanno progetti diversi per affrontare il problema immigrazione, garantire la sicurezza dei cittadini è cosa buona e giusta se si prospettano soluzioni alternative, indicando dove reperire i soldi per assicurare l’accoglienza e i diritti di tutti. Diversamente, un periodico che si proclama affidabile dovrebbe lasciare le facili invettive a quei dementi che hanno nel proprio DNA la sindrome della accusa fanatica e fondamentalista. Purtroppo, sembra che anche Famiglia Cristiana è stata contagiata al punto che è arrivata ad accusare il Governo di un ritorno al “fascismo” (un lapsus, forse volevate dire “comunismo”). I veri fascisti siete Voi esponenti di Famiglia Cristiana, perché dietro l’etichetta del Cristianesimo perpetrate un costante furto di verità, sostenete una pletora di alti prelati che affogano nella ricchezza, come veri sceicchi dominano sui parroci di periferia che vivono di stenti, che troneggiano nei Governi di ogni Paese e di ogni colore, che accumulano potere e patrimoni, risultando la più grande SpA del mondo. Voi, gente di Famiglia Cristiana, siete conniventi, concorso esterno in S.p.A direbbero i nostri prodi pubblici ministeri. Non ci tediate con le storie tese di “nani e ballerine”, schierandovi dalla parte che Vi conviene per tacitare verità incoffesabili.(l'Opinione)

Toghe rotte. Davide Giacalone

Nei giorni in cui si disfa la seconda Repubblica, compiendosi un ciclo e senza che nulla non sia stato previsto, si è distratti da una notizia piccola, che contiene una storia grande: Livio Pepino va in pensione. Con dieci anni d’anticipo, per giunta. E’ stato una delle teste pensanti e delle bocche parlanti di Magistratura Democratica, corrente, o, meglio, partito di magistrati per il quale oggi chiede il ricambio, rassegnando le dimissioni. Con un problema: che ci sto a fare nella magistratura, si è chiesto Pepino, se non per militare in Md? E si è risposto: “stare in magistratura senza vivere intensamente Md non ha alcun senso”. Da qui le doppie dimissioni e la pensione. I dilemmi di Pepino sono interessanti, ma quello collettivo è un altro: che ce li teniamo a fare, noi tutti, dei magistrati che vestono la toga per potere militare in una corrente?
Magistratura Democratica nacque nel 1964 e ha esercitato un ruolo importante e crescente, culturale e politico. Gli uomini che la pensarono e animarono non erano affatto banali, al tempo stesso conoscitori del diritto e nemici della “giustizia borghese”. Cercarono di conciliare l’essere magistrati con l’essere rivoluzionari ritenendo la Costituzione, o, meglio, quel che loro credevano di leggerci, quale unico punto di riferimento, utile per demolire quelle stesse leggi che avrebbero dovuto applicare. Pepino lo ripeteva: “la Costituzione, nei confronti dei magistrati, prima ancora che l’obbedienza alla legge, comanda la disobbedienza a ciò che legge non è. Disobbedienza al Palazzo, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici”. A lui dobbiamo la descrizione del come e del perché si può forzare il diritto essendo pagati per applicarlo: “la magistratura ha un compito da assolvere: quello di guardianaggio democratico duro e intransigente, fino alla resistenza, se la gravità dei fatti lo richiede”. Imbracciarono le inchieste e le sentenze, vivendo nel mito di quanti avevano imbracciato il fucile. Ce n’era di che per considerarla una componente eversiva, ma si era ancora negli anni della guerra fredda, la sinistra era occupata dal Partito Comunista, finanziato dai nostri nemici e popolato da pensosi democratici che si battevano per la dittatura (e ora vogliono darci lezioni, che il cielo li perdoni!), la Repubblica era monca e se qualcuno si fosse azzardato a dire l’ovvio avrebbe dovuto fare i conti con le incriminazioni. Come poi, difatti, avvenne.
Ripeto, però, quelli non erano uomini banali: avevano idee solide, benché detestabili, e seppero esercitare una vera egemonia. Non furono abbastanza intelligenti e capaci, però, da vedere il punto di caduta della bomba che avevano sparato: pensavano di portare un contributo alla rivoluzione, invece crearono le condizioni del giustizialismo, teoria e prassi da destra reazionaria. Volevano cancellare la giustizia borghese, invece s’imborghesirono nell’amministrazione delle carriere. Lottarono contro i magistrati vicini alla Democrazia Cristiana, ma lottarono e vinsero anche contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, conquistandosi una vergogna da cui si difendono solo con la bugia e l’amnesia. Sicché, infine, Livio Pepino ne racchiude la sorte: prima magistrato combattente, poi membro del Consiglio Superiore della Magistratura e, infine, piuttosto che tornare al lavoro, prepensionato di lusso, ennesimo milite dell’esercito dei mantenuti che campano alle spalle dell’Italia che lavora.
Dalla rivoluzione alla pensione, in auto di servizio. Dalla Costituzione alla sistemazione. La seconda Repubblica si dissolve, nel disonore, anche perché non ha saputo essere altro che il contenitore dei relitti e dei veleni secreti dal peggio della prima, animando quindici anni di forsennate battaglie sulla giustizia, per lasciarci la peggiore del mondo. Al punto che rimpiangiamo anche quelle toghe, veramente rosse, che seppero pensare in grande, che calcarono il terreno insurrezionale, ma che oggi appaiono giganti a confronto dell’analfabetismo che abbraccia l’esibizionismo. Questi non sono neanche più toghe rosse, sono solo toghe rotte.

martedì 2 novembre 2010

Tre problemi d'etica. Davide Giacalone

Il problema c’è, eccome. Non serve a nulla darsi arie da uomini di mondo, negandolo o irridendolo, perché al mondo bisogna saperci stare, e riconoscerlo. L’ennesima storia di sesso e politica passerà invano, esponendoci tutti al ludibrio globale, se non saremo capaci di coglierne gli aspetti d’interesse collettivo. Il problema esiste, anzi, sono tre: di etica privata, civile e politica.


