giovedì 29 gennaio 2009

Non si può solo piangere. Vittorio Macioce

È facile fare l’imprenditore con i soldi degli altri. A Milano c’è una libreria un po’ anarchica. Il proprietario è un ragazzo piuttosto scettico sulle sorti del mondo, che in questi giorni di incentivi pubblici e auto da rottamare si è messo in testa di rileggere La rivolta di Atlante di Ayn Rand. Ogni pagina che sfoglia è una mezza bestemmia, contro gli imprenditori italiani che non sono come quelli del romanzo. Non rischiano. Non hanno senso del dovere. Non si prendono responsabilità. Dice: «Qui i profitti sono privati e le perdite sono di tutti». E poi cita una di quelle massime che piacciono ai romantici del liberalismo: «Il capitalismo senza perdite è come la religione senza inferno». Il libraio dice che non è questione di destra o di sinistra. Ma di etica. E ti cita il caso dell’olandese Philips: «Fa un solo trimestre in rosso, dopo anni di vacche grasse, e subito spedisce a casa seimila persone. Ti pare giusto?».
In questi giorni c’è tanta voglia di Stato. Forse un po’ troppa. Gli imprenditori ogni tanto dovrebbero, invece, metterci la faccia. Non si può sempre piangere con la scusa che è arrivata la bufera. Qualche segnale in controtendenza arriva da due poli opposti. La Coop, per esempio, sta facendo una campagna per dire: la crisi la paghiamo noi. E ha abbassato del 20 per cento il prezzo dei 100 prodotti più necessari. Mediaset Premium ha scelto di non scaricare sui clienti l’aumento dell’Iva. Tutto questo basta per superare la crisi? No, è chiaro. Ma almeno sottolinea una filosofia alternativa al piagnisteo.
È chiaro che questa crisi sta mandando in soffitta tutte le vecchie certezze. Basta guardare il terremoto che ha colpito il settore auto. È come se fosse crollato il simbolo del capitalismo novecentesco. L’auto era una sicurezza. L’auto era il progresso. Ora è in ginocchio. Le grandi case chiedono aiuto, disperate. Solo che si sono dimenticate anni di salari bassi, con la scusa dell’inflazione, della competitività, dei cinesi, dell’euro e dei conti pubblici. Tanta pazienza e poi ti sbatte in faccia la crisi dei mutui. Neppure Giobbe.
La Marcegaglia ora fa sapere che in Italia, nei primi tre mesi del 2009, è previsto un calo degli ordini del 60 per cento. E subito scatta la questione sociale: 300mila disoccupati in più. Quindi, via con il valzer degli aiutini di Stato. Anche l’edilizia soffre e gli elettrodomestici, e via via tutti gli altri. Ecco la vecchia equazione che ritorna. Il tutto condito con un po’ di retorica ambientalista: incentivi solo alle macchine che non inquinano. È questa patina etica che infastidisce. Gli imprenditori dell’auto non chiedono soldi perché non riescono a vendere i loro prodotti, ma per salvare il mondo. È molto comodo questo ragionamento. Lo sappiamo tutti. Gli incentivi ci saranno. Il costo sociale sarebbe troppo alto. Ma almeno non prendiamoci in giro. Qui a rischiare sono sempre gli stessi: artigiani, commercianti, piccole imprese e lavoratori flessibili. Quelli che quando c’è crisi pagano in prima persona e sulle spalle hanno solo paracaduti stracciati. (il Giornale)

