mercoledì 29 agosto 2012

Ingroia, la procura, la trattativa e le intercettazioni. La storia fin qui

 

Nel Foglio di oggi il direttore Giuliano Ferrara ha risposto a una lettera di Paolo Cirino Pomicino che dice: "Sembra di essere tornati ai tempi dei guelfi e ghibellini. Un’indagine della procura di Palermo che casualmente ha intercettato il presidente della Repubblica in una conversazione con il senatore Nicola Mancino senza che ne disponesse immediatamente la distruzione del nastro in base a un’interpretazione ardita sulle prerogative presidenziali, ha innescato uno scontro furibondo tra una stragrande maggioranza guelfa e una minoranza ghibellina". Per Pomicino il motivo del contendere, "al di là della registrazione definita dalla stessa procura di Palermo irrilevante ai fini penali, è l’iniziativa assunta dal Quirinale con il suo ricorso alla Corte costituzionale per un possibile conflitto di attribuzione tra la magistratura inquirente e le prerogative del presidente della Repubblica". Una questione che in pochi giorni ha diviso l’opinione pubblica, ma che secondo Pomicino "ha oscurato del tutto il drammatico interrogativo se la trattativa tra stato e mafia c’è stata davvero". L'Elefantino risponde: "Se per trattativa si intende scambio di guerra e in guerra, strategia per vincere la battaglia contro la criminalità organizzata, lo stato non ha fatto altro che trattare, e i trattativisti sono Scalfaro, Ciampi, ministri, premier e legislatori di tutti i partiti responsabili, capi della polizia e dei servizi e dei carabinieri, magistrati eroici come Falcone dall’operazione Buscetta al governo del ministero della Giustizia nell’esecutivo Andreotti"  [continua a leggere la lettera di Paolo Cirino Pomicino e la replica del direttore]
Ma la trattativa stato mafia e le intercettazioni a Napolitano hanno riguardato anche e soprattutto la politica. E dalla politica, così come dalle testate dei principali quotidiani nazionali, sono arrivate subito le prime reazioni. Il fondatore di Rep., Eugenio Scalfari, fu uno dei primi a emanare una sentenza sugli ascolti al capo dello stato: "Qui si tenta di indebolire il Quirinale per creare una situazione di marasma al vertice delle istituzioni dalla quale deriverebbe inevitabilmente la caduta del governo Monti”, diceva in un intervento a RSera. Sentenza che, come scriveva Salvatore Merlo dalle colonne del Foglio, poteva essere l’epigrafe di un film nerissimo, un prodotto della fantasia più violenta di John Carpenter, “assalto al distretto 13” come “Giugno 2012 attacco al Quirinale” [continua a leggere il "romanzo breve di un golpe estivo"].
Il procuratore di Palermo, Antonio Ingroia, ha giocato un ruolo chiave nell'inchiesta sulla trattativa. Sembra essere lui la matrice di tutto: "A quale società risponde l’inchiesta di Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, sulla cosiddetta trattativa tra mafia e stato; o, meglio, tra alcuni boss agli ordini del sanguinario Totò Riina, capo dei corleonesi, e alcuni uomini delle istituzioni, primo fra tutti quel generale Mario Mori, che un anno dopo, siamo nel 1993, ebbe la straordinaria benemerenza di arrestare proprio Riina?" [continua a leggere Ingroia, la trattativa, la cultura del sospetto e quell’inchiesta senza futuro].
Ieri il deputato Alfredo Mantovano, uomo politico ed ex magistrato, in un articolo sul Foglio ha sollevato forti dubbi sulla condotta del procuratore di Palermo ponendo l'accento su un elemento: "Nel procedimento penale sulla trattativa stato mafia, c’è almeno un aspetto che non è stato sottolineato a sufficienza: ed è il fatto che il dottor Antonio Ingroia, il pm che più di altri ha condotto le indagini, per sua scelta non seguirà nel dibattimento lo sviluppo delle indagini che ha svolto. Per sua scelta, senza ombra di dubbio; per un magistrato l’inamovibilità è una garanzia costituzionale e lo spostamento ad altre funzioni – nel suo caso, addirittura, il collocamento fuori ruolo – può avvenire solo per propria iniziativa". Appare insolito, a un ex uomo di legge come Mantovano, che un pubblico ministero, che normalmente, svolta un'indagine "aspira più di ogni altra cosa a seguirne l’esito in dibattimento" abbia deciso di abbandonare in fretta e furia l'Italia per andare a ricoprire un incarico in una "simpatica nazione del centro America" [leggi Ingroia disertore. J’accuse di Alfredo Mantovano].
Per Guido Vitiello, che nel suo articolo sul Foglio cita anche Leonardo Sciascia, il magistrato siciliano appartiene a una categoria integralista e religiosa come quella degli ulema. Dipenderà da questo temperamento la scelta del trasferimento immediato in terre lontane?[continua a leggere Antropologia letteraria e giuridica del magistrato].