Dell’etica privata non mi occupo. Ciascuno fa quello che gli pare, posto il libero e responsabile consenso degli interessati. Le questioni private ciascuno le risolve con sé stesso, con l’idea che ha di sé. Nella sfera privata rientrano anche i familiari, naturalmente, ma ci sono famiglie dove ci si detesta senza alcun bisogno di divagazioni sessuali. Chi s’impanca a giudice degli altri, solitamente, non ha risolto il rapporto con quelle che vive come proprie colpe. Non mi riguarda.

L’etica privata può anche essere discussa con il parroco, con ogni altro assistente spirituale, come con un professionista che t’ascolta a scrocco. Libere scelte, non sindacabili. Dal pulpito capita spesso che s’impartiscano lezioni e direttive morali. E’ legittimo. Ascolta chi crede. Come è legittimo che le pubbliche autorità vigilino sulle attenzioni riservate ai bambini, mentre i fedeli adulti si regolano in proprio. Senza offesa, ma la sessuofobia genera mostri.

L’etica civile, invece, ci riguarda tutti. Trovo che in Italia sia molto decaduta, quasi dissolta. Ne è rivelatore il fatto che ci s’interroghi sempre sull’esistenza del reato, e ove non sussista si ritiene accettabile tutto. Roba da matti, anzi, da immorali. L’accertamento di un reato non è mai un giudizio morale, semmai penale. Il reo può essere santo, così come immondo l’innocente. Sono ambiti diversi. Ma se si ritiene accettabile tutto ciò che non è incriminabile buona notte, vuol dire che siamo riprecipitati all’inquisizione del papa re, vigente la quale le prostitute romane esercivano prevalentemente in curia, dove incontravano i corrotti.

E’ un reato emettere flatulenze? No, ma ugualmente non è un’attività socializzante. E’ un reato prendere una sbornia? No, ma se capita all’amministratore delegato di una società, nel mentre deve negoziare e firmare un contratto, lo mandano via. Anche chi governa ha dei doveri, mica solo privilegi. Si può avvertire la gravità del ruolo, e conformarsi a questo, senza con ciò divenire eremiti penitenti.

L’etica civile può ben piegarsi alle convenienze: a me non importa un fico secco se il cardiochirurgo che sta per operarmi è un crapulone, mi preme che sia bravissimo e non mi dispiace affatto che sia, per questo, ricco. Se, però, ha bisbocciato fino a due ore prima d’entrare in sala, già la cosa mi disturba. Se ha messo l’amante a far l’anestesista, già fatico ad addormentarmi. Se lo vedo che, prima del bisturi, smanaccia le terga dell’infermiera (o la patta dell’assistente, per essere sessualmente corretti e non discriminatori), addento il filo della flebo e sgommo via sulla barella. Non vorrei che il mio fosse il prossimo cuore infranto.

E’ un esempio niente affatto paradossale, perché le università italiane sono colme di amici e parenti collocati dai professoroni. Le professioni si tramandano per linee di sangue. Il trucco sul rimborso spese è praticato ad ogni livello e chi si ostina a parcheggiare in modo regolare è considerato un fesso (anche perché non parcheggia). Ciò genera caduta etica di massa e delega immorale al magistrato penale. Certo, il buon esempio dovrebbe venire dall’alto. Ma la sua assenza non assolve nessuno di noi.

L’etica politica, infine, funziona se esistono le altre due: si sono viste società sane governate (per qualche tempo) da incapaci e lestofanti, ma scarseggiano gli esempi di governanti immacolati a capo di Paesi corrotti. In politica contano i risultati e si decide sulla base delle alternative esistenti. Tanto per venire alla cose di casa nostra: se una parte politica pensa di vincere arrestando gli avversari io mi schiero con chi la combatte, e non m’importa se il mio alleato ha commesso un abuso edilizio. Se da una parte ci sono quelli che vogliono l’energia nucleare e intascano una tangente, mentre dall’altra ci sono quelli che la vogliono cancellare, impoverendoci tutti, io mi schiero con i primi. Se da una parte c’è chi difende la malagiustizia e considera normale che il Ros dei carabinieri annoveri più imputati che appuntati, io sto con quelli che avversano tale follia corporativa e giustizialista, anche se so che fanno le riunioni al bordello. E così via.

Il guaio italiano è che non si muove più niente, siamo inchiodati, le riforme vivono solo negli articoli e nei saggi, la malagiustizia dilaga e le faccende postribolari sono il sollazzo di alcuni e la bandiera accusatoria di altri. Allora non scelgo fra la marocchina e il cognato, non concedo nulla al moralismo straccione dei cattolici con quattro famiglie, respingo con disgusto le inchieste con le calze a rete, chiedo il ricovero per un’opposizione che invoca l’intervento del papa, scappo via da chi non ha lo straccio di un’idea e spera di prendere il posto di chi oggi comanda, cancellandone il buono e perpetuandone il peggio, e notifico a tutti costoro che sono divenuti la schietta incarnazione del vaniloquio segaiolo. Così, tanto per restare in argomento.