lunedì 26 gennaio 2009

Siamo tutti segnati sulla rubrica del Grande Fratello. Carlo Panella

Gioacchino Genchi, ha accumulato una quantità esplosiva di intercettazioni, tabulati, numeri telefonici: chi dice 350.000, chi 578.000. Forse non sono registrazioni, ma solo elenco di contatti. Anche di parlamentari, di Pollari, di De Gennaro. Di chiunque. Genchi, per incarico di De Magistris, sa chi ha telefonato a chi. Insomma, ha compilato la rubrica del Grande Fratello! In Italia, infatti, un Pm può intrufolarsi ovunque, non per sanzionare reati compiuti, ma per “ipotizzarli”, anche per inventarseli –come ha fatto De Magistris- collegando logicamente, numeri di telefono tra “sospetti”. La rete dei controlli telefonici intrappola la vita di chiunque e questo permette a certi Pm di sfornare a ritmo continuo teoremi accusatori. Lo schema De Magistris-Genchi è semplice: l’inquisito Tizio, telefona a Caio, quindi… tutti quelli che telefonano a Tizio e poi a Caio, sono inquisibili. Poi, si inventa l’ennesima Cupola, si conquista così la prima pagina e magari –se altri magistrati, o anche il Csm, smontano tutto- ci si dichiara vittime e –Di Pietro tronituante- l’effetto politico è acquisito. Il tutto, contro ogni principio di diritto. Ci si chiederà: come è possibile? Semplice: dal 1994 la sinistra impedisce che si metta riparo a questo orrore. E perché? Beh, chi ha letto Orwell lo sa: il Grande Fratello che lui denuncia, non è affatto il mega computer. E’ Stalin, è la sua concezione della società e dello Stato. Triste doverlo constatare dopo tanti decenni, ma altra spiegazione sulla follia del compromesso storico tra sinistra e Pm, non c’è. (il Tempo)

venerdì 16 gennaio 2009

Jan Palach come il "Che". Valerio Fioravanti

Avevamo letto distrattamente di Mario Capanna che proponeva di rendere omaggio a Jan Palach, sembrava solo l’ennesimo caso di improntitudine della sinistra che tutto sussume a se. Invece no, c’è di più. Dopo essersela cavata dicendo semplicemente che “non avevamo compreso il gesto di Palach”, così Capanna conclude il suo articolo su Libero: “Il sacrificio di Jan Palach è emblematico come quello di Che Guevara. Tutti e due non si limitano a parlare di ciò in cui credono: ci impegnano la vita. Onore, per sempre”. Accidenti, il povero Palach suicidatosi per protesta contro l’invasione sovietica, accomunato a colui che invece quell’invasione andava in giro ad espandere! Un ragazzo anticomunista che ha esercitato violenza solo contro se stesso, accomunato ad un guerrigliero che ha sparato in mezzo continente. Proprio la stessa cosa. Per noi può anche andar bene, ma allora Capanna vigili che quando qualcuno dice che c’erano persone per bene e in buona fede sia a Salò che nella Resistenza, non si gridi più allo scandalo. Mica solo quelli di sinistra possono sempre aggiustarsi tutto. (l'Opinione)

giovedì 15 gennaio 2009

"Ebrei? Scimmie". Ecco il rifiuto arabo. Antonio Donno

Qualsiasi conciliazione fra palestinesi e israeliani è impossibile per esplicito disegno dei primi. Che nutrono un odio assoluto per i secondi. Ed è tutta questione di religione, non di terre irredente. Lo dice Benny Morris

Chi si ricorda più di Yasser Arafat? Il “padre del popolo palestinese” è caduto completamente nell’oblio. Negli uffici dell’ANP o di Hamas c’è la foto sui muri, ma è difficile credere che quell’immagine rappresenti oggi per i palestinesi, popolo e dirigenti, una fonte d’ispirazione reale. D’altro canto, i sostenitori occidentali del raìs sembrano voler cancellare dai propri proclami qualsiasi riferimento a lui: un’eredità pesante, un simbolo di sconfitta, ma soprattutto un emblema di autosconfitta.Si tratta di un caso veramente unico nella storia dei movimenti di liberazione nazionale. Il leader, infatti, è sempre il leader, nella vittoria e nella sconfitta, il suo esempio è comunque sempre un riferimento inestinguibile, un incitamento alla lotta, la speranza vera. Ma Arafat ha fatto eccezione. Già nella corposa biografia dedicatagli da Barry Rubin e da Judith Colp Rubin, Arafat. L’uomo che non volle la pace (trad. it., Mondadori, Milano 2005), apparivano tutti gli elementi di un declino autodistruttivo, i caratteri di una doppiezza foriera di esiti negativi, una sorta di cupio dissolvi paradossale per il capo di un movimento teso a un obiettivo storico quale quello di dar vita a una patria palestinese. È quindi importante, oggi, alla luce della storia e degli esiti attuali di quella vicenda, ripercorrere la storia di Arafat e del suo rifiuto.