Ma oggi l'ulema Ingroia fa le valigie, e se ne va via lontano. In Guatemala. Una scelta radicale per il pm più famoso d'Italia. Ma com’è il Guatemala che Antonio Ingroia va a trovare? E come c’è finito il procuratore aggiunto di Palermo? Secondo lui, è che “lì in Guatemala li apprezzano i giudici antimafia italiani" [leggi Il Guatemala di Ingroia di Maurizio Stefanini]
Sul tema della presunta trattativa stato mafia Pomicino ebbe modo di scrivere un'analisi in cui elencava punto per punto, documentatamente e cronologicamente, i fatti che stavano alla base dell'inchiesta dei procuratori di Palermo, tra cui il pm Antonio Ingroia:"Diciamo subito che, per i dati che qui di seguito riportiamo, la trattativa stato mafia, o, per meglio dire, tra una parte dello stato e la mafia, c’è stata ed è avvenuta nel 1993, l’anno, cioè, in cui vennero messe le bombe a Roma, Firenze, Milano" [leggi tutto l'articolo di Paolo Cirino Pomicino].
Una visione altrettanto dettagliata della verità storica, ovvero degli avvenimenti che hanno portato la trattativa al centro dei dibattiti, l'aveva data al Foglio anche il Radicale Massimo Bordin in occasione del rinvio a giudizio dei 12 indagati. Sullo stesso banco degli imputati, mafiosi e alte personalità dello stato. La versione di Bordin si concentrava sugli albori dell'inchiesta del procuratore Ingroia e sulle ragioni del coinvolgimento di Giovanni Conso e Nicola Mancino, questi sì, più vicini al presidente Napolitano, "vittime" di un "effetto valanga" innescato dall'apertura delle indagini sul colonnello Mori [leggi l'intervista a Massimo Bordin]. (il Foglio)

giovedì 23 agosto 2012

Ora et lavoro. Davide Giacalone

A leggere le statistiche delle ore lavorate, per settimana, in giro per l’Europa, si può cadere in qualche tranello, come, ad esempio, stupirsi per il fatto che gli italiani risultino i più operosi nella giornata di sabato. A La Stampa, ad esempio, sono riusciti a considerare 48 le ore lavorate settimanalmente in Germania, salvo scrivere, nella pagina successiva, che sono 35,5. La cosa interessante, però, è altra, ovvero la visibile discrasia fra regole, statistiche ed evidenza empirica.

La produttività italiana è troppo bassa, ma le ore lavorate sembrano essere nella media europea. Se si disaggregano le medie italiane si scopre che i più operosi, nel senso, quanto meno, di presenti più ore al lavoro, sono gli italiani del nord-ovest, mentre i meno si trovano nelle isole. Se andate in giro per la Sicilia, però, trovate esercizi commerciali aperti a tarda notte, commerci di strada quasi sempre attivi, mercati che si animano incuranti delle feste. E non è un fenomeno solo siciliano. Questa realtà che posto occupa nelle statistiche sul lavoro? Temo nessuno, o scarsamente rilevante, perché molte di quelle attività appartengono a quel mercato che ipocritamente si definisce “sommerso” e che, invece, è talmente emerso da essere accessibile a chiunque ne abbia bisogno. L’irregolarità di quel mercato ne sancisce l’esclusione dai conti ufficiali.
Posto che quel tipo d’irregolarità spesso si accompagna a evasione fiscale, ciò significa che andrebbe represso e sgominato? C’è da sperare in un intervento spettacolare e notturno, o festivo, degli agenti del fisco? Non me lo auguro affatto, anche a costo di espormi alle critiche moralistiche, di cui molti italiani sono campioni. Credo, invece, che siano le regole a essere sbagliate.
Girate per quei mercati e visitate quei commerci. Osservate la gente che ci lavora. Vi pare di circolare fra squali profittatori che si arricchiscono alle spalle della collettività, senza fare nulla? E’ spesso vero l’opposto: sono cittadini che lavorano duramente, senza sosta, in condizioni non confortevoli. In quanto al guadagno, escludo che ci si diventi ricchi. Eppure si espongono al rischio di multe e contestazioni. Perché non ci sono alternative, perché quello è pur sempre un lavoro. Oltre tutto socialmente utile (anche dal punto di vista della sicurezza, perché piazze e vie animate sono più percorribili dei deserti oscuri). Il fatto è che a questi italiani, per introdurli nel mondo della regolarità, non solo chiediamo di pagare oneri e tasse con le quali uscirebbero fuori mercato, ma chiediamo anche di rinunciare all’elasticità del lavoro e degli orari. E’ un errore.
Nessun Paese può prosperare se i suoi cittadini violano le leggi. Ma neanche può prosperare se per campare i cittadini sono costretti a violarle. Una parte considerevole di quel nero e di quell’evasione serve non ad accumulare profitti, ma a pagare la vita. E confondere questo con l’evasione dei profittatori è cieco giustizialismo, spesso celante, come il pudico moralismo incarnato da un Alberto Sordi censore (“Il moralista”), vite dissolute e biografie imbarazzanti.
Se noi incorporassimo nelle ore lavorate quelle che questi italiani passano a darsi da fare i paragoni europei migliorerebbero, ma i conti dell’Inps non tornerebbero. Che si fa? Si sceglie la regola recessiva o si preferisce l’elasticità del mercato? Propendo per la seconda ipotesi e trovo inaccettabile che per praticarla si debbano violare le norme. Quindi credo che si debba cambiarle. Partendo dal principio che nulla è più prezioso della libertà, e nulla crea tanta ricchezza quanto la libertà.

domenica 19 agosto 2012

L'occhio vigile dell'Enac. Carlo Stagnaro

L’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato un Focus sulla vicenda Windjet a firma di Andrea Giuricin. Tra le altre cose Andrea si chiedeva:
Se il presidente Riggio ha dichiarato che sapeva della situazione delicata da oltre un trimestre, non si capisce il perché non abbia ritirato la licenza o dato quella temporanea alla compagnia siciliana.
Il presidente Riggio si è offeso.
La risposta dell’Enac sarebbe perfino divertente, se non fosse per tre piccoli particolari.
Primo: noi non diciamo che possedevamo informazioni riservate; ci limitiamo a osservare che, poiché l’Enac sostiene di essere stato al corrente della situazione almeno da marzo, è quanto meno curioso che non abbia preso alcun provvedimento se non “a babbo morto”.
Secondariamente, se l’Enac nonostante tutto ritiene di volersi avvalere delle nostre “capacità analitiche e predittive” che il presidente Riggio “apprezza da sempre” siamo naturalmente disponibili. Quando il paese chiama…
Terzo, forse al presidente Riggio sfugge la differenza tra i doveri di un ente di regolazione e quelli di un istituto di ricerca. Differenza che, in ogni caso, non sfugge a noi.
Infine, pur apprezzando da sempre lo humour del presidente Riggio, siamo lieti – da contribuenti prima ancora che da analisti – che all’occhio vigile dell’Enac non sfugga alcuna critica e non manchi il tempo di vergare una risposta puntuta e puntuale. C’è solo un piccolo problema, che solleviamo bonariamente e senza alcun intento polemico: l’occhio dell’Enac, così vigile sull’Istituto Bruno Leoni, non pareva altrettanto vigile quando Windjet è colata a picco a sua insaputa. Del resto, mica si può fare tutto. (Chicago blog)