Antisemitismo come piovesse
Perché questo è il punto cruciale: il rifiuto. Il concetto apparve per la prima volta all’inizio degli anni Sessanta, quando il marxista Maxime Rodinson pubblicò in Francia un libro che in Italia arrivò, solo nel 1969, con il titolo Israele e il rifiuto arabo. La tesi di Rodinson era che il rifiuto arabo era ben giustificato dalla prepotenza perpetrata dai sionisti sulla comunità palestinese, una prepotenza alimentata dall’imperialismo statunitense e, nel complesso, dall’indulgenza internazionale verso l’impresa ebraica. La questione religiosa – che sarebbe diventata cruciale nei decenni successivi – era allora quasi del tutto assente dal testo di Rodinson.E invece il trascorrere dei decenni e il fallimento degl’innumerevoli tentativi di giungere a una pace definitiva hanno dimostrato che lo scontro tra il mondo arabo e quello ebraico aveva radici essenzialmente religiose, nel rifiuto da parte islamica di accettare la presenza dell’elemento giudaico all’interno del proprio mondo. Così, l’esodo dei palestinesi, dopo la guerra del 1948-49, dai territori assegnati dalle Nazioni Unite al futuro Stato ebraico non fece che acuire sino alla spasimo l’umiliazione araba per una perdita considerata inaccettabile dal punto di vista della coerenza della tradizione religiosa nel contesto mediorientale. Né il rimpallo delle responsabilità di questo esodo poteva cancellare la questione di fondo: il rifiuto era di carattere religioso, e l’antisemitismo islamico si alimentava del disprezzo e dell’odio verso i giudei.

Lo shock di Camp David
Perciò, l’ammissione dello stesso Abu Mazen, braccio destro di Arafat, fatta nel 1975 sull’organo ufficiale dell’OLP Falastin al-Thawra, non poteva avere alcun significato pratico: «Gli eserciti arabi entrarono in Palestina per proteggere i palestinesi dalla tirannia sionista, ma al contrario li abbandonarono, li costrinsero a emigrare e a lasciare la propria terra, imposero loro un blocco politico e ideologico e li gettarono in prigioni simili ai ghetti in cui gli ebrei usavano vivere nell’Europa Orientale». Il problema della terra, dunque, era soltanto un mascheramento della vera questione di fondo: il rifiuto arabo di accettare in terra islamica i giudei, “figli di porci e scimmie”, sottouomini. Ed è per questo stesso motivo che la proposta israeliana, dopo la guerra dei Sei Giorni, di “pace in cambio dei territori” rimase per gli arabi lettera morta.Benny Morris, nel suo ultimo libro, Due popoli, una terra (tard. it. Rizzoli, Milano 2008, pp.230, E 12,00), riesamina il problema da questo punto di vista. Interessante è peraltro la parabola dello storico israeliano. Morris è stato il capofila dei “nuovi” storici israeliani, avviando una revisione profonda della storia dello Stato ebraico, a partire dal “peccato originale” del movimento sionista, quello di avere cioè creato uno Stato ai danni del popolo palestinese, per poi proseguire con una sistematica demolizione della tradizionale narrazione della storia di Israele, giudicata falsa e deformante.

Ma il fallimento di Camp David del 2000 è stato per Morris uno shock che gli ha aperto gli occhi e fatto comprendere che il rifiuto irragionevole di Arafat di dare vita a uno Stato palestinese non riguardava un chilometro quadrato di terra in più o in meno, ma l’accettazione stessa di vivere accanto agli ebrei. Arafat voleva una sola cosa: creare uno Stato palestinese al posto di Israele, non accanto a Israele. Non questione di terra, ma di fedi. Il climax del libro di Morris è questo.
Lo storico israeliano ripercorre così tutte le soluzioni che dalla fine dell’Ottocento a oggi sono state elaborate per giungere alla coesistenza tra i due popoli, concludendo che il fallimento fu ed è dovuto non alla questione territoriale , ma alla xenofobia di matrice religiosa. Per questo motivo, lo strumento che gli arabi adottano per risolvere il contenzioso è sempre stato il jihad, benché spesso mascherato per ragioni di mero opportunismo.