venerdì 17 agosto 2012

Via con il Windjet. Davide Giacalone

I contribuenti italiani hanno a lungo sovvenzionato Alitalia, provocando la rovina propria e non evitando quella della compagnia di bandiera. Forse non sanno di avere sovvenzionato anche Windjet, che non solo è crollata, ma ha lasciato con il sedere per terra tanti passeggeri, che ancora bivaccano in attesa di un volo che restituisca loro quel che hanno già pagato. Non solo sono esempi di come gettare al vento i soldi pubblici, ma anche di come non si fa la promozione né dell’Italia, né del turismo.

Apprendo dalle parole di Roberto Balzani, sindaco di Forlì (ottimo esempio di politico serio, eletto dalla sinistra, e autore di un prezioso libro sulle delusioni e i problemi della sindacatura ancora in corso), che quando arrivò a ricoprire quella carica scoprì che il suo comune versava sei milioni di euro all’anno, pur di avere i voli Windjet nell’aeroporto municipale. Quei sei milioni gravavano sulle casse comunali, a loro volta alimentate dai tributi dei cittadini e dal prezzo da essi pagato per altri servizi comunali, sicché ci si deve andare piano prima di parlare di low cost, dato che al costo del biglietto si deve aggiungere quello indiretto, e per niente basso. Lo scopo della sovvenzione era di collegare Forlì con il mondo, portando colà i turisti e portando altrove i forlivesi. Balzani voleva rinegoziare quell’accordo, finendo con il farselo sfuggire (e fu criticato), visto che il comune di Rimini, dotato dell’aeroporto Federico Fellini, aveva offerto, a Windjet, una somma ancora superiore. Chissà se si presentarono fellinianamente, con una popputa rappresentante capace di pronunciare un impareggiabile “gradisca”.
Prima osservazione: per andare da Forli a Rimini, e viceversa, s’impiega meno che per andare dal centro di Roma a Fiumicino, per non parlare di Malpensa, due aeroporti così vicini incarnano la dissennatezza. Seconda osservazione: la spesa pubblica per incentivare il turismo va anche bene, purché sia quello in arrivo e non quello in partenza, perché il secondo va ad arricchire le zone di destinazione e, quindi, i finanziamenti si traducono in un contributo a gitanti e compagnie aeree, che non si vede proprio perché i contribuenti dovrebbero sobbarcarsi. Come si fa, allora, a spingere il turismo senza cadere nell’errore di farlo con quello che scappa, anziché con quello che accorre? Semplice: non si pagano i voli, ma si rendono migliori le destinazioni. Un esempio: molte zone d’Italia, specie quelle gettonate per l’estate, hanno una copertura internet che fa schifo, una municipalità che voglia rendersi utile non solo assicura la copertura e la diffusione di wifi, ma provvede a rendere digitali tutte le informazioni disponibili, a mappare i percorsi, ad offrire una vetrina, interattiva e funzionante, ad alberghi, ristoranti, locali di svago e così via. Con sei milioni si fanno miracoli, mentre se li si consegna a Windjet li si fa sparire. Che è un trucco, non un miracolo.
Se un aeroporto non è frequentato da voli, se in una località non arrivano turisti, o non ne arrivano quanti potrebbero essere, la soluzione non è nel sovvenzionare i biglietti, ma nel rendere appetibile il soggiorno in quel luogo. Gli enti locali che pagano le compagnie (falsamente) low cost non promuovono l’economia, ma la corrompono, la falsano, s’illudono e, infine, falliscono. Come è puntualmente accaduto alla Seaf, società che gestisce l’aeroporto di Forlì.
L’Italia e zuppa di posti meravigliosi, di mete ambite dal turismo colto e ricco come da quello ridanciano e risparmioso. E’ seduta su uno scrigno cui, però, non attinge a sufficienza, perché la gran parte di questi posti sono sconosciuti agli italiani stessi (il castello di Caccuri, in Calabria, recente sede di un originale e interessante premio letterario, è sconosciuto ai calabresi, figuriamoci ai finlandesi). E il settore turistico è il classico esempio di quel che serve all’Italia: tagliare, alla grande, la spesa inutile; digitalizzare i tesori e renderli accessibili; mettere in rete i servizi; liberare l’iniziativa e la fantasia dei privati. L’Italia che corre è capace anche di volare, se solo si abbattono i predatori della spesa pubblica.

martedì 14 agosto 2012

L'Italia forse crolla, certo non cambia. Gianni Pardo

 
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Quando una frase famosa è attribuita a parecchi autori, è segno che chi l’ha inventata ha solo espresso in maniera icastica qualcosa di evidente. Una di queste frasi è: “Governare gli italiani non è né facile né difficile: è inutile”. E non importa se l’abbia detta Giolitti, Mussolini, o qualche altro. Se ha tanta fama, una ragione ci sarà. È innegabile che i nostri concittadini siano visceralmente faziosi, acutamente sensibili alla demagogia e sostanzialmente conservatori. Gli italiani, diceva Montanelli, vorrebbero fare la rivoluzione con la protezione dei carabinieri e di fatto resistono ai cambiamenti finché possono. Mussolini, che voleva trasformare gli italiani in atleti e in guerrieri, è riuscito solo a rendersi ridicolo e a rendere ridicoli noi. Fare la mossa della rivoluzione, perché no? Andare in giro con un pugnale a testa d’aquila nella cintura, come i fascisti, perché no? Ma cambiare le proprie abitudini? Neanche a parlarne.
In conseguenza di tutto ciò l’opposizione in Italia è particolarmente facile. Si ha il consenso non solo di chi è contro il governo ma anche di molti di quelli che dovrebbero sostenerlo. È facile dimostrarlo. Se c’era, e c’è, una legge sacrosanta, è quella contro l’eccesso di intercettazioni telefoniche. Ad essa era particolarmente interessato, anche per ragioni personali, Silvio Berlusconi. E tuttavia, pur essendo considerato da alcuni il proprietario della sua coalizione e pur essendo il capo della più grande maggioranza che abbia avuto un Parlamento repubblicano, non è riuscito ad ottenere quel provvedimento. Chi si è opposto? Gli italiani. Trasversalmente. Per le più varie ragioni. E soprattutto perché costituiva un cambiamento. Un altro esempio di conservatorismo fanatico è quello della magistratura. Se solo si proponesse di modificare il colore delle loro toghe, i magistrati insorgerebbero come un sol uomo contro questo attacco all’indipendenza della magistratura. Figurarsi dunque le grandi riforme. Quando un governo si intestardisce a realizzarne una, il percorso è così lungo, così travagliato, così impervio che alla fine o non se ne fa nulla oppure la legge arriva alla meta annacquata e stravolta. O i conservatori vincono, o non perdono.
Queste constatazioni sono rese ancora più evidenti dai risultati di una congiuntura teoricamente imprevedibile. Dal 1943 l’Italia è spaccata fra destra e sinistra. La guerra civile che cominciò in quell’anno non ha mai avuto tregua, neanche quando i mitra non hanno più sparato. Contro Berlusconi, poi, si è avuta la più grande campagna di odio di tutti i tempi. E tuttavia, dall’autunno del 2011, abbiamo visto l’alleanza del diavolo con l’acqua santa. Una sorta di Comitato di Salute Pubblica per salvare l’Italia dal default. In queste condizioni, con una maggioranza oceanica cui si oppone una esigua minoranza moralmente e politicamente squalificata, si potrebbe pensare che il governo sia per una volta onnipotente. Finalmente una maggioranza cui nessuno può resistere, una maggioranza senza opposizione che può permettersi tutto. Ogni leader infatti sarà pronto a spiegare alla propria base che a Palazzo Chigi non c’è il nemico ma qualcuno che agisce per il bene comune. E infatti subito dopo la costituzione del nuovo esecutivo, il Parlamento, tramortito, ha lasciato passare la riforma delle pensioni. Ma i mesi che si sono impiegati per formulare la riforma del lavoro hanno dato ai partiti il tempo di riprendersi. Da quel momento, pur riconoscendo di non avere la forza di mandare a casa il governo, essi sono riusciti a ingabbiarlo. Per il lavoro prima il ministro Fornero ha detto e ripetuto fino alla nausea che “avrebbe tirato diritto”, checché dicessero i sindacati; poi ha chinato la testa; infine la riforma è stata evirata ed ha deluso sia i mercati sia gli imprenditori stranieri. E infatti non è servita a niente.
Di sostanziale i famosi tecnici sono riusciti a fare solo ciò che saprebbe fare anche un bambino: aumentare le tasse sugli immobili e sulla benzina. Senza per questo evitare né l’alto livello dello spread né la più grande recessione che ricordiamo. Si vuol dare di tutto questo il torto a Monti? Neanche per sogno. Sarebbe stupido. La sua esperienza ha solo fornito la riprova del detto di Giolitti. Si potrebbe governare contro una parte degli italiani, non si può governare contro tutti.
Ora si parla del meccanismo “salva-Stati”, cioè della possibilità di avere consistenti aiuti economici in cambio della nostra sovranità. E se l’Italia, per salvarsi, dovesse rinunciare ad essa, sarebbe una cosa tristissima. Ma si comprende che molti italiani non piangano: considerando l’uso che ne abbiamo fatto, forse potremmo disfarcene senza troppi rimpianti. (il Legno storto)