Slogan e ideologia
Prima ancora della Seconda guerra mondiale, nel 1936-37, la Commissione Peel, voluta da Londra come potenza mandataria sulla Palestina, propose la prima soluzione spartitoria che assegnava ai sionisti una piccola enclave di 6mila km2 completamente circondata da un più ampio Stato arabo e quindi facilmente eliminabile. Ebbene, i sionisti accettarono, per quanto consapevoli dei rischi mortali cui andavano incontro, e gli arabi rifiutarono. Questa è insomma la cifra costante della risposta araba, basata sull’assunto che gli ebrei siano estranei alla Palestina: «Questo annullamento della “ebraicità” della Palestina ha sempre caratterizzato il movimento nazionalista arabo-palestinese», scrive Morris, riferendosi chiaramente alle ragioni religiose.
Di conseguenza, sia la soluzione monostatuale sia quella bistatuale rappresentarono, nel corso della lunga crisi, soltanto proposte che hanno impegnato le due parti in infinite quanto inutili discussioni, poiché il pregiudizio religioso arabo nei confronti degli ebrei è stato insormontabile, anche se sottaciuto.
Morris analizza dettagliatamente il lungo, defatigante iter di queste due soluzioni, compreso lo slogan, che eccitava gli occidentali, di una Palestina come “Stato laico e democratico” accanto a Israele, slogan che Morris tratta giustamente alla stregua di una barzelletta.

Quanto poi alla soluzione monostatuale con la compresenza di due popoli con eguali diritti, lo storico israeliano è chiarissimo: «[...] L’idea della duplice nazionalità non aveva mai avuto la minima presa in alcun settore della società arabo-palestinese». In definitiva, gli arabi hanno sempre rifiutato sia la soluzione bistatuale sia, «per principio», quella monostatuale. Ma, alla luce della ricostruzione di Morris e degli eventi degli ultimi anni, il rifiuto arabo ha riguardato la presenza degli ebrei in Palestina in qualsiasi modo fosse proposta. In sostanza, così sintetizza la questione lo storico israeliano: «Il costante rifiuto, da parte della leadership dell’OLP, di accettare l’ebraicità di Israele è indice di un rifiuto di base dell’approccio bistatuale». La strada era aperta per i terroristi islamici di Hamas e delle altre formazioni radicali.
Il libro di Morris squarcia insomma il velo della falsità e delle deformazioni che hanno caratterizzato l’interpretazione del conflitto tra ebrei e arabi in Palestina, un’interpretazione che ha tenuto banco in Occidente per lunghi decenni, nonostante i fatti parlassero chiaro. Ma è difficile pensare che il pregiudizio ideologico nei confronti di Israele possa venire meno solo per opera di un libro. (il Domenicale)

mercoledì 14 gennaio 2009

Stabile al 50% la fiducia in Berlusconi. Affari italiani

E' stabile al 50% la fiducia dei cittadini nel presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e nel governo di Centrodestra. Mentre, rispetto al 22 dicembre scorso, perde terreno il leader del Partito Democratico Walter Veltroni, che scende a quota 30%. E' quanto emerge dal primo sondaggio politico-elettorale del 2009, realizzato dall'istituto Consortium in esclusiva per Affaritaliani.it.

"Le informazioni sui provvedimenti per fronteggiare la crisi economica sono piaciute agli italiani", spiega ad Affaritaliani.it Nicola Piepoli, presidente dell'istituto demoscopico. "Il piano anti-crisi ha convinto una grande fetta dei cittadini-elettori, tanto che il consenso sui singoli punti raggiunge livelli altissimi".

Il ministro più amato dagli italiani rimane Franco Frattini (Esteri), con un consenso superiore al 50%. A seguire ci sono Renato Brunetta (Pubblica Amministrazione) e Stefania Prestigiacomo (Ambiente), poi, al quarto posto, il leghista Roberto Maroni (Interno). "Dopo i primi quattro segue un gruppuscolo a pari merito".

Tra i singoli partiti nel giro di tre settimane il Popolo della Libertà ha perso mezzo punto, scendendo al 41% dal precedente 41,5. La Lega Nord, invece, si rafforza e sale al 9,5 dal 9%. L'Mpa vale un punto percentuale. In ribasso le quotazioni del Partito Democratico. Per la prima volta, in base alle rilevazioni Consortium, il Pd cala sotto la soglia del 30% e vale il 29,5 rispetto al 30,5% del 22 dicembre 2008. In rialzo, al contrario, l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro: al 6,5% dal precedente 6. Bene anche l'Udc di Pierferdinando Casini, salito al 5,5 dal 5%. Resta pessima la situazione della sinistra radicale. Un punto percentuale per Rifondazione Comunista, Pdci e Verdi. La Destra ottiene l'1,5% nelle intenzioni di voto. Altri partiti al 2%.

Il sondaggio Consortium è stato realizzato martedì 12 gennaio: campione di 2.000 casi. Campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne in base ai parametri ISTAT di sesso, età e macro-area di residenza; metodologia C.A.T.I.

mercoledì 7 gennaio 2009

Tregua e retorica. Pierluigi Battista

I numerosi appelli alla «tregua» non possono lasciare indifferente chi sostiene il buon diritto delle operazioni militari condotte da Israele. Di fronte allo scenario straziante di Gaza, dei civili e dei bambini uccisi, delle case sventrate, degli ospedali sovraffollati e drammaticamente a corto di medicinali, l’invocazione di una tregua parla a chiunque abbia a cuore le ragioni dell’umanità e disvela la natura essenzialmente, irrimediabilmente atroce della guerra, persino di quella più «giusta». Anche i civili massacrati nelle guerre di Bagdad e di Beirut, di Kabul e di Belgrado richiamavano l’urgenza di una «tregua». Per fortuna è passato il tempo in cui (basta compulsare le antologie letterarie per sincerarsene) anche gli intellettuali più sensibili cantavano l’ebbrezza bellica, l’estetica della guerra, la mistica della morte, la poesia del combattimento. La morte e la devastazione provocate dalla guerra, oggi, rendono invece improrogabile l’esigenza di una «tregua».

Sono le autorità morali e religiose che chiedono la tregua. La chiede il presidente francese Sarkozy. Chiede il «cessate il fuoco » Tony Blair sebbene, come ha maliziosamente notato il suo successore Gordon Brown, in diciotto mesi da che è rappresentante del «Quartetto» in Medio Oriente non abbia mai messo piede nella striscia di Gaza. In Italia si spendono Massimo D’Alema per chiedere la «trattativa» con Hamas, Emma Bonino per la «tregua duratura», Lamberto Dini per il «negoziato». Tutti interventi animati da argomenti che non attengono solo alla sfera «morale», ma anche a quella del realismo politico. Non è dettata dal candore delle «anime belle» la preoccupazione (peraltro, non proprio inedita) che tra i giovani palestinesi l’irruzione a Gaza possa acuire un distruttivo furore anti-israeliano. E non è un argomento capzioso quello di chi invita a non sottovalutare il radicamento di Hamas, partito dedito alla lotta armata terroristica che però è sostenuto dalla maggioranza della popolazione di Gaza. Il fronte della «tregua » non è privo di basi politiche, oltreché morali. Ma è la «retorica della tregua» che rischia di renderle fragili e destinate all’inconcludenza.

Tutte le espressioni che modulano con ripetitiva monotonia l’esigenza della tregua, dal «cessate il fuoco» al «tacciano le armi», dai «tavoli della pace» alle «conferenze internazionali per il dialogo » ai «corridoi umanitari », presuppongono una condizione fondamentale che è proprio quella assente nell’inferno di Gaza: la tregua, perché sia tale, si fa sempre in due. E’ ragionevole, è realistico, è possibile che Hamas voglia essere una delle due parti a rispettare una tregua? Non l’ha già violata lanciando razzi Qassam sulle città israeliane per fare espressamente vittime civili? E poi, su quali basi è possibile per Israele trattare con chi non nasconde un’ostilità assoluta e non negoziabile verso la sua stessa esistenza?