lunedì 6 agosto 2012

L'altra Diaz. Gianluca Perricone

 
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E’ da qualche giorno nelle librerie Diaz (ImprimAtur editore), il libro-intervista che Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo hanno realizzato sentendo la versione del comandante del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini sui tragici eventi accaduti all’interno dell’edificio scolastico genovese il 21 luglio del 2001, durante il G8. 

L’idea di realizzare il libro è nata, nei due autori, all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione che, confermando le condanne, ha, di fatto, «decapitato le eccellenze della Polizia di Stato».

Ma dal libro dei due giornalisti de Il Giornale emerge una verità assai diversa rispetto a quella che è stata alla base delle condanne inflitte ad alcuni dirigenti ed agenti (soprattutto appartenenti al Settimo nucleo) della Polizia: «la storia della Diaz e degli scontri al G8 – sostengono i due autori – non è quella scritta nei tribunali o divulgata da un’informazione omologata».
Ed in effetti, prima dell’ingresso nella Diaz degli uomini di Canterini, erano già presenti dentro l’istituto uomini di Polizia abituati normalmente a reprimere le rivolte in carcere: insomma agenti dei cd. Gom che tanto ‘leggeri’ nei loro interventi non sono. E’ indubbio che nella scuola genovese ci sia stato il “massacro”, ma la giustizia nostrana non è riuscita ad individuare i veri colpevoli, andando invece a colpire chi, nel plesso scolastico, è stato fatto entrare a cose praticamente fatte o, quanto meno, già avviate. Le indagini non sono riuscite ad identificare quel nucleo di veri e propri ‘picchiatori’ che, di fatto, avevano compiuto un vero e proprio assalto prima dei Celerini.Tra gli altri, viene raccontato un episodio per certi versi emblematico. Quello nel quale Canterini, appena iniziata l’irruzione, arriva al primo piano della Diaz: «Feci qualche passo – ricorda nel libro – e trovai uno dei miei, inginocchiato e senza casco, che soccorreva come poteva una ragazza rannicchiata su se stessa. Aveva i capelli rasati, le trecce sulla nuca, il cranio fracassato da cui fuoriusciva sangue a fiotti e materia cerebrale. Il poliziotto che aveva dato lo stop alla mattanza e che vegliava sulla moribonda aspettando l'ambulanza era Fournier». Per la cronaca, Michelangelo Fournier era il comandante del Nucleo sperimentale che era stato appositamente costituito per il G8.
«In quel caos epocale – racconta ancora l’oramai ex capo della Mobile romana – mi ritrovai, di fatto, a coordinare i soccorsi». E le manganellate a quella giovane donna (e non solo a lei) furono date da altri poliziotti che probabilmente mai saranno puniti per il loro inqualificabile pestaggio indiscriminato.
Invece, undici anni dopo, la Corte di Cassazione, rendendo definitive le condanne, ha di fatto chiuso la carriera di alcuni tra più importanti investigatori del Paese mentre i veri colpevoli del massacro ancora girano indisturbati: da noi, purtroppo, la giustizia funziona così. (il Legno storto)