Una condizione asimmetrica talmente evidente che anche i più convinti partigiani della «tregua», e persino i commentatori più critici con le scelte di Israele, non possono fare a meno di notare. Rossana Rossanda, sul «manifesto », è durissima con «gli aerei e i blindati di Tsahal», ma non regala ad Hamas, tragicamente ispirata alla logica del «periscano Sansone e tutti i filistei», l’attenuante del «giustificato risentimento». Chi, a cominciare da Sarkozy, insiste sulla «sproporzione» della reazione israeliana non nega la legittimità di una reazione a un evidente torto di Hamas. Dovrebbe piuttosto indicare con passabile approssimazione quale sarebbe la reazione «proporzionata». Dovrebbe definire quale sanzione sarebbe considerata legittima per chi violasse in futuro una tregua già compromessa con il lancio dei razzi su Ashkelon e Sderot. Dovrebbe spiegare come colmare la latitanza degli organismi internazionali e come ovviare alla tragica mancanza di credibilità dell’Onu che, come ha scritto Angelo Panebianco sul «Corriere», parla senza pudore, attraverso il Richard Falk che rappresenta il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, di «aggressione israeliana». Dovrebbe spiegare se la condanna morale di chi uccide i civili palestinesi è applicabile con la stessa severità ad Hamas, che in uno dei suoi lanci di razzi sulle città israeliane ha colpito per sbaglio proprio due bambini di Gaza. Dovrebbe descrivere con parole moralmente adeguate chi fa delle sue donne e dei suoi bambini altrettanti scudi umani dietro cui mimetizzare bunker e depositi di armi. Dovrebbe indicare in cosa consista esattamente l’alternativa alla guerra e all’intervento militare. Per rendere la parola «tregua» credibile e convincente e salvare Israele come i civili palestinesi. (Corriere della Sera)

martedì 6 gennaio 2009

Addio lusso, lussuria e genio: l'Italia s'è moscia. Marcello Veneziani

Non è la crisi economica che più spaventa nel nostro futuro. E nemmeno le fosche previsioni che da Napolitano in giù si ripetono magari come forme di scaramanzia. Ma è la netta percezione di vivere in un Paese ammosciato, che non sa reagire, che al più fugge o si barrica in casa di fronte al pericolo, o si lascia disfare con spirito di abbandono. Vedo il mesto rientro dalle lunghe ferie invernali che si completa alla Befana, salvo strascichi minoritari. E non riesco a definire diversamente lo stato d’animo degli italiani, se non attraverso l’espressione di Paese ammosciato. Un Paese in ritirata, consumismo triste, apatia rispetto all’avvenire, creatività scarsa e spirito d’avventura zero, se non quello applicato alla ricreazione.

L’energia del premier
Possiamo ridere finché vogliamo del finto ottimismo del premier, del suo esercizio forzato di sorrisi e coraggio; ma lui ci prova a tirar su il morale delle truppe, e non è certo colpa sua se il Paese sta così; penso anzi cosa sarebbe senza la guida di un incrollabile energetico come Berlusconi. E mi spaventa guardare intorno e immaginare la scena senza di lui; i suoi possibili eredi, da ogni parte, rispecchiano la mosceria del Paese, la stessa melanconia nazionale che contraddice uno dei tratti tipici degli italiani.