sabato 4 agosto 2012

Ce la facciamo anche da soli. Francesco Giavazzi

Dobbiamo farcela da soli. Non chiedere l'aiuto del Fondo europeo per la stabilità finanziaria (Efsf e poi Esm), non sottoporci alla vigilanza dell'Eurogruppo e rinunciare allo scudo che ci offre la Bce. Ce la possiamo fare da soli perché la nostra situazione è diversa da quella spagnola: non abbiamo avuto una bolla immobiliare e le nostre banche non sono zeppe di mutui andati a male; il debito pubblico è elevato (123% del Pil), ma i conti dello Stato al netto degli interessi sono attivi (+3,6% nel 2012), e soprattutto non abbiamo accumulato un ingente debito estero spendendo per oltre un decennio il 10% più di quanto veniva prodotto. La Spagna non ha alternative, noi sì.

Per riuscirci da soli ci vuole uno scatto di orgoglio. È necessario che Mario Monti ritrovi lo slancio e la determinazione iniziali. E soprattutto è necessario che il Parlamento si occupi di meno degli interessi particolari dei quali è diventato il paladino e guardi un po' di più all'interesse generale. Se pensassimo di non esserne capaci, tanto varrebbe votare subito: la campagna elettorale sarebbe in gran parte inutile perché l'agenda politica verrebbe comunque dettata da altri, i quali non necessariamente fanno solo i nostri interessi. E il risultato delle elezioni sarebbe pressoché irrilevante: anche questioni di nostra pertinenza verrebbero risolte a Berlino e a Francoforte.

Per riuscire a tutelare la nostra indipendenza economica e politica ci vuole un piano. Oggi, non a settembre. Perché quando la Spagna firmerà la sua richiesta di aiuto - prevedo nei prossimi giorni - se non avremo una strategia alternativa e senza l'intervento della Bce, il nostro spread salirà ancora. Ci troveremmo a dover chiedere aiuto con un'economia allo stremo.

Il piano per «salvare l'Italia» ha due parti. Innanzitutto bisogna sospendere, da qui alle elezioni, le emissioni di titoli a medio-lungo termine. Da settembre a marzo il Tesoro ne deve emettere 100 miliardi circa, di cui 60 circa detenuti da residenti, 40 da investitori esteri. Si cominci a vendere qualche società pubblica, ad esempio quote di Terna e Snam Rete Gas: i prezzi di Borsa sono depressi, ma anche i rendimenti dei Btp sono straordinariamente elevati. Vendere con la rapidità necessaria è tuttavia tecnicamente impossibile. Le azioni di queste società sono già state trasferite alla Cassa Depositi e Prestiti che può scontarle alla Bce e con la liquidità così ottenuta acquistare Btp.
La Cassa ha una licenza bancaria e lo può fare: è quello che da mesi fanno le nostre banche. Si può riprodurre il meccanismo con altre società pubbliche e veicoli diversi dalla Cassa. Affinché una simile operazione sia credibile non deve essere un'alchimia finanziaria, ma un «anticipo in conto vendita», cioè si deve cominciare a vendere. Si potrebbe anche pensare ad attrarre il risparmio delle famiglie con emissioni di titoli non soggetti a imposte per i residenti. Il ministro Grilli avrà certamente idee migliori: l'importante è la rapidità. Cento miliardi sarebbero sufficienti per cancellare la maggior parte delle aste di qui a marzo.

Sette mesi senza l'assillo delle aste dovrebbero essere impiegati, come diceva Prodi (che però purtroppo non lo fece), per «smontare l'Italia come un meccano e rimontarla in modo che funzioni»: ridurre le spese, tagliare il debito vendendo, riprendere riforme (liberalizzazioni e mercato del lavoro) che sono state lasciate a metà, fare una legge elettorale decente. Se lo farà, Mario Monti ci avrà regalato un Paese indipendente e moderno. (Corriere della Sera)

mercoledì 1 agosto 2012

In memoria del necrologio. Davide Giacalone

Nell’estate 2012 il necrologio si porta lungo. Non credendo ai segni del destino non traggo alcun presagio dal rapido succedersi di decessi nel mondo della giustizia, non suppongo simboleggino la resa umana laddove s’è già archiviata la resa sistemica. Osservo, però, che nulla come la morte è calamita di retorica, e nulla come la retorica mortuaria è ricettacolo di bugie e false coscienze. A rendere il tutto interessante, anche sotto il profilo antropologico, è la letteratura del necrologio, essa sì capace di sopravvivere ben oltre la sua funzione vitale.
I necrologi, i piccoli francobolli neri che arricchiscono i giornali e impoveriscono la morte, servivano per dare l’annuncio del trapasso. Erano i tempi in cui i matrimoni s’annunciavano negli albi comunali, a loro volta esposti in bacheche pubbliche: chi aveva da obiettare poteva farsi avanti. Oggi nessuno passa davanti a quelle esposizioni, mentre di certi matrimoni ti danno l’avviso e ti raccontano lo svolgimento anche se non te ne importa un accidente. All’annuncio, dato dalla famiglia affranta, seguivano e seguono le partecipazioni dei condolenti, che si dividono in tre categorie: a. quelli affranti, che son pochi e solitamente assai parchi; b. quelli tirati per i capelli, “che figuraccia non farlo”; c. quelli che colgono l’occasione per mostrarsi vicini al trapassato, affiancandosi ad altri noti, fidandosi del fatto che il protagonista non può protestare, sicché gli si può un poco rubare la scena. Solo la terza categoria non soffre il dettaglio materiale: i necrologi costano una fortuna, che se gli si fosse offerto un luculliano ristoro prima che tirasse le cuoia, il caro estinto ne sarebbe stato felice.

Il necrologio, infine, vive nel mondo analogico e vi sopravvive a dispetto del fatto che i mezzi digitali, dai quali provengono, oramai, quasi tutte le informazioni, non ne ospitano. Al più comunicano: è morto Tizio. E gli altri a chiedersi: quanti anni aveva? La risposta muta significato a seconda del questionante: per i più giovani la morte non ha senso; per quelli di mezza età è l’occasione per valutare la rimanenza media, fra i conosciuti; per i più anziani è segno che la nera signora ha ancora colpito di fianco, questa sera si brinda.

I necrologi lunghi, anzi lunghissimi, però, hanno quasi sempre un redattore istituzionale. Intanto perché non li paga, il che scioglie la favella. Poi perché li usa, se non altro per comunicare quel che stava facendo, grazie ai servigi di chi non c’è più. Poi può capitare che usi il decesso per cercare di regolare i conti, mettendolo su quello di qualcun altro. Della serie: avete ucciso un pezzo di me. Questi sono i necrologi vergati da quanti concepiscono il mondo solo se ne sono il baricentro, talché parlano di sé anche nel cordoglio, incuranti del possibile effetto trascinamento. Necrologi, questi, comunque migliori di quelli vergati in burocratese, che sono una specie di elogio di servizio, a uso dell’ufficio personale. Che cosa triste, essere accompagnati in quel modo nell’ultimo viaggio.

Il lutto più esilarante è quello dei colleghi, i viventi nel mondo in cui si visse, i quali passarono il loro tempo a cercare disperatamente di negare la tua stessa esistenza, a ignorarti affinché fossi ignorato da tutti, e ora, con il certificato di morte opportunamente compulsato, possono sciogliersi: era un grande, colpevolmente sottovalutato. L’infinita grandezza di tale piccineria è motivo d’imperituro sollazzo.

Quindi, siete avvertiti: offritemi un pranzo e, quel giorno lì, fatevi gli affari vostri. Possibilmente godendone.