Di quella melanconia e forse di quella mosceria, partecipo anch’io, seppure nella versione ironica e distaccata. Vi scrivo da una capanna in un’isola dove siamo solo in sei ad abitarla nel Mar dei Caraibi ed è inutile nasconderci che nonostante la vita spartana e scalza che conduco da giorni, sono qui per piacere e non certo per penitenza. Avverto la percezione dell’isolamento e la trasformo in versione positiva, godibile per il corpo e per la mente. Sul mare, al sole, in compagnia del vento, della scrittura e della lettura. Ma mi accorgo di rappresentare il versante felice, o se volete privilegiato, di un Paese moscio e melanconico, che ha perso la prospettiva del futuro e della comunità, non fa più sogni pubblici e civili, politici figuriamoci, e reputa che la salvezza sia solo non pensarci, vivere nel presente e isolarsi. Ho incontrato diversi italiani in viaggio, ed ho colto la medesima idea di fuga e la stessa mosceria, l’affanno di evadere e di divertirsi, e due patologie opposte ma pervasive: la paura di spendere, il timore della crisi, l’affanno di risparmiare e tirar sul prezzo di ogni cosa e all’opposto la baldoria di fine stagione, l’idea di spendere perché del doman non v’è certezza, l’allegria dei naufragi. Ma ancora più istruttivo è stato parlare dell’Italia con gli stranieri, tedeschi e russi, sudamericani e nordamericani. Tutti ci vedono come un Paese in picchiata, stanco e non più felice come la fama di una volta, che consuma poco ma produce meno, poco creativo e procreativo, abitato da marocchini che non sono poi statisticamente tanti ma sono quelli che più si vedono, che popolano le stazioni, le vie e le piazze mentre gli italiani si sono addomesticati. Ci vedono insomma un Paese stanco. I veri ricchi sono altrove, e tutti mi dicono la stessa cosa: i ricchi russi, brasiliani, venezuelani, oltreché americani, indiani per non dire di arabi e nordeuropei, sono molto più ricchi dei vostri. Il lusso non abita più da voi, e nemmeno la lussuria. Ma un consumismo triste e un erotismo triste, da cassaintegrati nell’anima e nel corpo. Il mito italiano sta franando.

Dopo questa sconsolante iniezione di sfiducia, mi direte che l’unico rimedio conseguente, oltre il suicidio nazionale, sarebbe quello di fuggire in massa nelle capanne o nei rifugi e vivere spartanamente e da isolati. No, l’unico rimedio può sorgere proprio dalla fine dei balocchi di un Paese viziato. Cioè dalla percezione non solo della crisi, ma di più, del pericolo. Il torpore del benessere non ci aiuta, quando finisce la forza d’inerzia bisogna trovare le energie per vivere e reagire. Napolitano invitava a far della crisi un’occasione per ripartire. Aveva ragione ma limitava il suo discorso al piano economico, alla crisi finanziaria americana. E invece, il discorso da fare è più esteso, più radicale: si tratta di reagire alla decadenza. Non solo dei Pil o dei livelli di benessere e di occupazione; ma di popolo, di civiltà, di creatività.

Reagire al declino
Reagire al declino di un Paese che sembra abitato da marocchini e invalidi, reagire a un Paese che vive la sua imprenditoria religiosa solo nelle moschee, reagire a un paese a cui sembra che gli unici valori da difendere siano i diritti dei gay, degli zingari, degli immigrati clandestini, più scempiaggini salutiste. Reagire ad un Paese che accoglie con scetticismo ogni opera, non crede più alla durata; un Paese che ha condannato il familismo amorale e poi ha reinventato il familismo culturale per cui si è accolti solo se si appartiene alla stessa famiglia accademica, ideologica e intellettuale. Reagire a un Paese che non fa figli, che non osa più, che non ama più l’avventura. Occorre una nuova ondata nel nostro futuro, un nuovo spirito di fondazione. Finora abbiamo rimediato alla carenza tramite l’invocazione del Capo, sia come causa di tutti i mali (1 Capo espiatorio), sia come rimedio (Capo, pensaci tu). Si tratta ora di entrare in una nuova fase non più legata alla leadership personale ma a una corrente di vita e di pensiero, un movimento. Qualcosa che somigli alla follia di cent’anni fa del futurismo... Magari in senso inverso, un ritorno alle origini ma con la tecnologia e le conoscenze del presente; una nuova versione, essenziale, spartana di eco-futurismo, di pensiero verde elettrico... Antico e ipermoderno; due cuori e una capanna. (Libero)